Burj al-Rus, la torre dei teschi

di

Ferdinando BDB e Carlos Hidalgo

 



Nello stanzone dove sono stati riuniti i comandanti spagnoli c’è un odore forte di sudore e di corpi non lavati: troppi uomini accatastati in un locale dove il calore è opprimente e si respira a fatica.

Sono quasi tutti nobili: è ben difficile che un uomo del popolo raggiunga una posizione di comando nella marina spagnola. Hanno un atteggiamento altero, come se non fossero stati sconfitti e non fossero nelle mani dei turchi, che potrebbero infliggere loro i peggiori supplizi. Contano di potersi riscattare, perché di certo le loro famiglie sono disposte a pagare qualsiasi cifra per liberarli. E in ogni caso non vogliono mostrare nessun segno di debolezza davanti al nemico. Per quanto siano stati spogliati dell’armatura e i loro indumenti siano spesso sporchi di sangue, polvere e fango, hanno tutti un portamento fiero, anche quelli che sono a torso nudo. Sono il fiore dell’aristocrazia spagnola.

Solo Rafael Hernández e Salvador Carrasco, comandante e vice della Luz de los mares, sono uomini del popolo. Gli altri comandanti li ignorano, anche se hanno combattuto insieme a loro e i due hanno dato prova di grande valore.

 

I turchi li interrogano, uno per uno. A condurre l’interrogatorio è un ufficiale che parla molto bene il castigliano. Ogni tanto si consulta con un funzionario, evidentemente di grado superiore.

- Il tuo nome.

- Álvaro de Sande.

L’anziano comandante, che ha guidato l’ultima resistenza, non mostra nessun segno di paura. Benché abbia ormai settant’anni, è un uomo forte e deciso. Se i comandanti fossero stati tutti come lui e non come quel vigliacco di Giovanni Andrea Doria, fuggito con le sue navi, forse l’attacco turco non si sarebbe concluso in modo così disastroso.

- Chi fu tuo padre?

Il comandante sembra drizzarsi ancora di più, mentre risponde:

- Juan de Sande, secondo signore di Valhondo.

L’interrogatorio sembra avere un unico scopo: avere conferma che questi prigionieri siano in grado di pagare un consistente riscatto. Se qualcuno non potesse riscattarsi, sarebbe venduto come schiavo: una vita di stenti, destinata spesso a concludersi con una morte prematura, sulle navi, in miniera o nei campi.

 

Dopo Álvaro de Sande si fanno avanti Fernando Mendoza de Alvarado y Zúñiga e il fratello Juan. I due figli del duca di Casa Grande sono i più importanti tra i nobili catturati. La loro famiglia vanta un’origine molto antica: il capostipite combatté a fianco di Fernando il Grande, re di Castiglia e León nell’XI secolo. Il loro padre, settimo duca di Casa Grande, sostenne Carlo, re e poi imperatore, nelle lotte che dovette affrontare per imporsi, ed è attualmente uno dei consiglieri più fidati di Felipe II, figlio di Carlo.

Rafael li guarda. Sono due begli uomini, molto diversi l’uno dall’altro. Fernando deve avere trentacinque-quarant’anni e i capelli, nerissimi come quelli del fratello, sulle tempie mostrano striature di grigio. Ha un viso dai lineamenti regolari e il corpo forte di un guerriero. La sua camicia è lacerata e lascia vedere il torace possente, ricoperto da una peluria fitta e molto scura, che intorno ai capezzoli incomincia a ingrigire. È un maschio vigoroso e un soldato coraggioso, che non indietreggia davanti a nulla. È considerato uno dei migliori comandanti degli eserciti spagnoli.

Juan deve aver superato da poco i vent’anni e la sua è una bellezza che colpisce immediatamente. Il viso ovale, dai tratti molto regolari, è incorniciato dalla barba, di un nero corvino, come i capelli. Anche gli occhi sono scuri e le labbra carnose. Il corpo è forte, ma ha un’eleganza naturale che il fratello maggiore non possiede. Ha studiato in seminario e, anche se non ha ancora preso i voti, si parla di lui come del futuro vescovo di Granada: carriera militare per il maggiore, carriera ecclesiastica per il cadetto.

Rafael prova nei suoi confronti un’avversione profonda: non ne sopporta l’alterigia e il disprezzo con cui tratta chiunque non sia nobile. Juan Mendoza è convinto di essere Dio in terra perché appartiene alla più importante famiglia del regno e suo padre è il duca di Casa Grande.

L’ufficiale si rivolge al fratello maggiore:

- I vostri nomi.

- Fernando e Juan Mendoza de Alvarado y Zúñiga.

L’ufficiale alza la testa e guarda fisso i due fratelli. Sul suo viso compare un sorriso. A Rafael sembra che sia ironico, ma forse è solo un’impressione.

- Chi è vostro padre?

- Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga, settimo duca di Casa Grande.

L’ufficiale annuisce. Non chiede altro, non ne ha bisogno: sa di avere davanti i rampolli della più importante famiglia nobile di Spagna.

- Potete andare.

I due fratelli si allontanano, a testa alta, e si mettono davanti agli altri nobili ammassati nel locale.

Rafael mormora a Salvador, pianissimo, perché nessuno lo senta:

- Li detesto, soprattutto il cadetto.

Salvador ride, una risata aspra, poi risponde:

- Se ne sta lì impettito, come se tutti dovessero rendergli omaggio.

Intanto l’ufficiale ha detto qualche cosa a uno dei soldati che gli stanno vicino. Questi lascia lo stanzone.

 

Salvador e Rafael appaiono impassibili, ma sanno benissimo di rischiare molto più degli altri. La loro storia è diversa da quella dei nobili riuniti in questa stanzone: per loro la sconfitta e la cattura possono significare una morte orribile.

Salvador era un soldato, che scelse di disertare dopo aver percosso un ufficiale, in seguito a un violento diverbio. Si unì all’equipaggio di una nave di pirati cristiani che attaccavano imbarcazioni e villaggi arabi e turchi, in tempo di pace come in tempo di guerra, senza nessuna protezione reale.

Rafael, marinaio della flotta spagnola, fu catturato dai turchi durante una spedizione e rimase prigioniero per tre anni. Quando riuscì a fuggire, approfittando di un’incursione dei pirati spagnoli, scelse di non rientrare in Spagna e si unì all’equipaggio della nave su cui viaggiava Salvador.

I due si distinsero per il loro coraggio in molte imprese, tanto che molti pirati chiedevano che Rafael prendesse il posto del comandante. La faccenda fu risolta attraverso un duello, in cui Rafael infilzò la spada nel fegato del vecchio comandante e poi lo gettò agonizzante agli squali.

Rafael ha raggiunto una notevole fama: lo chiamano il Lupo di Valencia ed è uno dei pirati più temuti dai turchi, perché è astuto e spietato. Salvador, detto il Toro andaluso, è ugualmente temuto, forse anche di più, perché la ferocia di cui dà prova nell’uccidere è nota. Di lui dicono che fotta gli uomini che ha ucciso.

Nel tempo i due hanno accumulato una fortuna con le loro imprese temerarie. Avrebbero lasciato volentieri la pirateria per godersi le loro ricchezze, ma non potevano tornare in patria perché nei territori spagnoli erano considerati disertori. Questo li ha spinti ad accettare l’invito del comandante della spedizione, Sancho de Leyva, che ha promesso loro il perdono reale se si fossero uniti alla flotta spagnola nella spedizione per conquistare Tripoli. Sembrava una buona offerta: la possibilità di vivere in pace nella propria terra, in cambio dell’appoggio dato all’impresa.

Ma le navi sono partite in grande ritardo, dando ai turchi il tempo di organizzarsi. Prendere Tripoli si è rivelato impossibile e la flotta ha ripiegato sull’isola di Los Gelves, Gerba, dove i soldati sono sbarcati senza difficoltà e hanno incominciato a costruire una fortificazione difensiva. I turchi però sono arrivati prima che il forte fosse ultimato, ogni resistenza si è rivelata vana e quando i pozzi dell’acqua sono stati occupati dai nemici non è rimasta altra via che la resa.

Ora i sopravvissuti sono prigionieri. Possono considerarsi fortunati, perché i soldati morti sono migliaia. I comandanti possono riscattarsi, pagando la somma richiesta. Per Rafael e Salvador il problema è un altro: se qualcuno riconoscesse il Lupo di Valencia o il Toro andaluso, per entrambi non ci sarebbe via di scampo. Verrebbero impalati.

 

Quando arriva il suo turno, Rafael nasconde l’angoscia che prova.

- Il tuo nome.

- Rafael Gutiérrez.

Rafael mente, perché che il Lupo di Valencia si chiami Hernández è noto. Dare un nome falso non è un problema: anche l’uomo che amministra i beni di Rafael si riferisce a lui con quel cognome, per evitare un sequestro da parte delle autorità spagnole.

- Chi fu tuo padre?

- Fernando Gutiérrez, mercante di panni.

- Non sei nobile?

- No, sono un popolano.

- Come mai sei uno dei comandanti?

- Per il valore dimostrato in diverse occasioni. A Mostaganem venni nominato comandante.

- La tua famiglia può pagare un riscatto?

- Non ho più famiglia, ma ho di che pagare per me e per il mio vice. Un uomo di fiducia ha in deposito le mie proprietà.

L’uomo pone ancora alcune domande, poi congeda Rafael. A Salvador chiede solo il nome e la famiglia: il riscatto sarà pagato da Rafael.

