Il rinnegato e lo schiavo

 

Schiavo9

 

                                                                                              A Monica

 

Amavo Philip come non sapevo che si potesse amare. Era l’aria che respiravo, l’acqua che bevevo, la terra che mi sosteneva, il cibo che mangiavo. Philip era il mondo e il mondo non esisteva senza di lui, non poteva esistere. Avevo vent’anni e sapevo, con assoluta certezza, che avrei amato Philip e solo lui per sempre e che lui avrebbe amato me e solo me per tutta la vita.

Non avevo avuto un’esistenza facile: mio padre era morto quando io avevo appena dodici anni e avevo dovuto interrompere gli studi per guadagnarmi da vivere. Avevo lavorato nella bottega di un fabbro e lì avevo imparato ad apprezzare le armi, perciò avevo scelto di diventare soldato. Ero molto forte e resistente alle fatiche, ma la vita che conducevo era avara di soddisfazioni. Vivevo sotto un cielo perennemente grigio, che spegneva i colori.

Philip fu il sole che squarcia le nuvole e di colpo illumina il mondo. Vivevo per lui e anche se potevamo vederci solo una o due volte la settimana, sapevo che lui viveva per me. La sua bellezza incredibile mi apparteneva, mi sarebbe appartenuta per sempre.

Volai alto per sei mesi, respirando l’aria rarefatta dei monti, guardando il mondo dalla vetta. Ero convinto che avrei continuato a salire, a salire.

Precipitai al suolo un pomeriggio di giugno, quando seppi che avevano arrestato Philip: faceva parte di una banda di briganti che aveva commesso diversi furti ed alcuni omicidi nelle case della regione.

Pensai a un errore, ma non c’era nessun equivoco. E non era neanche un’invenzione quello che venni a sapere subito dopo: Philip e uno dei suoi complici erano stati arrestati mentre scopavano.

Non ci credetti. Non credetti a nulla, fino a che le prove si accumularono e non mi fu più possibile dirmi che non era vero.

Ma non avevo ancora toccato il fondo.

Incominciarono a circolare altre voci: si scoprì che Philip aveva una relazione con un uomo, nella città in cui vivevo. Mi vidi scoperto, temevo un processo per sodomia, un’accusa di complicità. Avrei voluto fuggire, ma non potevo andarmene senza conoscere la sorte dell’uomo che amavo. Poi saltò fuori che l’amante di Philip era un facoltoso commerciante. Ma non c’era solo lui, ce n’erano diversi altri, di molti dei quali si diceva apertamente il nome. Philip era insaziabile e per lui io ero stato solo uno dei tanti.

Impiccarono Philip e i suoi complici ed io mi congedai, lasciando l’Inghilterra. La mia vita era finita. Non avrei amato mai più, non avrei mai più sofferto per amore. Avevo vent’anni.

 

Mi arruolai come soldato mercenario, prima in Fiandra, poi, seguendo la compagnia con cui combattevo, in Italia. Cambiai due volte ingaggio, mentre alleanze e guerre nascevano e morivano. Re e principi non erano più fedeli di quanto fosse stato Philip e il mondo mi sembrava un immenso pantano. Il cinismo e l’avidità dei potenti non valevano di più della ferocia e della meschinità dei soldati al cui fianco combattevo. La violenza gratuita di cui davano prova molti dei miei compagni mi disgustava, ma quello era ormai il mio mestiere.

Non mi fu difficile tenere rigorosamente fede all’impegno che avevo preso con me stesso. Ebbi spesso rapporti, osservando la dovuta prudenza: essere scoperti era un rischio mortale. Ebbi alcune relazioni che durarono nel tempo. Ma non amai e non soffrii per amore.

In una grande battaglia molti dei miei compagni trovarono la morte. La sconfitta subita dal sovrano per cui combattevo portò a una conclusione della guerra ed allo scioglimento di ciò che rimaneva della nostra compagnia.

Avevo ventotto anni, poco denaro in tasca e nessun sogno. Sentii parlare delle truppe del conte di T., un nobile che aveva perso il suo feudo ed aveva organizzato una compagnia di ventura, nella speranza di riconquistare la contea. Erano soldati particolarmente disciplinati e agguerriti. Decisi che avrei cercato di entrare in quell’esercito.

Il conte di T. combatteva allora nell’Italia settentrionale, non lontano da dove mi trovavo. Quando raggiunsi il suo esercito, avevo dato fondo al mio scarso denaro. Fortunatamente il conte aveva bisogno di uomini.

Il vicecomandante mi mise alla prova: lo dovetti affrontare in un duello.

Capii subito di avere a che fare con un avversario imbattibile. Non potevo fare altro che cercare di resistere il più a lungo possibile. Mi assalì con impeto, dimostrando un’agilità che il suo aspetto imponente non lasciava sospettare. Dovetti rinunciare ad attaccare e a lungo rimasi sulla difensiva. Lo studiai e cercai di individuare i punti deboli, ma non ce n’erano. Quando ebbi capito come si muoveva, riuscii ad attaccare anch’io, senza mai minacciarlo davvero, ma riuscendo almeno a frenarne l’impeto. Ero esausto e fradicio di sudore. Gli sfiorai il braccio con la lama, graffiandolo appena. Lui reagì con una carica che mi travolse. Mi trovai la punta della lama contro il ventre e per un attimo pensai che mi avrebbe ucciso, ma deviò la lama e non mi scalfì neppure.

Mi guardò, sorridendo:

- Bravo, sei un ottimo combattente. Complimenti!

Il suo apprezzamento mi fece molto piacere: veniva da un uomo che se ne intendeva.

Prima di assoldarmi l’uomo mi fece un discorso molto duro sulla disciplina, assai più severa di quanto non fosse di solito in quelle formazioni: in particolare il saccheggio di villaggi e città poteva avvenire solo su esplicita autorizzazione del conte ed entro limiti rigorosi. Se non avessi obbedito, sarebbe stata la morte.

Mi piacquero quelle norme. Mi piacque anche l’uomo che le enunciava. Ruggero di Monfalcone era mezzo italiano e mezzo francese e aveva un viso circondato da una folta barba nera, occhi scuri, un fisico possente. Eravamo molto diversi: io non ero certo esile, ma ero assai meno massiccio di lui ed ero biondo, con i capelli molto chiari e la barba un po’ più scura.

Nei primi tempi tutti i nuovi arrivati rimanevano sotto il suo comando diretto. Ci valutava nelle esercitazioni come in battaglia e nella vita all’accampamento.

