I miti di Cernunnos

 

Cernunnos colore 100dpi

A Loran     

Ciclo dell’isola

detto anche Ciclo dei riti

 

I - Il sogno dell’isola

 

      Cernunnos vuole scegliersi una terra, in cui regnerà sovrano. Il suo sguardo percorre il mondo, dal freddo mare del Nord, che gli uomini solcano con le vele gagliarde, alle assolate terre del Sud, dove crescono rigogliosi l’ulivo e la vite; dalle coste esposte ai flutti del grande padre Oceano a Ovest, sotto un cielo plumbeo e carico di pioggia, alle sterminate e aride steppe dell’Est, dove i nomadi vagano senza tregua sui loro robusti cavalli.

      Su tutte queste terre regnano altri dei e Cernunnos non vuole competere con loro per ottenere la venerazione degli uomini. A lungo riflette il dio e questo infine gli pare una buona cosa: far scaturire dai gorghi del mare profondo una vasta isola, in cui verranno a vivere coloro che lo sceglieranno come divino signore.

      Dalla costa Cernunnos guarda l’oceano, dove il sole tramonta, accendendo di fiamme le nuvole e il cielo. In quella direzione egli si muove, camminando sul mare, senza che i suoi piedi tocchino le onde, perché tale è il potere del dio.

      E quando infine il suo rapido passo l’ha portato alla distanza che una nave veloce supera nel volgere di un mattino, il dio si ferma e si stende sopra l’acqua. Intorno a lui le onde si placano e Cernunnos si abbandona al sonno. Il vento allontana le nubi e il sole splende sul corpo possente del dio.

Sogna, il dio, e nel sogno una colonna d’acqua e di vapore si alza dal mare, giungendo fino alle nuvole. E poi appare il fuoco: sotto la fitta coltre di fumo nero che ormai copre il cielo, fiamme e scintille salgono alte, mentre la lava viene a lottare contro il mare, che invano si oppone, furente, ma deve cedere a quella materia incandescente che lo scaccia e si tramuta in roccia. Cresce la roccia e diviene monte, lungo i cui fianchi scivola il fiume di fuoco e il mare ancora si ritira, guerriero sconfitto nonostante la sua grande forza, che invano lancia i suoi flutti contro il nemico che avanza: non può arrestare la terra che inesorabile procede.

Nuove colonne di fuoco si aprono in altri punti e l’isola cresce. Presto essa diviene tanto grande, che dalla cima delle montagne poste nelle aree più interne il mare si scorge appena.

Si sveglia Cernunnos. Egli non è più sul mare, ma sull’orlo di un vasto cratere. Intorno a sé vede il frutto nato dal suo sogno, un’isola molto estesa.

Con passo sicuro incede il dio, tutta l’isola percorre e nel suo cuore è soddisfatto: gli piace la terra che il suo potere ha creato e che potrà ospitare molte genti. Essa sarà la sua dimora regale.

L’isola è ricca di monti che si innalzano verso il cielo e di dolci colline che degradano verso il mare. Dalle alte cime scendono torrenti impetuosi, che precipitano in cascate verso la pianura, dove i fiumi scorrono lenti e maestosi. Lungo la costa si aprono vasti golfi e si ergono promontori rocciosi, si estendono spiagge dalla sabbia dorata e scure scogliere che sfidano il mare.

 Ma l’isola è un’arida distesa rocciosa, dove il suolo non offre alimento alla vita: nessun albero ancora vi cresce, nessun arbusto, neppure l’erba sfida i venti che la percorrono. Nessun animale ancora, tra quelli che strisciano o camminano sul suolo, l’ha scelta per stabilirvisi. Nessun uccello, di quelli che lunghe rotte seguono in cielo, vi si è fermato per costruire il suo nido. Nessun uomo l’ha ancora avvistata, stupendosi di quella terra sconosciuta.

      E allora Cernunnos ritorna in cima al monte e nuovamente si stende e lascia che il sonno lo avvolga.

      Sogna il dio e nel sogno una vegetazione verdeggiante riveste l’isola: il leccio maestoso e il rovere ricoprono le pianure, il castagno dal dolce frutto e il faggio spuntano sulle pendici dei monti, il pino dalle foglie sottili e l’abete crescono più in alto, le canne germogliano intorno all’acqua in cui si riflette l’azzurro del cielo e il rododendro dai rosei fiori si arrampica sulle cime più alte.

      All’ombra degli alberi guizza veloce il cervo, dalle caverne dei monti esce l’orso possente, dal folto dei boschi si fa avanti il lupo famelico, nella radura brilla il luccichio delle zanne del cinghiale, contro il cielo si staglia il profilo minaccioso dell’aquila, tra l’erba saltella l’agile lepre.

      Al vento che agita le foglie degli alberi risponde il canto dell’usignolo, al grido rauco del gabbiano, il lamento dell’allodola.

      La terra su cui giace il dio è ancora spoglia e priva di vita, ma nel sogno essa si copre di un manto verde che ospita infinite creature.

      E nel sogno Cernunnos vede un uomo avanzare verso di lui. Non può vedergli il viso, ma vede che la chioma è bionda come il grano maturo. Cernunnos sa che l’uomo ha occhi azzurri come il mare profondo.

      Il desiderio cresce nel dio, percorre tutto il suo corpo e gli tende il membro vigoroso. Sogna Cernunnos, sogna di abbracciare quel corpo che gli è destinato, di baciare quella bocca, di poggiare le labbra su quegli occhi, di stringere tra le mani quei fianchi, di accarezzare il membro dell’uomo. Sogna e vede quel corpo stendersi e offrirgli i fianchi. Sogna di stringere tra le mani le natiche, di avvicinare la punta della sua arma e di entrare trionfante là dove nessuno mai è penetrato. Sogna il dio, ma il suo corpo vibra di un piacere che non ha mai provato e il seme si spande.

      La terra, fecondata dal seme divino, diviene fertile e produce i frutti che Cernunnos ha sognato. Quando il dio apre gli occhi, l’isola che ha creato è piena di vita e Cernunnos si dice che è bella.

      Solo l’uomo manca nell’isola, le valli e le pianure non si coprono di campi coltivati, né le greggi e le mandrie pascolano nei prati, il mare non è solcato dalle barche dei pescatori.

      Si interroga Cernunnos e questo infine gli sembra meglio fare: che gli uomini sappiano dell’esistenza dell’isola e che coloro che lo desiderano, vengano a stabilirvisi.

      E allora il sogno del dio diventa il sogno di uomini.

 

*

 

Infuria la battaglia. Gli uomini della grande foresta del Nord sono scesi silenziosi, come i serpenti che strisciano tra le rocce, e alle prime luci dell’alba hanno attaccato il villaggio sulle rive del fiume. Nessuno conosceva le loro intenzioni: non sono in guerra gli uomini del fiume e quelli della foresta, hanno giurato un accordo di pace davanti alle immagini degli dei, ma il cuore dei guerrieri del Nord è scuro come la notte e la loro lingua biforcuta.

Essi sono comparsi sulla collina, pronti a portare morte e distruzione, e certo nessuno sarebbe scampato tra gli uomini del fiume, se Fargall dal forte braccio non avesse riunito i guerrieri e organizzato la difesa. Come un’onda del mare, che con grande fragore precipita contro gli scogli, sono calati gli uomini della foresta, ma come una diga che mani esperte hanno costruito, salda, in grado di reggere all’impeto della tempesta, così hanno resistito i difensori.

S’avventano con furia gli attaccanti, che credevano di piegare facilmente i nemici. Li guida il loro re, il vigoroso Cathmagh, dal cuore spietato. A sbarrargli il passo non è Olwen, il re del villaggio sul fiume, che teme per la propria vita e rimane là dove meno cruenta infuria la battaglia. Ad affrontare Cathmagh è Fargall dal forte braccio. Si scontrano i due guerrieri e le loro lame mandano scintille. Tremendi sono i loro colpi, neppure una quercia secolare resisterebbe, ma i due combattenti non si piegano, anche se il sangue sgorga dalle loro ferite.

E infine Fargall dal forte braccio colpisce con tal forza la spada di Cathmagh, che essa vola lontana. E allora il guerriero possente cala un fendente sul collo del feroce re, recidendo la testa, che rotola sull’erba e ancora maledice l’eroe.

Grido di nera angoscia si alza dai guerrieri che hanno visto cadere il loro re sotto i colpi del forte Fargall. Grido di esultanza lanciano gli uomini del fiume.

Volgono alla fuga gli uomini della foresta, ma Fargall chiama a sé gli uomini del villaggio e si lancia al loro inseguimento. Fuggono come colombe all’arrivo dell’aquila, coloro che erano venuti ad attaccare. Fuggono gridando, mentre le ali della morte si stendono su di loro. Fuggono e molti cadono, uno dopo l’altro, e un cupo terrore si impadronisce delle loro anime altere. Fuggono, senza vergogna.

Solo quando giungono davanti alle mura della loro roccaforte, da dove le loro donne li guardano, solo allora la vergogna vince l’oscura paura e i fuggiaschi si voltano per affrontare il nemico.

Fargall guida i suoi uomini e al suo fianco è il giovane Edar, le cui guance da poco sono coperte dalla barba. Ma saldo è il cuore di Edar e senza tema egli attacca il nemico. Sono rimasti indietro i compagni, perché Edar e Fargall corrono veloci come il lupo che insegue il cervo. Ora sono soli a fronteggiare gli avversari. Vedendoli isolati, molti altri nemici piombano su di loro, certi di facile preda. Ma invano attaccano i corvi, in stormo tanto fitto da oscurare il cielo, l’aquila possente: essa li dilania e ne fa orrenda strage.