Salvador e Rafael celano la loro esultanza sotto una maschera di indifferenza. Ce l’hanno fatta. Nessuno sospetta che loro sono due pirati.

Ritornano nell’angolo dove si sono messi: un posto un po’ appartato, poco visibile da chi entra ed esce. Se i nobili non si tenessero a distanza, si nasconderebbero in mezzo a loro, ma nessuno ha piacere di averli vicino.

Nascondersi sarebbe comunque difficile, perché Salvador è molto alto e supera gli altri di almeno una spanna. Questo colosso, calvo, con la spalle larghe e il corpo possente, non passa certo inosservato.

 

Nella stanza sono arrivati tre uomini. Parlano un momento con l’ufficiale che sta interrogando i prigionieri e poi si mettono al suo fianco.

Quando gli interrogatori sono finiti, i tre uomini fanno entrare sei soldati e passano in rassegna i comandanti spagnoli. Ne indicano qualcuno con un gesto della mano e gli uomini scelti vengono fatti spostare su un’altra parete.

Salvador non capisce.

- Che cazzo fanno, Rafael?

Rafael è stato tre anni prigioniero dei turchi e ne conosce molto meglio gli usi, oltre a padroneggiarne la lingua.

- Scelgono qualche uomo giovane e bello per il piacere dei capi.

- Ma… li prendono tra i comandanti? Tra i nobili? Ci sono tanti soldati…

- I culi della plebaglia cristiana sono a disposizione dei soldati turchi. Per gli ufficiali superiori ci vuole un culo nobile. Fottere un culo nobile dà più gusto. Vuoi mettere il culo del bel José de Altacuesta con quello di un soldato qualunque?

Il tono di Rafael è sarcastico.

Salvador sorride e dice:

- Sono contento di non essere nobile.

Poi aggiunge:

- Spero che prendano i due Mendoza. Mi piacerebbe. Gli farebbe abbassare un po’ la cresta. Tra l’altro Juan è anche un bell’uomo. Io glielo metterei in culo volentieri.

Dopo un momento di pausa, Salvador conclude:

- Sì, sarebbe un piacere farmelo succhiare e poi incularlo.

Ma i due fratelli non vengono scelti.

 

Sono stati selezionati cinque comandanti, tra i più giovani. A Salvador non dispiace che vengano fottuti. Il malcelato disprezzo con cui lui e Rafael sono stati trattati dagli altri lo infastidisce, anche se sa che rientra nella mentalità dei suoi connazionali.

I cinque vengono accompagnati fuori. Non capiscono perché li separano dagli altri, ma non oppongono nessuna resistenza. Se sospettassero ciò che li aspetta, si ribellerebbero, ma per loro non cambierebbe nulla: non hanno modo di sfuggire alla loro sorte.

 

C’è un via vai di uomini nella stanza. Poi i soldati vengono a prendere i prigionieri a gruppi. Rafael ha capito che i comandanti verranno portati a Costantinopoli, dove saranno tenuti fino al pagamento del riscatto. Lo stanzone si svuota. Ora ci sono solo più i due pirati, i fratelli Mendoza e sette-otto altri nobili.

Un soldato indica a Salvador e Rafael di avvicinarsi agli altri. I due obbediscono: non possono continuare a rimanere in un angolo, adesso che il salone non è più pieno.

Juan Mendoza li guarda con disprezzo e si sposta, per non averli troppo vicino. Dice, ad alta voce:

- Mescolati con questa feccia… che vergogna!

Fernando non dice nulla. Juan prosegue:

- Due pirati. Il Lupo di Valencia e il Toro…

Juan si interrompe: Fernando gli ha messo una mano sul braccio e gli dice, piano:

- Zitto, qualche soldato potrebbe sentirti.

In effetti sentendo le parole di Juan, uno dei soldati che è venuto a prendere alcuni dei nobili rimasti si è fermato e si è voltato a guardare Rafael e Salvador.

Salvador si sente gelare. Se il soldato capisce lo spagnolo e loro vengono riconosciuti è la fine: li aspetta il palo, la più atroce delle morti. Per colpa di questi fottuti Mendoza!

Il soldato esce.

 

Poco dopo entra un ufficiale con quattro guardie. Parla con l’uomo che ha condotto gli interrogatori e che gli indica i fratelli Mendoza. L’ufficiale si avvicina ai due e ordina loro di seguirlo.

I fratelli obbediscono. Sono certi che li aspetti un trattamento di favore, che ritengono gli sia dovuto per il rango della loro famiglia. Si immaginano ospiti del governatore dell’isola, in attesa di essere portati nel palazzo del sultano a Costantinopoli. Juan in particolare già si vede seduto sui cuscini a conversare amabilmente con Piyale Pascià, che ha guidato le truppe turche alla vittoria sugli spagnoli. Certamente il comandante turco riconoscerà il loro valore e forse darà loro un dono di ospitalità primi di inviarli a Costantinopoli.

 

Intanto un altro soldato è entrato. Si ferma davanti ai due pirati e li fissa, poi si allontana. Sulla porta si volta ancora a guardarli, un ghigno sulle labbra.

- È finita, Salvador. Siamo fottuti.

- Lo penso anch’io.

Poco dopo l’uomo ritorna con altri sei soldati, tra cui un ufficiale. Vanno direttamente da Rafael e Salvador. Uno sorride e dice:

- Sì, sono loro, il Lupo di Valencia e il suo vice, il Toro andaluso.

Le parole dell’uomo sono una condanna senza appello. Per quanto coraggioso, Rafael ha l’impressione che gli manchi il fiato. Merda! Merda! Merda!

I soldati legano le mani dei due prigionieri dietro la schiena, poi li afferrano e li trascinano via, mentre gli ultimi nobili rimasti nella stanza li guardano, indifferenti, qualcuno anche compiaciuto: non hanno mai sopportato questo pirata e il suo vice. Avranno la fine che si meritano.

Fuori dallo stanzone, la luce è accecante e il calore intollerabile: sono le ore centrali del giorno. Si forma una piccola carovana, con una ventina di soldati e due ufficiali, tutti montati su dromedari. Solo i due prigionieri devono muoversi a piedi.

La colonna si mette in marcia, con Salvador e Rafael nel mezzo. Camminano sotto un sole cocente. In breve i loro abiti sono fradici di sudore. Salvador ha l’impressione che la sua testa, priva di capelli, bruci. Il mondo sembra oscillare davanti a lui. A un certo punto cade in ginocchio. A un ordine di un ufficiale, uno dei soldati gli rovescia in testa l’acqua di un recipiente, poi prende un fazzoletto, si abbassa i pantaloni e orina sul tessuto. Quando è bene impregnato di piscio, lo mette in capo al pirata. Salvador si rialza e la marcia riprende.

Quando infine arrivano al forte detto Burj-es-Suk, la Torre del mercato, vicino alla costa, i due prigionieri sono esausti. Li fanno svestire dei loro abiti, lasciandoli nudi, poi li fanno entrare in uno stanzone spoglio, dove ci sono solo due tavoli. I due prigionieri sono portati ognuno di fronte a uno dei tavoli, poi vengono forzati ad appoggiare il petto sul ripiano, mentre i soldati gli divaricano le gambe e legano le caviglie alle zampe posteriori del tavolo. Altre corde bloccano le braccia, legando i polsi alle zampe anteriori dei tavoli.

Salvador non comprende.

- Che cazzo succede?

Rafael ha capito.

- Ce lo mettono in culo. Oggi avremo modo di gustare tutti i cazzi della guarnigione di questo fottuto forte.

Salvador ha uno scatto. Cerca di liberarsi dalle corde, ma è legato ben stretto. Non vuole subire questo sfregio: non se l’è mai preso in culo.

- Merda! No! Merda!

- Non cercare di resistere, Salvador. Ti spaccherebbero i coglioni, ti infilerebbero un coltello nel buco del culo per impedirti di stringere e poi ti fotterebbero lo stesso.

Salvador digrigna i denti. Il suo corpo e la sua mente rifiutano lo sfregio che lo attende, ma non ha modo di sottrarsi.

Nella stanza entrano numerosi soldati. Ridono e fanno battute, guardando i due prigionieri. Salvador non capisce che cosa dicono, ma sa benissimo che stanno facendosi beffe di loro e pregustando ciò che sta per accadere. Non può fare nulla.

Per un po’ non succede niente, poi arrivano due ufficiali. Uno dev’essere il comandante del forte e l’altro il suo vice. Il comandante è un colosso, alto come Salvador, mentre il suo vice è tarchiato. I due si mettono dietro i prigionieri. I soldati ridono e incoraggiano i due ufficiali. Girando la testa Salvador può vedere il comandante che si appresta a inculare Rafael. Si è tolto la tunica e ha abbassato i pantaloni. Ha un cazzo grosso e duro, che svetta contro la fitta peluria nera del ventre. Mentre lo guarda, Salvador sente le mani dell’altro ufficiale posarsi sulle sue natiche.

Rafael gli dice:

- Non cercare di resistere, Salvador!

Un attimo dopo l’uomo preme con la cappella contro il buco e lo forza, spingendo il cazzo ben dentro, fino a che i coglioni sbattono contro il culo del pirata. Il dolore è violento: l’ufficiale è entrato con brutalità. 

L’uomo spinge con forza, avanti e indietro, assaporando il piacere che gli trasmette questo culo caldo. È felice di stare fottendo un bastardo infedele, un pirata che ha saccheggiato villaggi e castelli, massacrato intere guarnigioni e spesso ha stuprato gli ufficiali catturati. Ora questo figlio di puttana ha ciò che si merita.