Stavo bene vicino a lui, lo stimavo e lo ammiravo. Non sono mai stato uno di quegli uomini che fanno di tutto per mettersi in mostra e ottenere lodi e riconoscimenti dai loro superiori. Ma stavo volentieri al suo fianco. Anche Ruggero stava bene con me e non lo nascondeva. Spesso nei momenti di riposo si sedeva vicino a me e parlavamo. Io avevo un’istruzione superiore a quella della larga maggioranza dei soldati, che perlopiù erano analfabeti. Ruggero era istruito e con me poteva affrontare argomenti di cui gli altri non sapevano niente.

Mi rendevo conto che quell’uomo mi piaceva, moltissimo, ma non conoscevo i suoi gusti. E poi era il mio superiore: non spettava a me farmi avanti. Mi guardai bene dal fargli capire che mi attraeva fisicamente, ma non nascosi che ero ben contento di stare al suo fianco. Gli altri soldati entrati insieme a me o nel periodo successivo, dopo un certo tempo trascorso sotto il comando diretto di Ruggero, venivano inviati in altre squadre. Io rimasi nella sua guardia personale ed era un onore non da poco: erano tutti uomini valorosi ed esperti, disciplinati e formidabili in battaglia.

La vita al campo si svolge quasi sempre sotto gli occhi di tutti. Quando venne la primavera, ebbi modo di vedere Ruggero bagnarsi in fiumi e stagni e mi resi conto di quanto lo desiderassi.

Era un desiderio fisico, non c’era altro, non doveva esserci altro. Un desiderio violentissimo, perché erano mesi e mesi che non scopavo. Ma non c’era altro.

La distanza che ci separava era grande e questo costituiva un elemento di sicurezza, ma non ci misi molto a capire che Ruggero stava superando questa distanza.

Trascorreva molto del tempo libero con me e ci furono alcuni contatti fisici: una volta mi mise una mano sul braccio, un’altra sulla mano. Erano piccoli gesti, che potevano apparire insignificanti, ma di cui capivo il senso. Ruggero si avvicinava a me e le sue parole, i suoi sguardi (aveva occhi scurissimi, che sembravano scavare dentro di me), i suoi gesti mi dicevano che cercava con me un rapporto che poco aveva a che fare con quello esistente tra un soldato e il suo comandante.

Fui felice di questo. Lo desideravo, intensamente. Sognavo di scopare con lui, di abbracciarlo, di stringerlo. Mi dicevo che era solo un violento desiderio fisico, nient’altro.

Non so come potessi essere così cieco. Eppure mi rendevo conto che ogni suo minimo gesto ridestava echi profondi dentro di me, che le sue parole mi cullavano, il suo sorriso mi accarezzava. Mi sembrava di vivere nell’attesa di quelle ore in cui era vicino a me, anche solo dormendo al mio fianco.

Aspettavo con ansia il momento in cui Ruggero mi avrebbe parlato, in cui i nostri corpi si sarebbero infine stretti. Sapevo che ormai era solo più una questione di tempo.

Ruggero mi parlò una sera di tarda primavera. In quei giorni le nostre truppe si spostavano lungo la costa del Lazio, per raggiungere e affrontare l’esercito nemico, in una battaglia che avrebbe potuto essere determinante. Ci eravamo fermati presto, perché prima di proseguire il conte di T. voleva avere informazioni precise sulla posizione dell’avversario. Lo scontro era vicino, forse già il giorno seguente i due eserciti si sarebbero trovati l’uno di fronte all’altro.

Come spesso accadeva, accompagnai Ruggero in un giro d’ispezione. Raggiungemmo alcune squadre che si erano accampate più in alto, da dove si controllavano meglio le vie di collegamento. Scendemmo che era già tardi, saremmo arrivati dopo che il rancio era stato distribuito, ma ad un certo punto Ruggero lasciò il sentiero e ci spostammo verso la costa. Ruggero si sedette in un punto da cui si poteva vedere il mare e mi invitò a mettermi vicino a lui.

Era giunto il momento, il cuore mi batteva forte.

- Ben, ho bisogno di parlarti.

Annuii.

- Ben, credo che tu sappia quello che intendo dirti, ma credo di dovertelo dire ugualmente. Sono otto mesi che sei entrato nella nostra compagnia. Ho avuto modo di conoscerti ed ho scoperto di stare bene con te, come non mi era mai capitato. Poi ho capito che mi stavano succedendo altre cose, che non avevo previsto.

Ruggero si fermò un momento, ma io non dissi nulla. Un’ondata di panico mi stava travolgendo ed avrei voluto scappare via, nient’altro. Non sapevo perché, non avevo ancora capito. O forse avevo perfettamente capito, anche se non me l’ero ancora detto.

- A me piacciono gli uomini. Ne ho avuti parecchi, ma si è sempre trattato di scopate, niente di più. Con te è un’altra cosa, Ben.

Ci fu ancora una breve pausa, poi Ruggero concluse:

- Mi sono innamorato, se questo è possibile per un soldato di ventura. Ma evidentemente lo è, perché io mi sono innamorato di te. Questo è quanto, Ben, e tutto il resto sarebbe solo girarci intorno.

Provai l’impulso di alzarmi e fuggire, senza dire una parola. Avevo paura. Io che in battaglia non avevo mai vacillato, ora avevo davvero paura. Non volevo innamorarmi un’altra volta, non volevo soffrire di nuovo. Volevo scopare, nient’altro. Ma nelle parole di Ruggero mi ero ritrovato come in uno specchio. Lo amavo, questa era la verità, che avrei dovuto capire da tempo. Con lui non sarebbe stato solo il contatto rapido di due corpi, come avevo pensato. Ed io non ero pronto. Avevo per anni respinto anche solo l’idea di un legame che non fosse esclusivamente fisico ed ora il sentimento che stava nascendo mi gettava nel panico.

Non potevo più tacere, ma rimasi zitto ancora a lungo. Ruggero non disse nulla, ma continuò a guardarmi, fino a che non fui più in grado di reggere il peso di quello sguardo.

Mi alzai di scatto. Respirai a fondo e dissi quello che avevo da dire:

- Ruggero, non c’è uomo al mondo che io stimi e ammiri di più di te, ma non è possibile. Chiudiamo la faccenda e non parliamone più, mai più.

Mi volsi e mi allontanai, senza dire altro. Camminavo rapidamente, quasi avessi paura di essere inseguito. Stavo malissimo, un dolore fisico, tanto forte che ad un certo punto dovetti appoggiarmi contro un albero. Sentivo un peso sul petto e non riuscivo a respirare, alla testa avevo un cerchio che si stringeva sempre di più, le gambe non mi reggevano.

