E ti vengo a cercare

 

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Fa un caldo tale che persino le cicale sembrano schiacciate al suolo dalla greve canicola. La collina è un'esplosione di erba mazzolina dorata, che brilla sotto il sole spietato di agosto e il frinire delle cicale pare emergere dalla profondità stessa della terra strinata. Strada tutta in salita, fatico verso la casa isolata, con passi sempre più lenti e mi domando chi me l'ha fatto fare. Avrei potuto fermarmi giù al paese, in un bar o all'ombra fitta dei ficus beniamini dei giardini pubblici. Sarei potuto arrivare quassù con il fresco del tramonto, ma forse fresco è un tantino esagerato. Prevedo una nottata afosa com'è il giorno. Finalmente il sentiero polveroso raggiunge gli ordinati filari di fichi d'india, con le escrescenze viola, gialle e verdi dei frutti che aspettano la raccolta, succhiando la dolcezza dal sole. Nicola ha scelto uno strano modo per sopravvivere, ma certo non più strano di tanti altri, di questi tempi. L'ultima volta che ho visto la vecchia casa, era in condizioni disastrose, ma adesso, a vederla da questa distanza, ha un aspetto migliore. Dunque Nicola dev'essere riuscito a rimetterla a posto e magari ha fatto tutto da solo, come aveva giurato.

– Come farai a dormire qui? Il tetto è sfondato, le pareti stanno per venire giù, l'acqua non arriva ai rubinetti. Devo continuare?

– Tu non ci pensare. Parti tranquillo. Ti giuro che a costo di ristrutturarla con le mie stesse mani, questa casa tornerà come nuova. Tu vai. Hai un lavoro che ti aspetta. Non perdere altro tempo. Tra un'ora passa la corriera e devi ancora andare a prendere la valigia.

– Non preoccuparti. Per me la strada è tutta in discesa. Per te invece è ancora in salita.

Mi riferivo alla vita che ci attendeva, con un sentimento fatto a strati da cui emergeva soprattutto un gran senso di colpa, difficile da ammettere e ancor più da digerire. Lo dissi osservando di nuovo quella casa fatiscente, semidiroccata, in cui Nicola si era incaponito a restare. Era l'eredità del nonno, tutto quello che gli era rimasto dopo la tragica scomparsa dei suoi. Sembrava proprio che la vita avesse deciso all'improvviso di offrirmi una speranza di futuro, ma nello stesso tempo di sottrarla a lui. Sì, mi sentivo in colpa. Erano giorni che lo pregavo di partire con me. Ero sicuro che a Roma un lavoro l'avrebbe trovato subito, come l'avevo trovato io. Ma Nicola non ne voleva sapere di lasciare la sua terra. Mi aveva opposto ogni genere di giustificazione, fino a che era stato costretto a dirmelo in malo modo.

– Insomma, perché non ti fai i cazzi tuoi? Vuoi lasciare il tuo paese? Vuoi tradire la tua terra? Fallo! Ma a me lasciami perdere. Se un futuro esiste, per me, dev'essere qui. È grazie a tutti quelli che se ne sono scappati prima di te, che questa terra si ritrova impoverita e svuotata. Se c'è da lottare, bisogna farlo qui. E quando riesci a costruire qualcosa, lo fai per tutti, non solo per te o per quelli per cui vai a faticare. Lo fai per la riscossa del tuo paese.

L'impeto di quello sfogo aveva lasciato lui senza fiato e me senza parole. Aveva ragione. Stavo fuggendo dalla disoccupazione, dal peso delle sconfitte, dalla stanchezza della lotta per vivere alla giornata come avevo fatto fino a quel momento, ma stavo anche abbandonando una terra che amavo, che sentivo profondamente mia e di cui sicuramente avrei sentito una dolorosa nostalgia. Soprattutto, avrei sentito la mancanza di Nicola. Una volta ci eravamo promessi che non ci saremmo mai lasciati, ma il flusso impetuoso degli eventi ci aveva travolti. Eravamo ancora abbastanza giovani per dare una svolta alla nostra vita, ma già pericolosamente troppo vecchi per rimandare ancora. Sentivo che per me quella era l'ultima spiaggia. O adesso o mai più. Nicola aveva ragione, ma anch'io.

Così ci eravamo salutati tra i calcinacci e la polvere, su quel pavimento che s'indovinava appena, fatto di maioliche azzurre e senape, uno dei caratteri distintivi delle nostre vecchie case. Ci eravamo salutati senza promesse, come quando si è sul punto di dirsi arrivederci, ma si tace, perché non si sa se è vero.

 

Non erano stati facili i primi tempi, anche se avevo avuto un alloggio assicurato grazie all'ospitalità paziente e generosa di una cugina. Ero diviso tra la ricerca frettolosa di un piccolo appartamento in affitto e la necessità di orientarmi nel lavoro, in quella città immensa che da una parte mi sorrideva, accogliente, dall'altra mi spaventava per la sua diversità; tutte queste cose e altre ancora riuscivano a distrarmi dal pensiero di Nicola, ma solo di giorno. Quando andavo a dormire mi rigiravo nel letto pensando a lui. La nostra storia era stata come una vacanza felice in mezzo al nulla. La vita non ci voleva regalare niente di buono? Pazienza, io avevo lui e lui aveva me. E questo ci bastava. Quando era stato che mi ero messo in testa di cambiare lo stato delle cose? Perché? A quale prezzo? Avevo barattato la nostra felicità insieme con qualcosa che aveva lo stesso valore? Avrei guadagnato poco e i soldi che avevo portato con me sarebbero finiti presto. Gli affitti erano cari. Infine mi ero risolto a dividere l'appartamento con due universitari, in viale Regina Elena. In quei primi tempi, anche arrivare sul posto di lavoro rafforzava la mia sensazione di smarrimento. Raggiungevo a piedi la metro e dopo dieci fermate, complicate da un cambio, c'era ad attendermi una bella camminata di venti minuti in mezzo a un parco. Solo dopo qualche tempo, quando mi ero ormai ambientato, mi ero reso conto che in quel parco non c'era solo l'azienda imbottigliatrice per cui lavoravo. Seminascosti dagli alberi e dai cespugli c'erano un bar, una pizzeria, una discoteca. E poi, oltre alle panchine, c'erano spazi attrezzati per i pic-nic, altri per i giochi dei bambini e addirittura aree riservate ai cani. Il tutto in mezzo alla città. Ma quanto Roma fosse grande davvero, l'avrei capito solo in seguito.