Così Fargall colpisce i nemici e Edar non trema al suo fianco. Li incalzano gli uomini della foresta, guidati da Dunmagh, il fratello del re a cui il forte braccio di Fargall ha tolto la vita, ma essi non arretrano e come salda roccia respingono ogni attacco. Possente è Dunmagh e avido di vendetta è il suo cuore. Già la punta della sua spada sta per trapassare il petto del giovane Edar, ma Fargall l’allontana e immerge la lama nel ventre del nemico, fino a che la punta non esce dalla schiena. Grida il valoroso Dunmagh, come grida l’orso colpito a morte dal cacciatore esperto, che non ha temuto il pericolo e ha trafitto l’avversario, togliendogli il respiro.

Di nuovo volgono alla fuga coloro che giunsero avidi di stragi e di bottino e ora solo anelano a rinchiudersi nella loro fortezza, ma ormai i guerrieri del fiume sono giunti e l’ultima battaglia si accende dentro le mura.

Orrenda strage menano gli uomini guidati da Fargall e i nemici cadono come steli d’erba sotto la falce.

Ebbri di vittoria, gli uomini del villaggio si impadroniscono del tesoro che i vinti hanno accumulato in anni di razzie e saccheggi, incendiano la roccaforte e guardano le fiamme inghiottire la superba costruzione. Ognuno raccoglie le teste dei nemici che ha ucciso, per adornare la sua dimora e testimoniare il proprio coraggio.

Tornano al loro villaggio e tutti cantano la gloria di Fargall, l’impavido guerriero, e molti lodano Edar, in cui la giovinezza si sposa con il coraggio. Anche Olwen, il re, li loda, ma nel suo cuore cova una rabbia sorda, perché il guerriero troppo più valente di lui si è mostrato. E altro cruccio nasconde in cuore il sovrano, vedendo che Edar dai capelli di grano si stringe al forte Fargall. Freme Olwen: non vuole che nella notte di festa sia il valente guerriero a godere per primo di quel giovane corpo vigoroso, che accende il desiderio del re.

Grande è il bottino che gli uomini hanno riportato e tutti celebrano la vittoria. E quando sono stati compiuti i riti funebri per i valorosi che hanno perso la vita in battaglia, il re Olwen divide le ricchezze conquistate tra coloro che hanno combattuto. Ognuno ha la sua parte. Quella del sovrano è la più grande, come è d’uso, ma il valente Fargall riceve tre statuette d’oro, che raffigurano giovani donne: esse di certo provengono da un paese lontano e furono razziate dagli uomini della foresta.

Non interessa l’oro al puro cuore di Fargall e, mentre gli abitanti del villaggio festeggiano, egli decide di offrirlo al dio Cernunnos, a cui è devoto. Si reca dal fabbro, affinché fonda l’oro e ne ricavi tre coppe per il dio: egli progetta di costruire un altare e di porvi i doni votivi davanti all’immagine divina. Il fabbro rinuncia a unirsi subito alla festa, perché vuole soddisfare la richiesta del valoroso guerriero, che ha salvato il villaggio.

Lavora il fabbro, nell’officina. Prepara lo stampo e fonde l’oro. Versa il metallo lucente nella forma, ma esso si rompe e l’oro si versa a terra: eppure abile è il fabbro e da tutti conosciuto, esperto nel domare ogni metallo, valente nel creare ogni oggetto.

L’oro scorre al suolo e forma un pendaglio a forma di maschera: è il viso di un uomo possente, con zanne da cinghiale. Osservano muti il prodigio, Fargall e il fabbro, e si inchinano al dio: è stato lui a dare all’oro la forma che gradiva. Grande è la maschera, assai più della statuetta da cui si formò, ma nulla è impossibile a un dio.

Nuovamente il fabbro prepara uno stampo e fonde la seconda statua. E ancora una volta esso si spezza e l’oro versato prende la forma di un pesante ciondolo che ha la forma del grande membro del dio e dei suoi testicoli fecondi. Riverenti si inchinano il fabbro e il possente Fargall, che ringrazia il dio per il favore che gli ha manifestato.

Per la terza volta il fabbro fonde l’oro e lo versa nella matrice, che si rompe. E il nobile metallo forma una spada splendente.

Fargall ringrazia ancora il dio e prende i tre oggetti. Costruirà un altare su cui li porrà a perpetuo omaggio di Cernunnos il terribile. Le tre opere divine sono tanto splendenti da illuminare la notte che è calata.

Sulla soglia della dimora dell’eroe, il guerriero trova ad attenderlo Edar. Fargall lo guarda: bello è il giovane e valoroso. Il desiderio assale impetuoso Fargall e negli occhi del giovane egli vede brillare la scintilla del suo stesso desiderio.

Le sue mani abbracciano il corpo, che non si sottrae: le labbra di Edar cercano quelle dell’invitto eroe e sulla porta essi si baciano ardenti.

Non vedono che, nascosto nel buio, li spia un uomo, a cui il re ha dato il compito di sorvegliare la dimora di Fargall. Subito egli corre a riferire la notizia, certo non gradita al sovrano. Arde di rabbia il cuore di Olwen, che non frappone indugi: non vuole perdere la primizia del corpo di Edar. Prende con sé dodici uomini forti, tra quelli a lui più fedeli, e raggiunge la casa di Fargall.

Giacciono sul letto i due guerrieri, nudi, mentre il desiderio arde in loro. Si baciano e si abbracciano, ma ancora non ha posseduto il giovane corpo l’eroe valoroso.

Piombano su di loro i servitori, a forza li separano, con saldi legacci stringono il corpo dell’eroe, che nessun nemico ha vinto in battaglia, ma che a tradimento è stato sconfitto.

- Che significa questo, re?

- Non tu godrai del giovane Edar, mio sarà questo corpo.

- Bada, re, se farai violenza a questo giovane, nessuno potrà salvarti dalla mia ira.

- Sciocco, i tuoi giorni sono finiti. Troppo forte ti lodano gli uomini del villaggio, già c’è chi parla di offrirti il trono che mi appartiene. Questo è tradimento. Il tuo corpo senza vita sarà abbandonato nella palude prima del nuovo giorno.

Nell’oscura palude dove soffia vento di morte vengono abbandonati i corpi dei traditori. Prima che l’alba sorga si svolge il rito, perché nessuno possa vedere. Se non ha già incontrato il giorno della nera morte, colui che ha tradito viene condotto legato al luogo dell’esecuzione, dove il laccio spegne la sua vita. Il corpo viene mutilato e gettato nel fango.

- Come puoi accusarmi di tradimento? Ciò è infame.

Il re porge un laccio a uno dei suoi servitori, che lo stringe intorno al collo di Fargall, con forza.

- Taci.

Fargall respira a fatica. Emette un suono strozzato.

Il re fa un cenno a uno dei suoi uomini. Egli punta la lancia contro il costato di Fargall e poi con un colpo secco la infila nel petto dell’eroe.

Il sangue scorre impetuoso e Fargall sente il gelo della morte che lo invade.

Grida Edar, maledicendo il re, chiedendo di morire con Fargall, ma le guardie dello spietato Olwen lo trascinano via.

Mentre il re sta per uscire, uno degli uomini vede i tre magnifici oggetti d’oro.

- Sovrano, il traditore non ha più bisogno di questi ori.

Ride Olwen, mentre il pensiero va al piacere che lo attende.

- Prendeteli.

Allunga la mano il servitore, ma quando le sue dita sfiorano il fallo dorato, il suo cuore si ferma ed egli cade, senza vita. Ammutoliscono, sgomenti, gli uomini. A un cenno del re raccolgono il corpo e lo portano via.

- Diremo che Fargall lo ha ucciso.

Escono turbati, in silenzio, gli uomini del re.

Sul letto agonizza Fargall. Atroce è il dolore che lo stringe in una morsa. All’eroe sembra che una nebbia cali sempre più fitta sugli occhi.

Ma una luce squarcia le tenebre: i doni del dio splendono nell’oscurità e Fargall sente che il dolore si attenua, le forze gli ritornano e la vita riprende a fluire. Le corde sembrano sciogliersi per incanto. Quando Fargall si alza, vede che esse appaiono recise, come se una lama le avesse troncate di netto. La ferita si è rimarginata, come pure quelle che gli hanno inferto i nemici nel combattimento del mattino.

Fargall guarda i tre oggetti che splendono nel buio della stanza. Gli pare che il dio guidi la sua mano. Fargall si pone al collo il luminoso fallo divino, copre il viso con la maschera splendente, poi impugna la spada scintillante ed esce nella notte.

In riva al fiume sono tutti gli uomini, che festeggiano o giacciono a terra, vinti dal sonno o dal sidro. Deserta è la strada che percorre l’eroe, in cui brucia desiderio di vendetta.

Giunge alla dimora reale, Fargall dal forte braccio. Dormono le sentinelle. Dormono gli inservienti. Su tutti un dio sembra aver diffuso un magico sonno.

Un’unica luce arde nella dimora del re: proviene dalla camera di Olwen, dove il giovane Edar giace legato sul letto.

Ha tolto i suoi ornamenti regali, il sovrano, e si appresta a possedere un corpo che vorrebbe sottrarsi all’amplesso. Turgido è il grande membro e il desiderio preme.

La luce che di colpo illumina la stanza è tanto forte da far scomparire le ombre proiettate dalle torce. Si volta il re e il terrore riempie i suoi occhi. Barcolla e arretra, cercando parole che non giungono. Rapida si abbatte la spada e la testa del re cade a terra.

Fargall libera le mani di Edar, che si inginocchia davanti a lui.

- Chi sei, dio possente, che mi hai salvato dall’onta?

- Non sono un dio, Edar, ma un dio mi salvò e ti salvò. Sono Fargall.

Riconosce la voce il giovane e con mani tremanti abbraccia il compagno.

- Hai ucciso il re.  E ora? Dobbiamo fuggire. Dirigiamoci verso oriente, oltre le grandi paludi.

