La morte di Radisav

di Ivo Andric

da: Il ponte sulla Drina

Radisav4 copia

 

(…) Fuori albeggiava. Il sole non era ancora comparso, ma tutto il panorama era chiaro. (…) Sempre battendo lo scudiscio contro lo stivale, Abidaga impartì le disposizioni: si seguitasse ad interrogare il colpevole, specialmente sui favoreggiatori, ma non lo si torturasse oltre misura con tormenti che lo stremassero; si apprestasse quanto era necessario per impalarlo vivo a mezzogiorno,  sull’ultima impalcatura, nella posizione più elevata, in modo che potessero vederlo tutta la città e tutti i lavoratori da entrambi i lati del fiume (…) A mezzogiorno, sul ponte, il popolo avrebbe potuto vedere che cosa capitava a coloro che intralciavano la costruzione del ponte (…)

Già un’ora prima di mezzogiorno i cittadini, per lo più turchi, si radunarono su un piccolo pianoro vicino al ponte. (…) Poco dopo comparve Abidaga (…) Tutti si fermarono su un rialzo inclinato del terreno tra il ponte e la casupola nella quale si trovava il condannato. Abidaga andò ancora una volta al tugurio dove gli venne annunziato che tutto era pronto: lì c’era il palo di quercia, lungo circa quattro aršin, appuntito a dovere, ricoperto in cima di ferro battuto, con una punta sottile ed aguzza, e tutto spalmato ben bene di sego; sull’impalcatura erano state inchiodate le travi tre le quali sarebbe stato fissato ed incastrato il palo, la mazza di legno che sarebbe servita  a conficcare l’asta, le corde e tutto il resto. (…)

Dalla moschea principale, presso il mercato, si udì l’acuta e chiara voce dell’imano. Ci fu un po’ di animazione in mezzo alla gente ammassata, e poco dopo si  aprì la porta del tugurio. Dieci soldati si disposero su due file, cinque da ogni lato. In mezzo a loro c’era Radisav, scalzo e a capo scoperto;  lesto e curvo come sempre, ma non allargava le gambe camminando; invece procedeva a piccoli passi in modo strano, quasi saltando su piedi mutilati che, al posto delle unghie, avevano dei buchi sanguinolenti; sulla spalla portava il lungo palo bianco appuntito. (…) Gli astanti sporgevano le teste e si sollevavano sulle punte dei piedi per vedere l’uomo che aveva ordito la congiura e la resistenza e aveva demolito alcuni pezzi del ponte. Tutti restarono sorpresi per l’aspetto misero e insignificante di quell’uomo che avevano immaginato del tutto diverso. Naturalmente nessuno di loro sapeva perché saltellasse in modo così buffo e perché traballasse da un piede all’altro, e nessuno scorse bene le ustioni provocate dalle catene che gli erano spuntate attorno al petto come grosse albicocche, sulle quali gli avevano passato la camicia e una specie di veste. Per questo sembrò a tutti troppo miserabile e incapace di fare quello per cui ora lo conducevano al patibolo. Soltanto il lungo palo bianco conferiva all’insieme una certa sinistra grandezza e attirava su di sé tutti gli sguardi. (…)

Poco dopo la gente poté vederli apparire nel medesimo ordine sulle impalcature, e salire lentamente e con cautela. Sugli stretti passaggi di travi e assi i soldati circondavano completamente e stringevano in mezzo a loro Radisav, per evitare che si buttasse nel fiume. Così avanzarono a stento e salirono sempre più in su, finché non raggiunsero l’estremità della costruzione. (…)

