Il duello degli eredi

 

 

Dall’alto della scogliera Caleb guardava il sole che sprofondava nel mare. Gli ultimi raggi avevano incendiato le nuvole e sembrava che il cielo ardesse.

Pensò che era l’ultima volta che vedeva tramontare il sole, che quella notte stessa sarebbe morto. Guardò sotto di sé la sottile striscia di sabbia, stretta tra la scogliera e il mare. Lì avrebbe trovato la morte.

Non aveva paura di morire. Fin da piccolo era stato abituato ad affrontare la morte. Ma morire per mano di Kiang…

Ritornò alla tenda. Entrò, senza badare alla sentinella che cercava di dirgli qualche cosa. Sotto il telo il caldo era ancora soffocante. Caleb uscì immediatamente. Non era in grado di rimanere fermo. Sentiva in corpo un’irrequietezza che a tratti diveniva rabbia, a tratti disperazione.

Ora che il sole era tramontato, il vento caldo che aveva soffiato tutto il giorno si era calmato e il calore era meno opprimente.

Si allontanò rapidamente, uscì dall’accampamento e si diresse verso il bosco fitto che copriva la parte superiore del pendio. Si sedette su una radice, nascosto dalla vegetazione e dal buio che stava lentamente crescendo intorno a lui.

Voleva pensare, ma non ci riusciva. Davanti agli occhi aveva sempre l’immagine di Kiang.

Sentì una voce. Qualcuno parlava molto vicino a lui.

- Tu dici che vincerà Kiang?

- Kiang è un colosso. Caleb è forte e coraggioso, ma Kiang mi sembra invincibile. Un maschio come quello!

- Forse hai ragione, ma non sottovalutare Caleb. È un grande guerriero.

- Secondo me Kiang lo fotte.

Le voci si allontanarono.

Sì, il soldato aveva ragione. Kiang lo avrebbe ucciso. Ma perché Kiang? Perché proprio Kiang!?

Caleb ripensò a Kinag, come lo aveva visto a dodici anni. Un colosso, alto una spanna più degli altri. Un corpo possente, vera incarnazione della forza. Una forza che quella notte, al tramontare della luna, lo avrebbe vinto, castrato, inculato e ucciso.

Kiang, proprio Kiang! L’uomo da cui sarebbe corso per chiedere consiglio, per trovare consolazione e appoggio. L’uomo che amava più di ogni altra cosa al mondo.

Kiang era stato il suo maestro, il suo consigliere, il suo sostegno. Quando suo padre era morto, quattordici anni prima, aveva affidato l’allora dodicenne Caleb al cugino. A Caleb aveva detto:

- Ti affido a Kiang, perché è l’uomo migliore che io conosca. Avrà cura di te come un padre.

Così era stato. Kiang era stato al suo fianco, gli aveva insegnato a combattere come nessun altro, a sopportare le avversità, gli aveva trasmesso la propria generosità e l’aveva guidato nella difficile arte di governare. Nessun padre avrebbe potuto essere tanto attento e sollecito nei confronti di un figlio quanto Kiang era stato nei confronti di Caleb. E Caleb lo aveva amato, amato con tutto se stesso. Aveva desiderato quel corpo superbo e quell’anima nobile. Ma non erano mai stati amanti, no. Caleb l’aveva desiderato, più volte. Anche adesso il pensiero del corpo possente di Kiang  era sufficiente ad accendere il suo desiderio. Ma Kiang non aveva mai voluto.

E ora lui e Kiang dovevano affrontarsi in un duello mortale. Una follia, che nessuno dei due aveva previsto.

La legge richiedeva che in mancanza sia di eredi diretti, sia di eredi designati dal re precedente, il nuovo re sarebbe stato chi avesse vinto e ucciso in duello gli altri rivali di sangue reale.

La tragedia, del tutto inattesa, che aveva colpito la famiglia reale, aveva creato una situazione imprevedibile: la frana che sul passo di montagna aveva travolto il re, suo fratello e le loro famiglie aveva eliminato tutti gli eredi al trono. Rimanevano Caleb e Kiang. E essi dovevano affrontarsi a duello. Uno dei due avrebbe dovuto colpire l’altro, castrarlo, violentarlo e poi ucciderlo, in un antico rituale di sangue che a Caleb faceva orrore.

Kiang lo avrebbe ucciso, Kiang, che lui amava, Kiang che lo aveva amato come un figlio.

No, era assurdo. Doveva parlare con Kiang.

Si alzò e si diresse verso l’accampamento. Avrebbe parlato a Kiang. Lo avrebbe convinto a lasciar perdere quell’assurdo duello.

La tenda di Kiang era all’altra estremità dell’accampamento. Le truppe dei due eserciti si erano mescolate, come i due principi avevano ordinato: non erano due eserciti, erano lo stesso esercito, che l’indomani sarebbe stato al comando di un solo uomo, il vincitore.

Nella tenda di Kiang le torce accese illuminavano la notte.

Non appena lo vide, Kiang si avvicinò a lui e lo strinse tra le braccia. Quella stretta vigorosa sprofondò Caleb nell’angoscia. Lo amava e proprio Kiang lo avrebbe ucciso.

- Caleb, finalmente! Nessuno sapeva dove eri andato e cominciavo a pensare che non ti avessero riferito il mio messaggio.

- Mi hai cercato?

- Sì, certo, dopo il tramonto, ma non c’eri. Non te l’hanno detto?

- No, non sono passato dalla mia tenda. Sono venuto direttamente qui. Dovevo parlarti.

Tirò un attimo il fiato, poi si lanciò: era inutile indugiare.

– Questo duello è assurdo, Kiang.

Kiang lo guardò e sorrise.

- Forse. Sì, credo di sì. È una di quelle eredità di un passato molto lontano che ci trasciniamo dietro forse solo per pigrizia. Farai bene a stabilire una nuova legge.

Caleb lo guardò senza capire. Kiang parlava come se lui, Caleb, fosse destinato a diventare re.

- Sono contento che tu sia d’accordo. Possiamo evitare questo duello fratricida, allora.

- No, Caleb, questo non è possibile. Se tu diventassi re senza avermi vinto e ucciso, molti contesterebbero il tuo valore, non avrebbero fiducia nelle tue capacità. Per alcuni potrebbe essere un pretesto per sostenere che la tua ascesa al trono è illegittima, un pretesto per cospirare. Tra dieci anni, ben saldo sul trono, con il pieno appoggio di tutti, potrai stabilire senza timore che la successione dovrà essere regolata da nuove leggi.