Ma Fargall sente che il dio lo chiama verso un’altra meta.

- Una meta sicura ci attende e un dio ci guida. Seguimi, Edar, se davvero desideri rimanere accanto a me.

- Dovunque tu vada, verso la vita o verso la morte, là io verrò.

Fargall prende Edar per mano e si affida al dio, che muove i suoi passi verso occidente. Il guerriero percorre sentieri sconosciuti, ma non esita, perché è Cernunnos, il terribile, a tracciare il suo cammino. A lungo camminano, mentre le stelle compiono il loro percorso. E quando ormai il cielo impallidisce a oriente, il mare appare davanti a loro.

Sulla costa sostano infine i due guerrieri. Si toglie la maschera del dio il valoroso Fargall e bacia Edar. Poi le sue mani accarezzano il corpo del compagno e uniti da uno stesso desiderio, essi si dedicano ai giochi d’amore. Edar offre i suoi fianchi e il vigoroso Fargall lo possiede. Entrambi conoscono l’estasi del piacere, più e più volte: il desiderio sempre si rinnova e li avvolge, senza saziarsi mai.

Così trascorrono il giorno. Fargall sa che devono attendere e che domani il mattino indicherà loro la meta.

 

Il sogno dell'isola colore 100dpi

 

      Rapido si muove Laeg tra i cespugli, affrettandosi verso la fonte dove incontrerà Mongan. Stretto dall’angoscia è il suo cuore, che pure non conosce paura. Tra poco rivedrà l’uomo che ama, che domani stesso dovrà affrontare in battaglia, che forse dovrà uccidere. Dolore e rabbia si contendono il suo cuore, come due valorosi guerrieri che si affrontano in battaglia e nessuno dei due cede di un passo e vibrano colpo su colpo, senza mostrare traccia di paura. Ma quando infine Laeg giunge allo specchio d’acqua e vede, seduto sulla riva, Mongan, dolore e rabbia si dissolvono come due pavide gazzelle che vedono sopraggiungere un leone e nel cuore esacerbato di Laeg l’amore irrompe a flotti, tutto sommergendo. Mormora il nome del suo amato, il giovane guerriero, e Mongan si alza per lanciarsi tra le sue braccia.

      Non parlano, non dicono nulla, se non ognuno il nome dell’altro. Parlano le loro mani, che accarezzano, che scendono dai capelli ai fianchi e risalgono dai sessi, che ormai si tendono vigorosi, al viso, mani che mai possono saziarsi di stringere l’oggetto amato. Parlano le loro labbra, che si uniscono. Parlano le loro lingue, che spezzano l’unione delle labbra per cercarsi, trovarsi, inseguirsi, come bambini che si rincorrono. Ora sono stesi al suolo e si accende una lotta di baci e morsi, carezze e strette. E ognuno vorrebbe voltare l’altro, per prendere il frutto agognato, e ognuno vorrebbe offrire all’altro ciò che desidera. Ma troppo forte è il desiderio, troppo violenta la fame che ognuno ha dell’altro, e i loro corpi si stringono e si sciolgono in un delirio in cui si perdono. E infine Mongan dai neri capelli forza Laeg dalla bionda barba a girarsi e, steso con il ventre contro il suolo, ad aprirgli la porta che nessun altro ha mai varcato. Ma ben la conosce Mongan e la sua arma, poderosa e avida, si proietta in avanti, impaziente. Senza cerimonie avviene l’ingresso, troppo forte è il desiderio nei loro due giovani corpi, e il dolore è un piccolo prezzo che pagano volentieri al piacere, una moneta di rame per avere un sacco ricolmo d’oro. Geme Laeg, per il piacere che sale dentro di lui, sotto la spinta inesorabile del grande sesso che gli riempie le viscere, geme per il dolore di quell’avanzata, che pure non vorrebbe fermare. E geme Mongan, per un piacere non meno forte che tutto lo riempie, per quella carne calda che gli avvolge il membro vigoroso.

      Spinge con forza il giovane Mongan, mentre le sue mani stringono i fianchi che accolgono la sua spada di carne e la sua bocca formula parole d’amore che li inebriano entrambi. A lungo il membro del guerriero dai neri capelli devasta il territorio che ha invaso e il sudore scivola lungo il suo corpo, ma Mongan non è stanco e implacabile muove l’arma. E infine il piacere è troppo forte per rimanere ancora dentro di lui e prorompe con il seme, che riempie le viscere del biondo guerriero, e con il grido che gli sfugge dalle labbra, grido di vittoria e di resa completa al potente dio dell’amore.     

      Rimangono stretti e poi riprendono a baciarsi e ad accarezzarsi, i due guerrieri, non ancora sazi del piacere che entrambi hanno provato. Con più dolcezza si muovono ora, come chi, giunto affamato di fronte alla tavola imbandita, prima mangia avidamente, perché il bisogno lo spinge, e poi, non più stretto nella morsa della fame, assapora con calma i piatti prelibati che offre la mensa sontuosa.

      E ora Laeg è steso sul corpo di Mongan, le loro bocche si incontrano e i loro sessi, ugualmente tesi, rivelano il desiderio che preme in entrambi. Laeg afferra le cosce possenti del compagno e le solleva. Mongan comprende le intenzioni dell’amico e drizza ben alte le gambe, così che, senza che i loro occhi si stacchino, l’arma del biondo guerriero si fa strada nel corpo del compagno, restituendo il dolore e il piacere che ha ricevuto. Le mani di Laeg accarezzano le caviglie di Mongan, scendono lungo le sue gambe, fino alle cosce vigorose, mentre l’arma penetra a fondo accendendo il corpo del guerriero dai neri capelli. Non meno lunga è la battaglia e quando infine Laeg ritira il suo membro gagliardo, vi vede alcune gocce di sangue. Ma entrambi hanno raggiunto il piacere e i loro corpi, infine appagati, si stringono ancora.

       E allora il dolore riemerge in entrambi. Non servono parole. Conoscono la minaccia che incombe sul loro amore. Le loro tribù, fino a ieri alleate, si affronteranno in battaglia. Un uomo ha rapito una donna dell’altra tribù e il prezzo del sangue va pagato. E l’uno e l’altro, smarriti, si chiedono se domani dovranno trafiggere con una spada di ferro il corpo che hanno appena posseduto, se domani verseranno a fiotti il sangue di cui oggi hanno sparso poche gocce.

      Identico dolore preme su di loro e ognuno si sente come uomo che, camminando ai piedi di un monte, sia stato travolto da una frana e ora giaccia al suolo, un immenso macigno sul petto, troppo pesante perché sia possibile sollevarlo. Come l’uomo soffre per il peso che l’opprime e sente che la morte ormai lo ghermisce, così i due guerrieri sono schiacciati dalla sofferenza.

      Parlano, ma non trovano una via d’uscita. Nessuno vuole combattere contro l’altro per una guerra che non è la sua. Nessuno può accettare che l’altro trovi la morte per mano dei propri fratelli. Vorrebbero andarsene, insieme, ma non sanno dove possono rifugiarsi. E mentre le loro parole si mescolano, una stanchezza improvvisa li prende. Cernunnos, il dio possente, invia loro un sonno che li avvolge e si impadronisce dei loro corpi. Dormono, avvinghiati, le loro bocche vicine, i loro sessi tesi l’uno a fianco dell’altro.

      E nel sogno essi vedono un’isola, una terra in cui potranno vivere in pace, una terra in cui ancora non si sono stabiliti uomini o donne, ma fertile, che può dare cibo a molti. E il dio, signore dell’isola, sembra invitarli a unirsi ai suoi seguaci che già accorrono.

      Si svegliano i due guerrieri e si guardano. Ognuno vede nell’occhio dell’altro l’isola che ha sognato e gli legge in viso l’identica decisione. Non servono molte parole, solo un luogo e un’ora in cui si ritroveranno per non lasciarsi più, finché la morte non li separerà.

      Raggiungono i loro villaggi, prendono congedo dai loro fratelli e rinunciano alla loro terra. E quando giunge la sera, si ritrovano alla fontana che è stata il luogo dei loro incontri. Il desiderio si accende in fretta, ma altro pensiero li guida, mentre la notte avvolge il mondo nel suo mantello. Mongan e Laeg si mettono in cammino. Il dio indica loro la strada e la luna sembra illuminare il sentiero che percorrono, lasciando in ombra il mondo circostante.

      Camminano a lungo e quando infine giunge l’aurora dalle dita di rosa, si trovano di fronte il mare. Lo guardano, stupiti: ben più lontano credevano l’oceano, molti giorni di marcia sono necessari per raggiungerlo dai loro villaggi. Ma la loro marcia non ha seguito il ritmo degli uomini, era un dio a guidarli e a misurare il loro passo.

      Molta gente è sulla riva del mare. Uomini vigorosi, ma anche famiglie, anziani, bambini. Alcuni hanno piccole greggi o mandrie. Altri stanno giungendo e la costa è coperta da una moltitudine che scruta il mare. Lontano, dove il sole sta apparendo, sembra di scorgere una sagoma scura, un’isola. Quella è la loro meta? Come la raggiungeranno? Non ci sono barche in grado di solcare rapide la grande distesa del mare. Troppo lontana è l’isola per pensare di raggiungerla a nuoto, anche per il nuotatore forte, che sfida i flutti impavido. E l’immenso oceano cela mostri di ogni tipo.

      Ma nel mare qualche cosa si muove. Sembrano ninfe marine, i cui tratti divini appena si scorgono: le diresti soltanto spuma del mare, che traccia disegni fantastici e inganna l’occhio che scruta. Si muovono agili come l’onda, intrecciando i loro giochi leggiadri, lungo la costa. E poi si avvicinano a riva ed ecco, quando la prima tocca gli scogli, essa si trasforma. Le braccia diventano la prua di una nave, le gambe la poppa e il corpo è uno scafo capace, su cui si drizzano gli alti alberi e le vele.