Quando infine viene e si ritira, sul cazzo ha un po’ di sangue. Vedendolo sorride.

Salvador ha abbassato il capo. Il dolore è stato bestiale, ma altrettanto forti sono l’umiliazione e la rabbia. L’uomo passa davanti, il grosso cazzo circonciso ancora gonfio di sangue. Ride e dopo un momento, quando ormai il cazzo non è più duro, incomincia a pisciare in faccia a Salvador. Il pirata chiude gli occhi.

Un soldato si avvicina all’ufficiale che ha appena finito di pisciare su Salvador e gli dice qualche cosa, ridendo. Salvador lo guarda: è alto e forte e alquanto dotato. Merda! L’uomo passa dietro. Anche lui entra con violenza e il dolore esplode. Salvador stringe i denti. L’uomo lo fotte a lungo. Quando infine viene, si ritrae e dal culo del Toro cola un po’ di sborro, misto a sangue.

Uno dopo l’altro gli uomini lo prendono. Per tutto il pomeriggio i soldati turchi fottono i pirati, gli pisciano in faccia e sulla testa, li deridono. Dal culo di Salvador il sangue continua a colare, misto a molto seme. Il dolore diviene sempre più forte. Ogni tanto Salvador guarda Rafael, che sta subendo lo stesso oltraggio.

Per il Lupo di Valencia lo stupro è meno doloroso: è stato per tre anni schiavo dei turchi ed è stato spesso posseduto dal suo padrone, che lo offriva anche agli amici. E da otto anni è il compagno di Salvador, a cui si offre senza remore, nella sua cabina. Il formidabile cazzo del Toro andaluso ha dilatato l’apertura del Lupo, che accoglie senza grande sforzo i cazzi circoncisi dei musulmani. I ripetuti stupri provocano comunque alcune lesioni: anche a Rafael il culo fa male, parecchio, e ne esce un po’ di sangue.

 

Infine vengono slegati. Camminano a fatica, stringendo i denti per il dolore, e il movimento fa scendere dal culo altro sborro misto a sangue. Non hanno molta strada da fare: vengono portati in una cella vicina. È un locale piccolo, puzzolente e completamente spoglio: non c’è neppure un tavolaccio, un pagliericcio o uno sgabello. Solo un bugliolo maleodorante.

Rafael si siede a terra. Salvador di fianco a lui. Per un po’ rimangono in silenzio, poi il Toro dice:

- Merda!

- Era la prima volta, Salvador, vero?

- Sì, merda!

- Quando sarà il palo a entrati in culo, quello che hai subito oggi ti sembrerà uno scherzo.

- Merda!

Rimangono in silenzio, esausti per la marcia sotto il sole e lo stupro. La sera una guardia porta loro pane e acqua.

Dopo aver mangiato, si stendono per dormire sul pavimento. È sporco, ma non gliene importa: sono pirati, non nobili abituati a vivere nelle comodità.

 

I fratelli Mendoza sono stati condotti nel palazzo dove risiede Piyale Pascià. Vengono introdotti nella sala delle udienze, un vasto locale in cui il pascià siede su una specie di trono, collocato su una piattaforma. Li costringono a inginocchiarsi, vincendo la loro resistenza: non vorrebbero inchinarsi a un uomo che, per quanto rappresenti il sultano, non può certo competere con i Mendoza per nobiltà.

Piyale Pascià sorride, ma a Fernando Mendoza pare un sorriso feroce. L’uomo incomincia a parlare, ma solo il maggiore dei fratelli è in grado di capire abbastanza il turco. C’è un interprete, che è evidentemente uno spagnolo catturato dai turchi e convertito: per i Mendoza un traditore, a cui i fratelli sputerebbero volentieri in faccia.

Mentre il comandante turco parla, Fernando impallidisce. Spera di aver capito male, ma il traduttore conferma

- Sua eccellenza Piyale Pascià vi dà il benvenuto. Sua eccellenza aveva due figli. Uno venne ucciso da vostro padre durante l’attacco a Minorca, il secondo fu catturato durante la battaglia e vostro padre lo fece squartare. Sua eccellenza è felice di poter disporre di voi. Potrà vendicare i suoi figli.

I Mendoza sono coraggiosi, ma le parole del pascià sono un colpo tremendo: conoscono la ferocia di cui sanno dar prova i turchi. Potrebbero impalarli, scorticarli, squartarli.

Fernando dice:

- Abbiamo combattuto lealmente.

L’interprete traduce la parole del nobile e poi quelle del pascià:

- Anche mio figlio Nehir aveva combattuto lealmente. Ma venne squartato.

A un cenno di Piyale alcuni soldati si impadroniscono dei prigionieri e li scortano fuori dal palazzo. Un gruppo di soldati, con un ufficiale e l’interprete, li accompagna al forte Burj-es-Suk.

Eman, l’interprete che un tempo si chiamava Alonso, parla a lungo con il comandante del forte. Piyale Pascià vuole umiliare i fratelli Mendoza, spezzandone la resistenza.

I due prigionieri vengono fatti scendere in un locale spoglio. È lo stesso stanzone dove Rafael e Salvador sono stati stuprati dai soldati, poche ore prima dell’arrivo dei Mendoza. Fernando e Juan guardano perplessi i due tavoli e le pozzanghere di piscio per terra. Osservano disgustati, senza capire. Non sospettano che mescolato al piscio c’è lo sborro dei soldati e un po’ di sangue dei due pirati.

La voce dell’interprete risuona come una frustata:

- Spogliatevi.

Fernando lo guarda. Si chiede se rifiutarsi, ma non ha senso. Incomincia a spogliarsi. Juan lo imita. Quando hanno solo più indosso i mutandoni, si fermano. Eman guarda questi due nobili, il corpo vigoroso e possente di Fernando, quello più delicato e aggraziato di Juan.

- Toglietevi tutto.

- Ma…

- Non c’è nessun ma. O lo fate voi o lo fanno i soldati.

Fremendo, Fernando e Juan finiscono di spogliarsi. Eman osserva che Fernando è molto ben dotato, mentre il fratello sembra esserlo di meno. I soldati presenti si scambiano battute indicando i due cazzi non circoncisi. Scuotono la testa e si mostrano disgustati. I due fratelli si coprono i genitali con le mani. Eman sorride, pensando a ciò che succederà.

 

I Mendoza vengono forzati ad avvicinarsi ai tavoli e legati come Rafael e Salvador prima di loro. Juan chiede al fratello:

- Che cosa vogliono fare?

Fernando non lo sa.

- Penso che ci fustigheranno.

- Fustigarci? Come due schiavi?

- Piyale Pascià vuole vendicarsi. Fustigarci è un modo per umiliarci.

- Non può fare questo!

- Può fare tutto ciò che vuole. Siamo nelle sue mani.

La stanza si riempie di altri soldati che ridono e scherzano tra di loro. Sono euforici: oggi è una grande giornata, prima i culi di due pirati, adesso addirittura quelli di due nobili. Non capita tutti i giorni di fottere un culo aristocratico. Tra l’altro pare che questi due siano davvero pezzi grossi, uno era tra i principali comandanti.

Ascoltando ciò che dicono i soldati, Fernando intuisce ciò che li aspetta. Spera di aver compreso male: non è mai stato penetrato e l’idea gli fa orrore. E Juan… non possono stuprarlo, no!

Ogni dubbio scompare presto. Dietro di loro si mettono il comandante del forte e il suo vice. Girando le testa, Fernando non riesce a vedere l’uomo che sta per fotterlo, ma scorge invece quello che si appresta a inculare Juan, i pantaloni abbassati, il grosso cazzo duro proteso in avanti.

Juan non sospetta nulla e sentendo qualche cosa premere contro il buco del suo culo non capisce subito. Solo quando il cazzo del vicecomandante entra dentro di lui, comprende. Per la prima volta viene violato.

Alza la testa e grida:

- No, no!

Si dibatte, ma le corde che lo bloccano gli impediscono ogni resistenza e gli è impossibile liberarsi. Non può accettare di essere stuprato: soldati maomettani, saraceni maldetti, che osano violare il corpo del figlio del duca di Casa Grande, futuro vescovo di Granada!

Juan grida, insulta, maledice i turchi, ma il suo dibattersi alimenta solo l’ilarità della soldataglia. 

Fernando non dice nulla, non si agita: sa che sarebbe inutile e darebbe solo soddisfazione ai loro aguzzini. Il dolore è violento, ma a schiantarlo è l’umiliazione: fottuto, da un maledetto maomettano. E altri seguiranno. 

 

Dopo il vicecomandante, è il turno dei soldati. Uno piscia sulla testa di Juan, seguito da un altro. Juan trema e a un certo punto incomincia a piangere. Avrebbe affrontato la morte con coraggio e dignità, ma quello che gli succede è più di quanto possa reggere.

Fernando vorrebbe dirgli qualche cosa, ma non sa trovare le parole. Rimane impassibile durante i ripetuti stupri, anche se il dolore al culo è violento e ogni nuovo ingresso lo moltiplica. Pisciano anche sul suo capo.

I soldati si scambiano battute, che Fernando in parte capisce e che lo umiliano ulteriormente:

- I cani cristiani si fanno battezzare, no?

- Un bel battesimo di piscio per questi due cani.

- Piscio sulla testa e sborro in culo: questo è davvero un battesimo.