Le parole di Kiang, quel suo insistere sul fatto che Caleb sarebbe diventato il re, diedero fastidio a Caleb. Kiang sapeva benissimo che le cose non sarebbero andate così. Lo disse.

- Kiang, sai benissimo che domani sarai tu il vincitore. Nessuno può batterti.

- Certo, nessuno può battermi. Ma tu mi batterai.

Caleb lo guardò senza capire.

- Caleb, sei tu il re che serve per questo paese. Hai la gioventù, la forza e la capacità di muoverti in un mondo che cambia. Io sono un relitto del passato.

Caleb incominciò ad intuire. Per quello Kiang non si preoccupava del duello: perché contava di morire. Se Kiang avesse pensato di uccidere Caleb, sarebbe stato angosciato, ma aveva in testa ben altro.

Kiang proseguì:

- Se pensassi di essere il re migliore per questo paese, questa notte ti ucciderei. Con la morte nel cuore, perché … sai che cosa sei per me, ma ti ucciderei. Ti ucciderei, ti castrerei, ti prenderei con la forza e poi farei gettare il tuo cadavere nelle latrine, cancellando ogni regalità, ogni dignità umana in te. Come richiede il rituale.

Kiang lo fissava, serio. Caleb non replicò e fu Kiang a proseguire:

- Ma il re che serve a questo paese sei tu e sarai tu a fare queste cose a me.

- Tu sei folle, Kiang.

Kiang rise.

- Sì, forse. Sono folle. E quindi inadatto a regnare. Caleb, so che sarai un grande re. La tua nobiltà d’animo, il tuo coraggio, la tua forza, la tua saggezza faranno di te un grande re.

Caleb esplose, in un urlo di rabbia:

- Tutte queste doti, le hai tu assai più di me. Tu devi regnare!

- No, Caleb, tu sei il futuro, io il passato. Questo paese ha bisogno di te, non di me.

Caleb scosse la testa.

- Possiamo dirci addio, Caleb. Ti vorrei dire addio così.

Si avvicinò a Caleb, lo strinse e lo baciò sulla bocca.

Caleb sentì che il suo corpo si scioglieva in quell’abbraccio, che il suo desiderio saliva tanto impetuoso da prorompere.

Abbracciò con forza Kiang, ricambiò con passione quel bacio, la sua lingua penetrò nella bocca di Kiang, poi le sue labbra accolsero la lingua di Kiang. Non ebbe bisogno di chiedere. Fu Kiang a dirlo.

- Sì, ora possiamo farlo. Questa notte quello che mi farai cancellerà tutto questo.

Le mani di Kiang stavano spogliando Caleb. Grandi mani, forti mani, mani delicate che accarezzavano, mani rudi che forzavano la carne, mani potenti. Ancora la bocca di Kiang, ancora la lingua e poi i denti, i denti che gli mordevano la spalla.

Caleb cercò di spogliare Kiang, ma le sue mani si bloccarono al contatto con quella carne. La strinsero, incapaci di lasciare la loro preda.

Fu Kiang a finire di spogliarsi. Si staccò un attimo da lui e lo guardò:

- Sono anni che lo desidero.

Perché non lo aveva fatto prima, allora? Ma la domanda non aveva più senso. Kiang lo stava abbracciando e quelle mani forti percorrevano il corpo, stringevano, accarezzavano, tormentavano, solleticavano.

Furono a terra, un corpo contro l’altro, un identico violento desiderio che li accendeva, un carbone acceso contro il ventre, le bocche che ora si univano, ora si separavano, quando le labbra e i denti di Kiang baciavano e mordevano la carne di Caleb.        

Caleb lasciò che Kiang guidasse il gioco, fino a che non fu più in grado di reggere. E allora gridò:

- Prendimi, Kiang!       

Kiang lo voltò e ancora a lungo morse e baciò, leccò e succhiò la carne di Caleb, fino a che il palo ardente non si affacciò alla porta e entrò trionfante in Caleb, facendolo urlare di piacere. Caleb non riusciva più a vedere, a distinguere nulla. Sentiva solo il fuoco che gli infiammava le viscere e le ondate di piacere che dall’interno del suo corpo dilagavano sempre più forti.

Tutto il suo corpo era piacere, piacere puro, anche il dolore di quella spada che gli scavava in culo era piacere, anche quelle mani che gli tormentavano il culo erano piacere, anche quei denti che affondavano nella sua carne erano piacere.

Gli sembrava di venire in continuazione, all’interno di sé, in un orgasmo interminabile, provando un piacere che non pensava possibile. Quando il suo seme si sparse, il piacere salì ancora, ma quando l’ultimo getto fu uscito, il piacere non ebbe fine, continuò a bruciarlo nel culo, fino a che Kiang venne dentro di lui.

Rimasero stretti, allacciati, recuperando le forze.

Chi li avesse visti riposare abbracciati, non avrebbe certo pensato che poche ore dopo uno dei due avrebbe ucciso l’altro.

Kiang uscì da Caleb, che avvertì un senso di vuoto, doloroso, al culo.

- Alzati, Caleb, è ora che tu ritorni alla tua tenda.

Caleb eseguì. Kiang gli porse una coppa di vino, piena fino all’orlo.

- Bevi.

 

Caleb bevve, poi guardò Kiang, guardò l’uomo che amava, per cui avrebbe dato la vita, tutto. Guardò l’uomo che doveva uccidere quella notte stessa.

- Kiang, è una morte orrenda. Tutto il rituale…

- Caleb, è quello che voglio. Questa è la morte che voglio. Una morte da lottatore, nel rispetto delle tradizioni che ho sempre seguito. Lo desidero, realmente. Sai che ho sempre creduto nelle nostre tradizioni. Per questo non sarei un buon re, sarei troppo rivolto al passato.

- La morte, ma … un colpo al cuore e basta. La castrazione, la violenza…

- No, una morte da lottatore, che non gioca solo la vita, ma la sua virilità, la sua dignità. La vita è troppo poco. Caleb, la desidero davvero. Da anni l’attendo. E sono contento che sia tu a farlo.

Kiang sorrise:

- La violenza non sarà spiacevole, venendo da te. E è bello che siano le tue mani a colpirmi, a castrarmi, a soffocarmi.

Kiang gli prese le mani e le baciò.

- Queste mani… Grazie, Caleb. E ora vai.

Caleb uscì, incapace di rispondere.