      Una dopo l’altra le divine creature raggiungono la riva e ognuna diviene una nave, capace di contenere molte persone.

      La folla si inginocchia davanti al prodigio e rende lode al dio possente. Poi uomini e donne salgono sulle grandi navi.

      E quando infine sulla riva del mare non è rimasto nessuno, un vento gagliardo gonfia le vele e le navi si dirigono alla volta della grande isola.

      Mongan e Laeg sono a prua, avvinghiati l’uno all’altro, come altri uomini intorno a loro. Guardano la terra che li accoglierà.

      Ogni nave si dirige in una baia diversa. Ma quando uomini e animali hanno lasciato la nave che li ha portati, essa si trasforma, ritorna ninfa marina e raggiunge tra i flutti le sue compagne ridenti.

      Riuniti sulla riva, gli uomini decidono dove edificheranno le loro case, dove areranno la terra e dove pascoleranno le mandrie e le greggi. Poi alcuni vanno in cerca di cibo, altri si mettono a costruire ripari per la notte, mentre i bambini e gli anziani riposano.

      L’isola è ricca di frutti di ogni tipo e infiniti animali la popolano: coloro che sono partiti per procurare il cibo a tutti, tornano presto, le braccia cariche.

      E quando infine giunge la notte, gli uomini si stendono per dormire. Mongan e Laeg cercano un luogo isolato, perché, per quanto grande sia il desiderio di sonno, dopo una notte in cui hanno vegliato, un altro, più forte, desiderio preme in entrambi e più volte, nel giorno, i loro sguardi si sono incrociati e il rigonfio delle loro vesti ha tradito i loro pensieri.

      E ora, sotto le fronde di una quercia, i due guerrieri si stendono insieme e le loro labbra tornano a cercarsi, le loro braccia a stringersi. E poi la bocca di Mongan scende lungo il corpo di Laeg, la lingua traccia un segno che brilla alla luce lunare e infine arriva ad accarezzare il grande membro eretto. Chiude gli occhi Laeg, sconvolto da una sensazione che mai ha provato, e il piacere è tanto forte che gli sembra di non poterlo tollerare. La sua mano accarezza la scura chioma di Mongan, si avvinghia a essa, mentre la bocca del compagno accoglie l’asta che svetta trionfante, tutta l’inghiotte e il corpo di Laeg vibra di una musica sconosciuta.

      Mongan avvolge la sua preda e gli pare di non avere mai assaggiato cibo più prelibato. A lungo le sue labbra e la sua lingua accarezzano quella carne palpitante e quando infine nel biondo guerriero il desiderio trabocca, sciogliendosi in un piacere che prorompe incontenibile, Mongan assapora ogni goccia di quella bevanda divina. Mai la sua bocca aveva accolto il membro di un maschio, ma è il dio che lo guida questa notte, Cernunnos, grande e terribile, che ora muove Laeg a compiere gli stessi gesti.

      E ancora i loro corpi si incontrano, insaziabili, e solo quando la notte è a metà della sua strada, i giovani guerrieri si abbandonano al sonno, stretti l’uno contro l’altro, il seme del compagno dentro di sé e sulla propria pelle, ebbri di una felicità e di un piacere sconosciuti.

      A lungo li guarda il dio, sorridendo. Guarda gli uomini allacciati nei prati e nelle grotte, nelle foreste e sulle spiagge. E pensa che questo è bello. L’isola nutrirà una razza forte e senza paura, libera, che affronterà a viso aperto il mondo.

 

      Giorno dopo giorno il villaggio prende forma, come altri in tutta l’isola, e i campi, arati, producono copiose messi: Cernunnos è un dio generoso, nel suo regno la fame è sconosciuta. La terra produce frutti in abbondanza, gli animali domestici si moltiplicano e quelli selvatici riempiono i fitti boschi che coprono l’interno dell’isola, il mare è ricco di pesci. Nessuna flotta nemica cerca di avvicinarsi all’isola, perché tutti temono l’ira del dio. Nessuna pestilenza fa strage degli abitanti.

      Altri uomini vengono a stabilirsi nell’isola, per venerare il grande dio.

A Cernunnos viene dedicato un tempio, posto sul fianco del monte più alto, a lui si consacrano altari presenti in ogni villaggio e tavolette votive attaccate vicino alle porte di tutte le case.

      Cernunnos non appare mai agli abitanti dell’isola, se non sotto forma di uno dei quattro animali che gli sono sacri: il cervo, il cinghiale, il lupo o l’orso. E ogni casa ha sulla porta una doppia immagine del dio. Nella parte superiore il dio è rappresentato con l’attributo di uno degli animali sacri: le corna del cervo, le zanne del cinghiale, le zampe dell’orso, le fauci del lupo. Nella parte inferiore è scolpito il segno della fertilità del dio, il suo grande sesso eretto.

      Sulla porta della loro casa Mongan e Laeg hanno posto l’immagine di Cernunnos con le zanne del cinghiale.

 

II - La caccia al dio

 

La caccia al dio colore 100dpi

 

      Non tutti gli abitanti dell’isola amano la vita pacifica dell’agricoltore o del pastore. Alcuni lasciano per brevi periodi l’isola e raggiungono altre terre, dove possono diventare guerrieri o pirati, ma non sono molti e spesso ritornano nella terra del dio, che considerano la propria patria. Coloro che desiderano sentire il sapore del sangue e provare il brivido della morte, senza lasciare la fertile isola, partecipano alle grandi cacce della prima luna d’autunno.

      L’autunno è la stagione in cui la presenza del dio è più forte. Ogni notte le foreste risuonano degli echi delle grandi cacce. Cernunnos insegue le prede e le uccide, senza mai sbagliare il colpo, ma l’animale che la freccia o la lancia del dio ha stroncato nella sua corsa o nel suo volo, ritorna a vivere nella valle segreta a cui solo il dio e il suo seguito hanno accesso.

      Caccia in autunno Cernunnos, e nel suo corpo rivive l’ardore del padre, impaziente di prede, il gusto dell’inseguimento, il piacere del sangue.

      Ma la notte del primo plenilunio d’autunno, quella in cui Cernunnos uccise il padre, sotto le sembianze di cinghiale, il dio sente che il suo corpo si trasforma. Non si stupisce, conosce la maledizione del padre. Le braccia e le gambe diventano le zampe di un grande cinghiale, un verro feroce distruttore di campi. Il viso si allunga diviene il muso dell’animale, due denti si trasformano in zanne affilate, in grado di recidere. Il pelame che copre il corpo del dio diviene un manto di setole.

      Così mutato, Cernunnos si lancia in una folle corsa e gli uomini che desiderano cacciare il dio e non temono la morte, lo inseguono nudi per monti e per valli, tra boschi e radure. Corre veloce il dio, ma vicina gli è un’ombra, quella del padre Esus, assetato di vendetta, e Cernunnos sa che non sfuggirà ai colpi.

      I cacciatori si avvicinano, i cani seguono le sue tracce e il dio si rivolge contro di loro e ne fa strage, poi si avventa sui cacciatori e più d’uno perde la vita. Cernunnos riprende la sua corsa, ma gli uomini valenti non rinunciano a inseguirlo.

      Una seconda volta Cernunnos attacca gli inseguitori, ferisce il forte Nuada, abbatte con le zanne Rucht possente e il vigoroso Runce. Ma quando sta per voltarsi e riprendere la fuga, Forgall scaglia la sua lancia. Non sbaglia il colpo, l’eroe, e l’arma si conficca nel collo dell’animale. Grugnisce il cinghiale divino e crolla al suolo, ancora agitando la testa, ancora cercando di ferire. Ma Forgall è su di lui e la sua spada si immerge nel petto dell’animale, spezzandone il cuore. Al dio sembra di sentire la cupa risata del padre, infine vendicato. Mentre Forgall recide i genitali dell’animale divino, di cui si ciberà, la vita abbandona il corpo della fiera e Cernunnos riprende forma umana, rimanendo invisibile agli occhi dei cacciatori. Non visto, egli assiste al grande festino dei cacciatori.

      La caccia li ha inebriati e dopo essersi cibati delle carni dell’animale, essi si abbandonano alla fiamma ardente che brucia nei loro corpi e si stringono gli uni agli altri, in un amplesso continuamente rinnovato. Alcuni stringono il compagno della loro vita e a lui si congiungono, più e più volte, perché la caccia appena conclusa e la presenza del dio hanno attizzato il loro desiderio, che divampa senza limiti. Molti altri si offrono a chi si avvicina loro o prendono i corpi che senza remore si aprono ad accoglierli. Non c’è uomo che non gusti il seme di un altro - o di molti altri - in questa notte divina, non c’è uomo che non accolga tra i fianchi l’arma poderosa di uno dei cacciatori o di molti, non c’è uomo che non immerga la sua arma tra i fianchi o nella bocca dei suoi compagni che hanno partecipato all’impresa temeraria.

      E quando infine il sonno scende su di loro, Cernunnos guarda i corpi di coloro che sono morti nell’impresa e ridà loro vita, trasformandoli in cinghiali. Essi saranno prede nelle cacce d’autunno, come lo è stato in questa notte di luna piena il grande dio dei boschi. Ma quando l’autunno lascerà il posto all’inverno, essi accompagneranno il dio nella sua dimora segreta e riprenderanno forma umana.

      Il mattino i cacciatori si svegliano presso il fuoco ormai spento, felici della preda abbattuta e degli amplessi notturni. A malincuore si staccano dai compagni e ritornano alle loro case.

E da allora, ogni anno, alla prima luna d’autunno il dio cacciatore diventa preda. Egli assume la forma di uno dei quattro animali che gli sono sacri e percorre i boschi e le vallate, mentre i cacciatori si lanciano al suo inseguimento.