Nicola non possedeva un cellulare. Per parlare con lui dovevo fissargli un appuntamento grazie all'amico Paolo, che ci permetteva di comunicare con il suo. Ma non era questo a disturbarmi, quanto che Nicola a volte non si presentava in tempo. E quando riprovavo più tardi, lui magari se n'era già andato. Paolo mi comunicava le sue scuse, ma io ci restavo male lo stesso. Altre volte, passata l'ora dell'appuntamento, io dovevo tornare al lavoro e anche se Paolo lo invitava a richiamarmi, io ero tanto impegnato da non potergli rispondere. Un'infinita successione di ritardi e disguidi ci portò a diradare le chiamate e piano piano, senza quasi accorgermene, le rare volte che ci sentivamo, non sapevo più con chi stessi parlando. È dunque così facile perdersi? Nicola non era mai stato molto loquace, ma il telefono lo rendeva addirittura muto. Diceva che aveva difficoltà a rapportarsi con qualcuno che non poteva guardare negli occhi. Ma non avrei dovuto stupirmi, sapevo che la sua comprensione passava attraverso lo sguardo. Mi ero reso conto, frequentandolo, che per lui avevano più valore l'espressione del viso o i movimenti del suo interlocutore, piuttosto che le parole pronunciate. Mi diceva: quello è un bugiardo, oppure, quello si vergogna, quello si sente così, quello si sente cosà. E anche se io non capivo come ci fosse arrivato, col tempo si scopriva che aveva ragione. Ecco, con me non poteva più farlo. Non poteva capire se gli raccontavo la verità o se gli nascondevo qualcosa, se davvero stavo bene o se preferivo tacergli le mie angosce. Il filo che ci legava si era spezzato, o quello che credevo fosse un filo.

Nella pausa mensa, andavo a mangiare un panino al bar del parco. Un po' alla volta, Adriano, il gestore del bar, mi prese in simpatia e decise che non potevo vivere di panini, tramezzini e pizzette. Così un giorno mi invitò a mangiare con lui, che si preparava il pranzo nel retrobottega, ma poi mangiava in piedi, dietro il bancone, continuando a servire i clienti. Per ricambiare la sua gentilezza, iniziai a sostituirlo, per lasciare che potesse pranzare seduto comodamente e con tutta la calma possibile. Imparai subito a distribuire panini e bibite. Di bibite ero diventato esperto in azienda, dove s'imbottigliava di tutto, non solo la buona acqua della fonte, confezionata in sette varianti diverse. Mi domandavo perché ci fosse bisogno di tutte quelle confezioni, se poi contenevano la stessa acqua, che fosse effervescente, gassata o liscia. Probabilmente era il caso in cui l'abito fa il monaco. Comunque mi erano venute le vesciche a furia di maneggiare bottiglie a rendere, che dovevano essere rese riutilizzabili. Ma di quello che facevo non avevo mai parlato con Adriano, solo che gli avevo chiesto di indossare i guanti di

lattice, che portavo sempre con me.

– Sembri un chirurgo, ma i clienti apprezzano. Toccherà metterli anche a me, se continua così.

– È tutta scena.

– Ma che, lavori alla fabbrica dell'acqua?

– Sì. Da che cosa l'hai capito?

– Signora, quale chinotto preferisce? In pet o in vetro?

Mi aveva rifatto il verso con un sorriso simpatico. Aveva un modo tutto particolare di prendermi in giro.

In pet o in vetro lo può dire solo uno che ci lavora dentro.

La nostra collaborazione iniziò così. Un giorno mi disse che fino a pochi mesi prima erano in due a dividersi la giornata, ma quando il suo socio l'aveva mollato per andarsi ad aprire un locale tutto suo alle Canarie, gli era toccato mantenere la baracca da solo, anche perché quella sanguisuga del suo ex-socio gli aveva prosciugato il conto e lui non se la sentiva di assumere un collaboratore fisso. Non ancora. Ma poi ero arrivato io.

Di punto in bianco mi ritrovai a gestire due lavori e due stipendi. La prima conseguenza fu che mi affittai un appartamento per conto mio, grazie a una spiata di Adriano che aveva visto un inquilino del suo palazzo traslocare. Fui fortunato, perché il proprietario era deciso ad affittarlo di nuovo e aveva già il cartello pronto da appendere al portone. Ma quel cartello gli restò nel cassetto, mentre io andai a occupare un appartamento del secondo piano. Al terzo ci abitava Adriano.

 

La casa di Nicola è sempre più vicina. Comincio a notare i cambiamenti: il muro a secco ben allineato, il cancello in ferro battuto, tutto arzigogoli dalle linee art nouveau, le palme nane, il sentiero in ciottoli colorati che conducono dal cancello alla porta di casa. Adesso la porta è dipinta di azzurro.

L'azzurro è sempre stato il colore preferito di Nicola. Nei giorni più limpidi, guardava l'azzurro del cielo e diceva: – Questo sì che è un colore. Tutti gli altri sono suoi schiavi.

A me invece è sempre piaciuto il giallo, il colore del sole, il colore della frutta matura, gli arancioni del melone, delle arance mature, della zucca e del miele, le sfumature che arrivano al rosso del cocomero. Quanti cocomeri a Roma, d'estate! Cocomeri lungo le strade assolate, agli angoli delle piazze, vicino alle fontane. Di fontane non ne avevo mai viste così tante. E l'acqua era buona dappertutto. Ma quella che preferivo era l'acqua marcia - si chiama proprio così –. C'era una fontana sulla Nomentana dove andavo apposta per attaccarmi alla cannella e farmi una bella bevuta. Era alla fermata degli autobus. Bevevo, mi riempivo la pancia e poi salivo su un altro autobus per tornare a casa. Facevo di queste cose, quando non avevo nessun impegno, ma capitava di rado. Ero sempre impegnato al bar. Quello stava diventando il mio lavoro prioritario. Ci restavo anche la sera, perché d'estate il flusso della gente non s'interrompeva mai, soprattutto nel fine settimana, quando era aperta anche la discoteca. Adriano però decise che era ora di prendersi un giorno di riposo. Era il ferragosto di quel mio primo anno a Roma. Non solo era la mia prima vacanza, ma anche la prima volta che me ne andavo in giro con Adriano. Peccato che non si potesse dire proprio una bella giornata. L'afa tremenda dei giorni precedenti si era accumulata in nuvole nere che incombevano minacciose sulla città. Ogni tanto, in lontananza, si sentiva un brontolio di tuono. Eravamo nel bel mezzo di via del Corso, quando si scatenò il diluvio. Facemmo appena in tempo a rifugiarci in un bar. Era enorme, tutto acciaio inossidabile e vetrine, asettico, per nulla accogliente. E anche i camerieri erano antipatici e indisponenti. A un tratto ci guardammo negli occhi e cominciammo a ridere come due deficienti. Il locale si era riempito in un attimo di gente in fuga dall'acquazzone e adesso ci guardavano con espressioni sdegnate o divertite. Anche per questo non riuscivamo a smettere.