Alla debole luce di uno spicchio di luna la grande tenda bianca in cui dormiva appariva spettrale. L’indomani mattina le loro due tende sarebbero state smontate e nulla sarebbe rimasto di quella loro residenza provvisoria. Il vincitore sarebbe partito per stabilirsi nel palazzo reale, al campo sarebbero rimaste le tende dei soldati. E il cadavere dello sconfitto, sepolto nella latrina.

      Caleb si distese. C’erano ancora alcune ore, ma sapeva che non avrebbe dormito.

 

Quando la luna tramontò, gli uomini della scorta vennero a prenderlo. Indossavano soltanto la fascia che cingeva loro la vita e copriva il sesso e due larghe fasce incrociate sul petto, con i colori del loro capitano.

Caleb si avviò con loro. Sotto i suoi piedi poteva sentire la sabbia umida. Scesero l’ampio sentiero che conduceva alla spiaggia, ai piedi della scarpata e giunsero infine al luogo in cui si sarebbe tenuto il duello. Quattro bracieri, due ai piedi della parete verticale, due in riva al mare, delimitavano uno spazio quadrato, in cui si sarebbe svolto il duello. La legna nei bracieri era già stata accesa e le fiamme illuminavano lo spazio vuoto. Il vento agitava i fuochi e la luce oscillava.

I consiglieri si disposero sul lato sotto la parete rocciosa. Gli uomini delle due scorte occuparono i lati tra la scogliera e il mare, mescolandosi: in ogni fila si alternavano gli uomini dei due schieramenti. Appena si furono disposti in fila, si sedettero al suolo. Sfilarono le due fasce che portavano e le posarono una a destra e una a sinistra. Ora erano tutti uguali.

Caleb guardò lo spiazzo. Quello era il campo, quel quadrato delimitato dagli uomini e dal mare. Dieci passi erano sufficienti per andare da un’estremità all’altra. Più che abbastanza per lottare. Più che abbastanza per morire.

Dall’altra parte del quadrato, dietro la fila di uomini seduti, Kiang aspettava, le braccia conserte, il rosso mantello sulle spalle. Come per Caleb, indossava solo il mantello e il suo corpo nudo era ben visibile.

Le fiamme illuminavano il suo viso, fermo e determinato, il suo torace possente, il grande sesso. Caleb si mise all’estremità opposta del campo e rimase immobile.

Un rumore metallico diede il segnale che tutti aspettavano. Caleb e Kiang si sfilarono i mantelli e rimasero nudi. Ad ognuno di loro si avvicinò un inserviente, che versò olio sulle spalle e poi cominciò a passare le mani sul corpo, fino a che entrambi furono coperti da una patina che luccicava alla luce delle fiamme.

Entrambi si diressero fino in riva al mare, in modo da entrare nello spiazzo senza passare tra gli uomini. Poi fecero quattro passi verso il centro e si trovarono a poca distanza. Si volsero l’uno verso l’altro. Un servitore portò su un cuscino i due pugnali. Erano corti, ma le loro lame erano larghe.

Il servitore tese il braccio, in modo che il cuscino si trovasse esattamente a metà strada tra i due contendenti. Ad un nuovo colpo, i due rivali tesero il braccio e afferrarono il pugnale. Il servitore scivolò via.

Caleb guardò il grande corpo di Kiang.

Un terzo colpo risuonò e immediatamente cominciò il battito dei tamburi. Intenso, continuo, martellante. Sarebbe continuato fino alla morte di uno di loro.

Kiang era davanti a lui, il pugnale saldamente impugnato, il viso concentrato non lasciava trasparire nessuna emozione.

Caleb si sentiva paralizzato, incapace di muoversi, di attaccare. Fu Kiang a muoversi, balzando in avanti. Prima che Caleb avesse fatto in tempo a reagire, un violento colpo di piede lo prese al torace e lo lanciò a terra. Vide Kiang slanciarsi su di lui con il pugnale sollevato e con un guizzo rotolò lontano e si rialzò.

Il colpo lo aveva stordito. Kiang faceva sul serio. No, non faceva sul serio. Se avesse fatto davvero sul serio, lo avrebbe colpito più forte e lo avrebbe trafitto al suolo. Ma Kiang era intenzionato a lottare sul serio. Tutti dovevano credere che Kiang stesse lottando per la vittoria.

Ora erano nuovamente vicini, leggermente curvi sulle gambe piegate, per tenere il torso più lontano dalla lama dell’avversario e essere pronti a slanciarsi.

Kiang parlò. Sussurrava appena, in modo che nessuno potesse sentirlo.

- Eri poco concentrato, Caleb. Devi stare più attento.

Caleb annuì. Gli sembrava di essere tornato ragazzo, di essere, come dieci anni prima, il giovanotto inesperto a cui il gigante barbuto insegnava la lotta. Ora il giovanotto era un uomo dalle spalle larghe e la muscolatura possente, che avrebbe battuto qualunque avversario in un confronto. Qualunque, tranne il colosso che aveva di fronte.

Kiang attaccava e Caleb schivava i colpi e arretrava.

- Stai andando troppo indietro. Non devi arretrare. Attacca, deciso.

Sì, lo sapeva che non doveva arretrare, ma gli sembrava di non essere capace di reagire. Eseguì l’ordine di Kiang, come avrebbe fatto in un’esercitazione, in uno dei duelli che avevano fatto insieme infinite volte, con i pugnali di legno o con pugnali veri, ma attenti tutti e due a non colpire.

Kiang arretrò di due passi davanti al suo attacco, ma con un gesto rapido gli afferrò il polso destro, bloccandolo. Ci fu un mormorio tra gli uomini che assistevano. Tutti sapevano che la presa di Kiang era una morsa da cui non si sfuggiva.

Kiang vibrò un fendente, ma Caleb lo schivò senza difficoltà. Kiang non era stato abbastanza veloce, non aveva approfittato della sorpresa di Caleb.

- Devi colpirmi, con un calcio. Muoviti.

Caleb annuì alla frase sussurrata tra i denti stretti. Lo sapeva anche lui, che doveva liberarsi dalla stretta. Kiang vibrò un secondo fendente, che quasi lo raggiunse. D’istinto Caleb alzò la gamba e colpì Kiang con forza. Kiang cadde all’indietro, ma non mollò la presa: finirono entrambi a terra e a Caleb fu molto evidente che se solo avesse voluto, Kiang lo avrebbe fatto cadere sul suo pugnale, mettendo fine al duello.