Fernando stringe i denti e tace.

 

Quando hanno finito, i soldati slegano Fernando e Juan e li fanno alzare. Entrambi si muovono a fatica, barcollando, mentre sborro, merda e sangue colano dai loro culi. Li accompagnano in una cella simile a quella dove si trovano Rafael e Salvador.

Juan è sconvolto e quando i carcerieri chiudono la porta, scoppia di nuovo a piangere, coprendosi il viso con le mani. Fernando lo guarda e scuote la testa.

- Juan, Iddio ci ha destinato al martirio. Affrontiamo con coraggio le prove che ci aspettano.

Le parole di Fernando non calmano l’angoscia di Juan: lo stupro multiplo è stato un trauma troppo forte per questo giovane, più abituato alla vita di corte che alle battaglie. Per quanto la sua bellezza abbia destato l’interesse di molti in seminario, nessuno aveva mai osato toccare il figlio del duca di Casa Grande.

Fernando rimane in silenzio. Anche lui è sconvolto, ma cerca di controllarsi, di essere da esempio al fratello.

 

In una cella vicina, al fondo dello stesso corridoio, Rafael e Salvador attendono la fine orrenda che è destinata loro. Per i loro bisogni hanno solo il bugliolo, che si riempie in fretta. Nessuno lo svuota, per cui dopo il secondo giorno i due pirati pisciano in un angolo della cella, usando il secchio solo per cagare. La merda si mescola con il piscio presente sul fondo, formando un impasto denso e fetido.

Il fetore è sempre più forte, ma Salvador e Rafael non ci fanno più caso. Il caldo, il lezzo, la sporcizia, tutto li lascia indifferenti. Si chiedono perché non li hanno ancora impalati.

I giorni trascorrono uguali. Il mattino del terzo giorno, svegliandosi, Salvador avverte forte il desiderio di fottere. Si avvicina e afferra Rafael per voltarlo sulla pancia.

- No, Salvador. Il culo mi fa ancora male.

Salvador ride.

- Quando ti infileranno il palo in culo, sarà peggio.

Rafael cerca di resistere, ma Salvador è troppo forte. È la prima volta che il Toro lo prende con la forza, ma il Lupo non si stupisce: Salvador è abituato a prendersi ciò che vuole.

Rafael sente il grosso cazzo premere contro il suo culo, poi forzare l’apertura ed entrare. Il dolore è violento. Salvador fotte a lungo e quando infine viene, sul suo cazzo ci sono merda e sangue. Rafael non è venuto.

 

Le condizioni di Juan e Fernando sono simili a quelle dei due pirati: pane e acqua sono il loro cibo, un bugliolo che nessuno svuota serve per i loro bisogni. Per loro è molto più difficile adattarsi a questa vita, troppo lontana da quella che hanno vissuto fino a ora. Fernando, abituato alle privazioni della vita in mare, tollera meglio la situazione, ma Juan non regge. Ha spesso crisi di pianto e attacchi di panico. In certi momenti Fernando teme che possa perdere la ragione. Cerca invano di consolarlo, lo invita a mostrarsi all’altezza del titolo che porta, ma Juan non riesce a reagire.

Entrambi ormai aspettano la morte come una liberazione e non capiscono perché non vengono giustiziati.

In realtà Eman ha deciso che lasciarli qualche giorno così sia un buon modo per spezzare la loro resistenza. Gli è chiaro che Juan cederà facilmente, di fatto ha già ceduto, ma Fernando è un guerriero coraggioso e non sarà facile piegarlo.

 

Il quarto giorno, in tarda mattinata, i quattro prigionieri vengono fatti uscire dalle loro celle e portati fuori. Hanno le mani saldamente legate dietro la schiena. I due fratelli e i due pirati si guardano stupiti. Non pensavano di ritrovarsi. Sono nelle stesse condizioni: nudi, sporchi, maleodoranti, destinati a una morte orrenda. Ma non provano nessuna solidarietà gli uni per gli altri.

Rafael ghigna:

- Avete avuto quello che vi meritate.

Fernando lo guarda, sprezzante.

- Sapremo morire con coraggio.

Salvador lo fissa e replica:

- Spero che vi impalino.

I soldati li costringono a camminare per una mezz’ora, verso la riva, dove i turchi stanno costruendo una specie di torre. Solo quando sono giunti molto vicino, capiscono che la torre è formata da crani: quelli dei soldati morti in battaglia o magari uccisi dopo la resa. I turchi stanno innalzando un monumento visibile dalle navi che passano al largo, come monito per chi pensa di poterli sfidare.

Salvador mormora:

- Merda!

Sono arrivati a destinazione. La torre di crani si erge davanti a loro, a un tiro di sasso. I turchi procedono mettendo le teste che hanno scarnificato una accanto all’altra, poi dispongono sopra ogni strato di teste altre ossa, che costituiscono una base per lo strato superiore di crani, e spargono la malta per tenere insieme il tutto. Non molto lontano si alza il fumo di un calderone: probabilmente viene usato per togliere la carne dalle teste.

Juan incomincia a tremare. Fernando sussurra:

- Juan! Dignità. Sei un Mendoza.

Eman li guarda sorridendo e dice:

- Le vostre teste saranno in cima a questa torre. Avete una posizione superiore agli altri ed è giusto che siate in cima alla torre.

Fernando sputa nella sua direzione. Non può raggiungerlo, ma esprime tutto il suo disprezzo per questo infame

I soldati costringono i quattro prigionieri a marciare fino al calderone. Ci sono altri soldati turchi e tra loro, le braccia legate dietro la schiena, quattro uomini: sono pirati della Luz de los mares, che i turchi hanno deciso di giustiziare invece di farne schiavi. I quattro vengono forzati a mettersi in ginocchio. Guardano i loro capi. Sanno che il Lupo e il Toro avranno una morte più terribile della loro.

A un cenno dell’ufficiale si avanza il boia, un uomo corpulento, a torso nudo, braccia e petto coperti da una fitta peluria nera. L’uomo alza la spada e con un movimento rapido l’abbatte sul collo di uno dei pirati. Poi procede con gli altri. L’operazione dura pochissimo: adesso a terra ci sono quattro corpi decapitati e quattro teste. Sul suolo si allarga una pozza di sangue che la terra assorbe in fretta.

Un soldato afferra le teste una dopo l’altra e le getta nel calderone.

Eman spiega:

- Facciamo bollire le teste per separare le ossa dalla carne. Usiamo solo i crani per costruire la torre. Ma le vostre le metteremo intere.

Intanto sono arrivati quattro dromedari, condotti da altri soldati. Portano grandi bisacce, che vengono deposte a terra. I soldati ne estraggono il contenuto: teste di soldati spagnoli.

Juan si volta e incomincia a vomitare. Eman ride.

- Sono solo teste di soldati. Però, c’è anche qualche testa nobile.

A un cenno di Eman, un soldato prende da una sacca una testa, che tiene per i capelli. È quella di José de Altacuesta. I quattro prigionieri la guardano, stupefatti. Non sanno che José si è dato la morte dopo essere stato stuprato, impiccandosi nella cella con i suoi mutandoni: pensano che sia stato ucciso, pur potendo pagare il riscatto.

- Ma qui una testa vale l’altra.

Eman dice qualche cosa e il soldato si abbassa i pantaloni. Prende la testa con le due mani e piscia  prima sui capelli, poi sul viso pallido e infine nella bocca aperta. Juan e Fernando rabbrividiscono di orrore. Salvador e Rafael sorridono.

Infine il soldato butta la testa gocciolante di piscio nel calderone.

Tutta la scena è stata organizzata da Eman, per umiliare e demoralizzare i due nobili.

 

Il giorno dopo Juan e Fernando vengono nuovamente portati nello stanzone. Juan, ormai annichilito, è scosso da un tremito convulso. Fernando prega brevemente, per sé e per il fratello. Spera che per Juan la morte arrivi presto.

Una volta che sono in posizione, legati ai tavoli, vedono entrare Rafael e Salvador. Si chiedono se anche loro saranno stuprati, ma le parole di Eman vanno in una direzione diversa: l’interprete ha colto l’ostilità esistente tra i pirati e i fratelli Mendoza e intende servirsene per i suoi scopi. Si rivolge ai due pirati e dice:

- So che non avete buoni rapporti con i fratelli Mendoza e ho pensato che li avreste fottuti volentieri.

Fernando freme. Un’ulteriore umiliazione: dopo i soldati saraceni, due pirati disertori, la feccia della società, gente che avrebbero dovuto giustiziare, invece di offrire loro il perdono regio.

Salvador ride e risponde:

- Ottima idea.

Salvador si mette dietro Juan e Rafael dietro Fernando. Salvador entra con violenza: vuole fare il più possibile male a questo fottuto nobile di merda che è responsabile della morte terribile che lo attende. Juan grida, poi scoppia a piangere, mentre il suo corpo è scosso da un tremito convulso, come se avesse un attacco di febbre.

Rafael entra con violenza, ma Fernando si controlla e non lascia trapelare la sofferenza e la rabbia.

Fottono entrambi a lungo. Quando ha concluso Salvador aspetta un momento, senza ritrarsi, poi incomincia a pisciare.

Juan sente il liquido caldo inondargli le viscere. Non capisce subito che cosa sta accadendo.

Quando Salvador si ritira, il piscio scende dal buco dilatato e pulsante del culo di Juan, misto a merda, sborro e sangue.