Con uno sforzo mi staccai dall’albero e raggiunsi, barcollando, l’accampamento. Non mangiai e mi stesi subito sotto la coperta.

Non avevo intenzione di dormire, sapevo benissimo che non sarei riuscito a prendere sonno. Volevo solo evitare di dover parlare con qualcuno e soprattutto di vedere ancora Ruggero, che dormiva sempre con i suoi uomini.

Avrei voluto essere a centinaia di miglia. Il destino mi avrebbe accontentato, molto presto.

Per parecchio tempo rimasi troppo agitato per riuscire a riflettere, ma quando infine tutti si furono messi a dormire, mi rilassai e cercai di analizzare che cosa era successo.

Ruggero mi aveva rivelato il suo amore ed io gli avevo detto di no. Questo era tutto. Il problema è che io amavo Ruggero, di questo ormai ero perfettamente consapevole. Le sue parole mi avevano spaventato, avevano risvegliato fantasmi che ormai non avevano più motivo per esistere. Ero fuggito, come un vigliacco di fronte al pericolo. Ero stato idiota, avevo ferito Ruggero e avevo detto di no all’uomo che amavo.

Provai l’impulso di alzarmi e di andare a svegliarlo. Probabilmente non dormiva, di certo non poteva prendere sonno facilmente dopo quello che era successo. Avrei potuto dirgli che volevo parlargli, avrebbe capito benissimo. Ci saremmo allontanati dall’accampamento, avrei spiegato, ci saremmo amati.

Non mi piaceva l’idea di chiamarlo, di allontanarmi con lui: altri soldati avrebbero potuto accorgersene, non era saggio destare sospetti senza prima aver parlato con Ruggero di come intendeva affrontare questi aspetti del nostro rapporto. Probabilmente stavo cercando delle scuse, avevo ancora paura, ma ormai avevo deciso.

Il mattino mi alzai prestissimo, con le idee chiare. Quel mattino stesso avrei detto a Ruggero la verità: che l’amavo. Non volevo che affrontasse la battaglia pensando che io non ricambiavo i suoi sentimenti. Più tardi, quando fosse stato possibile, gli avrei spiegato le mie paure ed i motivi del mio rifiuto.

Non fu così. L’essermi alzato presto fu il primo anello di una catena di avvenimenti, per cui quella stessa sera la distanza tra me e Ruggero sarebbe stata incolmabile e nessuno dei due avrebbe potuto raggiungere l’altro.

Mi ero appartato per i miei bisogni e mentre ritornavo all’accampamento, un pescatore arrivò trafelato, supplicandoci di portare aiuto al suo paese, che durante la notte era stato attaccato dai pirati saraceni: una parte della popolazione era riuscita a rifugiarsi nel fortino e stava resistendo agli attaccanti, ma solo l’arrivo di rinforzi avrebbe permesso ai difensori di non essere sopraffatti.

Stavo accompagnando l’uomo all’accampamento, quando arrivò il conte di T. Questi ascoltò il pescatore ed accolse la richiesta, cosa abbastanza insolita per una compagnia di ventura, che combatteva solo per chi pagava. Non era però possibile mandare molti uomini, perché dovevamo raggiungere le altre truppe che si stavano preparando per lo scontro decisivo. Dall’esito di quella battaglia dipendeva anche la sorte del conte, che sperava di recuperare il proprio feudo.

Il conte inviò perciò un piccolo gruppo di soldati, scelti sul momento: sarebbero stati sufficienti a mettere in fuga i corsari, che attaccavano di sorpresa e di solito battevano in ritirata quando l’impresa comportava rischi non previsti.

      Partimmo in venti, ma la nostra spedizione finì in un’imboscata: i pirati avevano espugnato il fortino e avevano scoperto che un uomo era stato inviato a chiedere soccorso ai soldati di un vicino accampamento. Ci aspettavano e uccisero diversi di noi, catturando me e altri quattro.

      Due ore dopo mi trovavo in una nave che veleggiava verso Algeri.

Il mio cambiamento di condizione fu talmente rapido, che feci fatica a realizzare. Avevo perso Ruggero e la mia libertà, le due cose a cui tenevo di più al mondo. Avevo ben poche possibilità di recuperare la mia libertà: non avevo una famiglia in grado di pagare un riscatto. Non avrei mai più rivisto Ruggero. Probabilmente sarei morto di fatica e di stenti su una galeotta o in una cava.

La nave su cui ci avevano imbarcati era uno sciabecco condotto da Redouane Rais, uno dei tanti rinnegati che erano diventati corsari al servizio dei signori di Algeri. Ci dirigemmo subito verso la costa africana, perché il nostro veliero era già a pieno carico: al bottino di un arrembaggio avvenuto pochi giorni prima, si sommava quello del saccheggio del villaggio. Parte di quel bottino eravamo noi, i prigionieri cristiani.

I venti erano favorevoli e arrivammo in pochi giorni. Sconvolto dal dolore, non badai neppure alle condizioni durissime del viaggio. Avrei avuto modo in seguito di scoprire che cosa significava viaggiare per mare come schiavo. In quei giorni pensai solo a Ruggero: il suo pensiero era talmente ossessivo, che mi sembrava di vederlo sulla nave, tra i prigionieri o tra i marinai. L’idea che non l’avrei mai più rivisto mi faceva impazzire.

Quando sbarcammo, fummo condotti nelle prigioni. Pochi giorni dopo ci misero in vendita al mercato. Ci fecero spogliare tutti e per l’intera mattinata i possibili acquirenti vennero a vederci. Ci palpavano i muscoli, ci guardavano i denti, come fossimo animali. Ma eravamo davvero animali e nient’altro.

L’uomo che aveva l’incarico di venderci parlava, vantando evidentemente le nostre virtù. In particolare si sforzava di mostrare come noi soldati fossimo resistenti. Ma i compratori erano diffidenti: uno schiavo forte può rivoltarsi e uccidere il padrone, era già successo più volte.

A un certo punto l’uomo mi prese in mano i coglioni e li strizzò, ridendo. Disse qualche cosa che non capii, una battuta che poi uno degli altri prigionieri mi tradusse: se qualcuno mi voleva come eunuco, i coglioni del cristiano avrebbero saziato i cani. Rabbrividii: c’era ancora spazio quindi per precipitare, non ero arrivato al fondo.

Non lo ero, infatti.