Rotolarono avvinghiati sulla sabbia, senza mollare il pugnale, ognuno bloccando il polso dell’altro. Kiang era sotto e una morsa d’acciaio teneva la lama di Caleb ben lontana da lui. I loro corpi aderivano e un violento desiderio si impadronì di Caleb. Ogni movimento non faceva che attizzarlo. Sentiva la pelle unta d’olio sotto la sua, la sabbia che aderiva all’olio e sfregava contro la sua pelle. L’odore di sudore di quel corpo gli accendeva i sensi. Avrebbe voluto gettare il pugnale e baciare la bocca di Kiang, quelle labbra socchiuse così vicine al suo viso.

Un guizzo sotto il suo ventre, la coscienza di una massa calda e rigida che cresceva  e premeva contro il suo corpo, gli tolse ogni lucidità. Kiang reagì e si sollevò da terra, senza che Caleb potesse opporsi. Poi lo colpì con un calcio, obbligandolo a lasciare la presa e liberandolo dalla sua stretta.

Ora erano di nuovo uno di fronte all’altro, ansimanti e sudati. La sabbia aveva aderito al loro corpo in diversi punti e ora non sarebbe più stato così facile sfuggire alla presa dell’avversario.

Caleb vedeva davanti a sé la grande asta turgida di Kiang, che proiettava una lunga ombra scura sul suo ventre. Era normale, in duelli di quel genere, ma quella vista lo turbava. Poche ore prima quell’asta era entrata in lui, dandogli un piacere di un’intensità che non aveva mai provato, che non avrebbe provato mai più.

Kiang lo prese di sorpresa. Gli fu addosso prima che Caleb fosse in grado di reagire. La lama stava per affondargli nella carne, quando Kiang piegò il polso. Caleb sentì la lama strisciare sul suo ventre, aprendo una ferita superficiale. L’urlo della folla si spense subito, quando videro Caleb guizzare indietro e solo un rivolo di sangue colargli tra i peli.

Sentì la voce rabbiosa di Kiang sibilargli:

- Merda, Caleb, non devi abbassare la guardia. Non stiamo giocando. Non è un gioco, questo.

Non era stata distrazione. Qualche cosa in lui lo bloccava. Non poteva farlo. Ora aveva capito. Non voleva farlo. Non voleva uccidere Kiang. Sarebbe stato Kiang ad ucciderlo, com’era giusto.

Ora che aveva formulato il pensiero, sentì sciogliersi il nodo di angoscia che lo stringeva. Sì, quella era la soluzione migliore. Kiang avrebbe vinto e avrebbe fatto di lui quello che voleva. Al pensiero che Kiang lo avrebbe penetrato, che quell’asta grandiosa sarebbe entrata ancora una volta dentro di lui, Caleb sorrise. Valeva la pena di morire per quello.

Kiang gli lanciò un’occhiata penetrante e Caleb indietreggiò, confuso. Gli sembrò che Kiang gli avesse letto in testa.

Kiang cominciò ad incalzarlo, vibrando la lama in fendenti che lo sfioravano. Non poteva continuare a lungo così, fingendo. Prima o poi uno dei suoi attacchi sarebbe andato a segno. Prima o poi quella lama sarebbe entrata nella carne che la aspettava.

Kiang avanzò con un balzo e d’istinto Caleb reagì ponendo la destra con il coltello davanti al ventre, per parare il colpo. Kiang gli fu addosso. Ci fu un rumore sordo, che il rullio dei tamburi non coprì.

Concentrato nel parare l’attacco, disorientato dalla rapida manovra di Kiang, Caleb non capì, fino a che l’urlo degli uomini  e la sensazione di un liquido caldo sulla mano non lo spinsero ad abbassare gli occhi. Il suo corpo gettava una grande ombra su quello di Kiang, ad una spanna dal suo, ma non ebbe difficoltà a vedere la propria mano appoggiata sul ventre di Kiang, all’altezza dell’ombelico. Solo la mano. Il coltello non si vedeva più, immerso com’era completamente nella carne di Kiang.

Kiang si era infilzato sul suo pugnale, deliberatamente, certo che nessuno avrebbe potuto vedere la manovra nella mischia confusa, in cui i movimenti troppo veloci e le ombre proiettate dai loro corpi impedivano agli spettatori di comprendere pienamente ciò che stava avvenendo. La folla aveva creduto ad un movimento rapido di Caleb, che Kiang non aveva saputo prevenire.

Kiang sorrise. Aveva ottenuto ciò che voleva.

- Ora non hai scampo. Un secondo colpo, più sotto, deciso, tutti ci guardano.

La mano di Kiang forzò la sua ad estrarre il pugnale dalla ferita, poi l’abbassò e la guidò, con forza e decisione, in un secondo colpo. La lama si immerse nuovamente nel ventre, sotto lo squarcio da cui il sangue sgorgava abbondante, e sfiorò la grande asta, ancora più tesa. La folla doveva pensare che Kiang cercasse di bloccare la mano di Caleb, ma non avesse più la forza per farlo. Un nuovo urlo accompagnò il colpo. Un urlo di incoraggiamento. Il duello era concluso.

Questa volta sul viso di Kiang apparve una smorfia. Lasciò cadere il coltello, vacillò. Era realtà? Fingeva? Non era importante. Kiang stava morendo.

Nella voce ora Caleb avvertì lo spasimo di una sofferenza, ma anche una tensione diversa. Sulla bocca aleggiava un sorriso.

- Ancora.

La mano che guidava la sua ora era meno ferrea, ma Caleb non era più riluttante. Kiang aveva raggiunto il suo scopo, la sua agonia era ormai incominciata. Quello che Caleb poteva fare per Kiang era solo finirlo, il più in fretta possibile. La mano di Kiang spostò la sua verso sinistra, in basso. Caleb spinse con tutte le sue forze, fino a che la lama scomparve nel ventre, nell’intrico più denso di peli neri subito a lato dell’asta tesa.

Kiang aprì la bocca in un mugolio. Un mugolio di dolore. Non solo di dolore.

Dalle ferite il sangue scendeva copioso, ma dall’asta saettò in alto un fiotto intenso, che luccicò alla luce della fiamme. Quell’odore di uomo moltiplicò il desiderio di Caleb, che ancora teneva la lama immersa nel ventre di Kiang. Sentì il getto scendere sul suo corpo. Pensò che Kiang stava venendo per l’ultima volta.

La bocca di Kiang era aperta e Caleb non avrebbe saputo dire se nella sua smorfia c’era più sofferenza o più piacere.

Kiang lo guardò, come se lentamente riemergesse da un gorgo e solo ora lo vedesse. La sua voce era decisa, non lasciava trapelare lo spasimo.

- Castrami. Da sotto. Muoviti.