Rafael ormai è uscito, ma passa davanti a Fernando e gli piscia in faccia.

I due pirati vengono riaccompagnati in cella. Sono soddisfatti.

Juan non si regge in piedi. Piange e Fernando deve sostenerlo. Dal buco del culo ogni tanto gli cola un po’ di piscio, da quello del fratello il seme esce mescolato all’aria, con piccoli scoppiettii.

 

Infine il settimo giorno, la sera, il carceriere che ha portato da bere e da mangiare a Rafael e Salvador li guarda ridendo e dice:

- Ultimo pasto. Vi impalano domani.

I due pirati rimangono seduti, in silenzio. Poi Salvador si alza, prende il cibo e l’acqua e lo porta vicino a Rafael. Bevono e mangiano, senza dire nulla. Sapevano che la morte sarebbe giunta presto, ma il pensiero che la loro agonia sta per incominciare li turba.

Più tardi Rafael si alza e raggiunge il bugliolo, che ormai è pieno. Anche se trabocca, che importanza ha? Stanno per morire. Mentre incomincia a pisciare si accorge che Salvador lo sta fissando. I loro sguardi si incrociano, ma entrambi rimangono in silenzio.

Quando ha terminato, Rafael si gratta i coglioni, poi torna a sedersi sul pavimento sudicio della cella. Guarda la porta da cui entreranno i carcerieri per condurli al supplizio che li attende: il palo, la più orribile delle morti.

- Merda! Merda!

Salvador non dice nulla.

Rafael riprende:

- Salvador, sai come avviene un impalamento?

Lo ha detto con un tono neutro, come se loro due non fossero destinati a essere impalati.

Salvador lo guarda, senza parlare: ovviamente lo sa, sulla Luz de los mares ne se parlava spesso. Era il timore di tutti gli uomini dell’equipaggio e alcuni di loro avevano avuto modo di assistere a un impalamento e lo raccontavano. Salvador sa tutto quello che c’è da sapere sull’orribile morte che li attende e Rafael ne è a conoscenza. Perché allora chiede?

Salvador conosce Rafael e ne coglie la tensione. Non si stupisce che il Lupo di Valencia sia angosciato alla prospettiva di agonizzare per giorni interi con un palo in culo. Ma in qualche modo questa paura lo infastidisce: un maschio affronta con coraggio la sua morte.

Rafael sembra quasi irritato dal silenzio di Salvador.

- Lo hai sentito raccontare, no?

- Sì, l’ho sentito, anche se non ho mai assistito.

- Vuoi che te lo racconti? Così ti preparo.

Salvador non ha nessuna voglia di sentire narrare per l’ennesima volta come si muore sul palo, sapendo che questa è la sorte che li aspetta, ma se Rafael vuole farlo, perché dirgli di no? Che cosa cambia?

- Va bene. Raccontami tutto per bene. Tanto, che cazzo abbiamo da fare qui, in questa cella di merda?

Rafael incomincia a narrare.

- Il palo te lo fanno portare. Te lo metti in spalla. Magari un altro schiavo ti aiuta, se non sei abbastanza forte. Tu lo sei, Toro.

Salvador alza le spalle. Rafael continua:

- Quando sei arrivato a destinazione, ti legano le mani dietro la schiena e ti sistemano con il petto su una specie di sella, in modo che tu abbia il culo in alto. Con un forcone ti premono sul collo, costringendoti a tenere la faccia a terra. Due uomini ti passano le corde alle caviglie e ti forzano ad allargare le gambe. E poi…

Rafael si interrompe. Sembra guardare lontano.

- E poi l’aiutante del carnefice ti allarga il buco del culo con un coltello. Tolgono la sella e il palo viene messo in posizione, la punta contro il buco sanguinante. Il boia incomincia a picchiare con un martello di legno all’altra estremità del palo, facendotelo entrare in culo. Ogni tanto controlla che la posizione sia quella giusta. Non devi crepare in fretta.

Salvador vede benissimo la scena nella sua mente.

- Quando hanno finito,  sollevano il palo e lo ficcano nel buco che hanno preparato nel terreno o in una piattaforma. E aspettano.

Rafael tace. Salvador non ha detto una parola, ma ora il silenzio che si è creato lo infastidisce. Dice:

- Dicono che gli insetti ti divorano vivo.

- Sì, c’erano centinaia, migliaia di insetti. Erano un tormento continuo, vedevo il suppliziato scuotere la testa, cercando di allontanarli, ma naturalmente non serviva a nulla. Loro ritornavano.

- E ci vogliono anche giorni interi prima di crepare.

- Sì, quello che ho visto morì due giorni dopo essere stato impalato, un altro invece resse solo fino a sera.

Di nuovo silenzio, poi, di colpo, Rafael esplode:

- Dio porco! Dio bastardo!

Salvador guarda Rafael, che ripete:

- Dio bastardo! Dio fottuto bastardo! Crepare così…

Salvador rimane in silenzio. Riflette all’idea che gli è venuta.

Dopo un buon momento dice:

- Rafael, per uno di noi due è possibile evitare il palo.

Il Lupo lo guarda, perplesso:

- E come cazzo puoi farlo?

- Possiamo affrontarci, lottare. Chi vince strangola l’altro.

Salvador è massiccio e sa di essere più forte di Rafael, anche se questi è rapido ed esperto nella lotta: lo scontro non è equilibrato. Il Toro sta offrendo a Rafael una via di fuga dal supplizio e lo sanno entrambi.

Rafael tace. Guarda le grosse mani di Salvador. Le immagina stringersi intorno al suo collo e dargli una morte più rapida e meno orribile.

- È una buona idea.

Non dice altro.

Salvador si alza. Va al bugliolo e piscia. Un po’ di liquame trabocca e scende sul pavimento.

Quando ha finito si volta verso Rafael e dice:

- Allora possiamo incominciare. Meglio farlo ora, domani mattina potrebbero venire a prenderci presto e rischiamo di non avere il tempo.

Rafael annuisce. Sa che Salvador ha ragione, ma gli sembra di non essere in grado di alzarsi. Salvador si avvicina e si ferma davanti a lui. Allora Rafael si alza.

- Sono pronto.

Si fronteggiano, studiandosi. Rafael guarda le braccia possenti del Toro, le sue grosse mani che gli daranno la morte. Salvador attacca, cercando di afferrare Rafael, che si sottrae. Il Lupo lotta, ma senza convinzione. Non vuole morire sul palo.

Salvador lo afferra e rotolano a terra. Rafael si trova bloccato, il corpo di Salvador lo schiaccia al suolo, un braccio passa intorno al suo collo e il respiro gli manca. La lotta è stata molto breve.

- Ti arrendi?

Rafael fa un ultimo sforzo per liberarsi: istintivamente il suo corpo rifiuta la morte che ora si avvicina. Salvador stringe di più e Rafael vede il mondo svanire.

Quando si risveglia è a terra. Salvador è in piedi, su di lui. Lo guarda, con un viso in cui non appare nessuna emozione.

- Ora di finire, Rafael.

Rafael annuisce lentamente. Sì, è ora di finire, che la morte venga, a cancellare questi giorni nella cella, a evitare l’atroce agonia del palo.

Fa per alzarsi, ma poi ci ripensa e si mette in ginocchio, davanti a Salvador che lo guarda e annuisce. Le mani del Toro andaluso si posano sul collo del Lupo di Valencia. Salvador ha grandi mani forti. Il cazzo gli si sta tendendo: gli piace uccidere.

Sul viso di Rafael appare un ghigno quasi triste.

- Ti piace uccidermi.

- Certamente. Mi piace uccidere, soprattutto uccidere uomini forti, come te. Ti ho sempre ammirato e per questo ho sempre desiderato ucciderti, Rafael. Ucciderti e fottere il tuo cadavere.

Rafael non si stupisce. Ha spesso sospettato che a Salvador sarebbe piaciuto ucciderlo e ora, di fronte alla morte che li attende, non ha senso negare la realtà.

- Lo so.

- Sarei stato disposto ad affrontare qualsiasi supplizio per salvarti, ma ucciderti è un immenso piacere.

Rafael annuisce.

- Poi fotterai il mio cadavere, come fai sempre con gli uomini che ammazzi?

Salvador fa un cenno d’assenso, senza sorridere.

Rafael chiede ancora. Non sa se lo fa per guadagnare qualche minuto di vita o se davvero, ora che sta per morire, vuole capire:

- Perché ti piace fottere i morti?

- Mi piace fottere gli uomini che ho ucciso. È l’ultimo sfregio. Sono stato più forte, ti ho fottuto la vita e ora ti fotto il culo.

Rafael annuisce. L’idea che Salvador scopi il suo cadavere lo turba. Gli si è offerto in vita, per anni. In questi ultimi giorni il Toro lo ha preso anche se Rafael non avrebbe voluto. Eppure il pensiero di essere fottuto da morto lo disturba.

- Non ho mai fottuto un morto.

- Non avrai più occasione di farlo.

Le mani del Toro esercitano una leggera pressione. Rafael sente lo stomaco contrarsi. Parla, per fermare con le parole le dita che stringono.

- Forse mi sarebbe piaciuto fottere il tuo cadavere, dopo averti ucciso.

- Non hai avuto i coglioni per farlo. Hai scelto di morire e sarò io a fotterti.

Le mani premono un po’ di più.

- Il palo è il prezzo da pagare per questo.

- Lo pago volentieri.