– Ti va di farti una doccia?

– Puzzo così tanto?

Lui mi afferrò per un braccio e continuando a ridere mi trascinò fuori. Non avevo mai considerato quanto fosse bello e liberatorio passeggiare sotto la pioggia senza ombrello, fregandomene altamente di bagnarmi. Nessuno dei due si buscò il raffreddore.

 

 Fu una giornata davvero divertente. Stare con Adriano mi piaceva. Dal momento che non mi giudicava, mi permetteva di sentirmi libero di essere me stesso: anche nei momenti in cui mi sentivo stupido, immaturo, imbranato, lo ero con naturalezza. Se mi prendeva in giro, lo faceva con affetto, mai con cattiveria o con l'intenzione di correggermi. Proprio come fa un vero amico. Ma l'amicizia pretende anche i tempi giusti di distacco. Perché mi dispiaceva quando vedevo Adriano andare via, alla fine del suo turno? Perché passavo il mio tempo libero al bar del parco, invece di andarmene in giro a scoprire quella città meravigliosa? Perché cercavo ogni scusa per stare con lui? Non bisognava essere dei geni per capirlo, eppure per molto tempo io rifiutai di darmi una risposta, che poi era la più semplice del mondo: mi piaceva stare con lui, perché mi ero innamorato.

E Nicola in tutto questo? Nicola era un dolce ricordo della mia vita passata, una nostalgia con nome, cognome e indirizzo. E anche un senso di colpa. Non ci eravamo detti arrivederci, ma io gli stavo dicendo addio nella mente e nel cuore.

Un giorno, parlando al telefono con Nicola, nominai talmente tante volte Adriano, che lui mi chiese a bruciapelo:

– Adriano è il tuo compagno, vero?

– No, che cosa te lo fa pensare?

– Se non stai con lui, ci possono essere solo due motivi: o è un etero convinto, o tu sei un idiota.

Mi incazzai parecchio, ma da quel giorno cercai di fare il punto della situazione cercando di essere più onesto con me stesso. Non potevo negarlo, qualcosa c'era, tra noi, come una specie di corrente, piccole onde che increspavano la superficie dell'immagine piatta che volevamo darci. La nostra amicizia, nata spontaneamente, aveva assunto subito contorni di confidenza, di collaborazione, di affetto vero. Ma è quanto mai difficile dire cosa nasconda l'affetto. Nel mio caso comprendevo finalmente che la spinta era un'attrazione fisica molto decisa. Di ciò che lui provava per me non potevo immaginare nulla, solo indovinare. Se fossi stato più attento alle sfumature, mi sarei reso conto che quando Adriano mi sfiorava una mano mentre lavoravamo insieme, ciò non avveniva per caso. Avrei riconosciuto i suoi sguardi più lunghi del necessario, avrei compreso meglio i suoi sorrisi che avrebbero fuso un ghiacciolo. Mi ripromisi di superare l'ostacolo della mia falsa indifferenza a quegli sguardi e a quei sorrisi, ma lui fu più veloce di me. Fu infatti poco dopo che Adriano mi accolse mettendo un cd nel suo impianto e chiedendomi di ascoltare quella canzone di Lucio Dalla. Stavo per parlare, ma lui appoggiò l'indice al naso per invitarmi al silenzio. Mi chiese con lo sguardo di ascoltarlo attentamente. Era "Chissà se lo sai." In quel momento le strofe dicevano: "Poi la notte col suo silenzio regolare, quel silenzio che a volte sembra la morte, mi dà il coraggio di parlare e di dirti tranquillamente, di dirtelo finalmente, che ti amo e che di amarti non smetterò mai. Così adesso lo sai, così adesso lo sai...".

Nicola aveva sempre ragione. A volte prima che le cose accadessero.

C'era il silenzio intorno, il buio sembrava risucchiare le luci dell'insegna. Il bar somigliava a un'oasi naufragata in mezzo al nulla dell'universo, sotto stelle che s'affacciavano da un manto di pece. Soli al mondo, per quella frazione di notte, io e Adriano cademmo l'uno tra le braccia dell'altro, mentre Lucio Dalla si domandava se ci sarebbero voluti mille anni.

Pur non avendo avuto il coraggio di parlargliene, Nicola arrivò ugualmente alle sue conclusioni. Smettemmo di sentirci per un po', ma poi mi sembrò del tutto assurdo interrompere il rapporto che avevo con lui. Mi sentivo menomato. Nicola non era stato solo un amico, un compagno, un confidente, era ancora e per sempre una parte di me, ancorché lontana. Ma parlare delle distanze, come diceva la canzone di Lucio Dalla, serviva solo a coprire la verità. Avevamo ancora paura della verità, di scoprirci troppo, di mostrare i nervi a nudo, le parti molli della nostra anima, quella più esposta ai colpi, quella in grado di farci soffrire. Ricominciammo a sentirci, ogni tanto, come amici che mantengono un minimo sindacale di contatto, anche senza l'ossessione di possedere sempre il mirino puntato sulle coordinate. In realtà, per anni, le mie informazioni su di lui furono vaghe e approssimative. Accettavo le notizie che voleva comunicarmi, senza tentare di approfondirle. Non gli chiesi mai se aveva qualcun altro. E lui non mi chiese mai più se mi ero messo con Adriano. Né io glielo dissi. Ogni tanto mi domandava se avrei mai fatto una vacanza per tornare in paese, almeno per rivedere i miei. E io glissavo.

La storia tra me e Adriano cominciò con quella canzone di Lucio Dalla. La comodità di abitare a una rampa di scale di distanza rese tutto più veloce e più facile. Non sapevo ancora che più facile non è sinonimo di duraturo. Non ci pensavo.

Per due anni continuammo a vivere ciascuno nel proprio appartamento, finché mi sembrò giunto il momento di risparmiare almeno su un affitto, visto che dormivamo sempre insieme. Ma Adriano rifiutò categoricamente.