Caleb capì. Strinse i denti, estrasse la lama, abbassò la mano e con un colpo secco la immerse da sotto, recidendo con un unico movimento la grande asta da cui era uscito l’ultimo spruzzo. Un nuovo urlo degli spettatori, che non potevano vedere, ma avevano intuito, coprì il suono dei tamburi, mentre Caleb afferrava i testicoli di Kiang e, movendo la lama a destra e a sinistra, completava l’opera.

- Sollevalo. Fallo vedere.

Sì, doveva farlo. Mostrare il trofeo del nemico vinto, ormai non più maschio. Dimostrare agli uomini che aspettavano che il duello era davvero concluso, perché oramai in campo rimaneva solo più un uomo.

Caleb alzò il suo trofeo, mostrandolo alla folla, che rispose con un nuovo urlo. Gli uomini erano ebbri di sangue.

Sentì il corpo di Kiang che si appoggiava contro il suo come se non avesse più forze. Forse non era una finta, questa volta. L’ultimo colpo aveva spezzato il nerbo d’acciaio di quell’uomo.

- Ora fottimi. Addio, Caleb, grazie.

Caleb lo respinse con entrambe le mani che ancora stringevano il pugnale e il trofeo. Kiang cadde in ginocchio. Con una ginocchiata in faccia, Caleb lo fece cadere indietro, steso sul suolo. Poi gettò a terra il pugnale e il trofeo e si avvicinò al corpo. Lo guardò. Ora che il corpo era disteso sulla sabbia, la luce delle fiamme non lo illuminava per intero e al soffio del vento l’ombra ora si allargava, ora si ritirava, mostrando e nascondendo le tre ferite e lo squarcio della castrazione. Tra la massa di peli del ventre il sangue era un liquido nero che scorreva ininterrottamente. Kiang non sarebbe vissuto ancora molto. Anche dal labbro spaccato dal colpo colava un po’ di sangue.

Con il piede Caleb fece girare il corpo.

Sempre con il piede spostò le gambe, divaricandole. Guardò i fianchi che gli si offrivano. Un culo grosso e peloso. E di colpo un desiderio violento lo assalì. Voleva quel culo, voleva affondare il suo cazzo dentro quella carne ancora calda, voleva colpirlo come lo aveva colpito prima con il pugnale, infliggergli nuovi colpi, una nuova agonia, non meno atroce, per quell’uomo steso sulla sabbia.

Era ebbro, lo sapeva. Ebbro di sangue, di desiderio, ebbro di dolore. Ebbro del vino che gli aveva fatto bere Kiang e che stava facendo effetto e liberando la belva.

      Girò su se stesso lentamente, in modo che tutti potessero vedere il suo sesso teso, poi si inginocchiò tra le gambe di Kiang, si stese su di lui, avvicinò il sesso al grande culo peloso. Divaricò le natiche, e cercò l’apertura segreta, per l’ultimo sfregio. Spinse con energia, forzando. Desiderava che Kiang sentisse il dolore di quella penetrazione, che l’insulto fosse anche doloroso.

Ora i loro due corpi aderivano e per un attimo il calore di quel culo gli trasmise una sensazione esaltante. Dimenticò tutto, assalito dal desiderio di stringere quel corpo, di rotolarsi con Kiang sulla sabbia, di lasciarsi trascinare da un gioco violento.

Ma Kiang non esisteva più. Kiang era solo un culo che veniva fottuto. Spinse con furore, per cancellare l’angoscia che lo assaliva.

Venne. Sussurrò a Kiang, nell’orecchio.

- Anche questo volevi?

La sua voce era piena di odio. Odio per quel corpo che amava. Non si aspettava una risposta, Kiang sembrava non reagire più. La risposta venne.

- Sì, anche questo.

Caleb chiuse gli occhi. Avrebbe voluto cancellare il mondo e poter morire con Kiang.

Si alzò. Un grande urrà si levò dagli uomini seduti davanti a lui. Non capì, ma le urla, che continuavano, gli diedero un indizio. Si guardò il sesso. Era tutto insanguinato. Non capì. Guardò il culo di Kiang: un rivolo di sangue colava. Come era possibile? L’aveva forzato, era vero, ma non era certo così virile da provocare profonde ferite. Poi capì: Kiang si era procurato una ferita prima del loro duello. Aveva spinto la punta del pugnale attraverso l’apertura che Caleb aveva forzato, poi probabilmente aveva messo un tampone. Possedendolo, Caleb aveva spostato il tampone e ulteriormente lacerato la ferita, che ora sanguinava. La folla ammirava la sua potenza. Kiang aveva pensato a tutto, come gli aveva insegnato un tempo: non lasciare nulla al caso.

Guardò ancora quel corpo steso e il sangue sul proprio membro.

Avanzò, scavalcando la gamba tesa, fino a trovarsi di lato. Voltò di nuovo il corpo, con un colpo di piede. Gli sembrava che il suo corpo eseguisse automaticamente, senza un intervento della sua volontà. Guardò Kiang, il torace che ancora si sollevava e abbassava.

Doveva finirlo. Con le mani, come Kiang stesso gli aveva detto. L’ultima prova di forza. Non sarebbe stato facile. Quel collo taurino non si sarebbe piegato facilmente. Mise un piede oltre il corpo e si sedette sul torace. Avvicinò le mani al collo. Quasi una carezza. Kiang appoggiò appena le mani sulle sue braccia, ma non aveva più la forza per allontanarle, nemmeno la forza di tenerle sollevate: le braccia gli ricaddero al suolo.

Caleb piegò le gambe, in modo che poggiassero al suolo. Passò le mani intorno al collo, ma non riusciva a cingerlo per intero.

Cominciò a stringere, con tutte le sue forze.

Kiang spalancò appena la bocca. I suoi occhi lo fissarono un attimo, poi sembrarono concentrarsi su un punto lontano del cielo. E nuovamente sentì il desiderio. Saliva dalle sue mani che affondavano nella carne di Kiang, che ne spegnevano il soffio. Saliva dal suo culo che poggiava su quel corpo in cui ancora pulsava la vita. Saliva dai suoi testicoli, che la fitta peluria del torace stuzzicava. Saliva impetuoso e quando l’eccitazione fu così forte da non poter più essere contenuta, Caleb si appoggiò in avanti, in modo che il suo sesso potesse adagiarsi su quel torace ormai quasi immobile e mentre le mani stringevano sempre più forte, il getto sgorgò, sul torace, sul collo, sulle mani di Caleb. Strinse ancora, mentre veniva, poi si disse che non era più necessario.

