Il telamone

 

Sfondo4f

 

A Giovanna, con molte scuse  

 

 Federico percorre il sentiero. Non c’è nessuno in giro: è ancora molto presto, Federico si alza all’alba. E poi in questa stagione i turisti sono pochi, maggio è appena incominciato. Il cielo è sereno: nella distesa di un grigio chiaro uniforme non si vede neppure una nuvola. Anche il mare è calmo, un immenso pianoro di un grigio variegato: nella cala l’acqua è chiara e trasparente, più lontano è scura, quasi color antracite.

Federico continua a camminare. Veniva spesso qui, da bambino. E anche negli anni successivi, dopo il trasferimento a Palermo, quando in estate tornava sull’isola, amava camminare per i sentieri, lungo la costa o sui fianchi della Montagna Grossa, guardando dall’alto le cale e le cave di tufo, i giardini ipogei e il paese. Già allora non gli piaceva mescolarsi con la folla dei turisti, anche se non erano ancora tanti come ora.

Federico guarda la vegetazione, piuttosto rada, che solo a tratti si infittisce nella macchia. Questo paesaggio spoglio, che ha sempre amato, gli sembra in sintonia con il vuoto che ha dentro.

Federico osserva un ciuffo di fiori vicino a un oleastro. Ricorda i profumi di questa stagione. Erano tanto intensi da stordirlo. Ma ora è inutile che si chini su un fiore: non sentirebbe nessun odore.

Quando è tornato sull’isola, quindici mesi fa, non ha ritrovato la stessa intensità di colori che aveva impressa in mente, ma si è detto che il ricordo deforma la realtà: erano molti anni che non tornava nell’isola. Ha pensato che succedesse come con quei parchi visti nell’infanzia, che appaiono immensi e che, ritrovati da adulti, si rivelano miseri giardinetti.

Ma non era quello. Non solo quello. Forse avrebbe capito prima, se non vivesse così isolato, se avesse modo di parlare con gli altri. Ma da quando è arrivato, Federico ha evitato di stringere amicizia, di riannodare legami. È passato a salutare i pochi parenti ancora in vita, scambiando quel minimo di parole che la buona educazione imponeva. Gli amici della sua infanzia sono partiti o l’hanno dimenticato. Ne ha incontrati alcuni, soprattutto l’estate scorsa, tornati per le vacanze. Ma non ha davvero parlato con nessuno. Il suo unico desiderio è quello di rimanere in pace, con i ricordi.

Giorno dopo giorno, i colori si sono spenti e con i colori gli odori, i gusti, ogni sensazione. Non ci ha badato. Se n’è davvero reso conto solo un giorno in cui è passata una signora, una che sta in Lombardia, ma torna qui ogni estate. Salvo, il barista, le ha detto:

- Ma che bella camicetta hai, Giovanna, è azzurra come il mare questa mattina.

Federico ha guardato la camicetta grigia, che aveva appena una gradazione di azzurro, e ha capito. Le ultime sfumature sono scomparse nei giorni successivi. Da tempo il mondo intorno a Federico è grigio e insapore. Ma non ha importanza. Federico vive in un altro mondo, fatto di ricordi.

I ricordi sono colorati: l’oceano a Terranova è di un blu cupo, gli iceberg che la corrente trascina verso sud hanno riflessi azzurrini, la terra ha le venature della roccia e la sinfonia rossa degli aceri in autunno, un rosso diverso da quello sgargiante della bandiera canadese, che il vento faceva guizzare in cima all’asta della nave. I ricordi hanno odori: quello di pesce, che era difficile togliersi di dosso anche nei periodi trascorsi a terra; quelli del combustibile e dell’olio degli ingranaggi del motore della nave. I ricordi hanno sapori: le frittelle con lo sciroppo d’acero; il pesce appena pescato. I ricordi hanno il freddo che taglia la pelle delle giornate invernali, il calore del sole che accarezza.