      Terribile e sanguinosa è la caccia del dio. Anche quando diventa cervo, è raro che qualcuno dei cacciatori non perda la vita in questa caccia, trafitto dalle corna dell’animale. Sotto forma di orso, Cernunnos fa strage dei suoi inseguitori, uomini e cani, e come lupo non è meno temibile. Ma è la furia del cinghiale che i cacciatori temono più di tutto.

Ed è il cinghiale che un giorno uccide il forte Fargall, colui che per primo spense la vita del dio dalle molte forme e si cibò della sua virilità. Cernunnos il terribile, che un tempo gli salvò la vita, fa strazio orrendo del suo corpo con le zanne e poi uccide il giovane Edar, di Forgall inseparabile compagno, che con lui divide il suo letto ogni notte. Uno accanto all’altro giacciono i due corpi squarciati, uniti nella morte, come lo furono in vita e come lo saranno nel seguito di Cernunnos, in forma umana e animale.

      Eppure sono in molti coloro che, anno dopo anno, partecipano alla grande caccia, rischiando la vita. Colui che abbatte l’animale divino, potrà cibarsi del suo membro vigoroso e dei suoi testicoli fecondi, acquisterà onore tra gli uomini, forza e vigore.

 

      L’autunno è tornato ad avvolgere la terra del suo manto colorato e un’altra notte di plenilunio è giunta. Come ogni anno accade, molti tra gli uomini che hanno compiuto vent’anni, a cui l’ombra della barba già copre le guance, si uniscono per la caccia al dio, che ha nuovamente assunto la forma del cinghiale.

      Tra i cacciatori non è Mabon, che ha appena compiuto vent’anni. Tranquillo è il suo animo e la violenza della caccia non lo attira. Mabon è un giovane pastore. Conduce al pascolo le pecore della sua famiglia. Ha i capelli scuri come la notte e gli occhi bruni come le penne dell’aquila. Il suo bel viso attira lo sguardo degli uomini e fa sognare le ragazze. Mabon sente che il respiro gli si fa corto, quando un uomo vigoroso gli passa vicino, ma il suo cuore non si è ancora aperto all’amore. La sua vita scorre placida, come l’acqua del canale, che, ben costruito dalle abili mani di uomini esperti, scivola quieta.

      La grande caccia si è svolta nella notte e Mabon ha sentito i cacciatori passare vicino alla sua capanna e poi allontanarsi. Spinto dalla curiosità, ha spiato attraverso le canne e alla luce della luna ha scorto ombre perdersi nella notte, mentre risuonavano voci e latrati. Infine gli echi della caccia sono svaniti e Mabon è rimasto a lungo a sognare questi uomini forti che non temono di cacciare il dio, benefico e terribile, in un rito di sangue che sgomenta il giovane pastore.  

Mabon si siede sotto un albero e mentre le pecore pascolano suona il flauto, come ogni giorno. Dolce è la sua musica, come il suo animo. Sempre uguale a se stessa è la sua vita; altro non chiede il giovane. Ma più volte i suoi pensieri ritornano alla grande caccia della notte precedente, a quegli uomini vigorosi come tronchi di alberi che non temono di sfidare le tempeste.

      Dopo aver suonato, Mabon scende verso il ruscello per calmare la sete. Guarda nell’acqua limpida di una pozza il suo riflesso, poi si china per bere e in quel momento gli sembra di udire un lamento. Si dirige tra i canneti e vede, steso sulla riva dello stagno, un uomo. Ha i capelli rossi come il rame e una folta barba. È nudo e sul fianco destro vi è un’ampia ferita, da cui esce ancora un po’ di sangue. Mabon non ha mai visto quell’uomo, ma sa chi è: uno dei cacciatori che hanno partecipato alla grande caccia al dio. Il dio era un cinghiale feroce e in questa forma ha fatto strage ieri. L’uomo ferito, che si lamenta debolmente vicino al fiume, è stato colpito dalle zanne di Cernunnos. I compagni non si sono accorti di lui ed egli è rimasto per tutta la notte vicino al ruscello, senza ricevere cure.

      Mabon vorrebbe aiutare l’uomo ad alzarsi, ma questi non può sollevarsi, troppo è il sangue che ha perso, e geme debolmente. Il giovane pastore non ha forza sufficiente per sollevare quest’uomo più grande di lui: non è un tenero agnello come quelli appena svezzati che Mabon porta sulle spalle, al giovane pastore il cacciatore ferito appare splendido e terribile come il cinghiale.

Mabon si china su di lui e lava con cura la ferita. Guarda lo squarcio e il suo cuore trema, il viso cambia colore e gli pare di essere sul punto di svenire. Ma l’uomo perde ancora sangue, ha bisogno di aiuto e Mabon si scuote, si alza e corre alla casa a chiamare i fratelli. Tutti insieme trasportano il ferito nella loro capanna, come i cacciatori che, al termine di un lungo inseguimento, quando la giornata è stata fruttuosa e l’abile mano non ha mancato il bersaglio, sollevano una magnifica preda e tutti accorrono a vedere, sgomenti, la fiera che la lancia ha abbattuto.

      L’uomo riesce solo a dire il suo nome, Anwas, e poi perde i sensi. Il sacerdote, chiamato da Mabon stesso, esamina la ferita e dice che l’uomo guarirà: ha solo bisogno di cure e riposo.

      Mabon non vuole staccarsi da lui: che i fratelli si occupino del gregge, lui ha trovato l’uomo e sarà lui a prendersi cura dell’ospite. Non sa leggere nel proprio cuore, Mabon, e non sa spiegare perché non lascia altri avvicinarsi al ferito, perché veglia ogni suo respiro: dio potente è Cernunnos, ma non meno potente è quello che accende il cuore degli uomini, a esso neppure Cernunnos potrà sfuggire, anche se per lui è ancora lontana l’ora.

La sera Anwas riapre gli occhi. Chiede da bere e Mabon gli offre l’acqua. Poi l’uomo scivola nuovamente nel sonno. A lungo lo guarda il giovane pastore e il suo cuore batte più in fretta.

      Quella notte, steso di fianco al giaciglio su cui riposa il cacciatore ferito, Mabon cerca invano il sonno: il compagno fedele di tutte le notti ora lo sfugge, come un amante volubile, e rifiuta di accoglierlo. Il suo corpo arde di un desiderio che ora assume una forma precisa, quella del corpo vicino al suo, che nel buio della stanza non si vede, ma il cui respiro accende i sensi del giovane. A tratti il ferito geme e Mabon si alza, accende la candela e lo guarda. E a lungo indugia il suo sguardo.

      E quando infine il sonno scende su di lui, non arriva da solo, ma in compagnia di sogni. Ma non sono le immagini serene di altre notti. È il corpo di Anwas che appare, nella sua maschia bellezza, è il cacciatore che si alza, si avvicina a Mabon e lo abbraccia. Il piacere è un’onda che trascina con sé Mabon, portandolo lontano dal sonno: il pastore si desta nuovamente e, pieno di vergogna, pulisce le tracce del seme che ha sparso.

      Il giorno dopo Mabon si sveglia presto, benché abbia dormito poco. Il cacciatore ferito riposa, il respiro appare regolare. Mabon esce a lavarsi e quando torna, Anwas è seduto sul giaciglio e si guarda intorno, stupito.

      - Dove sono? Ancora sulla terra, tra i vivi, o ho varcato la soglia del mondo dei morti. E chi sei tu, uomo o dio?

      A fatica risponde Mabon, mentre il sangue affluisce alle sue gote. Prova vergogna davanti all’uomo che accende il suo desiderio.

      - Sei vivo, Anwas. Ti abbiamo trovato ferito e portato qui, nella casa della mia famiglia, nel villaggio delle due grotte. E io sono solo un pastore.

      - Se sei uomo, come sai il mio nome? La tua bellezza è quella di un giovane dio.

      Mabon vorrebbe ritrarsi, gli sembra che gli occhi dell’uomo gli leggano dentro pensieri di cui si vergogna.

      - Tu stesso hai detto il tuo nome, quando ti abbiamo trovato ferito, al fiume. Ma ora non ti ricordi.

      Anwas scuote la testa. I suoi capelli color del fuoco sembrano accendersi ai raggi del sole che entra nella stanza.

      - Nulla ricordo, se non le zanne del cinghiale. La grande preda mi è sfuggita, altri, più fortunato di me, l’ha di certo abbattuta con il suo forte braccio.

      Annuisce Mabon e non trova parole per rispondere a quest’uomo vigoroso che è davanti a lui. I propri pensieri gli sembrano sciocchi, le frasi che gli vengono alle labbra sono senza sapore e il giovane pastore vorrebbe fuggire e nascondersi, ma non può allontanarsi dall’uomo che lo guarda, prigioniero di una catena non meno forte e implacabile di quella che lega gli schiavi sulle navi, quelli costretti alla dura fatica del remo, che piegano la schiena alla frusta. 

      Esitando Mabon chiede se Anwas ha genitori o fratelli a cui annunciare che il loro congiunto non è morto nella caccia divina, ma giace ferito. Non osa, il pastore, formulare la domanda che alla bocca gli è salita, se Anwas ha una sposa o un compagno.

      Solo è Anwas, solo venne nell’isola del grande dio. Nessuno lo cercherà. Ma se qualcuno avviserà il sacerdote del villaggio in cui il cacciatore vive, non apriranno la sua casa e non ne disperderanno i beni, credendolo morto.

      Mabon assicura che provvederà a fare quanto l’uomo gli chiede. Poi gli offre cibo e bevande, che Anwas non rifiuta.

      E quando infine il cacciatore si è saziato e si stende nuovamente a riposare, Mabon, preso da improvvisa vergogna per il suo lungo indugiare presso il ferito, esce e corre a eseguire il compito che gli è stato assegnato.