Nel viso congestionato di Kiang, nella bocca spalancata nell’ultimo tentativo di far entrare ancora aria, nelle braccia inerti, non vide più segno di vita.

Si alzò e guardò ancora il corpo. Un groppo di angoscia risalì dal suo ventre, ma non poteva lasciare che venisse alla luce. Lo ricacciò indietro.

Pisciò sul cadavere. Non sul viso, come Kiang gli aveva detto di fare, nella bocca spalancata, ma sul torace.

Poi parlò ai soldati che ai bordi del campo aspettavano un suo cenno.

- Gettatelo nella latrina dell’accampamento.

Non sarebbe stato necessario dirlo, quello era il rituale. Ma il rituale richiedeva che l’ordine venisse dato, come se fosse una decisione autonoma.

Caleb non aspettò che l’ordine venisse eseguito: sapeva che il corpo sarebbe stato portato via solo dopo la partenza del re e dei consiglieri. Si voltò e si diresse verso il mare. Mentre si immergeva passò un dito sulle gocce biancastre . Portò il dito alla bocca. Per la prima e ultima volta sentì il gusto del seme di Kiang. Si immerse, lavandosi del sudore, del sangue che lo lordava, dello sperma, delle lacrime che nessuna doveva vedere.

Quando riemerse e ritornò sulla riva, il primo degli Anziani gli porse il mantello e la corona. Caleb indossò il mantello e si mise la corona: non c’era altra incoronazione per i re di Hrabal, e nessun altro poteva porla sulla testa del re. Il primo degli Anziani ne era solo il custode, se non c’era un erede designato.

Ora era il re.

Kiang era un cadavere su cui i soldati avrebbero pisciato e cagato. Kiang l’aveva voluto.

Ora era il re.

Ricacciò il groppo di dolore e si avviò verso il cavallo che lo avrebbe portato in città.

Caleb, gli Anziani e i soldati che li accompagnavano si avviarono, in un corteo festoso che la musica dei tamburi accompagnava. Una musica di festa, ora, non il ritmo ossessivo che aveva riempito l’aria durante il duello.

 

I due soldati che tenevano i muli attesero che le luci del corteo giungessero in cima alla salita e i rumori fossero lontani. Poi si avvicinarono al corpo.

- Era un grande lottatore. Non pensavo che finiva così.

- Caleb era più forte. Kiang non ce l’ha fatta a prenderlo di sorpresa. L’ha appena sfiorato.

Gli passarono le cinghie intorno alle caviglie e le attaccarono ai due muli.

- Sì, Caleb è più forte. Hai visto che cazzo? L’aveva pieno di sangue. Non pensavo che l’avesse così duro.

- È un vero maschio.

Fustigarono i muli e questi cominciarono a muoversi. Il corpo fece un mezzo giro su se stesso, mentre le corde si tendevano, poi venne trascinato via. Si misero di fianco ai muli e li accompagnarono lungo la salita.

- Questo non è più nulla. Che fine! Era ricco, potente e ora è un cadavere senza cazzo e senza coglioni, su cui pisceremo sopra.

L’altro soldato rise.

- Sì, e voglio essere il primo a farlo. Pisciare sul grande Kiang.

- Sarai sempre il secondo. Il primo è stato Caleb.

- Lui non conta, lui è il re. Senti, lo faccio ora.

Fermò i muli, tirando le redini.

Si avvicinarono al corpo steso a terra, le gambe un po’ divaricate. Alla luce della torcia potevano vedere la sabbia smossa. C’era una striscia di sangue sulla sabbia.

- Perde ancora sangue.

I due soldati guardarono il grande corpo steso ai loro piedi

- Beh, non volevi pisciargli addosso?

- Veramente ho un’altra voglia, ora. Pisciargli addosso, lo faranno tutti.

Passò la punta del piede sotto il torace e cercò di girare il corpo, ma non ci riuscì. Allora si chinò e facendo forza con le mani sollevò su un fianco il cadavere, poi lo spinse, in modo da voltarlo. Il corpo ricadde sul ventre, esponendo il dorso.

- A questo in culo l’ha messo solo il re. E non lo metterà più nessun altro.

- Vuoi fottere un morto? Sarà già quasi freddo.

- No, è caldo. È crepato da poco.

Il primo soldato era già pronto. Allargò un po’ le gambe ed entrò, con decisione. Il re aveva aperto la strada e l’aveva rese scivolosa al punto giusto.

Il soldato spinse vigorosamente e, con una breve successione di spinte più violente, venne.

- Mi è quasi sembrato che …

Non completò la frase. Dopo un attimo il secondo soldato gli chiese:

- Che cosa?

- No, niente, solo un’impressione. Tu non ne approfitti?

Il secondo soldato sorrise: il membro eretto che gli batteva sul ventre non lasciava dubbi sulle sue intenzioni.

- L’idea è buona, ma non voglio arrivare terzo.

- E allora?

Il secondo soldato si chinò e fece rotolare il corpo sulla schiena.

- Se è pesante!

- E allora, che fai?

- Gli faccio una fica, poi lo fotto.

Il soldato allargò le gambe di Kiang, poi estrasse il pugnale e con un colpo secco lo immerse nel basso ventre, dove si apriva la ferita della castrazione.

Il gemito risuonò alto, più alto del rumore della carne lacerata.

- Cazzo! È ancora vivo!

- Mi era sembrato, prima… mentre lo fottevo mi è sembrato che si muoveva. Cazzo!

- Meglio così, preferisco fotterlo vivo.

Il soldato avvicinò la punta del proprio membro alla ferita. L’appoggiò là dove sgorgava il sangue e premette. Kiang gemette di nuovo. Il soldato sentì la sua eccitazione crescere ancora. Ci diede dentro con forza. Ogni spinta del soldato provocava un nuovo gemito di Kiang e il soldato si sentiva sempre più eccitato. Venne in fretta e si ritrasse. Gli spiacque non aver goduto più a lungo.

- Hai il cazzo pieno di sangue.

Il soldato alzò le spalle.

- Mi lavo dopo.

- Se si accorgono che è vivo…        

- Nessuno può accorgersi. Nessuno deve trovarsi lungo la nostra strada, lo sai. Pena la morte. Quando ci vedranno arrivare, nessuno potrà avvicinarsi alla latrina, fino a che non spegneremo la torcia.

- Se parla…

- Che cosa vuoi che parli? Pensi che vive ancora a lungo? È quasi morto. E prima che arriva un altro, sarà morto del tutto.

- Vuoi strangolarlo tu, dopo che non ce l’ha fatta il re?

Il soldato alzò le spalle.       