Mi comprò Yusuf Murad, un uomo sui quaranta, di carattere impulsivo. Gli servivano rematori per la sua galeotta, che sarebbe partita di lì a pochi giorni per fare scorrerie lungo le coste dell’Italia. Murad era il proprietario della nave, ma non la comandava personalmente: non aveva nessuna intenzione di rischiare la pelle, preferiva affidare il compito a qualche corsaro esperto che metteva a repentaglio la vita in cambio di una parte del bottino.

Quando uno degli altri prigionieri me lo disse, fui tanto stupido da esserne contento: pensai che forse durante la spedizione sarei riuscito a liberarmi e a raggiungere la costa a nuoto.

Murad mi fece spiegare da un prigioniero che conosceva l’italiano che cosa si aspettava da me. Decisi di obbedire docilmente, inseguendo il sogno di scappare durante il viaggio, sbarcare in Italia e raggiungere Ruggero.

Quando ci imbarcammo e fummo incatenati ai remi, capii che ogni sogno di fuga era follia pura. Salpammo ed ebbe inizio l’incubo. La vita dei soldati non è certo comoda, né tanto meno pulita: c’è il rischio di morire in battaglia o, ancora peggio, per qualche ferita; è facile perdere una gamba o un braccio in combattimento o doverli tagliare per evitare la cancrena; le malattie sono frequenti; le marce possono essere estenuanti; si dorme sovente sulla terra, avvolti in una coperta, o in giacigli luridi. Eppure in confronto all’esistenza del galeotto, la vita del soldato è un sogno.

La navigazione fu un incubo di vomito, merda e piscio, febbre e fame, frustate e bestemmie. Anche in quell’inferno il mio pensiero andava ossessivo a Ruggero, di nuovo lo vedevo tra gli schiavi, tra i marinai, tra gli infami sorveglianti.

Cercai di reggere, ma capii che non sarei sopravvissuto a molti viaggi di quel tipo, per quanto fossi forte. In diverse occasioni pensai che sarei morto, ma la morte non mi faceva paura. Desideravo morire. E mi dissi che, se fossi tornato ad Algeri, avrei cercato di darmi la morte piuttosto di ripartire.

Non morii, a differenza di altri compagni di prigionia, e tornai con la schiena segnata dalle frustate e i calli alle mani, determinato a cambiare la mia condizione o a mettere fine ai miei giorni.

La nave non sarebbe ripartita tanto presto e Murad mi affittò per il carico e lo scarico delle merci al porto. Era un lavoro pesante, spesso estenuante, ma almeno ero all’aria aperta. La sera dormivo nella casa del mio padrone, in una cella dove erano tenuti alcuni prigionieri di cui Murad non si fidava. Ogni giorno mi chiedevo che cosa potevo fare per uscire da quella condizione. Ogni giorno rivedevo Ruggero, tra i mercanti o tra i soldati, tra i rinnegati o tra i turchi. La notte lo sognavo, ogni notte.

Murad decise di approfittare del periodo di sosta tra una scorreria e l’altra per far eseguire agli schiavi alcuni lavori nella sua casa. Fui perciò impiegato come muratore.

Ebbi così modo di assistere a un avvenimento che avrebbe di nuovo cambiato la mia vita, radicalmente, senza che io lo sospettassi.

      Un pomeriggio Murad tornò a casa furibondo. Al mercato degli schiavi aveva visto una giovane armena e se n’era incapricciato. Aveva offerto una grossa somma, ma era stato battuto da Hassan, un rinnegato giunto poco più di due mesi prima ad Algeri.

Quello che lo aveva mandato in bestia, era che Hassan era un suo amico. Costui, prima di conoscerlo, gli aveva salvato la vita, una notte in cui Murad era stato aggredito da alcuni banditi. In seguito a quell’episodio, Murad e Hassan avevano fatto amicizia. Come aveva potuto Hassan fare uno sgarbo del genere, era incomprensibile: è vero che era giunto solo da due mesi ad Algeri, ma non poteva ignorare gli usi del posto. 

Murad avrebbe voluto ucciderlo, anche se gli doveva la vita.

La furia di Murad durò poche ore. Verso sera alla porta si presentò un inviato di Hassan. Accompagnava la schiava, sontuosamente abbigliata, e portava una lettera del suo padrone. Nella missiva Hassan diceva che aveva acquistato la schiava solo per farne dono a Murad e per ringraziarlo della sua amicizia, che era per lui preziosissima.

Tutti nella casa ne parlavano: Hassan aveva pagato la schiava tre volte il suo valore, solo per offrirla a Murad. Alcuni lodarono la sua generosità, altri ritennero il suo gesto una follia, visto che Murad si stava già comprando la schiava.

Quando me lo raccontarono, mi dissi che quell’uomo era pazzo o che voleva ottenere qualche cosa da Murad. Avevo perfettamente ragione: entrambe le ipotesi erano vere.  

Il giorno seguente, dopo una notte di piacere, Murad decise di offrire a Hassan una grande cena.

Hassan arrivò all’ora prevista. Io ero già stato rinchiuso nello stanzone che serviva come cella notturna per me e per alcuni altri schiavi.

Mi stesi, pensai a Ruggero, come facevo ogni giorno, e poi lasciai che il sonno mi avvolgesse e mi donasse le uniche ore di pace.

Fui destato più tardi. Non so che ora fosse. Era notte, ormai.

- Muoviti, il padrone ti vuole.

Mi alzai. Non riuscivo a capire che cosa il padrone volesse da me a quell’ora. Fino a quel momento non avevo mai svolto lavori in casa, alle dipendenze dirette di Murad, ed i miei contatti con lui erano stati quasi nulli.

Con mio grande stupore mi portarono nel bagno e mi fecero lavare con cura. Mi profumarono persino. Poi mi fasciarono i fianchi con un panno pulito, mi misero una casacca aperta sul davanti e mi portarono nella sala del banchetto.

Non sapevo che cosa pensare. Mi avevano vestito come se avessi dovuto andare ad un incontro galante.

Il rinnegato voleva scopare con me? Difficile che potesse desiderarlo, non mi aveva mai visto. Ma mi dissi che lo avrei ammazzato, se ci avesse provato. Volevo morire ed era un buon modo di farlo: scannare quel porco e poi lasciarmi ammazzare. Non ero appartenuto a Ruggero, non sarei appartenuto a nessun altro, se solo avessi potuto impedirlo.

In effetti, come seppi dopo, l’idea di Murad era quella. Lui e Hassan avevano incominciato a parlare della schiava e, quando il vino (proibito dal Corano, ma alquanto bevuto, sia pure di nascosto, nei banchetti privati) aveva incominciato a sciogliere le lingue, Hassan aveva confessato che a lui la schiava non interessava, perché non gli piacevano le donne. Era attratto dagli uomini, soprattutto dai tedeschi e dagli inglesi, biondi, forti, giovani, ma non più ragazzi. Insomma, dagli uomini come me.