Dopo quattro anni mi venne una terribile nostalgia del mio mare e del mio paese. Dei miei genitori no, perché venivano a Roma almeno due volte l'anno. Chiesi a Adriano se se la sentiva di gestire il bar da solo per un paio di settimane. Era l'inizio di giugno e cominciavano i primi caldi. Adriano fece un sacco di storie, ma poi mi concesse dieci giorni. Io non cercai di contrattare. Per me erano sufficienti. Bramavo solo di rimettere piede sul suolo natio, di riempirmi il naso degli odori inebrianti della mia terra e di inondare gli occhi dei suoi colori senza mezze misure. Ma quando rividi Nicola compresi che quella malattia nostalgica che mi aveva colpito riguardava soprattutto lui. Nicola era sempre lo stesso. Si era messo a coltivare un orto per sopravvivere e aveva l'idea di impiantare una coltivazione di fichi d'india. Il mercato cominciava a richiederli e lui ne era circondato. Inoltre si era imbarcato sulla paranza di Salvo, un suo cugino che aveva una decina d'anni più di noi e che era in mare dall'età di otto anni. Aveva la faccia color cuoio e le rughe scavavano profonde trincee sul suo viso imperturbabile. Mi salutò con una stretta di mano molle e fredda come un merluzzo di tre giorni, senza neppure chiedermi come stavo e come me la passavo. Me lo chiese invece Nicola, prima di saltare sul peschereccio che stava per salpare. Non lo rividi più. Compresi subito che quel viaggio era un mezzo disastro.

Ricordo che per la delusione ritornai a Roma con tre giorni d'anticipo. Senza Nicola non c'era motivo di guardare il cielo nero della notte. Le stelle non mi regalavano nessun brivido. Il mare era un ostacolo inutile al mio desiderio di rivedere Nicola. Il paese era esattamente come l'avevo lasciato e la gente parlava delle medesime cose con lo stesso tono. Mi annoiai a morte. Non feci neanche una passeggiata sulla collina per vedere la casa di Nicola, che nel frattempo poteva anche essere crollata. Gli unici contenti furono mia madre e mio padre.

Quel filo che mi teneva attaccato al mio paese si era del tutto sfilacciato. Mi sentivo libero di andarmene. La nostalgia che mi rimaneva era tutta per un passato che non esisteva più. Ne dovevo guarire e basta.

In quel momento ero convinto che il mio futuro fosse già stabilito, che ci camminavo sopra e che non potesse subire scossoni. Ma al mio ritorno, Adriano mi disse che si era stufato del bar, che si sentiva troppo legato, che non aveva mai un po' di tempo per sé e per la sua vita, insomma, che voleva mollarlo e andarsene un po' in giro per il mondo. Tutti i suoi progetti però non avevano mai incluso me. Mi resi conto che per lui non contavo un bel niente.  Ma io non mi sentivo innocente e nemmeno tradito, perché la nostalgia di Nicola mi aveva appena reso lampante che neppure io nutrivo un sentimento esclusivo per Adriano.

Fu così che mi ritrovai di nuovo da solo e con un bar in gestione, che in seguito avrei rilevato.

 

Il cancello è dipinto di fresco, di un bel color melanzana. Il giardino intorno alla casa è pieno di fiori, un limone è carico di frutti maturi; anche un fico ne ha i rami pesanti incurvati verso il terreno. C'è un coniglio grigio e bianco che bruca all'angolo della costruzione. Mi vede, ma non scappa. Le persiane sono chiuse, ma con le stecche parallele al terreno, per far entrare la luce. Nicola ha fatto un gran lavoro. Sono felice per lui. Tiro il cordino di una campanella. Nel silenzio quasi intatto del pomeriggio sembra un'offesa alla quiete. Ma il silenzio non è intatto, appunto, c'è musica che arriva dai vetri aperti delle finestre. La riconosco. È la voce di Battiato: "E ti vengo a cercare...". Una coincidenza che mi fa tremare le gambe.

La serratura del cancello scatta a un comando elettrico che proviene dall'interno. Entro nel giardino, guardandomi intorno in questo piccolo paradiso in cui mi sento un invasore senza diritto.

 

Anche quando mi ritrovai sul groppone la gestione del bar mi sentivo un invasore. Che c'entravo io? Eppure abbandonai l'altro lavoro in tutta fretta e mi impegnai a capofitto su quell'attività, lavorando anche sedici ore di fila. Non era poi così faticoso. Adriano mi telefonava ogni tanto per farmi conoscere i suoi spostamenti, da un continente all'altro. Non aveva nessuna intenzione di tornare. Sentivo qualche volta anche Nicola, con l'impressione di fare un piccolo tuffo in una realtà remota e lontana, quasi un universo parallelo da cui potevo ricevere informazioni ma su cui non avrei più rimesso piede. Eppure non era stato Nicola a cacciarmi via. Ero stato io a cavalcare quel siluro che mi aveva scaraventato lontano.

 

Il portone azzurro si apre, con un lampo di luce che riflette per un attimo i raggi del sole. Sull'uscio appare Nicola, con espressione interrogativa. Poi il suo sguardo mostra comprensione, il suo sorriso si apre sul volto sorpreso.

– Lucio! Che bella sorpresa! Vieni, vieni, entra.

L'ombra fresca e buia mi accoglie dopo tanto calore e tanta luce accecante. Per un attimo mi smarrisce. Nicola mi accompagna a sedere su una poltrona di vimini e subito dopo mi mette sotto il naso un gran bicchiere d'acqua fresca. Sa di limone. Mi tratta come un convalescente, poi mi sorride e mi chiede se mi sento meglio.

– Sì, adesso sto bene.

– Che ti è venuto in mente di salire a quest'ora, senza nemmeno un cappello? Sei matto?

– Forse. Un poco. Avevo fretta di rivederti.

– Tu cose del genere non le dici mai. Che è successo?

– Niente. Avevo nostalgia.

– Del tuo paese?

– E di te.

Nicola scuote la testa.

– Dopo tutti questi anni, ti presenti così all'improvviso...

Un rumore di porte che si aprono e chiudono. Una giovane voce tenorile dal fondo della casa.

– Nicola, chi è?

– Un amico. Un vecchio amico.

C'è qualcuno con lui. Certo. Perché no? Non dovevo forse metterlo in conto? Anche con i capelli ormai brizzolati e le rughe leggere intorno agli occhi, Nicola rimane sempre un bell'uomo. I suoi movimenti sono ancora precisi e decisi, dimostrando che l'energia dei trent'anni non gli è venuta meno. I suoi occhi posseggono sempre la stessa intensità, pur attraverso i cristalli di un occhiale. La serenità che gli si legge in viso è la stessa che mi provoca quest'ambiente, semplice, colorato, illuminato da una luce attenuata. Vedo di nuovo il coniglio grigio e bianco.