- Inutile. Affogherà nella latrina. Degna fine per uno che non è più un uomo. Ora posso pisciargli addosso.

L’erezione scompariva e il soldato pisciò sul corpo di Kiang. Quando diresse il getto sulla bocca, si sentì un gorgoglio.

Incitarono i muli e ripresero la strada. Arrivati alla latrina, spinsero il corpo sull’orlo della vasta buca, piena di piscio e merda.

- Pronto, grande Kiang?

Il soldato rideva, mentre parlava, ma alla luce della torcia vide che Kiang lo fissava e gli sembrò che annuisse. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e con un calcio deciso spinse il corpo nella buca.

Piscio e merda schizzarono tutt’intorno, toccando anche i piedi dei soldati.

Osservarono alcune bolle d’aria che salivano alla superficie. Quando non ci furono più bolle, si allontanarono.

 

In quel preciso momento, sulla spiaggia dove Kiang era stato colpito a morte, dalla parete di roccia, a pochi metri dal suolo, si staccò una figura, che fino ad allora non era stata visibile. Indossava un mantello con cappuccio, che lo copriva dalla testa ai piedi e nessuno avrebbe potuto vederne i tratti. Avanzò fino al punto in cui Kiang era caduto a terra. Qui era ancora, abbandonata agli animali della notte, la virilità del guerriero che era appena morto.

Una mano con lunghe unghia bluastre si protese verso la preda. Le unghie affondarono nella carne, le dita si impadronirono del trofeo e la figura silenziosamente scomparve nella notte.

 


II

 

Dall’alto della scogliera Caleb guardava il sole che sprofondava nel mare. Il cielo era attraversato da grandi nubi grigie e nere e la sfera del sole si intravvedeva appena.

Caleb sapeva che nella notte sarebbe morto. Lì, dove venticinque anni prima aveva ucciso Kiang. Sarebbe morto allo stesso modo, in un duello. Avrebbe potuto rifiutare quella sfida, affrontare Horun con gli uomini che gli erano fedeli. Ma non voleva imporre una guerra fratricida al suo paese. Aveva governato a lungo, sconfiggendo i nemici esterni e assicurando pace e benessere al paese.

Ma Horun si era fatto avanti. Era anche lui di stirpe reale, ma all’epoca in cui si era decisa la successione, aveva appena tre anni. Caleb avrebbe potuto farlo uccidere allora, la legge gliene dava il diritto. Ma non l’aveva fatto. E ora Horun si faceva avanti per rivendicare il suo diritto al trono, sfidando il re. Poteva farlo, anche se Caleb aveva abolito quelle leggi: la successione che rivendicava risaliva a prima dell’abolizione delle leggi.

Rifiutare il duello avrebbe provocato nuove tensioni. Il nord, da sempre restio al dominio centrale, aveva fatto di Horun il proprio campione. Caleb non intendeva sottrarsi alla sfida, anche se le profezie del grande sacerdote annunciavano la sua morte. Gliel’avevano annunciata venticinque anni prima, quando era stato incoronato.

Horun era forte e giovane, ma Caleb sapeva che nessun lottatore aveva l’esperienza che lui aveva maturato con Kiang. Eppure, Horun l’avrebbe sconfitto. Non aveva importanza.

No, non era vero. In realtà il pensiero di morire dove era morto Kiang, come era morto Kiang, gli dava una grande pace. Venticinque anni aveva sofferto per avere ucciso Kiang, aveva rimpianto l’uomo che aveva amato. E ora era felice di trovare la morte come lui.

Caleb rientrò nella sua tenda. Quando fu completamente buio, un soldato gli annunciò che un uomo chiedeva di parlargli. Non aveva voluto dire il suo nome, ma aveva dato un oggetto, avvolto in un panno.

Caleb aprì l’involto e si ritrovò in mano un’aquila di lapislazzuli. Il cuore gli diede un salto. Conosceva benissimo quell’aquila, anche se non la vedeva da … trentacinque anni. Sì, da trentacinque anni. Kiang la portava sempre addosso, intorno al collo. Poi, dopo la malattia che aveva condotto Caleb sull’orlo della morte, Kiang non l’aveva mai più messa. Non aveva mai voluto dire a Caleb che fine avesse fatto.

Caleb diede ordine di fare entrare l’uomo.

L’uomo aveva il viso coperto da un cappuccio e il corpo avvolto il un mantello lungo fino ai piedi. Neppure le mani erano visibili.

- Chi sei? Perché hai quest’aquila?

La voce che gli rispose sembrava venire da lontano.

- L’aquila me la diede il suo proprietario, perché tu mi pagassi l’ultima parte di un prezzo pattuito.

- Spiegati.

- Kiang mi diede l’aquila, perché vedendola tu l’avresti riconosciuta e avresti accettato di pagare quanto rimane del prezzo.

- Di che prezzo parli?

- Di quello della tua vita.

Caleb rise.

- La mia vita? Se il gran sacerdote non sbaglia, e non sbaglia mai, domani la mia vita sarà finita. Vuoi dirmi che la profezia è falsa?         

- No, non parlo della tua vita futura, parlo della vita che hai vissuto.

- Della vita che ho vissuto? Spiegati.

- A sedici anni ti ammalasti. Era giunta la tua ora e la morte ti aspettava. Te lo ricordi, vero?

Caleb annuì.

- Io potevo salvarti e lo dissi a Kiang. Kiang pagò il prezzo della tua vita.

- Che cosa intendi?

- Per salvarti Kiang rinunciò a ciò che desiderava sopra ogni altra cosa: ad avere un figlio maschio e a possederti. Ti amava tanto da rinunciare ad avere una discendenza e da rinunciare persino al tuo corpo, che desiderava follemente. Per questo, dopo che tu guaristi, la moglie di Kiang abortì e non ebbe mai più figli. Per questo Kiang rinunciò a te.

Caleb guardò l’uomo avvolto nel mantello. La storia era perfettamente verosimile. Anzi, era l’unica a spiegare perché Kiang non aveva mai accettato l’offerta di sé che Caleb gli aveva fatto più volte.

- Le rinunce di Kiang non erano sufficienti. Dovette ancora darmi la sua virilità, che avrei preso dopo la sua morte. Ma c’è ancora un prezzo da pagare. Per questo Kiang mi diede l’aquila. Quel prezzo devi pagarlo tu.

- E che cosa posso darti io, che sto per morire?

- Ciò che mi ha dato Kiang, dopo la sua morte. Ciò che Horun questa notte taglierà con il suo coltello, prima di incularti e ucciderti.