Nelle lunghe ore che trascorre seduto al bar, prendendo una granita al latte di mandorla che non ha nessun gusto, Federico rivede quella grande isola che era diventata la sua nuova patria. La sua mente segue percorsi diversi. A volte parte dai sapori o dai suoni, a volte dal paesaggio o da qualcuno che ha conosciuto laggiù, oltre l’oceano. Il punto d’arrivo è sempre lo stesso, come il bar è la meta finale di tutte le sue passeggiate mattutine. Va bene così. Da quando Federico è arrivato qui, non cerca più di fermare i ricordi. Lascia che arrivino ai capelli scuri di Corrado, con due fili d’argento; alle rughe intorno agli occhi, scolpite dal sole e dal vento; al sapore della sua pelle, delle sue labbra, del suo seme; al suo odore di sudore. Corrado è il punto di arrivo di ogni percorso e Federico ne sarebbe contento, se fosse ancora in grado di provare emozioni. Altro non vuole, gli basta vivere in questi ricordi, in attesa della morte. 

Federico ha quarantadue anni e aspetta di morire. Non vuole affrettare la fine, anche se la desidera. Verrà da sé. I suoi sensi che non riescono più ad afferrare la realtà, il suo cuore che è già morto e che solo il ricordo a volte rianima, il suo desiderio completamente dissolto, la solitudine in cui si è barricato, erigendo difese insormontabili: tutto è una preparazione al distacco da una vita che ha smesso da tempo di avere un significato, che è solo più ricordo. Ricordi di mare in tempesta, con le onde che si abbattevano sul ponte dell’imbarcazione e la mano di Corrado sulla sua; ricordi di pasti consumati in comune, sulla nave, con Corrado seduto davanti a lui, che gli sorrideva; ricordi della loro casa, della foga con cui si abbracciavano e si amavano, sul letto, sul tavolo, sul pavimento, contro la parete, dopo ogni ritorno a terra. In una bramosia che poi si spegneva in tenerezza.

Otto anni. Sono lunghi otto anni, immensamente lunghi. Come hanno potuto svanire così?

A questo Federico preferisce non pensare. La frase di Corrado, il giorno in cui Federico compiva quarant’anni: “Voglio invecchiare con te, Federico”. Una dichiarazione d’amore, la più bella che avesse mai ricevuto. Ma Federico aveva avvertito, improvviso, un senso di disagio dai contorni vaghi, che nei giorni successivi si era definito ed era divenuto paura, paura di invecchiare, di non essere più desiderabile, e poi angoscia per il tempo che passa. Otto anni erano stati insieme. E ora aveva raggiunto i quaranta. Quella frase aveva aperto una falla. Entra in fretta l’acqua da una falla, riempie la stiva e la nave affonda. Federico si era sentito trascinare a fondo. Lui, che aveva sempre ignorato ogni proposta – e ne riceveva di proposte, più o meno esplicite, tante – di colpo si era scoperto vulnerabile, alla ricerca di una conferma del suo essere ancora attraente. E la casa della loro felicità – perché erano stati davvero felici – era diventata una prigione.

Federico non riesce a spiegarsi, gli sembra incredibile che sia potuto succedere. Ma è successo. Paco, il messicano di vent’anni, un corpo perfetto, desiderato da tutti. La rotta persa, un taglio a tutto, un addio di fronte a un Corrado incredulo e annichilito dal dolore. Glielo aveva letto negli occhi, quel pozzo di sofferenza senza fondo. Ma aveva ignorato l’angoscia che quel dolore risvegliava in lui, non aveva voluto capire.

Era durata un mese con Paco. Otto anni per un mese! La terza volta che Federico aveva gridato “Corrado!”, mentre veniva dentro di lui, Paco se n’era andato, sollevando Federico del macigno che gravava su di lui. Federico era partito in fretta, verso l’isola della sua infanzia, per chiudere, per morire, per passare le giornate a camminare e a stare seduto al bar, pensando agli otto anni in cui è vissuto davvero. 

 

Il tizio è andato a sedersi proprio al tavolo di Federico. Salvo è un po’ incerto. Che fare? Andare a dirgli di lasciare libero quel tavolino contro il muro, perché lì va sempre a sedersi un tipo? Il bar è quasi vuoto.