Quando ordinarono a Radisav di stendersi, egli esitò un momento, poi, senza guardare gli zingari e i soldati, come non ci fossero stati, si avvicinò al plevljese, con aria quasi confidenziale, quasi fosse stato un pari suo, e gli disse con voce bassa e cupa: “Ascolta, per questo e per l’altro mondo, abbi pietà e trafiggimi, ché non debba soffrire come un cane.” Il plevljese sussultò e gridò contro di lui come difendendosi da quel modo di parlare troppo confidenziale: “Via Vlah! Sei forse tanto prode da rovinare l’impero e poi vieni qui ad implorare in nome di Dio come una donnicciola? Avrai quel che è stato stabilito e che ti sei meritato.” Radisav curvò ancor più la testa, e gli zingari gli si avvicinarono e  cominciarono a togliergli la veste e la camicia. Sul petto apparvero le ferite delle catene, che avevano formato vesciche e si erano arrossate. Senza dire nient’altro, il contadino si distese come gli era stato ordinato, col viso rivolto in giù. Gli zingari  gi furono sopra e gli legarono anzitutto le mani dietro la schiena, poi assicurarono una corda ad ogni piede, all’altezza del malleolo. Infine tirarono ciascuno dal suo lato  e gli divaricarono ampiamente le gambe. Intanto Merdžan aveva deposto il palo su due corti pezzi di legno di forma cilindrica, in modo che la sua cima giungesse in mezzo alle gambe del condannato. Poi estrasse dalla cintola un corto e largo coltello, si inginocchiò accanto all’uomo sdraiato e si curvò su di lui per tagliargli il panno dei calzoni in mezzo alle cosce e per allargare l’apertura attraverso la quale il palo sarebbe penetrato dentro al suo corpo. Questa parte del lavoro del boia, la più orrenda di tutte, rimase per fortuna invisibile  per gli spettatori. Si vide soltanto che il corpo legato sussultava alla breve ed impercettibile coltellata, si alzava fino al livello della cintola come se stesse per sollevarsi, ma poi ricadeva con un colpo sordo sulle tavole. Quando ebbe finito quell’operazione, lo zingaro balzò indietro, prese da terra la mazza di legno e cominciò a picchiare con essa sulla parte inferiore del palo, con colpi leggeri e moderati. Tra un colpo e l’altro si fermava un po’ e guardava dapprima il corpo nel quale conficcava il palo, e poi i due zingari, esortandoli a tirare lentamente e in modo uniforme. Il corpo del  contadino dalle gambe divaricate si contraeva da solo; ad ogni mazzata la spina dorsale gli si inarcava e si curvava, ma le corde lo tiravano e lo raddrizzavano. Su entrambe le sponde il silenzio era tanto grande che si distingueva nettamente ogni colpo e l’eco che rimbalzava da qualche punto della riva scoscesa. I più vicini potevano sentire come l’uomo battesse con la fronte contro la tavola, e inoltre un secondo suono inconsueto; ma non era né un gemito né un grido né un rantolo, e neppure una qualche voce umana, era tutto quel corpo disteso e tormentato che diffondeva dal suo interno come uno stridore ed un ghigno, simili al rumore dello steccato che viene compresso o del legno che si spacca. Ogni due colpi lo zingaro andava fino al corpo sdraiato, vi si portava sopra, esaminava se il palo procedeva nella direzione giusta, e, dopo essersi accurato che non era stato vulnerato nessuno degli organi più vitali, tornava indietro e ricominciava il suo lavoro.