      Sorride Anwas, pensando al giovane che lo ha soccorso. Ripensa a quel viso dolce, agli occhi scuri, al corpo che la tunica nasconde e svela e dolce è il pensiero che lo accompagna verso il sonno.

      La ferita si rimargina in fretta, Anwas è forte e presto incomincia ad alzarsi dal letto, sostenuto da Mabon. I fratelli lasciano che sia il giovane a occuparsi del ferito, hanno capito i suoi sentimenti.

      Vincendo il timore che gli imporpora le guance, Mabon chiede ad Anwas della sua vita e il cacciatore parla del villaggio lontano in cui nacque, della sua decisione di abbandonare quelle terre e raggiungere l’isola del dio venerato.      Narra di guerre e di battaglie, di grandi cacce e di riti.

      Lo ascolta Mabon, rapito da quel racconto, e gli sembra che ogni parola di Anwas gli entri in cuore.

      Quando Anwas ha narrato di sé, è il suo turno di chiedere, ma Mabon ha ben poco da raccontare e gli sembra davvero di aver vissuto invano. Prova vergogna di fronte a quest’uomo così forte, che ha conosciuto altre terre e ha combattuto, che non teme il pericolo.

      Confuso Mabon abbassa il capo, quasi una colpa gravasse su di lui. E Anwas, vedendolo come un tenero agnello smarrito, gli prende una mano. Mabon alza lo sguardo e quando i suoi occhi si fissano in quelli del cacciatore, arrossisce. Gli ha letto negli occhi, Anwas, e lo attira a sé. I loro visi sono vicini e Anwas per primo conosce la bocca del giovane pastore, in un dolce bacio. Le sue mani accarezzano quelle guance che la barba vela appena.

      Violento si accende il desiderio. Anwas è ancora debole, ma il suo membro si erge, vigoroso, come giovane quercia che il vento non piega. E allora le sue mani sfilano la tunica di Mabon. Bello è vedere il giovane pastore nudo, nel cui cuore il desiderio e la vergogna lottano. Bello più ancora è guidarlo a sedersi sul suo ventre e sentire le cosce del giovane premere sul sesso ardente.

      Anwas non ha bisogno di chiedere, sa che Mabon non ha conosciuto un uomo. E allora inumidisce di saliva le sue dita e stuzzica l’apertura segreta, il frutto celestiale che tra poco coglierà. Mabon lascia che le mani del cacciatore lo guidino, forti e sicure: si affida a lui come il naufrago alla corrente, ben sapendo che sarebbe inutile lottare contro una forza che lo sovrasta.

      Il giovane pastore si solleva leggermente e quando ridiscende il membro possente di Anwas entra dentro di lui. Senza rimpianti perde la sua verginità Mabon, trionfante conquista sì bella preda il cacciatore. A lungo cavalca Mabon e sente l’onda del piacere trascinarlo sempre più lontano.

      Insieme il loro desiderio si compie, insieme gemono.

      Poi Mabon si stende a fianco di Anwas, ma questi, ancora debole per la ferita, sprofonda nel sonno. E Mabon bacia il corpo che giace accanto al suo.

      Anwas trascorre ancora alcuni giorni a casa di Mabon: recupera forze e ogni notte si dedica con il giovane a un gioco che arreca a entrambi gioia. Il pastore entra in un giardino di delizie e offre a colui che lo guida tutto il suo corpo. Ogni giorno le sue labbra incontrano, più e più volte, le labbra dell’amato e spesso esse ne accolgono il membro vigoroso, che le sue mani accarezzano. E i fianchi del pastore sono un terreno che sovente ara il vigoroso cacciatore.

      Non da solo Anwas lascia la casa che lo ha accolto: Mabon lo segue e per un anno i due vivono nel villaggio del cacciatore, dividendo lo stesso giaciglio e dedicandosi ai giochi dell’amore.

 

      Molti partecipano una sola volta alla caccia sacra e poi se ne tengono lontano, pur conservandone il ricordo per tutta la vita. Altri non saprebbero rinunciarvi per nulla al mondo e, avendo gustato più volte l’ebbrezza dell’inseguimento e del sangue, continuano fino a che le forze glielo permettono e anche anziani partecipano alle battute, pur non essendo più tra coloro che braccano da vicino Cernunnos, il terribile.

      Ora Mabon non vorrebbe che Anwas tornasse a inseguire il dio. Ricorda quando trovò l’amico ferito e si chiede, sgomento, se il temerario cacciatore non rischi questa volta di incontrare la morte, che quasi ne fece la propria preda già un anno fa.

      Ma il richiamo della caccia è troppo forte. Anwas non può sottrarsi e invita Mabon a partecipare, per una volta almeno, a questo rito sanguinario e feroce, che accende il sangue e i sensi.

      Mabon non vorrebbe, ma non vuole separarsi dall’amato, non può saperlo lontano, esposto al pericolo. Crede che forse, avendolo vicino, Anwas sarà meno temerario. Accetta perciò di partecipare alla caccia.

      La luna è alta in cielo e illumina la notte. Nel cuore di Mabon c’è un oscuro presentimento, ma il giovane si dice che forse è solo paura.

      Il dio ha assunto la forma dell’orso e la caccia è spietata. Al solo vedere l’ombra del feroce animale scivolare tra gli alberi, Mabon rabbrividisce. È ben contento quando la belva li distanzia, ma breve è la sua gioia.

      L’orso ritorna sui suoi passi, le sue zampe scagliano lontano i cani, le zanne dilaniano un cacciatore e ora il dio è davanti a Mabon. Il terrore blocca il giovane, che invano alza la lancia: il pastore sbaglia il colpo e il dio è su di lui. Le zanne dell’orso squarciano le teneri carni e la morte ghermisce l’infelice, che con l’ultimo respiro chiama l’amico. Anwas vede Mabon crollare a terra, il petto squarciato, e grida di dolore. Potrebbe uccidere l’animale con la sua arma, ma non gli importa più la vita, solo la morte brama.

      L’orso si avventa su di lui e lo abbatte, senza che il cacciatore si difenda.

I corpi di Mabon e Anwas giacciono insieme, nella radura, mentre la caccia si allontana.

     

      Nella grande foresta sacra al dio, vi sono due orsi. Uno, più grande, ha il pelame rossiccio come il rame, l’altro, più piccolo, è nero come la notte. Sono inseparabili. Il dio cacciatore non ne colpisce mai uno, senza abbattere anche l’altro.

      E quando l’autunno si ritrae e lascia il suo posto al soffio del gelido inverno, il dio Cernunnos abbandona i boschi e si rifugia in una valle segreta che nessun uomo può vedere, seguito da orsi e cinghiali, cervi e lupi. Appena entrano nella valle, gli animali riprendono le loro sembianze umane: essi ridivengono gli uomini che erano, i cacciatori che hanno inseguito il dio e che hanno trovato la morte nella grande caccia.

      Mabon e Anwas ritornano uomini e si stringono, felici. Si abbracciano e i loro corpi non vogliono più separarsi. Nella valle segreta, ogni anno, essi conoscono le gioie dell’amore.

 

III - Il sacrificio

Il sacrificio colore 100dpi

      Non richiede grandi cerimonie e offerte, il dio Cernunnos: la sua forza immensa non ha bisogno di alimentarsi con sacrifici di animali. Il dio non vuole neppure sacerdoti che si consacrino interamente a lui: i suoi ministri sono agricoltori e pastori, come gli altri abitanti dell’isola, più di rado pescatori, perché Cernunnos è un dio di terra e nell’isola anche coloro che si dedicano alla pesca di rado si allontanano molto dalla riva.  

      Una volta l’anno però Cernunnos chiede una vittima, la più preziosa: un uomo. È il dio stesso a sceglierlo. In ogni villaggio, quando giunge il secondo plenilunio d’autunno e il dio si dedica alle grandi cacce, tutti gli uomini tra i trenta e i quarant’anni che hanno cacciato il dio in una delle sue forme animali, sono chiamati a estrarre da un’urna coperta una delle pietre che vi sono state poste. Solo una di esse è nera e chi la prende deve recarsi presso il consiglio dei sacerdoti.

      È il dio a guidare le scelte, perché a essere selezionati sono sempre uomini che hanno deciso di non sposarsi, uomini forti, che accendono i desideri di un dio forte.

      Gli uomini prescelti in ognuno dei cento villaggi dell’isola confluiscono nella grande sala dalle porte di bronzo, ai piedi del monte sacro e lì avviene una seconda estrazione. Questa volta tutte le pietre sono nere e una sola è bianca.

      L’uomo che estrae la pietra bianca viene portato nel tempio e lasciato nella stanza dove si trova la grande statua del dio, eternamente velata.

      Il giorno dopo i sacerdoti ritornano al tempio e trovano il corpo della vittima sacrificale in un lago di sangue: il dio l’ha posseduto e la virilità divina ha lacerato la carne mortale. L’uomo il cui corpo giace ai piedi della statua ha vissuto una notte d’amore, ma l’amore del dio uccide.

     

      Per anni il grande rito si è compiuto, senza che mai nessuno si sottraesse.

      Ma giunge un giorno in cui l’impensabile accade.

Wyn ha estratto la pietra nera al suo villaggio e ora sale verso il monte sacro. I corvi che vede volare davanti a sé gli sembrano un oscuro presagio. Il giovane ha partecipato alcune volte alle cacce, ma mai si è spinto a braccare il divino animale da vicino. Non pensava che sarebbe stato tra i prescelti, uno dei cento tra cui il dio eleggerà il suo compagno di una notte.

      Sono in cento gli uomini che dovranno estrarre la pietra, ma il cuore di Wyn è oppresso, un cupo terrore si fa strada dentro di lui. Vorrebbe volgere i suoi passi verso altra meta, ma troppo teme il dio possente, a cui nulla sfugge. 