Salvo si avvicina. Il tizio sorride:

- Buon ciorno. Una cranita al lemone, per favore.

Minchia! Pure uno straniero, non sembrava. Però parla italiano, forse capisce.

- Mi scusi, le spiacerebbe cambiare tavolo? Qui si siede sempre un cliente…

Il tipo lo guarda come se lui fosse sceso dalla luna. Vaffanculo! Salvo e l’inglese non sono mai andati d’accordo; con le altre lingue manco ci ha provato: sono peggio di quelle femmine dei paesi musulmani, che non vogliono nemmeno farsi vedere e girano tutte velate, uno sa appena che ci sono quando le vede passare, ma come sono lo sa solo Iddio che le ha fatte (e forse il marito che le fotte, ma non è detto). Il suo bar non è mica in una delle due piazze o lungo la via principale, è in un angolo appartato, lo frequentano più i locali che i turisti.

- Sorry, I don’t understand. No cranita al lemone?

- Sì, sì, cranita al lemone

Vaffanculo! Prima che arrivi Federico ci vorranno ancora venti minuti, magari mezz’ora. ‘Sto tizio si beve la sua granita e si toglie dai cabasisi. E se poi non se ne va, chissenefotte? Federico si cerca un altro tavolo, per sostenere il muro, che tanto altro non fa. Non c’è motivo per prendersela con questo turista.

 

Federico si dirige verso il bar in cui trascorrerà buona parte della giornata, seduto sulla sedia appoggiata al muro. Volta l’angolo e guarda verso il bar. Di colpo sente il profumo del gelsomino, tanto intenso da stordirlo. Si volta, stupito, verso l’albero e ne guarda i fiori bianchi, le foglie verdi. Chiude gli occhi, perché i colori sono troppo intensi, troppo forti. Il cielo è di un azzurro violento, il blu del mare gli brucia le pupille, il rosso mattone delle imposte è un pugno in faccia. Solleva appena le palpebre, per lasciare che gli occhi si abituino a questa orgia di colori che di colpo si è accesa. Poi guarda davanti, verso il bar a cento metri. La parete bianca…

Federico si ferma. Anche il suo cuore si ferma un attimo e poi si mette a correre all’impazzata. Federico vorrebbe voltarsi e fuggire. Vuole scappare. Ma non c’è via di fuga. Le sue gambe lo trascinano verso il suo destino, il suo cuore lo spinge avanti, tutto il suo corpo lo tradisce, muovendosi verso la meta. Bada soltanto di non precipitare i movimenti, ma in questo non fa fatica: si regge a malapena.

Arriva al suo solito tavolino. Non guarda l’uomo che è seduto dall’altra parte, la figura che i suoi occhi hanno riconosciuto a distanza, senza dirglielo subito.

Federico si siede sulla sedia, si abbandona. Vedendolo, si direbbe che abbia appena completato una maratona, non la sua solita passeggiata mattutina.

 

Salvo si accorge che le mani gli stanno tremando. Deve darsi una calmata. Sta lavorando troppo con la fantasia. Quando ha visto Federico arrivare, quando lo ha visto in faccia, ha capito subito che qualche cosa non andava. Lo ha seguito con lo sguardo: si è diretto al suo tavolino, manco lo straniero fosse invisibile. C’è il bicchiere della granita sul tavolo, è occupato, ma lui non ha fatto una piega. Neanche l’altro ha fatto una piega. Non si sono scambiati neanche mezzo sguardo, ma sono lì seduti allo stesso tavolino, uno da una parte e l’altro dall’altra, a guardare davanti. 