– Ti sei messo ad allevare conigli?

– No, lui è un ospite. Ha deciso di venirmi a rovinare l'orto. Così io ho pensato di dargli da mangiare, per salvare il salvabile. Quella peste non conosce barriere. Preferisco tenerlo d'occhio.

– Tuo nonno se lo sarebbe già mangiato.

– Io non mangio conigli, e nemmeno polli, quindi con me sta tranquillo.

Mi guardo intorno ancora una volta.

– Hai fatto un gran lavoro in questa casa. Complimenti.

Ci è voluto qualche anno, ma ci sono riuscito. Non ho fatto tutto da solo, comunque.

– Sì, capisco – mi affretto a commentare. Non voglio sapere chi l'ha aiutato. Avrei dovuto essere io.

– Quanto ti trattieni?

Sembra quasi aver fretta di congedarmi, o è una mia stupida impressione?

– Non parto più. Questa volta sono venuto per restare. Ho venduto il bar. Vorrei aprire un'attività qui.

– Allora ci potremo vedere spesso. Chi l'avrebbe mai detto!

Nicola ride. Ha ancora quella risata che mi riempie il cuore.

Alle mie spalle la voce tenorile si è fatta vicinissima.

– Zio, devo ricordarti che il medico ha detto di non alzarti dal letto per più di un quarto d'ora alla volta?

Mi giro a guardare il nuovo arrivato. È un ragazzone di una ventina d'anni con un ciuffo da moicano in cima al cranio e una costellazione di orecchini tutti in fila su un unico orecchio. All'improvviso mi fa sentire un matusalemme. Devo averlo conosciuto da bambino, perché la sua faccia non mi è nuova. Ha un'aria di famiglia.

– Che ti è successo? Stai male?

– No, no. Ho avuto un piccolo infarto. Il mio medico esagera. Dice che devo stare a riposo per un mese. Ma quello è matto.

Guardo il giovane che ha incrociato le braccia, sfoggiando uno sguardo truce e un'espressione contrariata.

– Vai, Nicola. Non voglio che ti stanchi.

– Resta qui. Abbiamo un sacco di cose da raccontarci. C'è una poltrona anche in camera da letto.

– Andiamo, zio – insiste il giovane.

– Ti pago per farmi da maggiordomo, non da infermiere – dice Nicola, mentre si alza per seguirlo ubbidientemente, nonostante tutto.

– Tu non mi paghi per niente e vorrei sapere chi me lo fa fare di stare dietro ai tuoi capricci. Devi ringraziare che ho da studiare e che qui posso farlo meglio che a casa.

– Questo è mio nipote, sangue del mio sangue, e perché sta qui? Per aiutare suo zio moribondo? No. Per studiare. Perché a casa di mia sorella ci sono altri quattro vandali peggio di lui che fanno un casino del diavolo tutto il giorno.

La mia risata contagia anche loro e Sebastiano ammette che si è offerto di venire da lui anche per questo.

– Però io ti voglio bene, zio. È per questo che non ho permesso a mamma di accudirti. Sennò ti saresti ritrovato in mezzo ai vandali per davvero.

– Certo, meglio uno solo.

La camera da letto sembra quella di un monaco. Spoglia come la cella di un convento. Però c'è una poltroncina di fianco al letto.

– Zio, io torno a studiare. Non fare scemenze e non ti stancare.

A me nessuna raccomandazione. Gli piace mantenere le distanze.

 

Quella di mantenere le distanze è sempre stata una prerogativa della sua famiglia. Anche Nicola non era da meno. Prima che diventassimo amici ci erano voluti mesi interi, anche se avevamo preso a frequentarci tutti i giorni. Il paese è piccolo e ci s'incontra tutti. A quei tempi, luogo d'incontro dei giovani come noi era la piazzetta dietro il porto, sulla scalinata che conduce alla torre vecchia. Ci passavamo ore e ore, anche senza fare niente. Parlavamo, bevevamo qualche birra, fumavamo. Facevamo sogni per il futuro, sogni grandi, giganteschi, in cui tutti prima o poi diventavamo ricchi come emiri arabi e famosi come Michael Jackson. Poi un pomeriggio come un altro, che Nicola era seduto accanto a me, mi venne in mente di chiedergli se gli andava di fare un giro in campagna, che a me, a dire il vero, neppure piaceva. Non so cosa avessi nella testa. Io stavo bene solo vicino all'acqua e non mi allontanavo mai troppo dal mare. Lui mi rispose che giusto doveva andare a trovare suo nonno e se mi faceva piacere potevo accompagnarlo. Fu la prima volta che salimmo insieme la collina e che vidi questa casa, allora piuttosto malandata. Eravamo in primavera, una di quelle che arrivano tardi, dopo un inverno di piogge abbondanti. C'era un'esplosione di fiori di tutti i colori e un profumo che ti entrava fin dentro il cervello. Nicola mi raccontò qualcosa della sua famiglia. Era la prima volta che pronunciava più di due parole in fila e io ne fui felice. Il sentiero era delimitato da muretti a secco, in qualche punto pericolanti, in altri già crollati. E mi sembrarono emblematici di quello che stavo vivendo: Nicola faceva cadere i suoi muri e questo voleva dire che eravamo diventati amici. A dire il vero, non so se lo pensai proprio in quei momenti, ma so che a un certo punto lo pensai. E quando mi presentò a suo nonno, dicendogli: ­– Questo è il mio amico Lucio­ – provai un brivido di intenso piacere.

 

– Che piacere riaverti qui, Lucio. Non me l'aspettavo proprio. Che cosa ti ha convinto a tornare?

Nicola si sistema il cuscino per stare più comodo e mi fissa intensamente. È del tutto inutile raccontargli balle quando ti guarda così, lo so.

– Mi sentivo fuori posto. Che ti devo dire? Non ho mai smesso di provare nostalgia per questo paese.

– Davvero?

Nicola sorride. Non posso credere che ci sia cascato.

– E infatti in quindici anni sei tornato qui quante volte? Fammi contare. Una? I Filace sono emigrati in Australia e ogni due anni vengono in vacanza qui. Tu, da Roma, macerato dalla nostalgia, in quindici anni una volta. Una, Lucio. Com'è sta storia?