Tutto questo si vedeva male e si sentiva ancora peggio dalla riva, eppure a tutti tremavano le gambe, impallidivano i volti e si congelavano le dita delle mani. Ad un certo punto i battiti cessarono. Merdžan aveva visto che, in cima alla scapola destra, i muscoli si erano tesi e la pelle si era sollevata. S’avvicinò e tagliò celermente quella protuberanza  con due incisioni a forma di croce. Sgorgò fuori del sangue biancastro, dapprima lentamente, poi sempre più forte. Ancora due o tre colpi, leggeri e cauti, e infine dal punto inciso cominciò a venir fuori l’estremità del palo, ricoperta di ferro battuto. Batté ancora per un po’, finché la punta non raggiunse l’altezza dell’orecchio destro. L’uomo era stato infilzato al palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, e non era stato leso in modo grave né all’intestino, né al cuore, né ai polmoni. Ora Merdžan buttò via la mazza e si avvicinò. Contemplò quel corpo immobile, osservando il sangue che sgorgava dai punti nei quali il palo era entrato e uscito e si raccoglieva in piccole pozze sulle travi. I due zingari rivoltarono sul dorso il corpo irrigidito e cominciarono a legargli i piedi in fondo al palo. Intanto Merdžan guardava se l’uomo era ancora vivo ed esaminava attentamente quel volto  che era divenuto tutto a un tratto gonfio, più largo e più grosso. Gli occhi erano spalancati e irrequieti, ma le palpebre stavano immobili, la bocca era aperta e le labbra si erano irrigidite in una smorfia convulsa; sotto di esse biancheggiavano i denti serrati. L’uomo non riusciva più a dominare i singoli muscoli facciali; per questo il suo volto rassomigliava a una maschera. Ma il cuore batteva debolmente, e i polmoni lavoravano con un respiro breve e accelerato. I due zingari presero a sollevarlo come una bestia allo spiedo. Merdžan urlò loro di fare attenzione, in modo da non scuotere il corpo;  ed egli stesso venne ad aiutarli. Fissarono tra le due travi la parte inferiore, più grossa, del palo, e fermarono il tutto con grossi chiodi, poi indietro, alla stessa altezza, puntellarono con una corta stecca che venne anch’essa inchiodata sia al palo che a una trave dell’impalcatura. Quando anche questo fu fatto, gli zingari si allontanarono furtivi e raggiunsero i soldati, mentre sullo spazio vuoto restò solo, ritto, impettito e nudo fino alla cintola, l’uomo sul palo.

Di lontano si aveva solo la sensazione che il suo corpo  fosse attraversato dal palo al quale erano legate per i malleoli le gambe, mentre le mani erano legate dietro la schiena. Per questo alla gente sembrava come una statua sospesa per aria, proprio all’estremità dell’impalcatura, in alto sopra il fiume. Per entrambe le sponde passò un rumorio, poi ci fu un ondeggiamento tra la folla. Qualcuno piegò lo sguardo, qualcuno si affrettò verso casa, senza volgere la testa. La maggior parte dei presenti guardava in silenzio quella figura umana protesa nello spazio, irrigidita in una posizione non naturale e dritta. L’orrore agghiacciava loro le viscere, e i loro piedi intirizzivano, ma non riuscivano a muoversi né a distogliere lo sguardo da quello spettacolo. (…)

Allora il plevljese, Merdžan ed altri due soldati si riaccostarono al condannato e lo osservarono da vicino. Lungo il palo colava solo un debole rivolo di sangue. L’uomo era vivo e cosciente. L’inguine si alzava ed abbassava, le vene del collo battevano, gli occhi roteavano lenti e senza posa. Attraverso i denti stretti erompeva un ringhio prolungato, nel quale si distinguevano con difficoltà singole parole: “Turchi, turchi...” rantolava l’uomo dal palo “turchi sul ponte… possiate crepare come cani… morire come cani!” (…)

Il plevljese venne da Abidaga  e gli annunciò che tutto era stato eseguito precisamente e bene e che il condannato era ancora vivo e aveva l’aria di poter continuare a vivere, dato che gli organi interni non erano stati lesi. (…) Dal mercato, si sentì il banditore che gridava dando l’annuncio dell’avvenuta esecuzione e ammonendo che una pena uguale, e anche peggiore, attendeva  chiunque si fosse comportato nello stesso modo. (…) Tutti coloro che, a una parte e dall’altra delle sponde, avevano assistito all’esecuzione, sparsero voci terribili per la città e per i dintorni. Un terrore indescrivibile si impossessò dei cittadini e degli operai. Lentamente e gradatamente entrò nella coscienza della gente la piena consapevolezza di quello che era accaduto là vicino (…) Tutte le conversazioni vertevano intorno all’uomo che era ancora vivo, sul palo eretto sull’impalcatura. (…)