- È tutto quello che vuoi? Non è molto. Come potrei impedirti di prenderlo?

- Voglio che sia tu ad attribuirmelo. Non è molto, ma il prezzo l’ha già pagato Kiang.

Caleb pensò a Kiang e il dolore gli artigliò il cuore.

Annuì.

- Prenditi quello che vuoi e lasciami in pace.

L’uomo uscì. Caleb si rese conto di avere ancora in mano l’aquila di Kiang. Se la mise al collo. Nudo avrebbe dovuto affrontare Horun e la morte, ma poteva portare un ornamento.

 

Sulla spiaggia tutto era come venticinque anni prima.

Caleb guardava oltre lo spazio della lotta, ma non riusciva a vedere distintamente il suo rivale. L’immagine stava sfumando. Non capiva che cosa gli stesse succedendo. Poteva vedere perfettamente le persone schierate tutt’intorno, ma non Horun.

Il duello ebbe inizio e l’immagine diventò più nitida, ma era cambiata. Era molto cambiata. Caleb rimase un attimo senza fiato. Conosceva quel corpo possente, lo conosceva in ogni dettaglio, conosceva quel viso barbuto, quella bocca che ora si apriva in un sorriso, conosceva quella voce profonda che ora gli diceva:

- Sei cambiato, Caleb, molto, ma sei sempre bellissimo.

- Kiang, come è possibile?

- Combatterai contro di me, Caleb, non contro Horun. Ho preso il suo posto, anche se tutti gli altri continuano a vedere Horun. Conserverà un vago ricordo del duello.

- Sarai tu ad uccidermi?

- Sì, come tu mi uccidesti.

Una gioia folle stava invadendo Caleb.     

- Mi prenderai, come io feci con te allora?

- Sì, ma questa volta combatti davvero.

Caleb annuì.

- Non avrai vita facile. Dovrai guadagnarti il premio di questo duello.

Assunsero entrambi la posizione del combattimento, le gambe divaricate, il corpo leggermente proteso in avanti, le braccia larghe.

Kiang scattò in avanti, ma Caleb scartò, evitando il colpo. Allungò invece il braccio, ma la lama sfiorò appena la spalla di Kiang.

- Bravo, hai reagito bene.

Caleb annuì.

- Non sono una preda facile, nemmeno per il grande Kiang, il più forte di tutti i guerrieri.

- Vedremo se sono ancora il più forte dei guerrieri.

Kiang scattò ancora in avanti, ma era solo una finta. Mentre Caleb arretrava e alzava il braccio per parare il colpo, un calcio di Kiang lo fece cadere a terra. Prima però che Kiang fosse su di lui, Caleb rotolò di lato, portandosi a distanza, e si rialzò.

Guardò Kiang davanti a lui, guardò le larghe spalle, guardò la peluria sul petto, il ventre prominente, la grande asta tesa, le due sfere perfette. Il desiderio lo invadeva, la sua asta non era meno tesa di quella di Kiang, ma non voleva perdere la concentrazione. Kiang doveva trovare pane per i suoi denti, questa volta. Alzò lo sguardo sul viso di Kiang, quel viso largo, incorniciato dalla barba grigia e nera. Lo fissò negli occhi. Sapeva di amarlo come lo amava oltre vent’anni prima.

Kiang gli sorrise.

- Sei ancora più bravo di allora, ma non ti basterà.

Caleb scattò in avanti, ma Kiang spostò leggermente il corpo e Caleb finì a terra. Kiang gli si avventò addosso, ma Caleb guizzò via e in un attimo fu di nuovo in piedi.

Kiang gli si avvicinò e, con un gesto rapido, gli bloccò il polso destro con la sinistra: la pelle di Caleb era ormai coperta di sabbia e la mano di Kiang poteva far presa. Caleb cercò di afferrare la mano di Kiang, ma la sua mano scivolò sulla pelle ancora unta d’olio dell’avversario e la lama gli lacerò il palmo. Ora Kiang avrebbe potuto colpirlo, ma non lo fece. Con una mossa brusca saltò di lato, senza mollare la presa, e passò dietro di lui. Caleb avvertì la tensione del braccio destro, che Kiang gli torceva dietro la schiena e il dolore lo forzò a lasciar cadere il pugnale.

Caleb sentì l’urlo di gioia che saliva dai guerrieri. Il duello era concluso.

Con il braccio destro, Kiang gli cinse la vita, unendo i loro corpi. Ora Caleb sentiva contro la schiena il corpo unto e caldo di Kiang, tra le natiche la grande massa del membro teso. Poteva vedere nella mano di Kiang il pugnale, che tra poco sarebbe entrato nella sua carne. Non aveva difesa, anche se cercò di scrollarsi di dosso Kiang. Non aveva difesa e il calore che sentiva tra i fianchi gli toglieva ogni volontà di resistenza. Tra poco Kiang lo avrebbe colpito, poi lo avrebbe castrato e infine inculato. Tra poco. Perché aspettava? Caleb non aveva difese.

Kiang abbassò la mano che teneva il pugnale, fino a che toccò la grande asta di Caleb. E allora Caleb capì perché Kiang indugiava. Il contatto con quella mano, le dita che sfioravano la cappella incandescente, la pressione ancora più forte contro il suo culo, accesero l’ultima fiamma: la tensione che saliva dai testicoli si scaricò in un getto che salì altissimo, che non smise di salire mentre la lama di Kiang penetrava con un colpo secco, fino all’elsa, nella carne, di fianco alla base dell’asta vibrante. La lama entrò una seconda volta più in alto, a lato della cappella e infine squarciò l’ombelico e solo allora il dolore fu più forte del piacere.

Il colpo successivo recise il membro e spense il piacere. La mano lavorò in fretta e completò l’opera e, mentre Caleb si appoggiava al corpo di Kiang, la mano del suo rivale sollevava in alto il trofeo.

Caleb si sentì spingere a terra. Kiang era su di lui. Un dolore violento tra i fianchi gli strappò un gemito, ma le spinte sollevavano in lui ondate di calore e di piacere.

- Addio Caleb, addio, amore mio.

Sentì Kiang venire dentro di lui, un fiotto che scorreva, scorreva e sembrava non finire mai. Stava ancora scorrendo, quando si rese conto che le mani di Kiang gli stavano stringendo la gola. Cercò di respirare, ma non riusciva a prendere aria. L’ultima sensazione fu quella del calore delle mani di Kiang intorno al suo collo, del calore del cazzo di Kiang nel suo culo, del fiotto che ancora scorreva dentro di lui.

 

 

 

 

 

 

 

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