– Perché vuoi sempre giungere al nocciolo senza darti il tempo di assaporare la polpa? Volevo girarci intorno, tastare un po' il terreno, volevo prepararti un poco alla volta alla grande rivelazione che sto per farti, anche per non fare la figura del demente coglione da subito...

– E piantala e abbracciami, stronzo.

 

Pensavo che il filo che ci legava si fosse spezzato. Non sapevo che fosse un elastico. E si sa che cosa succede agli elastici quando si tendono. Negli ultimi due anni avevo ricominciato a telefonare più spesso. Nicola aveva finalmente un cellulare e potevo chiamarlo quando volevo. Anche lui mi chiamava, di solito nel cuore della notte, perché lui fa così. Soffre d'insonnia, ma non se ne rende conto. Se è sveglio, per lui anche il resto del mondo dev'essere sveglio. Ma a me non dispiaceva. Erano le telefonate più belle: nessuno che mi veniva a interrompere.

Quello che mi piaceva era che Nicola mi parlava davvero. Non si limitava più solo ai monosillabi in risposta alle mie domande, ma si lanciava in veri monologhi. Pian piano era tornata la confidenza, e quella si era portata dietro la nostalgia. L'avrei voluto guardare negli occhi, l'avrei voluto abbracciare, avrei voluto sentire il calore del suo corpo, il suo odore. Di nuovo. Come tornare a casa. In un batter d'occhio seppelliva nel dimenticatoio tutte le storie stupide che avevo vissuto con uomini senza importanza. Già da tempo mi ero stufato di cercare quello giusto, forse perché ero cosciente dell'assurdità di una simile ricerca. Io quello giusto l'avevo trovato, ma me l'ero lasciato alle spalle, l'avevo abbandonato per andare a Roma. In realtà, ufficialmente, non ci eravamo mai lasciati. Non ci eravamo mai detti addio e neppure arrivederci. Erano saluti che non avevamo mai usato e non credo che fosse un caso. Avevamo lasciato una porta aperta per poter tornare indietro. E questo pensiero era cresciuto e si era rafforzato tanto che non mi aveva lasciato scelta. Dovevo solo riattraversare quella porta.

 

– Lo sapevo che saresti tornato, ma ci hai messo molto più tempo di quanto avessi immaginato.

Nicola mi stringe forte. Ritrovo le impressioni di un tempo. Ritrovo il suo calore. Mi stacco a malincuore. Non so se certe emozioni possano essere dannose nel suo stato.

– E questo infarto? Come mai, con la vita tranquilla che fai?

– Il cuore è uno strano muscolo. Non lo puoi comandare. Fa quello che vuole. Certe volte, se si nutre di troppa solitudine, si rompe.

– Non potevi venire a Roma?

– Già, avrei dovuto mollare tutto e venire da te.

– Ma adesso è inutile rivangare il passato. Hai sempre detto che la vita è davanti a noi, mai dietro. E hai ragione. Non siamo gamberi.

– No, ma siamo come quel coniglio. Ci spostiamo sempre dove c'è da mangiare. Meglio se con poca fatica. Io qui ho fatto una vita da cani. Avrei dovuto arrendermi, ammettere di avere sbagliato e tentare la fortuna altrove.

– Ma per arrenderti avresti dovuto calpestare un po' del tuo orgoglio e un po' della paura di cambiare. Tu ce l'hai sempre avuta.

– Lo so. Per questo mi piace aggiustare le cose. Non mi piace buttarle per comprarne di nuove. Il nuovo è senz'anima.

– Io sono una vecchia cosa poco usata. Vado bene per te?

Nicola mi guarda con occhio clinico, poi sorride.

– Ci sarebbe da apportare qualche piccolo ritocco.

– Io ti ho sempre amato, Nicola.

Nicola resta in silenzio per qualche istante di troppo. Mi sento gelare.

– Ci sono anche cose che quando le aggiusti non sono più esattamente come prima.

– Correrò il rischio.

– E ci sono cose che è proprio impossibile aggiustare.

Non riesco ad arrendermi.

– Siamo ancora amici, no?

– Vecchi amici, di quando essere amici era facile e istintivo, perché eravamo ingenui, e ancora non conoscevamo la sofferenza. Amici possiamo esserlo ancora, certo, in nome di tutte quelle cazzate che abbiamo combinato insieme per anni.

– Allora, amici.

Posso convincerlo ancora. Posso fare un passo alla volta. Nicola non è pronto a ricominciare da dove avevamo interrotto, ma con il tempo si convincerà. Devo solo avere pazienza e costanza. 

In effetti sono altre le cose che non si possono riparare, ma è un pensiero che ci sfiora appena e che ricacciamo indietro come un intruso rompiscatole non appena si affaccia. Solo quando poi succede veramente d'inciampare in quelle cose, ci sentiamo raggiunti dal destino. Abbiamo appuntamenti che non possiamo rimandare con una scusa, né con i nostri trucchi da saltimbanchi ipnotizzati.

Sebastiano è in giardino, quando me ne vado. Mi afferra per un braccio e mi dice, duro in volto: – Lo zio ha bisogno di un trapianto entro sei mesi, sennò ce lo giochiamo. Il mese prossimo lo portiamo a Milano. Speriamo di riuscire a farlo ricoverare in un ospedale specializzato.

Io rimango di sasso.

– E lui lo sa?

– Sì che lo sa, ma continua a minimizzare. Dice che si sente benissimo.

– Potrebbe essere vero.

– Questo non cambia le cose. Il medico ha detto di non stressarlo, quindi il nostro compito è di lasciarlo tranquillo.

– Mi rendo conto. Farò il possibile.

– Sarebbe meglio che tu non facessi proprio niente. Nemmeno venire a trovarlo.

– Questo lo lasciamo decidere a tuo zio, se non ti dispiace.

– Lo dirò a mia madre – detto col tono di una minaccia. E conoscendola, potrei anche intimorirmi. Ma prima devo tornare un attimo da Nicola.

 

La decisione spetta a lui, è vero, ma quando mi mette al cospetto del suo desiderio di non fare un bel niente per curarsi, provo la sensazione di essere stato preso a schiaffi.

Penso che voglia vendicarsi, che voglia punirmi con la consapevolezza che ormai è troppo tardi. Mi lascio sommergere dal senso di colpa, dall'assurda convinzione che se fossi ritornato prima, lui non si sarebbe ammalato.