Si guardano in silenzio. Salvador pensa che Rafael non ha davvero lottato. Prova rabbia per quella che giudica una viltà. Guarda il viso del Lupo, che non tradisce nessuna emozione, guarda il proprio cazzo, ormai teso, sporco della merda e del sangue di Rafael, che ha posseduto ogni giorno. Toglie le mani.

- Prima che ti strangoli, puliscimi il cazzo.

Rafael lo guarda, stupito.

- Muoviti, stronzo. Paga il prezzo. Non hai davvero lottato.

Rafael sa che Salvador ha ragione. Pensa che tra poco tutto sarà finito. Apre la bocca e accoglie il grosso cazzo del Toro. Lo lecca e lo succhia, fino a che non è Salvador stesso ad allontanarlo.

C’è ancora un momento di silenzio, poi le mani si appoggiano nuovamente sul collo di Rafael e incominciano a stringere.

Man mano che la pressione sul collo aumenta, rendendo più difficile respirare, Rafael fa fatica a controllare l’impulso di allontanare le mani del Toro, mentre il cazzo gli si tende. Infine il Lupo non regge più e solleva le mani per allentare la stretta. Salvador però aumenta la pressione e il mondo svanisce. Un odore intenso di merda riempie la cella: Rafael ha perso il controllo degli sfinteri.

Rafael è morto, ma Salvador continua a stringere. Nella testa reclinata all’indietro la lingua sporge e gli occhi sono spenti.

Salvador lascia la presa e fa un passo indietro. Il cadavere finisce faccia a terra. È stato bello, molto bello. Lo ha desiderato a lungo.

Salvador guarda il corpo steso sul pavimento, che sembra attendere l’ultimo sfregio. Guarda la merda tra le cosce: ce n’è parecchia. Sorride. Allarga le gambe, poi si stende sul cadavere e lo incula con una spinta decisa. Fotte a lungo, finché il piacere non esplode.

Salvador si alza. Ha il cazzo e i coglioni coperti di merda, ma gli va bene.

Volta Rafael sulla schiena. Lo ha ammirato. Il Lupo di Valencia era un vero maschio, coraggioso e spietato. Ha ceduto alla paura del palo, ma questo non può cancellare gli anni in cui sono stati insieme, le mille imprese temerarie.

Salvador guarda il grosso cazzo, rigido nella morte. Un’idea si impadronisce di lui.

Si siede sul ventre di Rafael, poi si solleva, afferra il cazzo rigido del Lupo e lentamente si abbassa, impalandosi. Ha fottuto un morto e ora si fa fottere da lui. Il suo buco del culo si dilata nuovamente, come durante lo stupro subito a opera dei turchi. Ma questa volta a penetrarlo è il cazzo dell’uomo con cui ha condiviso otto anni della sua vita, l’uomo che sa di aver amato, anche se non lo ha mai detto, e che ha ucciso per risparmiargli il palo.

Rimane un buon momento seduto sul cadavere, il cazzo del morto ben dentro il suo culo. È la prima volta che sceglie di essere penetrato. Lentamente la destra scende ad accarezzare il cazzo, a stringerlo, mentre la sinistra afferra i coglioni in una morsa dolorosa. Senza allentare la presa, malgrado il dolore che lo fa sudare, Salvador si alza e si abbassa, mentre si masturba, fino a che viene. Ora anche le sue mani sono sporche di merda.

Quando si alza, vede che sul cazzo di Rafael c’è un po’ di merda. Salvador sorride. Gli sembra che sia il sigillo del loro legame.

 

Il mattino dopo un ufficiale con sei soldati entra nella cella. Salvador è seduto contro una parete. Per un momento i turchi pensano che Rafael dorma, ma avvicinandosi si rendono conto che è solo più un cadavere.

L’ufficiale è furibondo. In un impeto d’ira, afferra il bugliolo e ne getta il contenuto in faccia a Salvador. La merda cola dal viso al petto e al ventre. Con un ruggito Salvador salta addosso all’ufficiale, ma i soldati lo bloccano. Lo colpiscono più volte, fino a che i pugni hanno ragione della sua resistenza e due calci ai coglioni gli tolgono il fiato. Gli legano le mani dietro la schiena.

Escono dalla cella e poi nel cortile. A terra c’è il palo, la punta aguzza che gli entrerà nel culo. Salvador lo guarda senza mostrare nessun segno di paura.

Gli liberano le mani e lo forzano a caricarsi il palo sulla spalla. Il cadavere di Rafael viene caricato su un dromedario, legato in modo che non cada, il culo in alto.

Poi si avviano. Il palo è pesante e Salvador suda abbondantemente, nonostante sia ancora molto presto e l’aria sia fresca. Ben presto lo sfregamento del palo irrita la pelle, che si spacca- Un po’ di sangue cola. Davanti a lui Salvador vede il dromedario avanzare, facendo ondeggiare il corpo senza vita di Rafael.

Salvador regge il palo senza mostrare nessuna emozione.

Camminano per oltre un’ora, fino a che arrivano alla costa, dove avrà luogo il supplizio. Nell’ultimo tratto da percorrere si è radunata una folla. L’arrivo del condannato è accolto da grida di gioia. Salvador passa tra la gente che ride vedendolo sporco di merda in faccia, sul petto, sul ventre, sul cazzo e sui coglioni, sulle gambe. Non può capire che cosa dicono, le loro battute oscene, le loro maledizioni. Comprende soltanto due parole che ritornano spesso: Hıristiyan köpek, cane cristiano.

Passa oltre, indifferente.

 

Salvador può posare il palo. Gli legano subito le mani dietro la schiena, in modo che non possa cercare di fuggire o anche solo di sottrarre la spada a un soldato e uccidersi.

Il cadavere del Lupo è impalato per primo. È un’operazione semplice: non occorre badare alla direzione del palo, perché  tanto Rafael è morto. Passano una corda intorno alla caviglia destra e poi un’altra intorno alla sinistra del cadavere, per tenere le gambe ben allargate, poi Ayman, l’aiutante del carnefice, allarga il buco del culo con il coltello e Burhaan, che dirige l’operazione, prende a colpire il palo, spingendolo dentro il corpo.

Salvador guarda il palo entrare nel culo di Rafael. Il Lupo di Valencia viene nuovamente stuprato, questa volta da un palo. Salvador si accorge che il cazzo gli si tende. Gli piace vedere il legno affondare in culo al Lupo, come fosse un grosso cazzo che penetra sempre più a fondo.

Quando l’operazione è conclusa, il palo viene issato, infilando la base in un buco scavato in precedenza nel terreno. Il corpo inerte si trova con le gambe a una spanna dal suolo.

Salvador vede arrivare i fratelli Mendoza. Si chiede se i turchi intendono impalare anche loro, ma i due non reggono un palo. Li hanno portati per assistere al suo impalamento. Salvador ha un moto di rabbia, ma l’aspetto dei due nobili lo spegne. Juan Mendoza è pallidissimo e trema. Dell’uomo altezzoso di qualche giorno prima non è rimasta traccia. Fernando conserva ancora una certa dignità, quella che può avere un uomo nudo, sporco di merda e piscio, con una striscia di sborro e sangue lungo l’interno delle cosce: devono averli di nuovo inculati, probabilmente questa stessa mattina.

 

Ora i carnefici sistemano gli strumenti del supplizio. Poiché Salvador è vivo, l’operazione è più complessa: occorre che il corpo sia tenuto fermo, per evitare che il palo si infili nel modo sbagliato, provocando una morte rapida. Salvador conosce tutte le operazioni e guarda i preparativi come se non lo riguardassero: gli sembra di essere del tutto indifferente. Viene messo in posizione una specie di basto di legno, su cui sarà costretto ad appoggiarsi, in modo che il culo sia ben sollevato quando gli taglieranno il buco per permettere l’ingresso del palo. Le corde per legargli le caviglie e allargargli le gambe vengono gettate a terra. Un uomo ha in mano il forcone per bloccargli il collo e tenerlo in posizione, Ayman il coltello che servirà per allargargli il buco del culo. Ayman e Burhaan guardano il Toro andaluso e sorridono. Come alcuni dei soldati, hanno entrambi il cazzo duro, che tende i pantaloni: il supplizio li eccita. Ayman gli si avvicina e gli mostra sorridente il coltello, sulla cui lama si mescolano il sangue e la merda di Rafael. Burhaan fa un cenno alle guardie.

Quando si sente afferrare, Salvador si dibatte: l’indifferenza di poco prima lascia il posto al terrore. Il suo corpo rifiuta lo scempio a cui è destinato, ma non ha modo di lottare. I soldati lo costringono a inginocchiarsi e appoggiarsi con il torace sul basto. Due di loro premono sulla sua testa, impedendogli di alzarla, e un terzo gli blocca il collo con il forcone, le cui punte si infilano nel suolo. Altri due gli tengono ferme le gambe e passano le corde alle caviglie. Tirano verso l’esterno, in modo da divaricare bene le gambe e le natiche.

- Maledetti!

Ora Salvador è in posizione, il suo martirio può incominciare.

Ayman si inginocchia dietro di lui. Salvador non può vederlo, ma sa che cosa lo aspetta e si tende. Avverte la pressione di una punta che si infila nel buco del suo culo. La lama affonda poi, con un movimento brusco, si sposta verso l’alto, squarciando l’apertura. Salvador urla, un grido selvaggio. Il sangue cola dalla ferita, ma l’uomo sparge un impasto per fermare l’emorragia. Poi si alza. Il culo del Toro andaluso è pronto ad accogliere il palo, la cui punta viene spalmata di grasso, in modo che penetri meglio.