La testa di Salvo ragiona in fretta. O sragiona? Salvo non saprebbe. Federico è stato via tanti anni, era in America, Canada, dicevano. E poi questo ritorno improvviso. Come uno che scappa. Da chi? Che cosa ha combinato? A chi ha pestato i piedi? In America di siciliani ce ne sono tanti e non conviene mettersi contro certa gente. E quel turista straniero… Americano, di sicuro. Non è venuto qui per caso, non si è seduto lì per caso. Se quello è un turista, Salvo è il presidente della repubblica. Minchia! E se quello aspettava Federico per ammazzarlo? Salvo l’ha vista la faccia di Federico e non era una bella faccia. Un omicidio nel suo bar… e se quello è davvero un killer, capace che ammazza pure lui, il testimone. Quello sapeva già dove trovare Federico.

Salvo ha paura. Non prepara subito la granita al latte di mandorla. Dopo un po’ arrivano altri due clienti. Anche loro lanciano un’occhiata un po’ stupita ai due che sostengono il muro, senza dirsi una parola.

- Ma chi è quello?

- Non lo so.

- Ma perché è al tavolo del telamone?

Lo chiamano così, il telamone, perché passa buona parte della giornata a reggere il muro.

- E che ne so? È arrivato prima e si è piazzato lì.

Salvo si fa forza e prepara la granita. Non sparerà proprio adesso che ci sono altri clienti, quel tizio.

Si avvicina al tavolo, senza guardare l’americano. Vuole dimenticarsi la sua faccia. Posa la granita e se ne torna al banco.

 

Federico inizia a mangiare la granita. Ha un gusto troppo forte. Deve fare piano, deve riabituarsi. Tutto è tornato normale, ma per un uomo che da… da quanto? Da sette-otto mesi. Per un uomo che da sette-otto mesi vive in un mondo spento, la luce del sole è troppo forte.

Il tempo passa. Corrado non ha detto niente. Federico neppure. Non si sono guardati, nemmeno un momento.

Federico si sente affogare in quel mare di un azzurro intenso, quasi blu, che ha davanti. Parla, guardando in avanti, sperando che le parole gli offrano un salvagente.

- Sei una testa di cazzo, Corrado.

- E tu sei una testa di minchia, Federico.

- Tutti fuori di testa, voi fottuti terroni. Non sapete proprio usare il cervello.

- Senti, polentone di merda, voi il cervello manco l’avete.

È un vecchio gioco, uno scambiarsi le parti. La prima volta era successo quando un comandante italiano, a cui si erano presentati insieme, aveva subito pensato che Federico fosse il marinaio di Bolzano e Corrado quello siciliano: l’uomo alto, con i riccioli, la barba e i baffi biondi, gli occhi azzurri, doveva per forza essere l’altoatesino; quello un po’ più basso, con capelli e barba neri era di sicuro l’isolano. Al comandante non era passato per la mente che i Normanni in quell’isoletta c’erano stati a lungo e non avevano mica lasciato soltanto un castello: i loro tratti, per quanto mescolati mille volte, ogni tanto riappaiono in un isolano e in Federico di certo rivive uno di quegli antichi invasori. E non è strano che Corrado, nato in una valle in cui per secoli sono passati conquistatori provenienti dai quattro angoli del mondo, assomigli più a un siciliano che ad un altoatesino.

Loro avevano riso dell’equivoco, ma poi ci avevano giocato sopra: ogni tanto Corrado dava del polentone a Federico, che gli rispondeva dandogli del terrone; Corrado dice “minchia”, Federico dice “cazzo”.

 

Salvo ha sentito le ultime due frasi. Dire che è rimasto folgorato è un eufemismo. Insomma, questo cazzo di americano parla l’italiano benissimo e italiano è, di sicuro, magari pure siciliano. In culo gliela infilerebbe volentieri, la sua “cranita al lemone”. Ma che minchia succede?

Salvo vorrebbe saperne di più. La paura gli è passata, ma adesso la curiosità è fortissima. Pulisce con cura un tavolo su cui non c’è nemmeno una briciola, poi sistema le sedie. Ma quei due hanno smesso di parlare. Continuano a non guardarsi, a fissare davanti a sé.

 

Federico tace. Non è in grado di trovare le parole. Ha paura. Una paura che dilaga, che gli impedisce di ragionare. Lo scambio ha allentato un po’ la tensione, ma è stato solo un attimo. Con uno sforzo dice ancora, cercando di tenere a distanza la domanda vera:

- Come cazzo hai fatto a trovarmi?