 

Sebastiano viene a chiamarmi a casa. Mi dice che sua madre mi vuole parlare. Da quando sono tornato non l'ho ancora vista. Caterina era l'unica che sapeva di me e suo fratello e decisamente non approvava. Non sono sicuro che abbia cambiato idea. È più probabile che mi chieda di tornarmene da dove sono venuto. Benché questo incontro mi agiti, decido di andarci subito. Arrivo in un momento delicato. I ragazzi stanno andando in spiaggia e vengo lasciato a me stesso in un angolo, dopo un saluto caloroso ma veloce. Una tromba d'aria volteggia nella casa tra grida, richiami, asciugamani che vanno e vengono, borse, pinne, maschere lanciate dall'uno all'altro e infine persino biciclette che passano dal cortile alla strada. Caterina è molto cambiata. Saranno state le gravidanze. Se da ragazza aveva un carattere forte e il piglio di un bersagliere, adesso sembra un generale. Dirige con polso di ferro quella banda di pirati che ha messo al mondo, ma loro, a quanto pare, trovano sempre il modo di combinarne di tutti i colori. Mi commuovo davanti alla sua lotta impari. È evidente che ormai i suoi figli sono troppo grandi per poterli contenere.

Nel momento di pace assoluta che segue l'esodo dei ragazzi, Caterina mi fa sedere sotto il pergolato, offrendomi una limonata.

– Grazie di essere venuto. Ti volevo parlare.

Il generale lascia il posto a una donna malinconica e preoccupata.

Dimmi, Caterina.

– Intanto, volevo dirti che sono contenta che ti sei deciso a tornare. Solo tu lo puoi convincere. A me Nicola non mi sta più a sentire. È più cocciuto di un mulo. Di te magari ha soggezione. Lo sai di cosa parlo, vero?

– Sì. E ci ho già provato.

– Una volta? Una volta è troppo poco. Devi insistere. Uno non si può mettere in testa che a cinquant'anni è vecchio. Lui si sente vecchio, capisci? Gli ha preso questa fisima che ormai se ne può anche andare, tanto la sua vita è inutile. Ma il tuo ritorno cambia tutto. Tu ancora gli vuoi bene, vero?

– Certo che gli voglio bene. Caterina, sono tornato solo per lui.

– E tu diglielo. Diglielo! E poi convincilo a farsi curare.

– Non ti credere che io mi sia già arreso. Era mia intenzione tornare alla carica. Se tu sei d'accordo, vado a trovarlo già oggi.

– Grazie che mi dai tutta questa importanza, ma non sono io che posso decidere di quello che devi fare tu o di quello che deve fare Nicola. La situazione ormai la conosci. Regolati come ti sembra più giusto. A me basta sapere che tu gli vuoi ancora bene. Questo vuol dire che sbaglierai di meno.

– Ma sbaglierò comunque, giusto?

– Mi sono espressa male.

La mia risata la contagia subito.

– Lucio, menomale che adesso ci sei tu. Vai, vai a trovarlo. Anzi, trasferisciti un poco da lui, così magari si convince meglio.

Si alza e riprende fiato con un gran sospiro.

– E mettiti un cappello che qua il sole cuoce.

 

Cocciuto come un mulo. Sì, Nicola è sempre stato così. Quando si convinceva di una cosa, non c'era verso di fargli cambiare idea, nemmeno messo davanti all'evidenza. Quando avevo ormai rilevato il bar del parco, gli avevo chiesto di venire a lavorare con me. Gli dicevo che a Roma si stava bene, che era una città meravigliosa, che ci si sarebbe trovato, perché c'era il mare a portata di mano. Ma non c'era stato niente da fare.

– La nostra terra ha bisogno di noi. Se l'abbandoniamo tutti, morirà.

– La terra c'è sempre stata e sempre ci sarà, con noi o senza di noi. Fatti la valigia e vieni qui.

– Lo sai che non posso. Non me lo chiedere più.

Al decimo o al quindicesimo tentativo, avevo rinunciato. Nicola odiava i cambiamenti, già da ragazzo. Con l'età questo sentimento si era radicato in lui in maniera irreversibile. E io avevo comunque assunto un dipendente che mi desse una mano al bar.

 

Nicola sembra il ritratto della salute. Se non lo affermassero i medici, non si crederebbe che ha un cuore con la data di scadenza. Sarà l'abbronzatura, sarà la sua voce che non ha subito modificazioni, sarà la sua espressione tranquilla e rilassata. Non mi viene per nulla spontaneo chiedergli come sta. E quindi non glielo chiedo, anche se forse dovrei. Dal momento che gli voglio bene, sbaglierò di meno? A questo punto mi sorge il sospetto che sbaglierò comunque.

– Che ti sei portato?

Poso il borsone in terra e mi asciugo il sudore.

– Mi trasferirei da te per qualche giorno, se non ti dispiace. Non ce la faccio a salire e scendere tutti i giorni con questo caldo.

– Bella scusa. Complimenti.

– Mi ospiti o no?

– Certo che ti ospito. Fai come se fossi a casa tua e che io non ci sia.

– In che senso?

– Nel senso che io me ne resto a letto, quindi se vuoi mangiare ti cucini, se vuoi un caffè, te lo fai, se vuoi un letto te lo prepari. E se vedi che l'orto è secco, me lo innaffi.

– Sono qui per questo. Non l'hai capito? Dov'è il coniglio?

– Non lo so. Anzi, prima che faccia danni, cercalo e dagli da mangiare.

– Agli ordini.

Nicola mi richiama quando sto per varcare la porta.

– Hai visto mia sorella?

– Sì, perché?

– Se ti ha chiesto di convincermi a farmi il trapianto, scordatelo. Io ho già deciso.

– Lo so, me l'hai già detto.

 

Stargli sempre intorno per una settimana non ha modificato nulla. Da tre giorni ho spostato un letto accanto al suo. Dormiamo vicini. Anzi, lui dorme, io no. Forse non era vero che soffriva d'insonnia. O forse se n'è disfatto trasferendola a me. Passo le prime ore della notte a seguire il suo respiro, a osservare il suo profilo o la sua schiena in controluce al chiarore della luna piena. Poi fa giorno subito. Mi sembra di dormire due ore a notte. Il risultato è che quello malato sembro io, come ha sottolineato Sebastiano questa mattina a colazione.

– Stai ottenendo qualche risultato?

– No.

– È normale. Se non ha mai dato retta a nessuno di noi della famiglia, figurati se poteva convincersi per le parole di un vecchio amico.

Sono tentato di ribattere, ma me ne pento subito, anche se vecchio amico non è la definizione più esatta. Ma non ho voglia di raccontare i fatti nostri a questo sbarbato con la testa da moicano.

– Allora te ne vai?