A Murad non era parso vero di poter ricambiare il dono di Hassan: in cambio della schiava, avrebbe offerto uno schiavo, per lo stesso uso. Per quello mi aveva fatto lavare e agghindare in quel modo. Avrebbe potuto presentarmi coperto di fango e merda e non sarebbe cambiato nulla, ma questo Murad non poteva saperlo.

Entrai nella sala. C’erano solo Murad e Hassan e alcuni servitori che andavano e venivano.

Hassan portava i capelli rasati dei rinnegati, con un unico ciuffo che ricadeva sulla fronte. Ma nonostante il cranio pelato, riconobbi immediatamente Ruggero.

Per un momento pensai che fosse un’allucinazione, una delle tante che mi perseguitavano. Non poteva essere altrimenti, ma mentre avanzavo verso i due commensali, continuavo a vedere Ruggero e non un altro viso.

Ero completamente sconvolto. Mi dissi persino che era davvero una combinazione incredibile che io e Ruggero ci trovassimo uno di fronte all’altro, ad Algeri, per caso. Il pensiero era idiota, ma non ragionavo più. Poi capii. Naturalmente non era un caso. La faccenda della schiava era solo uno stratagemma per arrivare fino a me. Giunto ad Algeri, Ruggero era riuscito a scoprire che appartenevo a Murad e aveva fatto in modo di diventare suo amico. Mi chiesi se anche l’aggressione subita da Murad non fosse stata organizzata da Ruggero, per poterlo salvare ed entrare in contatto con lui. Non poteva essere un caso.

Mentre pensavo queste cose ero giunto davanti al mio padrone. Murad mi disse di inginocchiarmi ai piedi di Hassan. Ubbidii.

Ruggero mi passò una mano tra i capelli e lodò la mia bellezza, con parole che compresi solo in parte: Murad e Hassan parlavano francese, una lingua che entrambi conoscevano, ma che io masticavo poco.

La carezza di Ruggero mi fece salire le lacrime agli occhi: era più di quanto avevo sperato di avere ancora dalla vita. Ricacciai le lacrime e cercai di riflettere. Dovevo stare al gioco di Ruggero, anche se non sapevo quale fosse esattamente.

Con le orecchie tese, cercavo di capire che cosa si dicessero. Ruggero faceva apprezzamenti sulla mia persona, palpandomi. Mi toccava come si fa con uno schiavo, ma per me quel contatto era il paradiso e dovevo frenare l’impulso di prendere la sua mano e baciarla. Fingevo indifferenza, timoroso di compromettere, con una reazione sbagliata, il suo piano.

Ruggero lodava la mia persona e Murad si mostrava felice che lo schiavo piacesse al suo amico. Dopo che Ruggero ebbe finito di lodare e di palpare, Murad mi offrì a lui. Quando lo capii, il cuore prese a battermi all’impazzata. Ci fu una schermaglia di cortesi rifiuti, chiaramente insinceri, e di grandi insistenze ed alla fine l’affare fu concluso. Murad diede ordine di tirare giù dal letto il suo segretario, per fare l’atto di donazione.

Ora che il passaggio di proprietà era concluso, il rinnegato Hassan sembrava impaziente di gustare il piatto prelibato che si era procurato e Murad non insistette più di tanto per trattenerlo: d’altronde anche lui aveva la sua schiava che lo aspettava. 

          Mentre scendevamo le scale, Ruggero mi sussurrò:

          - Non una parola.

         Annuii. Sapevo che molti schiavi, di provenienza diversa, conoscevano l’italiano, che io e Ruggero usavamo abitualmente per comunicare, o l’inglese, che Ruggero parlava un po’.

         Nel cortile c’erano gli schiavi di Ruggero e riconobbi Lorenzo, un toscano che era stato catturato insieme a me. Mi guardò senza dire nulla, senza tradire sorpresa: evidentemente si aspettava di vedermi.

         Ci dirigemmo verso la casa di Ruggero. Avevo ripreso a pormi domande, che presto avrebbero avuto una risposta. Come mai Ruggero era diventato un rinnegato ed era giunto ad Algeri? La battaglia decisiva che dovevamo combattere si era conclusa con una sconfitta, il conte di T. era stato ucciso e Ruggero aveva dovuto fuggire? Ma perché in Africa, perché tra gli infedeli? Oppure era stato scoperto a scopare con un uomo e per questo era fuggito? L’idea mi dava fastidio, ma ovviamente era ben possibile, io gli avevo detto di no. Oppure… C’era un’altra idea che la mia testa si rifiutava di accettare o anche solo di formulare.

Arrivammo alla casa e quando fummo entrati, Lorenzo mi abbracciò.

- Sono felice di rivederti, Ben, non sai quanto.

- Io non meno di te, Lorenzo.

Ruggero disse ai tre schiavi di tenersi pronti per il mattino successivo, molto presto: saremmo partiti per la Francia. Poi mi fece entrare nella sua camera.

Quando fummo dentro, chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete. Era pallidissimo e mi spaventai a vederlo così.

- Ruggero, stai male?

Ruggero scosse la testa.

- Scusa, ma non mi sembra ancora possibile. Non credevo di riuscire a farcela.

Lo guardai. Avevo la bocca secca e non trovavo le parole.

- Grazie, Ruggero.

Lui aprì gli occhi e mi fissò. Stava recuperando colore. Sorrise.

- Sei qui, sei vivo. Domani partiamo su una nave francese e torniamo in Italia. E non è un sogno.

No, non era un sogno, ma anche a me non sembrava possibile.

- Ruggero, come mai sei qui ad Algeri? Come mai sei diventato un rinnegato? Il conte di T. è morto?

Ruggero mi guardò fisso, senza rispondere subito. Poi disse:

- Il conte di T. ha recuperato il suo feudo. Chi credi che mi abbia dato il denaro necessario per venire qui, acquistare schiavi e portarmeli via? Non mi bastava di certo quello che avevo accumulato come soldato.

- Ma allora, perché sei venuto qui? Perché…

Tacqui, perché avevo capito. Poi ripresi:

- Ruggero, sei venuto qui per me? Hai abiurato la tua fede per me? Per un uomo che ti aveva detto di no?