Gli uomini tolgono il basto di legno, poi prendono il palo acuminato e lo mettono in posizione, la punta contro l’apertura sanguinante. Salvador sente la pressione del palo che tra poco entrerà dentro di lui, regalandogli una morte terribile.

Burhaan colpisce il palo, che penetra a fondo nel culo del suppliziato. Salvador grida, la testa schiacciata a terra, in preda a un dolore inumano. Si divincola, invano. Il martello del boia si abbatte di nuovo sul palo, che si fa strada nella carne, dilaniando le viscere del condannato. A ogni colpo Salvador urla, finché la voce gli manca e dalla sua bocca esce solo più un suono soffocato. Salvador sente il palo che gli scava le viscere e avanza, inesorabile, dentro di lui, sempre più a fondo, nel petto.

Burhaan si ferma. Il corpo del condannato è infilzato dal palo fino allo sterno. Può bastare così.

I due carnefici passano davanti a Salvador, si abbassano i pantaloni e incominciano a pisciare sulla testa del pirata: un’ultima umiliazione. Il Toro sente il piscio che scorre sul suo capo senza capelli e scivola sulla faccia, mescolandosi alla merda, ma non ci bada: il dolore atroce che brucia nel suo corpo è troppo forte per badare ad altro.

Gli uomini tolgono il forcone che blocca la testa di Salvador. Il Toro bestemmia, ma la sua voce è appena udibile e i carnefici non sentono le parole blasfeme. Hanno preparato il buco nel terreno in cui infilare il palo, accanto a quello che regge il cadavere del Lupo di Valencia. Quando il palo viene issato, il movimento è un nuovo strazio, che porta il palo a penetrare ulteriormente nel corpo del suppliziato. Salvador geme ancora. Dalla sua bocca cola un po’ di saliva.

Il mondo ondeggia, senza contorni precisi. Anche le voci sono solo un ronzio indistinto. Solo lentamente le immagini ritornano nitide e stabili. Salvador può vedere i carnefici, sudati per lo sforzo e soddisfatti del loro lavoro, che lo fissano sorridenti, e i soldati. Uno si afferra i coglioni attraverso la stoffa dei pantaloni, in segno di scherno. Almeno due hanno il cazzo duro. Probabilmente si faranno una sega, quando gli spettatori si saranno allontanati.

Juan Mendoza sta vomitando. Fernando lo sostiene, ma anche lui è pallidissimo.

Salvador sente il dolore che pulsa nel suo corpo, atroce, un fuoco che lo divora, nel culo, nel ventre, nel torace. Il suo corpo è solo sofferenza. Salvador respira a fatica.

Le sentinelle si sono messe a una certa distanza, perché l’odore di merda è forte e il calore della giornata rende più acuto il fetore. Attratti invece dalla merda e dal sudore, centinaia di mosche, tafani e altri insetti volano intorno al corpo e si posano sulla pelle dell’agonizzante. Essi ricoprono il viso di Salvador, dove il sudore scorre in rivoli mescolandosi alla merda, il suo petto villoso, dove le gocce si perdono tra i peli, il ventre, il cazzo e i coglioni. Le punture e i morsi sono una continua sofferenza, che si aggiunge al dolore tremendo che sale dalla carne attraversata dal palo.

Gli insetti lo divorano: il suo corpo si copre dei segni rossi lasciati dalle punture e dai morsi, che fanno gonfiare la pelle e la lacerano. Le piccole ferite attraggono altri insetti.

Quando Salvador apre la bocca per cercare l’aria che gli sfugge, gli insetti gli si infilano in gola. Salvador tossisce e sputa.

Vicino alla riva, la torre di crani cresce. Salvador vede aggiungere teste tagliate e altre ossa. Il lavoro procede per tutto il giorno, fino al tramonto del sole.

Salvador guarda il cadavere di Rafael. È contento di averlo ucciso, risparmiandogli questo tormento atroce.

A una decina di passi la folla di curiosi assiste all’agonia del pirata. La gente si scambia battute, ride, se ne va, poi ritorna, felice di potersi godere ancora lo spettacolo.

La sera infine scende. Arrivano le due guardie che passeranno la notte. Guardano il cadavere di Rafael e ridono, poi osservano Salvador che ogni tanto muove la testa. Ridono nuovamente.

- Non li hanno ancora castrati.

- No, lo faranno domani.

- Non me lo voglio perdere.

- Puoi dirlo.

- Puzza come una fogna.

- Un grosso stronzo coperto di merda.

La notte Salvador ha momenti di incoscienza, in cui il dolore scompare. Gli insetti lo tormentano di meno. Al sorgere del sole gli insetti riprendono a posarsi sul corpo e presto il calore diviene intollerabile.

 

Nel tardo pomeriggio del secondo giorno, mentre Salvador agonizza, i fratelli Mendoza vengono di nuovo portati ad assistere. Arriva un ufficiale con altri soldati e i due carnefici. L’ufficiale dà un ordine. Salvador vede Ayman, avvicinarsi al cadavere di Rafael, appoggiare il coltello sotto il cazzo e i coglioni e recidere. Dalla folla si leva un urlo di gioia. Juan Mendoza scivola a terra senza un lamento, privo di sensi.

Ayman si avvicina al Toro. Salendo su uno sgabello gli spinge i genitali del Lupo in bocca. Salvador non oppone resistenza. I turchi intendono umiliarlo, ma Salvador è contento di crepare con i genitali di Rafael in bocca, l’ultimo segno del legame che li ha uniti in vita. Quando la testa del Toro verrà aggiunta alla torre che sta crescendo sulla riva e lì marcirà, avrà ancora in bocca il cazzo e i coglioni del Lupo.

I coglioni riempiono la bocca del Toro, il cazzo sporge fuori. Salvador sa che tra poco lo castreranno. Come ha previsto, Ayman gli afferra il cazzo e i coglioni. Stringe, poi la lama incomincia a recidere.

Un nuovo dolore si fa strada nel corpo martoriato del Toro, che griderebbe, se potesse ancora emettere suoni. Vede Ayman infilare i suoi genitali in bocca al cadavere di Rafael. Pensa che va bene così.

Ma il mondo sta svanendo. Salvador fa fatica a respirare. I coglioni di Rafael gli riempiono la bocca, il naso è otturato dalla merda e dagli insetti. Salvador reclina il capo.

Pochi minuti dopo il suo torace smette di sollevarsi e abbassarsi.

- Infine questo pezzo di merda è crepato.

La folla degli spettatori si disperde. L’ufficiale se ne va con i soldati, lasciando solo Ayman e Burhaan.

Quando tutti si sono allontanati e il buio della sera avvolge la scena del supplizio, Ayman si mette dietro il palo, sale su uno sgabello e si cala i pantaloni. Il cazzo è già duro. Lo sfrega contro il culo di Salvador, finché viene.

Burhaan ride. Tira fuori il cazzo e piscia sulla ferita della castrazione.

I due cadaveri sono lasciati al sole. Gli insetti li divorano. Presto il fetore è intollerabile.

 

Il mattino del terzo giorno i fratelli Mendoza vengono nuovamente portati a vedere i due cadaveri. Eman sorride: sa che ormai la loro resistenza è stata piegata. Juan è solo l’ombra di quel che era, Fernando mantiene a fatica ancora un po’ di dignità. Li guarda e dice:

- Domani tocca a voi.

Juan trema, geme e piange. Fernando freme.

- Non potete darci una morte così orribile. È indegna di un nobile.

Tutto il corpo di Eman sembra scosso da una risata interminabile.

- Non possiamo? E chi ce lo potrebbe impedire? Sarete impalati domani mattina. Il giorno successivo sarete castrati e se Allah avrà pietà di voi, vi permetterà di morire.

Fernando freme.

- Abbiamo combattuto lealmente.

Eman scuote la testa: gli è chiaro che Fernando Mendoza non capisce la sua situazione.

Eman sorride e dice:

- Possiamo darti una morte più rapida, ma c’è un prezzo da pagare.

In Fernando si accende una speranza. Risponde, con un tremito nella voce:

- La nostra famiglia è in grado di pagare quanto volete.

Eman ride di nuovo.

- Non ci servono soldi. Vogliamo vederti inculare tuo fratello.

Fernando lo fissa, allibito.

- Non potete chiedermi questo!

- Allora creperete sul palo.

Juan interviene:

- Fallo, Fernando, ti prego, fallo. Non voglio morire sul palo. Non voglio, non voglio, non voglio!

Fernando guarda il fratello. Si sente schiacciare da un peso enorme. Non vuole vedere Juan impalato, non vuole che soffra in modo atroce, ma l’idea di incularlo gli fa orrore.

Juan grida, in preda a una crisi di panico.

- Fallo, Fernando, fallo!

Poi aggiunge, con una voce più flebile:

- Non il palo, non il palo!

Fernando china la testa, mordendosi il labbro inferiore, poi dice:

- Va bene.

Li portano nello stanzone. Juan viene messo in posizione sul tavolo. Non occorre legarlo. Fernando si mette dietro di lui. Il dolore lo schianta, ma sa che non c’è altra via. Si pente di non aver ucciso Juan come il Toro ha fatto con il Lupo.

Guarda il culo di Juan, sporco di merda. Deve farlo. Si accarezza il cazzo, ma l’angoscia che l’opprime non gli permette di avere un’erezione.