– No, non me ne vado. Hai fretta di vedermi sparire?

– Figurati, che vuoi che me ne importi. Dico per te. Non hai niente di meglio da fare nella vita?

Adesso capisco perché Caterina è così allenata a distribuire sberle.

– Non penso che siano affari tuoi.

– Giusto. Allora io vado a studiare.

– Ecco, bravo, vai. Alle tazze ci penso io.

Invece preparo la colazione a Nicola e gliela porto su un vassoio. Lo sveglio con delicatezza.

Lui si stira, apre gli occhi, mi vede e sorride.

– Dunque non sei frutto di un sogno.

– No, Nicola. Sono qui. Con te.

Lui si tira su, mentre gli sistemo un altro cuscino dietro la schiena.

– Che lusso! Un infermiere professionista. Ma così mi fai davvero sentire malato.

Gli appoggio il vassoio sulle gambe e lui si butta sulla colazione con appetito. Lo lascio mangiare senza parlare, sedendomi sul mio letto a guardarlo.

– Che intenzioni hai, Lucio?

– Che cosa vuoi sapere?

– Che cosa pensi di fare in futuro?

– Voglio rilevare un bar. Ho fatto qualche proposta, ma per ora solo Diego del bar del porto mi ha detto che ci penserà. So che è intenzionato a mettersi in pensione. Alla sua età io l'avrei già fatto.

– Ma tanto al bar non ci sta quasi mai. Per lo più ci tiene studenti che hanno bisogno di arrotondare.

– Per questo ci spero. Me lo tengo per qualche anno e poi mi metto a riposo pure io. Sarebbe bello che lavorassi con me. Mi piacerebbe.

– Che cosa ti piace davvero di quel lavoro?

– Il fatto che conosci un sacco di gente, ma di sfuggita. Se poi qualcuno si affeziona, ci passa le ore e nascono strane amicizie. È divertente.

– E io che c'entro? Lo sai che amo la solitudine.

– Allora la mia presenza ti pesa?

– No, per te è diverso, lo sai.

– Lo sapevo. Adesso non so più niente.

– Non fare la vittima. Non ti si addice.

– E va bene. Faremo così: io mi prendo il bar e vengo a vivere qui. Così potremo stare un po' insieme tutti i giorni, come facevamo un tempo.

...

– Chi tace acconsente.

Sei libero di fare quello che vuoi. Per me va bene tutto, basta che lasci la stessa libertà anche a me.

– Intendi la libertà di non curarti? Di lasciarti morire senza combattere? Di essere vigliacco fino in fondo?

Nicola s'incazza. Dunque è ancora capace di reagire.

– A me dici vigliacco? Ricordati che sei tu che sei scappato. Il vero vigliacco è chi fugge dalle difficoltà, non chi le affronta.

– Può darsi. Ma adesso sei tu che fuggi. Lasciati fare il trapianto, o almeno lasciati mettere in lista, che poi bisogna vedere se si riesce a trovare un donatore in tempo.

– Ecco, appunto, un donatore. E io dovrei mettermi ad aspettare e sperare che qualcun altro ci lasci le penne per fargli estirpare il cuore? No, Lucio, mi dispiace. Se è arrivata la mia ora io l'accetto. Vuol dire che questo era il tempo che mi è stato assegnato. L'importante è quello che ci ho fatto. E se non ci ho fatto niente di buono, sono cazzi miei. Ognuno si sceglie la sua strada.

– È dura, Nicola. Per me è dura. Sono venuto qui sperando di riprendere la mia strada, di tornare sui binari giusti. Forse ho sbagliato ad andarmene, è vero, ma ho capito che tu eri il compagno della mia vita. Sono tornato per te. E adesso  vedo che a te non te ne importa niente. È dura. Ma un po' me l'aspettavo, c'è giustizia. In fondo è la punizione che mi merito.

– Ma quale giustizia, quale punizione, non fare il bigotto. Mettiti nei miei panni. Ho aspettato una vita che tu tornassi qui. E adesso che finalmente ci sei, io me ne devo andare.

– No, che non devi. Curati! E staremo insieme per sempre.

Ma che frase del cazzo. Staremo insieme per sempre. Nemmeno nella peggiore telenovela di Rete 4 s'è mai sentita una boiata simile.

Nicola scoppia a ridere. E io con lui.

– Ma che Zeus ti fulmini! Ma come parli?

Nelle lacrime che scorrono dai nostri occhi l'eccesso di riso scompare. All'improvviso ce le asciughiamo a vicenda con un milione di baci.

 

La gioia si può trasformare in disperazione nel giro di un secondo. Sono dovuto venire nell'orto per non farmi vedere. Ci ho provato, ma sapevo già ch'era del tutto inutile. Sarà quel che sarà. Poi mi sta succedendo una cosa strana. Comincio a capire le sue ragioni e una parte di me si trova d'accordo e le approva, anche se non è quella che ama Nicola. Quella che ama Nicola vorrebbe avere più tempo a disposizione, ma ha deciso che sfrutterà totalmente tutto quello che gli resta.

Una volta innaffiato l'orto, rientro in casa e lo trovo in soggiorno a fissare la parete.

– Sei pensieroso?

– No, ho fatto un giro per la casa. È venuta bene, vero? Sono contento di non doverla vedere cascare a pezzi di nuovo.

– Non succederà. Ci sarà sempre qualcuno a curarla.

– Mia sorella se la venderà subito, appena l'avrà ereditata. Ha bisogno di soldi.

– Te l'ha detto lei?

– Non c'è bisogno. Lo so. Ma quel timone appeso alla parete voglio che lo prenda tu. L'ho smontato da una barca affondata subito dopo che te ne sei andato. Quando non sapevo cosa decidere, lo osservavo in cerca d'ispirazione. E sai, me la dava davvero, ogni volta più in fretta, ogni volta meglio. Credo che abbia assorbito tutti i miei pensieri. C'è un po' di me in quel timone.

– Grazie. È un regalo bellissimo.

 

Mi ci è voluto del tempo, ma finalmente ho rilevato il bar del porto. Adesso si chiama "Il Timone" e c'è il vecchio timone di legno appeso proprio di fronte all'ingresso. Mi piace qui, dove ho il mare sempre sotto gli occhi. L'unica cosa stonata sono le bitte di un brutto verde vomito. Le sto ridipingendo di un bell'arancione, questa notte, senza chiedere il permesso a nessuno. Mentre spennello, sento nel vento la risata di Nicola. A lui questo restauro sarebbe piaciuto. Ma l'avrebbe fatto meglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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