Ruggero mi guardava e in quei suoi occhi scurissimi c’era un fuoco. Le sue parole furono un ruggito:

- Hai mai amato, Ben? Hai mai amato qualcuno, davvero? Perché se non hai mai amato, non posso spiegartelo. E se hai amato, allora è inutile, lo sai da te.

Pensai a Philip. Ero stato sicuro di amarlo alla follia, ma quando avevo scoperto che mi tradiva, che per lui ero solo uno dei tanti, il mio amore era svanito, lasciando solo la sofferenza, l’umiliazione. Non avevo amato davvero Philip, non dell’amore che Ruggero era capace di provare.

Ruggero si era seduto sul letto, ma non vicino a me.

- Sai che cosa significa sentirti dire che l’uomo che ami non è tornato, che forse è morto? Combattere pensando che l’unica cosa che vorresti fare è correre là dove lui è scomparso. E poi, dopo la battaglia, partire, raggiungere il villaggio attaccato, farti indicare la fossa comune dove hanno sepolto i soldati e incominciare a tirarli fuori, uno dopo l’altro. Tirare fuori i tuoi uomini e a ogni corpo ringraziare Dio che non è il suo. E quando li hai tirati fuori tutti, scavare ancora, per essere sicuro che non ci siano altri cadaveri. E poi chiedere, interrogare, minacciare, per scoprire quello che nessuno sa. E infine una vecchia che si era nascosta tra gli scogli ed ha visto portare via i prigionieri. Un soldato biondo, barba e capelli come l’oro, vivo, senza ferite.

Ruggero si passò una mano sulla fronte.

- Mi sono congedato e sono venuto qui alla tua ricerca. Mi sono convertito perché mi dava una maggiore libertà di movimento. Le prime settimane sono state un inferno. Dovevo fare attenzione a come mi muovevo per evitare di destare sospetti, ma avevo disperato bisogno di sapere dov’eri. Visitavo regolarmente il mercato degli schiavi. Lì ho avuto un colpo di fortuna ed ho trovato Lorenzo, il suo proprietario lo aveva messo in vendita perché indocile. L’ho comprato. Grazie a lui ho scoperto che ti aveva comprato Murad. Sono diventato suo amico…

Lo interruppi:

- Organizzando una finta aggressione.

- Esatto. Ma tu eri sulla galeotta. Non sapevo se saresti tornato. Mandavo Lorenzo al porto per controllare le navi in arrivo. E infine sei arrivato. Vivo. Il resto lo sai. Se Murad non avesse accettato di cederti o almeno di prestarti per una notte, lo avrei ucciso.

- Finendo impalato.

Sapevo che cosa voleva dire morire su un palo, l’avevo visto: gli schiavi venivano fatti assistere alle esecuzioni, come monito. Non c’era morte più terribile. Anche Ruggero doveva saperlo, poiché era arrivato ad Algeri da due mesi. Ma alzò le spalle.

- Se tu fossi morto sulla nave, lo avrei comunque ucciso.

Ruggero si era calmato, ora. Io lo guardavo e sapevo che lo amavo, come non avevo amato Philip. Che per lui avrei accettato di essere nuovamente imbarcato come schiavo su una galeotta.

Mi alzai e mi misi di fronte a lui. Mi inginocchiai.

- Che fai? Alzati!

Scossi la testa. Volevo dirglielo così.

- Ti amo, Ruggero, con tutto me stesso. Ogni giorno, ogni notte in questi mesi ho pensato a te. Quello che ho detto quando mi hai rivelato i tuoi sentimenti, quella sera, è stato solo un momento di paura. Già il mattino dopo volevo parlarti, spiegarti e dirti che ti amavo anch’io, ma il destino ha voluto altrimenti.

Ruggero mi prese la testa tra le mani, si chinò e mi baciò sulla bocca. Quel contatto mi stordì. Mi staccai da Ruggero, mi alzai e mi sfilai la casacca e la fascia che mi cingeva i fianchi, rimanendo nudo davanti a lui.

Ruggero mi guardò, scosse leggermente la testa, poi si alzò e di nuovo mi mise le mani sulle guance e mi baciò, appassionatamente.

Era alquanto tardi ed il mattino dopo avremmo dovuto alzarci presto, ma nessuno dei due pensava a riposare, tanto più che sulla nave avremmo goduto di ben poca intimità.

Troppo avevamo sofferto, tutti e due, di quella separazione, troppo forte era, in entrambi, il desiderio. E tutti e due temevamo che il destino avesse ancora qualche brutto tiro da giocarci.

Io strinsi Ruggero con tutte le mie forze, quasi avessi paura che fosse ancora una visione, che potesse scomparire da un momento all’altro. Ma Ruggero era ben reale ed attraverso la stoffa potevo sentire la sua pelle, potevo accarezzargli la schiena, pizzicargli il culo, sentire la consistenza del suo uccello, che stava rapidamente acquistando volume e durezza.

Lo stesso stava avvenendo a me, ma continuavamo a baciarci, perché quel contatto tra le nostre labbra, tra le nostre lingue, gridava il nostro amore, quell’amore che io avevo temuto ed a cui riuscivo ad abbandonarmi completamente solo ora, dopo mesi di separazione e di sofferenza. L’angoscia di quei giorni svaniva e ora nulla più aveva importanza, ora Ruggero era tra le mie braccia e solo la morte ci avrebbe potuto separare.

Il desiderio ardeva in entrambi e le mie mani diventavano sempre più sfrontate, sollevando la stoffa che avvolgeva il corpo di Ruggero, cercando il contatto con la sua pelle, la sua carne.

Ruggero sorrise e mi sussurrò:

- Spogliami, schiavo. 

          La parola schiavo mi trasmise un brivido di piacere. Sì, era vero, ero lo schiavo di Ruggero, lui avrebbe potuto fare di me tutto quello che voleva, possedermi, umiliarmi, ferirmi, uccidermi. Ed io avrei accettato tutto da lui. Ero felice di essere il suo schiavo, la sua proprietà, che lui potesse disporre della mia vita e del mio destino in base al capriccio del momento. Sapevo che saremmo partiti l’indomani per tornare in Italia, che lui non mi considerava certamente il suo schiavo neppure in quel momento, in cui formalmente io ero tale. Eppure io avrei voluto davvero essere solo il suo schiavo, perché lui era, e sarebbe stato comunque, sempre, ovunque, il mio padrone.