      Davanti alla grande sala dalle porte di bronzo, stanno cento uomini forti. Wyn ne scruta i volti, ma in nessuno traspare la paura: molti sembrano lieti, tutti orgogliosi di essere tra i prescelti.

      I battenti si aprono e i cento uomini lasciano le loro vesti ai lati della soglia e nudi entrano nel tempio. Ognuno deposita nell’urna la pietra nera che ha portato con sé. Tutte scure sono le pietre che ora riempiono l’urna, eppure uno dei cento estrarrà una pietra bianca come un raggio di luna.

      Il sacerdote ha coperto l’urna e tutti gli uomini si inginocchiano, in cerchio. Ognuno rivolge una preghiera silenziosa al dio.

      Poi si alzano. Wyn li guarda. Sono forti, questi uomini, e sui loro volti Wyn legge il coraggio. Sono belli i loro corpi, possenti. Ognuno è diverso dagli altri, ma tutti insieme formerebbero un esercito imbattibile.

      Il dio è vicino, gli uomini ne avvertono la presenza e a molti il membro si tende, acceso da un desiderio che guizza improvviso, come una fiamma che a lungo ha covato tra le braci e infine si alza, con forza.

      È bello vedere questi maschi nel fiore degli anni, nel pieno delle forze e Wyn si dice che di certo il dio sceglierà uno di questi uomini, che desiderano il suo amplesso divino e mortale. Il suo pensiero cerca di allontanare da sé il sacrificio. Altri sarà il prescelto, qualcuno che lo desidera con tutto se stesso, la cui carne già si accende pregustando l’amplesso fatale.

      Il momento è giunto. Il sacerdote porge l’urna all’uomo che si trova a sinistra dell’ingresso: è un pastore con i capelli e la barba color del fuoco e gli occhi verdi. Il sesso, perfettamente teso, gli batte contro il ventre, grande e forte. La sua mano decisa si infila nel vaso e ne estrae una pietra. È nera come la notte e il viso dell’uomo si contrae in una smorfia di delusione. Come vorrebbe essere al suo posto, Wyn!

      Uno dopo l’altro gli uomini infilano una mano nell’urna e ne estraggono una pietra. Nere sono, tutte, nere come la notte, nere come la paura che stringe Wyn nella sua morsa.

      Cinquanta uomini hanno estratto una pietra nera. Tocca a Wyn. Il respiro gli si fa corto, a fatica controlla il tremito che lo pervade.

      Wyn ha preso una pietra e gli pare che gli ferisca le dita. L’estrae e la mostra. È bianca, come il viso di Wyn, che sente il sangue fermarsi e la vita sfuggirgli.

      Tutti gli uomini si inginocchiano, rivolti verso di lui. Un sacerdote gli si avvicina e gli pone al collo il monile d’oro sacro al dio, che prima di lui hanno portato le altre vittime.

      Wyn non riesce a parlare, l’angoscia gli chiude la bocca e gli stringe il cuore in una morsa terribile.

      Gli uomini si alzano. Uno dopo l’altro passano davanti a lui, inchinandoglisi nuovamente, ed escono. Wyn li vede riprendere i loro abiti e allontanarsi.

      Sono rimasti solo i sacerdoti. Essi lo accompagnano al tempio della montagna e lo lasciano nella sacra cella dove sta la statua del dio, coperta da un velo. 

      È ancora giorno. Wyn contempla sgomento la statua e nel suo cuore la paura cresce e si moltiplica, come una valanga che rotola impetuosa a valle. Infine il terrore ha il sopravvento e Wyn si volta verso la porta.

      Wyn sa che non può provocare la collera del dio, ma non riesce più a controllare la paura. I sacerdoti hanno lasciato il tempio, nessuno lo vedrà uscire.

      E allora Wyn si muove, con passi incerti. Sulla soglia si volta ancora a guardare la statua del dio. Il velo che la copriva è caduto a terra e ora l’immagine divina, che rappresenta Cernunnos con le corna del cervo, l’enorme sesso eretto, sembra guardare la vittima sacrificale. Wyn lancia un grido e fugge.

      Non sa dove lo portano i suoi piedi, non sa dove trovare scampo. Nel suo cuore sa che non esiste salvezza, ma il terrore è più forte di tutto. Corre Wyn, come lepre inseguita da un cane rapido e feroce, corre, pur sapendo che la fuga è vana e che la collera del dio si abbatterà su di lui.

      Il mattino, quando i sacerdoti vengono per prendere il corpo della vittima, non c’è traccia di Wyn. Il velo che copriva la statua è caduto e sul viso del dio c’è una espressione di corruccio che lascia gli uomini sbigottiti.

      Terribile è la collera del dio: per giorni e giorni infuria la tempesta, che distrugge alberi e raccolti, stermina greggi e mandrie; gli animali selvatici si rifugiano nelle foreste impenetrabili e i pesci si allontanano dall’isola. Gli uomini smarriti supplicano invano il dio possente: Cernunnos sembra ignorare le loro preghiere.

      I sacerdoti si riuniscono. Concorde è la loro decisione: occorre catturare il fuggiasco e riportarlo nel tempio del dio, per placarne la furia.

Incomincia allora una grande caccia: questa volta la preda non è il dio sotto forma animale, ma l’uomo che ha osato sottrarsi all’amplesso divino.

      Per diversi giorni Wyn è vissuto nei boschi cibandosi di ciò che trovava, senza avvicinarsi alle case, vittima di un terrore cieco. Ora sente l’abbaiare dei cani e il richiamo dei cacciatori. Sa di essere la preda e sa che la morte lo attende. Stanco, rinuncia alla vana fuga. Senza lottare gli uomini lo catturano e lo consegnano ai sacerdoti.

      Quella stessa sera, Wyn viene abbandonato ai piedi della statua, le mani e i piedi saldamente legati.

      Wyn piange, tremante. Quando viene la notte, il terrore gli è compagno a lungo, finché la stanchezza lo vince e il sonno si impadronisce di lui.

      Il mattino seguente i sacerdoti giungono alla cella e trovano il prigioniero vivo e legato, così come lo lasciarono la sera: il dio non ha voluto la vittima.

      A lungo si interrogano, gli uomini del dio, e questo infine pare loro migliore: sacrificare l’uomo, recidendogli la gola. Il sangue dell’uomo placherà la furia di Cernunnos.

      Ma quando il sacerdote avvicina il coltello sacrificale, il corpo di Wyn si trasforma: rimpicciolisce, si copre di un pelo grigio, gli spuntano lunghe orecchie e una corta coda. L’uomo è divenuto un coniglio, che fugge tra gli alberi. Fugge ancora, Wyn, fugge per sempre, la paura è la sua eterna compagna; e gli uomini lo disprezzano, perché ha osato sottrarsi all’abbraccio del dio, dopo aver partecipato alla caccia, spezzando l’antico patto.

 

      Da allora la vittima viene legata e lasciata ai piedi della statua del dio: prima non era mai stato fatto, pareva blasfemo che qualcuno cercasse di sottrarsi alla volontà divina.

 

      Altri autunni passano e altre vittime sono offerte sull’altare del dio. Gli uomini vanno alla morte, a volte orgogliosi di offrirsi al dio, a volte tremando, ma nessuno cerca di sottrarsi.

      Nuovamente è giunto il secondo plenilunio d’autunno. Tra i cento maschi vigorosi che sono in piedi nella sala, vi sono Urien e Tuan, che un identico amore unisce in un legame che solo la morte potrà sciogliere. Vivono in villaggi vicini e ogni notte, da un anno, uno dei due raggiunge la casa dell’altro e solo al mattino fa ritorno al proprio focolare. Più volte hanno partecipato alle cacce del dio e l’uno e l’altro hanno abbattuto una volta la preda, Urien quando Cernunnos aveva la forma del cervo, Tuan quando era un lupo famelico.

      Entrambi hanno estratto la pietra nera e ora sono nella grande sala. In entrambi vi è timore. Il primo a estrarre la pietra è Urien. È nera e Tuan respira liberamente: il suo compagno non troverà la morte tra le braccia del dio.

      Ma quando è il turno di Tuan di estrarre, egli si trova in mano una pietra bianca. Guarda smarrito Urien e vede sul suo volto un dolore immenso. Ma il loro destino è questo e non c’è modo di sciogliere il nodo.

      Gli uomini si inginocchiano e sul viso di Urien, Tuan vede le lacrime scorrere. Quando tutti lasciano la sala, inchinandosi uno a uno davanti al prescelto dal dio, Urien gli prende la testa tra le mani e lo bacia sulla bocca, poi si china e scompare, fuggendo via.

      I sacerdoti accompagnano Tuan al tempio. Batte forte il cuore di Tuan. Sa che il suo corpo troverà la morte e che non rivedrà più Urien, il compagno dei suoi giorni, con cui si era giurato fedeltà: il giuramento è sciolto dalla volontà del dio. L’angoscia preme su di lui, ma è devoto al dio e non vuole provocarne l’ira. Si rassegna alla sorte che l’attende, ma il suo cuore soffre, della separazione più ancora che della morte. E non minore è il dolore di Urien, che, lontano da tutti, cerca nel fitto del bosco un luogo dove sfogare il suo dolore senza che nessuno lo veda. Non potrebbe certo partecipare, il cuore oppresso dalla pena, ai giochi virili di questa notte.