Eman ride e osserva:

- Al grande Fernando Mendoza non viene duro? Se vuoi dico a uno dei soldati di farti una sega mentre te lo mette in culo. Magari ti si rizza.

Fernando digrigna i denti, furente. Chiude gli occhi, stringe con forza il cazzo e muove la mano, fino a che il sangue affluisce all’uccello, che si irrigidisce. Allora riapre gli occhi, appoggia la cappella contro il buco del culo di Juan e spinge con forza, fino a che i coglioni battono contro il culo del giovane. Per la prima volta possiede un uomo e quest’uomo è il fratello per cui darebbe la vita. Juan singhiozza.

Fernando fotte a lungo, finché viene. Allora si ritira. C’è merda sul suo cazzo.

Ora desidera solo morire.

Eman è soddisfatto

- Va bene. Terremo la nostra parola con te, Fernando.

Fernando Mendoza freme a sentirsi chiamare per nome, come fosse un servitore. Eman continua:

- E tu, Juan, se non vuoi il palo, devi ancora fare una cosa.

Juan guarda Eman. Nei suoi occhi luccicano le lacrime. Non dice nulla. Eman prosegue:

- Pulisci il cazzo di tuo fratello. L’hai tutto sporcato.

Fernando grida:

- No!

Eman sorride e si rivolge a Fernando:

- Preferisci che lo impaliamo?

Fernando chiude gli occhi.

La voce di Juan risuona, flebile:

- Sì.

Un soldato spinge Fernando davanti a Juan, che guarda il cazzo sporco di merda, poi apre la bocca e incomincia a pulirlo con cura. Fernando piange, ma il cazzo è rigido.

Quando ha finito, i soldati afferrano i due fratelli per le braccia. Fernando si chiede che cosa intendano fare.

- Tra poco vi uccideremo.

Fernando si sente sollevato: la morte metterà fine ai loro tormenti.

- Prima però verrete castrati.

- No! No! No!

L’urlo di Juan è una mano di ghiaccio che stringe il cuore di Fernando. Il boia si avvicina e afferra i genitali del giovane. Juan perde il controllo degli sfinteri. Piscio e merda scendono. Il boia non ci bada. Con il coltello recide, sorridendo.

Juan grida e piange. Anche Fernando piange, senza più cercare di nascondersi. Ha chinato il capo. Sente la mano del boia e il terrore lo invade. Riesce a non urlare mentre l’uomo recide, ma il piscio cola dal cazzo e la merda dal buco del culo.

Il carnefice prende una lunga spada e la mostra ai due prigionieri. I due fratelli, debilitati dalla prigionia, dalle fustigazioni, dagli stupri, tremano vedendola.

Juan e Fernando vengono nuovamente legati al tavolo, ma questa volta non saranno i cazzi dei soldati a penetrarli, ma la lama.

Un soldato striscia i genitali dei due fratelli tra le cosce, in modo da sporcarli con la loro merda, poi il boia passa dietro a Juan e spinge la spada contro il buco del culo. La infila dentro, un po’ per volta: gli piace vedere il sussulto del corpo ogni volta che la lama avanza: la sofferenza del giovane lo eccita. Juan lancia un ultimo grido acuto, che si trasforma in singhiozzi e infine si spegne.

Il carnefice estrae la spada. La lama è coperta di sangue e sul filo ci sono frammenti di viscere. Quando il boia passa dietro di lui, Fernando incomincia a singhiozzare. La spada si fa lentamente strada nel suo culo. Fernando solleva la testa, gemendo. Il muco gli cola dal naso, la saliva dalla bocca. Il carnefice continua a spingere. Fernando chiude gli occhi, mentre gli sembra di avere in culo un fuoco che lo devasta. Geme sempre più forte. A un certo punto solleva la testa, mentre le lacrime scendono dai suoi occhi, ed emette un rantolo.

Poi nello stanzone scende il silenzio.

Infine il carnefice afferra per i capelli la testa di Fernando e, con la stessa spada con cui lo ha ucciso, lo decapita. Fa lo stesso con Juan. Poi i soldati slegano i corpi e li trascinano fuori. Vengono legati per i piedi alla sella di due cavalli e trascinati nel deserto, dove vengono abbandonati agli animali.

 

Quella stessa sera un cavaliere decapita i cadaveri dei due uomini impalati. Le teste dei due pirati e quelle dei fratelli Mendoza sono le ultime ad essere aggiunte  al Burj al-Rus, la torre dei crani. Sono le uniche a non essere state scarnificate.

La cima della torre viene ricoperta da una tavola di legno e i lati cosparsi di altra malta, ma in cima le quattro teste vengono lasciate visibili. Gli occhi spenti sembrano guardare lontano, verso il mare da cui questi uomini sono venuti a Gerba per incontrare la morte.

Chi naviga davanti alla costa dell’isola può vedere la torre che si innalza: è alta trentaquattro piedi, oltre dieci metri. È formata da migliaia di teste. Due di quelle in cima stringono in bocca quel che rimane dei genitali dei pirati.

Le due carcasse impalate si decompongono al sole. I ventri si gonfiano e infine si aprono. Ne cola un liquido nero su cui si posano centinaia di insetti.

I cadaveri dei fratelli Mendoza vengono divorati dagli animali selvatici.

 

Tre settimane dopo due scrigni e una missiva vengono consegnate all’ambasciatore francese, di partenza per Marsiglia, perché le faccia giungere a Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga, settimo duca di Casa Grande.

Il diplomatico, che ignora il contenuto delle due scatole, esegue il suo compito e appena giunto in Europa, invia un messo per consegnare al duca quanto gli è stato affidato.

Il duca di Casa Grande osserva i due scrigni, in legno finemente lavorato. Sui lati è inciso un elegante intreccio di arabeschi e sul coperchio un teschio e le iniziali CG, che indicano chiaramente la sua casata.

Felipe Mendoza apre la missiva, che porta un sigillo turco.

 

A Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga, duca de Casa Grande.

È con vero piacere che vi invio un ricordo dei vostri due figli, che hanno trovato la morte nell’isola di Gerba. Non ho potuto inviarvi i corpi, che non si sarebbero comunque conservati, né le teste. Spero che comunque quanto vi mando costituisca un degno ricordo della virile stirpe dei duchi de Casa Grande.

Troverete un po’ di merda: al momento della castrazione i vostri figli hanno perso il controllo degli sfinteri per il terrore, dimostrandosi purtroppo indegni del loro lignaggio. Juan ha ceduto subito, mentre Fernando ha retto fin quasi al momento in cui il carnefice gli ha dato la morte, infilandogli la spada nel corpo attraverso l’ano. La merda che potrete vedere non è quella del fratello, che Fernando ha posseduto nell’ultimo giorno delle loro vite, perché Juan ha provveduto a pulirla con la lingua. È invece la sua.

Se vi capiterà di navigare davanti alla costa settentrionale dell’isola, non mancate di osservare Burj al-Rus, la torre che abbiamo costruito con i teschi dei soldati spagnoli: in cima vi sono le teste dei vostri due figli, come compete alla loro posizione superiore.

Piyale Pascià

 

Felipe Mendoza si rende conto che le mani gli tremano quando apre la prima cassetta. L’interno è foderato di velluto rosso. Ci sono un involto di telo, un medaglione d’oro e un guanto di cuoio con le iniziali di Fernando.

Felipe Mendoza de Alvarado y Zúñiga prende il medaglione e lo apre: contiene l’immagine di Isabel, la moglie di Fernando, da cui ha avuto due figlie. La mano gli trema ancora di più mentre srotola la pezza di lino. Quando infine ha completato, gli sfugge un grido: l’involto contiene i genitali disseccati del figlio maggiore, sporchi di merda.

L’anziano duca ha l’impressione di non riuscire a stare in piedi, gli sembra che il mondo si dissolva. Chiude gli occhi. Poi, facendosi forza, apre la seconda cassetta. C’è la catena d’oro che Juan portava al collo, il rosario con l’immagine della Vergine, il pugnale con le sue iniziali sull’impugnatura e un altro involto di lino, che contiene i genitali del cadetto, ugualmente sporchi. Il duca di Casa Grande cade in ginocchio, singhiozzando.

 

Due giorni dopo Felipe Mendoza, vestito a lutto, fa mettere in un’urna i resti dei due figli. Vengono tumulati nella cappella che la famiglia possiede nella cattedrale di Burgos, ma la cerimonia è segreta. Felipe ha detto alla moglie e alle figlie di Fernando che Piyale Pascià ha mandato il cuore dei due morti.

 

Due settimane più tardi nella cattedrale di Granada si celebra una messa solenne in onore dei caduti di Los Gelves, a cui assiste il re in persona. La nobiltà affolla la chiesa, ma il duca Felipe è a due passi dal re, come compete alla sua posizione e al suo ruolo di padre dei due caduti più illustri.

Il duca è stanco e gli sembra che l’interno della cattedrale sia avvolto in una nebbia che diventa sempre più fitta. Quando si alza per dirigersi verso l’altare e ricevere la comunione, cade a terra, senza un lamento.

Subito alcuni si avvicinano per soccorrerlo, ma non c’è più niente da fare: il cuore ha ceduto. Il corpo viene trasportato a Burgos, per essere sepolto nella cappella di famiglia, con una cerimonia funebre a cui partecipa tutta la nobiltà della penisola.

Con la sua morte si estingue la linea maschile della nobile famiglia dei Mendoza de Alvarado y Zúñiga duchi di Casa Grande.

 

 

 

 

 

 

 

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