Ben presto venne il crepuscolo (…)  Merdžan e un servo fidato di Abidaga salirono nuovamente da Radisav e appurarono senza ombra di dubbio che, a quattro ore di distanza dall’esecuzione della sentenza, il condannato era ancora vivo e cosciente. Nella febbre, roteava lentamente e con difficoltà gli occhi, e quando vide sotto di sé lo zingaro cominciò a gemere più forte. In quel lamento, col quale l’anima stessa gli volava via, si distinguevano soltanto parole isolate: “Turchi… turchi… ponte!” Soddisfatti se ne tornarono a Bikavac  alla casa di Abidaga, dicendo a tutti coloro che incontravano per strada che il condannato viveva ancora, e, siccome digrignava i denti e parlava bene e in modo intelligibile  dall’alto del palo,  c’era speranza che sarebbe vissuto fino a mezzogiorno dell’indomani. (…) Quella notte chiunque era vivo, nella cittadina e vicino al ponte, si addormentò terrorizzato. Si addormentò, a dire il vero, chi poteva dormire, e molti furono coloro cui il sonno non volle scendere negli occhi.

All’indomani (…) né nella fabbrica né in tutta la città ci fu un occhio che non guardasse nel complicato intreccio di travi e di tavole sull’acqua, dove, proprio all’estremità, come sulla prua di una nave, dritto e staccato dalla superficie sottostante, si ergeva l’uomo sul palo. E molti di coloro i quali, destandosi, ritenevano di aver sognato ciò che era accaduto sul ponte il giorno prima al cospetto di tutti, ora si alzarono e guardarono senza tremare il loro tormentoso sogno che continuava e durava, reale, alla luce del sole. Tra i lavoratori lo stesso silenzio del giorno precedente, pieno di contrizione e di amarezza. Nella cittadina lo stesso mormorio e la stessa confusione.

Merdžan e il servo di Abidaga si arrampicarono ancora una volta sulle impalcature, per andare a vedere il condannato; dissero qualcosa tra loro, alzarono la testa e guardarono in su, verso il viso del contadino; a un certo punto Merdžan lo tirò per i calzoni. Già dal modo in cui scesero sulla riva  e passarono taciturni in mezzo alla gente indaffarata, tutti compresero che il condannato era spirato. E tutti i serbi ebbero come un senso di sollievo,  quasi avessero raggiunto una invisibile vittoria. Ora tutti guardavano più arditamente in su verso le impalcature e verso il giustiziato: sentivano che, nella loro incessante lotta e competizione coi turchi, la supremazia, adesso, era passata dalla loro parte.

La morte è la più pesante delle poste.

Le bocche, fino allora mute per la paura, si aprirono da sole. Fangosi, bagnati, ispidi  e pallidi, intenti a rotolare con leve di pino grandi blocchi di pietra, si fermarono per un istante per sputare nelle palme delle mani e per dirsi l’un l’altro con voce soffocata: “Dio lo perdoni e gli dia pace!””Oh, povero martire! Tribolazione nostra!” “Ma non vedi che si è consacrato? È un santo, caro mio!” E ognuno, di sottecchi, sbirciò il defunto che si teneva ritto, come se avanzasse alla testa  di una squadra. Lassù, nella sua altezza, egli non sembrava più né terribile né addolorato. Al contrario, per tutti adesso era chiaro quanto si fosse onorato e ingigantito. Non stava a terra, non si teneva con le mani, non nuotava e non volava; in sé stesso aveva il proprio punto di gravità; liberato dai legami e dai pesi terreni, non soffriva; nessuno poteva più niente contro di lui, né un fucile né una sciabola, né un cattivo pensiero né una parola umana né un tribunale turco. Così, nudo fino alla cintola, con le mani e i piedi legati, dritto, con la testa gettata indietro lungo il palo, quella figura non rassomigliava tanto a un corpo umano che cresce e si decompone quanto piuttosto a una scultura tesa verso l’alto, salda e imperitura, destinata a resistere ai secoli. (…)  

 

 

 

 

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