      Legato ai piedi della statua del dio, Tuan pensa al compagno che lascia e il suo cuore sembra spezzarsi per la pena. Ma quando scende la sera, sente nella stanza una presenza che gli incendia il corpo. Il suo membro di irrigidisce, come un soldato che, a riposo durante la notte, sente la chiamata del corno e si drizza, teso e pronto a scattare. Il velo che copre la statua del dio scivola al suolo e la statua - non più statua, ormai, ma corpo stesso del dio, vibrante e possente - appare in tutto il suo splendore. Il sesso eretto è enorme e Tuan sa che quella è la spada che trafiggerà la sua carne, ma il desiderio è più forte di ogni altro sentimento. Il dio ha le zanne del cinghiale, uno dei simboli della sua potenza.

      Le corde che legano la vittima si sciolgono e Tuan si mette in ginocchio davanti a Cernunnos il terribile. Le sue mani, tremanti, accarezzano la carne divina, scivolano sulle cosce e poi si fermano sulle natiche, mentre la sua bocca avida si avvicina all’asta tesa e la lingua la percorre lentamente. Mai nella sua vita Tuan ha conosciuto un simile piacere: tutto il suo corpo si tende in uno spasimo di desiderio, mentre le sue mani stringono l’asta formidabile e la bocca cerca, invano, di inghiottirne la punta, troppo grande. Tuan sugge una goccia del seme divino e gli sembra di gustare un nettare dolce come mai provò.

      A lungo le mani dell’uomo percorrono il membro del dio possente, a lungo la sua bocca e la sua lingua ne accarezzano la cima. E quando il piacere riempie il corpo di Cernunnos, Tuan accoglie nella sua bocca ogni goccia del seme divino e mai si sazierebbe di tale bevanda.

Il desiderio guida Tuan a trovare nuovi gesti e, senza levarsi in piedi, egli accarezza con le mani il torace poderoso del dio temibile, poi scivola dietro il corpo e i suoi denti lasciano sulle natiche di Cernunnos segni rossi. La sua lingua scorre a lungo nell’incavo tra le natiche del dio e le sue mani passano avanti, ad accarezzare l’asta, nuovamente tesa. Indugia la lingua sull’anello di carne che nessuno ha mai violato, mentre le dita carezzano il membro possente e i testicoli fecondi, fino a che nuovamente il seme del dio sgorga e Tuan lo raccoglie nella mano, che porta alla bocca.   

      Anche il membro di Tuan svetta e il suo desiderio cresce, senza riuscire a placarsi. Le mani che percorrono il corpo del dio gli trasmettono sensazioni tanto forti, che gli sembra continuamente che il piacere debba sgorgare, ma, come un viandante sale in cima a una montagna e pensa di aver raggiunto la sommità, ma vede profilarsi un’altra e più alta cima e quando infine giunge a questa, ne vede un’altra ancora, così in Tuan il desiderio sembra crescere all’infinito e ogni attimo di questa notte è un delirio di estasi.

      Le mani del dio si poggiano sul capo dell’uomo e lo accarezzano, poi il dio lo solleva e le loro bocche si baciano. Tuan ha l’impressione di svenire tra le braccia del dio e quando la mano vigorosa di Cernunnos gli accarezza il membro, Tuan scopre un piacere tanto forte da farlo crollare esausto tra le braccia divine.

      Tutta la notte il dio e l’uomo si stringono e l’uno e l’altro conoscono il piacere.

      Ma quando la notte si fa chiara a oriente e l’aurora dalle dita di rosa si approssima, il dio guida Tuan a stendersi e a offrirgli i fianchi. L’uomo sa che la sua vita è alla fine. Il pensiero va all’amico, di cui conosce la sofferenza, e il nome gli sfugge dalle labbra.

      Il membro gagliardo preme contro l’apertura segreta e Tuan sente un’ondata di piacere squassarlo tutto, ma quando il dio entra dentro di lui, il piacere, che ancora cresce, deve lottare con il dolore delle sue viscere squarciate dalla potenza del dio. Geme Tuan, mentre il dolore cresce in lui e il godimento cresce ugualmente. L’asta divina è come una spada che squarcia, eppure essa non reca solo sofferenza, ma ugualmente diletto.

      Ancora una volta Tuan pensa all’amico lontano, mentre dolore e piacere lottano insieme. E quando infine il dio sparge il suo seme nelle viscere dilaniate di Tuan, questi grida il nome dell’amato e abbandona la vita.

      E, come sempre avviene quando Cernunnos reclama la sua vittima, in tutta l’isola nessun uomo giace con una donna, dal tramonto all’alba, perché questo impone il dio, che nella notte si unisce a un uomo mortale. Quando il cielo si scurisce, nudi gli uomini lasciano le loro case e si dirigono chi verso i campi arati di recente, chi nei boschi, chi alle fonti.

      Un desiderio brucia nel loro ventre, perché gli amori del dio accendono i loro sensi e tutta l’isola sembra fremere. Alcuni rifiutano di unirsi ad altri maschi e lasciano che siano le loro mani ad alleviare la tensione, tanto forte da essere intollerabile. Molti invece cercano compagni e si uniscono a essi, in una festa selvaggia, che si spegnerà solo alle prime luci dell’alba. Il loro seme, a volte anche il loro sangue, si sparge sulla terra e la feconda, in nome del dio che nella stessa notte dà morte e vita alla vittima sacrificale.

      Quando il cielo incomincia a schiarirsi a oriente, gli uomini si separano e raggiungono una sorgente, dove lavano i loro corpi, togliendo la terra, il seme e le altre tracce di una notte di passione. Poi ritornano nelle loro case e riprendono la loro vita.

 

      Cernunnos cammina nella foresta, accompagnato dai suoi cani da caccia. A essi se ne è aggiunto uno nuovo, che ora corre in avanti, ora si ferma ad aspettare il suo signore. Quando Cernunnos lo lancia all’inseguimento della preda, esso corre veloce e senza paura affronta anche il cinghiale e l’orso, fiere temibili.

      E ora che il mite autunno cede il posto all’inverno dalle mani di ghiaccio, il cane ritorna uomo. Tuan siede a fianco del dio intorno al fuoco. Spesso la sua bocca accoglie il membro del dio, ma egli non giace con i compagni, con coloro che prima di lui sono stati sacrificati al dio e ora lo accompagnano. Quando il dio è sazio di lui, Tuan riprende la forma animale e corre alla casa dove Urien trascorre notti insonni.

      Spesso Urien esce di casa, la notte, dilaniato da una sofferenza che gli nega il riposo. E quando vede il cane, sente che la piaga si rimargina. Accarezza l’animale e insieme camminano nella notte. Poi, prima dell’alba, Urien ritorna alla sua dimora e il cane scompare.

      Quando le stagioni hanno compiuto il loro corso e l’autunno ritorna a vestire di nuovi colori i boschi dell’isola, si svolge la grande caccia, nel primo plenilunio. Urien cerca la morte, ma il dio non gliela concede. È invece il cacciatore a colpire con la lancia il dio, che ha la forma del lupo, e a recidergli la gola. Si abbatte l’animale al suolo e Urien, per la seconda volta, si impossessa della virilità dell’animale e se ne nutre, ma nel suo cuore c’è una notte priva di stelle e il cacciatore vittorioso non partecipa alla grande festa notturna.

      Si stende lontano dal fuoco, lontano dal viluppo dei corpi degli altri cacciatori. Il cane che viene accanto a lui tutte le notti non giunge e la disperazione assale il cacciatore vittorioso. Tutti gli altri lo invidiano, ma in lui vi è solo sofferenza ed egli prega il dio di chiamarlo a sé. Gli sembra che il dio risponda.

      Nelle notti successive il cane torna a trovarlo, ma il dolore di Urien è troppo forte: ormai solo la morte egli desidera.

      Il dio esaudisce la preghiera. Nel secondo plenilunio d’autunno, a estrarre la bianca pietra è Urien.

      Urien ringrazia il dio: la morte spegnerà le sue sofferenze.

      E nel santuario del dio, un uomo è nuovamente legato ai piedi della statua. Giunge la notte e le corde si sciolgono, senza che mano mortale le abbia toccate, mentre la statua si fa carne.

      Urien conosce una notte di estasi e sparge più volte il suo seme. E quando il dio entra trionfante in lui, il cacciatore abbandona una vita che ormai gli è di peso.

     

      Il dolore e il piacere svaniscono, ma a Urien pare di risvegliarsi. Egli vede accanto a sé il dio, che gli sorride. Si alza Urien e scopre di non avere più forma umana. Dalla sua bocca non escono parole e la sua voce è l’abbaiare di un cane. Dell’animale che accompagna il dio Urien ha anche la forma e quando Cernunnos lascia il tempio, il cane fedele lo segue.

      Batte forte il cuore di Urien: ora egli sa chi è il cane che veniva a trovarlo ogni notte e gli sembra una felicità insperata poter aver ancora al suo fianco, anche se in forma animale, il compagno che si era scelto.

      E infatti dalla muta di cani uno si stacca al sopraggiungere del dio e, dopo aver reso omaggio al suo signore, corre festoso dal compagno.

      Cacciano a lungo nell’autunno, mentre il sole si alza sempre più a fatica nell’orizzonte, come un vecchio gravato dagli anni. Sapere di avere a fianco Tuan è per Urien una gioia, anche se non possono parlarsi, amarsi.

      Ma quando l’autunno dal manto colorato cede il passo al bianco inverno, il dio scende nella valle segreta, dove non vi sono stagioni, e i suoi compagni riprendono forma umana. A Urien non pare vero di avere davanti a sé l’uomo che a lungo ha pianto e le lacrime ritornano nei suoi occhi, ma il compagno gli rivela che al sopraggiungere di ogni inverno riprenderanno forma umana fino all’autunno successivo.

      Lo abbraccia Urien e insieme giacciono, ebbri d’amore e di desiderio.

      Il dio guarda il loro amplesso e sorride, ma nel suo cuore sente che qualche cosa gli manca e gli pare che quei due mortali siano più fortunati di lui, del dio possente cui basta aggrottare la fronte per far tremare gli uomini.

 

2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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