- Facebook.

- Che?

- Dai, anche se vivi in culo ai lupi, sai che cos’è Facebook.

Lo sanno tutti e due, naturalmente, anche se non avevano un loro profilo.

- Che cazzo è, lo so. Che cazzo c’entra, questo mi devi spiegare.

- Cerchi uno che è scomparso dalla circolazione. Magari è tornato al suo paesello. Allora ti iscrivi a Facebook e digiti il nome del posto. Così trovi quelli che ci sono stati, alcuni che hanno pure messo una foto, magari qualcuno che ci è nato. Chiedi la loro amicizia, fai un po’ di scambi. Ti informi. Come per caso butti lì che ti pare di aver conosciuto uno di quelle parti. Magari chiedi a uno del posto di scattarti con il telefonino una foto di quel tizio che va sempre al bar, per vedere se è lui…

- Ti hanno preso a calci in culo e sbattuto fuori dal lavoro, che non hai un cazzo da fare, a parte giocare a Sherlock Holmes?

- No, il lavoro ce l’ho. Non passo mica le giornate al bar a grattarmi la minchia, io, a questo tavolino. Adesso sono in vacanza. Qualche giorno al mare, tanto per cambiare…

Gran cambiamento, in effetti, per uno che vive sul mare.

Il salvagente delle parole sfugge di nuovo di mano. C’è un altro silenzio. Federico affoga. Intuisce che anche Corrado sta affogando. È una gara a chi molla per primo. Federico sa che ha già perso. Corrado lo ha preso di sorpresa, lo ha sbalestrato completamente.

E allora la domanda viene fuori, perché Federico non riesce più a trattenerla:

- Perché sei venuto qui, Corrado?

C’è un momento di silenzio. Lungo, lunghissimo. Ora è Corrado a non avere parole.

Federico ghigna, finge di aver vinto una battaglia importante. Il gesto furtivo di Corrado gli fa voltare la testa di scatto. Per la prima volta lo guarda, vede che si asciuga una lacrima. La battaglia è stata vinta, la guerra è persa. Si fissano negli occhi. Gli occhi di Corrado sono umidi. Cazzo!

 

Corrado distoglie lo sguardo. Corrado cerca le parole. Corrado non può rispondere. Infine riesce a dire:

- Perché te ne sei andato, Federico?

Adesso stanno guardando tutti e due il mare. Le domande sono state fatte.

Corrado si dice che non ha senso, nulla di quello che ha fatto, che ha detto, che ha pensato, ha senso. A Federico non importa più nulla di lui.

Corrado fissa il mare a cui il sole incomincia a togliere colore. Il mare, di cui si è innamorato, violentemente, di uno di quegli amori che non danno tregua. Il mare per cui ha lasciato i suoi monti, il mare che non ha mai più abbandonato. Una vita sulle navi, una casa di fronte al mare. Mare, mare, mare. Un amore intenso e corrisposto, un amore per sempre. Perché per Corrado l’amore è una pianta che mette radici e che non puoi più eliminare, neanche se la tagli. Anche l’amore per Federico non lascia tregua, non lo molla. Non ha smesso di amarlo un momento. E ora neppure il dolore che lo schianta riesce a scalfire il suo sentimento.

Corrado si dice che farebbe meglio a scendere a una di quelle cale di cui ha visto le foto su Internet, spogliarsi e nuotare verso il largo, andando sempre più avanti, senza mai fermarsi, finché non avrà più forze. Lasciare che il mare lo accolga e pensare che magari depositerà il suo corpo sulle spiagge di quest’isola, dove vive Federico. Sì, questo deve fare. Fa per alzarsi, ma ricade sulla sedia. Non ha forze. Più tardi, quando sarà riuscito ad andarsene da questo fottuto bar. Cercherà uno scoglio da cui tuffarsi in mare, per perdersi al largo. Che senso ha vivere ancora? Gli ritorna in mente una poesia azteca che aveva scoperto per caso:

Si vive forse veramente sulla Terra?