          Le mie mani si mossero, mentre un leggero tremito mi percorreva. Non riuscii a spogliarlo, perché mentre gli sollevavo la veste le mie mani si impigliarono nella sua carne e non riuscirono più a liberarsi. Gli accarezzavo il culo, glielo stringevo e infine, pazzo di desiderio, mi inginocchiai ai suoi piedi, passandogli dietro e, infilando la testa sotto la sua veste, incominciai a mordergli le natiche, piccoli morsi, ora delicati, ora decisi. Portava una fascia di stoffa che girava intorno alla vita ed avvolgeva i genitali passando tra le natiche. Quando le mie dita la incontrarono, divennero impazienti e, senza delicatezza, la fecero scivolare a terra. Allora la mia lingua poté trovare l’incavo tra le natiche e lo percorse, più volte, stuzzicando l’apertura.

          Ruggero gemette di piacere. Io non vedevo nulla, perché la veste di Ruggero mi copriva la testa e le spalle, ma la mia bocca e la mia lingua sapevano dove muoversi e le mie mani strinsero il culo, scendendo poi lungo le gambe. Passarono avanti e risalirono dalle caviglie alle ginocchia e poi ancora più su. Quando le mie dita toccarono i coglioni di Ruggero, avvolgendoli, mi sentii mancare, mi sembrò che fossero incandescenti. Credetti di accarezzarli, ma li strinsi con vigore e Ruggero gemette, poi disse, ridendo:

          - Bada a quello che fai, schiavo!

          Poi aggiunse:

          - Più piano, amore, più piano.

          Mi era piaciuto che mi chiamasse ancora schiavo. Ma quando mi chiamò amore, chiusi gli occhi, preso da una vertigine. Avevo paura, una paura terribile, irrazionale, che non avrei saputo spiegare.

          Le mie mani si fermarono. Baciai il culo di Ruggero come avrei potuto baciare la sua bocca, un bacio colmo d’amore e di desiderio. Riaprii gli occhi e mi resi conto che stavo piangendo.

          - Ruggero, Ruggero. Amore mio, amore mio.

          Lo dissi pianissimo, lo dissi a me stesso più che a lui. Non riuscivo a frenare le lacrime, io che ben di rado avevo pianto nella mia vita.

          D’improvviso la veste che mi copriva scomparve: Ruggero se l’era sfilata con un movimento deciso ed ora era nudo davanti a me. Girò la testa a guardarmi ed io ricambiai il suo sguardo, ma lo vedevo tra le lacrime.

Ruggero si inginocchiò davanti a me, mi passò le mani sugli occhi, cancellando le lacrime che ancora scorrevano. Mi guardò, senza toccarmi.

- Dimmelo ancora, Ben. Chiamami ancora amore.

- Amore mio, Ruggero, amore mio.

Ripresi a piangere, ma la bocca di Ruggero bevve quelle lacrime e le sue labbra ne asciugarono la fonte. Poi si staccò e disse:

- Ti amo, Ben, ti amo.

Lo baciai, appassionatamente, volevo baciare quelle labbra che mi avevano chiamato amore, che mi avevano detto che il mio Ruggero mi amava.

Ruggero mi spinse verso il giaciglio e finimmo entrambi distesi, avvinghiati. Ci rotolammo, stringendoci, baciandoci, tanto che ci trovammo di nuovo a terra.

Ruggero rise e disse:

- Stenditi sul giaciglio, schiavo.

Io ubbidii, sorridendo. Ruggero salì di fianco a me, ma rimase in piedi. Guardavo il suo uccello, grande e rigido. Poi vidi la cappella scoperta. Ruggero si era dovuto circoncidere, quando si era convertito. Lo guardai, smarrito. Lo aveva fatto per me, per me!

- Ruggero, è stato doloroso?

Non capì subito. Accennai al taglio.

Ruggero mi guardò e disse:

- È stato atroce non sapere neppure se eri vivo o eri morto, per mesi interi. Quanto a questo taglietto…

Alzò le spalle.

Lo guardai. Gli guardai l’arma. Pensai che era bellissimo.

Lentamente, senza smettere di fissare Ruggero, mi voltai sulla pancia. Sorrisi al mio padrone ed allargai le gambe. Volevo che mi prendesse, volevo essere suo, in quel momento, non ce la facevo più ad aspettare.

Ruggero si inginocchiò tra le mie gambe aperte e le sue mani mi accarezzarono la schiena, a lungo, poi scesero a tormentare il culo. Due dita percorsero più volte il solco, si fermarono all’apertura, premettero un po’, si ritrassero, ritornarono umide e scivolarono dentro senza fatica.

Chiusi gli occhi e di nuovo ebbi la sensazione di perdere i sensi. Sussurrai:

- Ruggero, amore mio.

Le dita uscirono e rientrarono, nuovamente umide e calde. Il mio corpo vibrava, nell’attesa spasmodica di quanto sarebbe successo.

Non era certo la prima volta: avevo posseduto ed ero stato posseduto da diversi uomini, ma non avevo amato nessuno come amavo Ruggero.

Sentii la sua arma, formidabile per volume e consistenza, premere e mi abbandonai completamente, felice del dolore che provavo, che avrei voluto più forte, a marcare in modo più netto la mia completa sottomissione. Ma il dolore, per quanto intenso, era avvolto in un piacere crescente, che mi ottundeva i sensi. So che gridai il nome di Ruggero, tanto forte che lui mi mise una mano davanti alla bocca. Morsi quella mano, senza nemmeno rendermene conto, forse piansi di nuovo e ripetei il suo nome, più piano.

Il palo che avevo in culo mi scavava le viscere e il piacere che provavo era talmente forte che mi sembrava intollerabile. Le spinte di Ruggero mi provocavano un dolore violento: la sua arma era troppo grande perché ogni suo movimento dentro di me non provocasse sofferenza. Ma potevo reggere quel dolore, senza sforzo. Non riuscivo a reggere il piacere che mi avvolgeva e mi trascinava via, che mi bloccava il respiro e mi strappava gemiti, mi riempiva il culo e mi tendeva l’uccello. Era troppo, troppo intenso, troppo violento, troppo feroce. Per un attimo pensai che mi avrebbe ucciso e mi dissi che nulla di più bello avrei potuto immaginare che morire tra le braccia di Ruggero, esalare l’ultimo respiro mentre soddisfacevo il suo piacere.

Ruggero continuava a muoversi dentro di me ed il mio piacere crebbe ancora, ormai intollerabile.

Gridai di nuovo, un puro urlo inarticolato, che era un grido d’amore per Ruggero, un grido di desiderio per quell’arma che sentivo dentro di me, un grido di dolore, perché il piacere era insopportabile.

Al mio grido fece eco quello di Ruggero e non so se mi chiamò amore o schiavo, se disse il mio nome o fu un suono inarticolato. Il piacere esplose, mi sentii travolgere da un’onda di piena che sembrò non finire mai e mi lasciò del tutto spossato, stretto tra le braccia di Ruggero.  