Non per sempre soltanto per poco

Venimmo solo per dormire

Solo per sognare

Il suo sogno è finito. E allora ben venga la morte.

 

Federico sa che tocca a lui rispondere, anche se ha chiesto per primo. Questo almeno lo deve a Corrado. Ma che cosa può rispondere? La verità non può dirla, non può dire: “Perché quando hai fatto una cazzata immane, quando hai buttato via l’unica cosa di cui ti importava, allora che senso ha rimanere?”

Ma nessuna altra parola ha senso. E allora Federico tace.

 

Salvo si sta chiedendo se d’ora in poi ne avrà due a reggere il muro buona parte della giornata e a consumare una granita. Meno male che almeno occupano un tavolino solo. Quei due parlano un minuto, ovviamente quando Salvo sta servendo altri clienti o è al banco, e stanno zitti mezz’ora. Salvo non è più riuscito a sentire mezza parola, anche se ha pulito i tavolini lì vicino che ci si può specchiare, manco dovesse venire la regina d’Inghilterra…

 

Corrado sta recuperando le forze. Ora, deve andarsene ora. Gli basta riuscire ad alzarsi e a raggiungere l’angolo, poi tutto sarà facile. Una spiaggia isolata o uno scoglio sul mare e l’ultimo viaggio. Corrado respira a fondo e si alza. Le gambe lo reggono. Sorride di questo successo. Può andare, lasciare questo tavolino, la sofferenza e la vita, senza fatica. Federico non lo lascia qui, se lo porta dentro.

Mormora:

- Scusami.

E fa un passo per andarsene.

- Corrado!

 

Federico non è riuscito a trattenere il nome. Si è di colpo reso conto di aver vinto la guerra. E di non volere questa vittoria. Il nome che ha pronunciato è una resa incondizionata. Corrado si volta. Federico non regge più la sofferenza di Corrado. Si alza. Ora sono uno di fronte all’altro, a meno di un passo di distanza. Federico parla pianissimo.

- Corrado, sei davvero tanto pazzo da volermi ancora?

Corrado lo guarda, senza abbassare gli occhi.

- Sì, per sempre.

Per sempre. Federico non ci ha mai creduto, agli amori “per sempre”, ma sa che per Corrado è così, glielo legge negli occhi, in quegli occhi scuri. Anche per lui è così, l’ha capito. La voce gli trema, mentre ancora cerca di negare:

- Non puoi perdonarmi, dopo quello che ho fatto.

Corrado lo fissa negli occhi. Ha capito di aver vinto e infierisce su un avversario ormai sconfitto:

- Non ho niente da perdonare. Sei tu che non puoi perdonarti e allora punisci tutti e due.

Federico sa che è giunto il tempo di issare bandiera bianca. Scuote la testa leggermente e dice:

- Sono stato una testa di cazzo, Corrado.

Corrado sembra serio, maledettamente serio, mentre risponde:

- Concordo.

Federico sorride.

- Meno male che anche tu non sei proprio in quadro…

Ora anche Corrado sorride, ma Federico vede che gli trema la mano. Federico vuole abbracciarlo, qui e ora. Vuole stringerlo per farsi perdonare, perché di perdono ha bisogno, ma soprattutto vuole tenerlo tra le braccia per sopire il dolore che ancora avverte in lui. Ma qui non è possibile. E allora dice:

- Andiamo a casa mia.

Corrado annuisce. E di colpo in Federico il desiderio si risveglia, il desiderio dimenticato, che credeva spento per sempre. È violento, incontenibile: Federico vorrebbe baciare Corrado, spogliarlo, stendersi a terra, fare l’amore con lui, qui, davanti al bar. Con sgomento si accorge di essere già pronto. La casa non è lontana. Gli sfiora appena il dorso della mano con la sua, poi si avviano.

Insieme.

 

Quando Salvo esce per portare le ordinazioni ai nuovi clienti, il tavolino è vuoto. Quei due se ne sono andati senza neanche pagare.

 

2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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