Rimanemmo distesi, avvinghiati. Eravamo esausti. Poi Ruggero sciolse il suo abbraccio e si ritrasse. Si pulì con l’acqua della brocca. Poi mi passò due dita lungo il solco. Quando stuzzicò l’apertura, ne uscì un po’ del suo seme. Avrei voluto trattenerlo, ma non mi fu possibile, era troppo.

- Voltati, Ben.

Ubbidii e lo guardai, seduto di fianco a me. Aprì la mano e la poggiò sul mio viso, poi scese, con una carezza, fino al mio uccello, ancora gonfio. Poi si chinò, avvicinò la bocca all’uccello e lo inghiottì. Sussultai: non me l’aspettavo.

La bocca lasciò andare la sua preda, ma la lingua la percorse, prima verso l’alto, indugiando sulla cappella, che venne nuovamente inghiottita, poi verso il basso, stuzzicando i coglioni.

Il desiderio mi strinse di nuovo, feroce, l’uccello ritornò a essere una lama d’acciaio ed io mi sentii sprofondare in un mare di piacere, mentre le mie mani accarezzavano la testa di Ruggero, le dita si impigliavano tra i suoi capelli e di nuovo gli occhi mi si inumidivano.

- Ruggero, amore mio, amore mio. Ruggero, amore mio. 

La lingua lavorò ancora un buon momento, poi, quando la mia arma fu perfettamente pronta all’uso, Ruggero si sedette sul mio ventre. Strusciò il culo più volte sul mio uccello, finché il desiderio divenne intollerabile. Gli misi le mani sui fianchi. Non sapevo che cosa volevo, volevo mettere fine a quel tormento, volevo farlo durare per sempre. Ruggero sollevò leggermente il culo, inumidì la mia cappella, tenne in verticale il mio uccello e lentamente, molto lentamente, si impalò sul mio attrezzo. 

Gemetti senza ritegno. Ora Ruggero era seduto su di me, le gambe in avanti, infilzato sul mio uccello. Prese a muoversi, sollevandosi e abbassandosi, con lentezza, e di nuovo mi sentii sprofondare in un pozzo di piacere, tanto forte da essere insostenibile. Ruggero chiuse gli occhi. Aveva il cazzo duro, uno splendido cazzo teso verso l’alto, che svettava contro il ventre coperto di una peluria scura.

Guardavo ammaliato quell’arma che aveva aperto la mia carne poco prima. L’accarezzai, con dolcezza. Poi il piacere mi investì e scivolai verso il fondo, incapace di muovermi, insensibile a tutto il resto.

Venni dentro Ruggero, gridando di nuovo.

Ruggero mi guardò sorridendo. Rimase immobile, mentre lentamente, molto lentamente, la mia arma si riduceva. Poi si staccò e si stese al mio fianco, baciandomi sulla bocca.

Ricambiai quel bacio, ma non ero ancora sazio. Mi misi in ginocchio e presi in bocca la sua arma. Fu una sensazione fortissima: il calore e la consistenza del suo cazzo mi sconvolsero. Chiusi gli occhi e rimasi immobile.

Poi presi a muovere la bocca e la lingua, accarezzando e stuzzicando quell’arma potente.

- Ben, Ben. 

Guardai Ruggero. Mi lesse negli occhi la richiesta e rispose:

- Ben, amore mio, amore mio.

Allora ripresi a succhiare e a leccare e ben presto sentii il sapore dello sperma di Ruggero. Bevvi ogni singola goccia e mai avevo gustato una bevanda più dolce e più inebriante.

Ci stendemmo uno di fianco all’altro. Avrei voluto dormire ai piedi del letto, come uno schiavo, ma dormii tra le braccia di Ruggero e non ci fu mai sonno più ristoratore, anche se durò pochissimo, perché ormai l’alba era vicina.

Quando il sole spuntò, ci lavammo e scendemmo al porto, dove una nave francese era di partenza. Il capitano era già stato contattato, per cui salimmo subito a bordo, senza incontrare ostacoli.

Tutto mi appariva irreale: la sera precedente ero uno schiavo destinato a riprendere presto servizio su una galeotta, adesso stavo per tornare in Italia, al fianco di Ruggero. Finché la nave non si staccò dal molo, continuai a chiedermi se era davvero reale. Mi sembrava che da un momento all’altro qualcuno sarebbe arrivato per fermarci, ma non c’era motivo perché ciò avvenisse: era tutto perfettamente in regola. Un uomo libero partiva con i suoi schiavi per un paese alleato.

Guardai Algeri allontanarsi, poi guardai Ruggero al mio fianco. Abbassai la testa, senza trovare le parole. Sussurrai soltanto:

- Grazie.

 

La nave che ci portava era diretta a Marsiglia. Qui ci separammo dai nostri compagni di viaggio: Ruggero, Lorenzo ed io raggiungemmo la contea di T.; gli altri due schiavi liberati si diressero ai loro paesi.

Il conte di T. ci accolse con grande gioia. Aveva acconsentito molto malvolentieri a lasciar partire Ruggero, ma, come disse la sera del nostro arrivo, a tavola:

- Fargli cambiare idea era impossibile e non avevo altra scelta: o lo decapitavo o lo aiutavo. Fatti i debiti conti, mi conveniva aiutarlo, così magari tornava.

Ruggero sorrise:

- E sono qui, se il mio conte mi vuole ancora.

- Certo che ti voglio: dovrai lavorare per me vent’anni, per ripagarmi!

Il conte sorrise, poi aggiunse:

- Il posto di capo delle guardie è rimasto vacante. Ora non lo è più. Ben sarà il tuo aiutante personale e Lorenzo, se vuole, potrà unirsi anche lui alle guardie.

Poi mi guardò e mi disse:

- Ben, puoi essere orgoglioso. Se ne trovano pochi che possano dire: il mio uomo si è fatto musulmano per me ed è venuto a riprendermi in Africa, tra i corsari.

- Lo so, mio signore, e ne sono davvero orgoglioso. Ma credo che se ne trovino ancor meno come Ruggero.

- Sì, per quello lo tengo caro, anche se è una testa dura.

 

Parecchi anni sono passati. La guerra ci ha toccato alcune volte, ma sempre per brevi periodi. Non abbiamo avuto molte occasioni di combattere e siamo potuti vivere in pace. Ruggero è al mio fianco ed io spero che lo sia fino alla fine.

 

2009

 

 

 

 

 

 

 

 

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