I miti di Cernunnos

 

1 Cernunnos

 

A DchooiDoodles, di cui ho usato le illustrazioni

III - Il ciclo di Doche

detto anche Ciclo delle guerre

 

I - Il re di Mon

 

      Cernunnos guarda gli uomini che festeggiano intorno al fuoco. Conosce quei corpi: alcuni sono i maschi che ha posseduto nella notte del sacrificio, dando loro la morte e insieme una nuova vita; altri sono i cacciatori che hanno osato lanciarsi nella grande caccia al dio e che vi hanno trovato la morte. Essi riprendono nell’inverno la forma umana e vivono in gioia, lieti gli uni degli altri e della presenza del dio, fino a che l’autunno non ritorna a rivestire del suo mantello multicolore i fitti boschi dell’isola.

      Cernunnos guarda la festa, ma si tiene in disparte. Non è appagato il cuore del dio. Gli anni passano, numerosi come le foglie di un albero, ma in quest’isola che il suo seme ha reso fertile, Cernunnos non trova quello che desidera, il compagno dei suoi giorni, l’uomo dagli occhi azzurri come il mare profondo che ha visto un attimo solo in un sogno.

      E allora il dio decide di partire.

      Assumerà forma umana e da uomo vivrà tra gli uomini, mortale saranno le sue membra. Perciò il dio si toglie il monile che porta intorno al collo, il sacro dono di Donn, quello che protegge da ogni ferita; poi si toglie il bracciale, altro dono del dio potente che sta a Flag Fenn, quello che rende invincibile il braccio; infine si toglie l’anello che cinge i testicoli fecondi, il magico gioiello che protegge dai malefici.

      Poi, lasciata la sua forma divina, Cernunnos assume quella di uomo mortale. Se il corpo che ora è il suo troverà la morte, il dio riprenderà forma divina, perché nessuna arma umana può porre un termine ai suoi giorni. Ma solo questo egli conserva della sua vera natura. Ora, uomo, combatterà tra uomini, misurando il suo valore con loro. Uomo, lo conosceranno altri uomini.

      Colui in cui vive la scintilla del dio Cernnunos avvolge il suo corpo in un ampio mantello, al suo fianco ha una spada e in mano stringe una lancia. Altro non porta con sé. Sale su una delle navi che lasciano l’isola alla volta di altre terre e giunge in un porto.

      Egli non ha una meta precisa: il destino guiderà il suo cammino umano. E mentre percorre la terra in cui è sbarcato, Cernunnos incontra un uomo anziano, seduto davanti alla porta della sua casa. 

         - Chi sei, straniero e da dove vieni?

         Il dio ha scelto come nome Bran e così si presenta allo sconosciuto.

         - Vengo dall’isola sacra al dio Cernunnos. Bran, figlio di Goll, è il mio nome.

         - Sembri valoroso, Bran, e forte appare il tuo braccio. Che cosa cerchi in questa terra?

         Che cosa cerca, Cernunnos? Nella sua risposta c’è solo una parte della verità.

     - Cerco qualcuno che mi prenda al suo servizio come guerriero. I pirati hanno distrutto la nostra abitazione mentre io ero lontano a combattere e non mi è rimasto nulla.

     - Allora ti do un consiglio, straniero. Nell’isola di Mon cercano un nuovo signore, perché il re aveva raggiunto l’età in cui i capelli si imbiancano e quindi è stato immolato.

     Il dio conosce quest’uso: presso alcune popolazioni i re vengono uccisi quando incominciano a mostrare i segni della vecchiaia. Non si stupisce perciò delle parole dell’uomo. Questi riprende:

      - Tutti i guerrieri più forti si affrontano per ottenere lo scettro regale. Tu sembri vigoroso. Puoi unirti a loro nella sfida, se il coraggio non ti manca, oppure cercarti tra di loro un signore, se non osi affrontare il fiore dei guerrieri.

        Ascolta le parole dell’uomo, Bran, corpo mortale del grande dio.

     E questo gli pare bello, confrontarsi con altri uomini valorosi e sfidarli. Se vincerà, diverrà re. Se perderà, sarà schiavo o verrà privato della vita. Che importa? Egli ha deciso di accettare il fato degli umani, per il breve tempo di un’esistenza mortale.

     - Grazie per il tuo consiglio, vecchio. Sì, mi misurerò con i guerrieri più forti e vedremo a chi il dio darà la vittoria. 

     - Ti vedo gagliardo e certo il tuo braccio è possente. Forse sarai tu il nuovo re. O forse altri più forte di te ti farà cadere nella polvere e renderai l’anima, trafitto da una spada. Il nostro destino è nelle mani degli dei, ma io ti auguro buona fortuna. Continua lungo questa strada, fino a che non giungerai al mare. Prendi allora il cammino sul lato destro, fino al porto dove si radunano i guerrieri che stanno per partire.

      Segue le indicazioni del vecchio, Bran, il divino, e il giorno seguente raggiunge un porto, diverso da quello in cui è approdata la nave dalla robusta chiglia che lo ha trasportato lontano dalla sua isola.

       Bran guarda gli altri guerrieri che si sono radunati per la grande sfida. Alcuni vantano antenati illustri, altri sono di famiglie che nessuno conosce, ma non saranno i natali a decidere chi di loro salirà al trono: con il proprio valore uno di loro conquisterà lo scettro. Non conta il loro nome ed essi hanno dovuto deporre ogni insegna, ogni monile: nudi si affronteranno e la spada sarà la loro insegna nobiliare .

           Una nave dalle grandi vele li porta nell’isola e qui, in cima all’alta scogliera, ha inizio la terribile sfida.

 

Episdoio1DEFINI

 

Si affrontano senza tema i prodi guerrieri, in duelli che li oppongono uno all’altro, e il vincitore di ogni scontro affronta un nuovo avversario. Davvero è uno spettacolo vedere questi uomini valorosi menare gran colpi e lanciarsi sull’avversario. Nessuno di loro dimostra paura, nessuno cede ai colpi.

A ogni duello la schiera dei contendenti si assottiglia: alcuni sono costretti a ritirarsi per le ferite riportate, altri vengono disarmati; certi, riconoscendo la superiorità dell’avversario, depongono le armi; altri trovano una morte eroica nello scontro fatale.

Anche se mortale, il dio è forte e il suo braccio ha già piegato cinque avversari. Ora sono rimasti in quattro: il biondo Ardan, dalla fulva barba e dalla voce tonante; il giovane Fintan, cui la prima peluria copre il viso; il forte Fionn, dai neri capelli, il cui corpo ricoperto di cicatrici rivela il grande valore; Bran, uomo e dio. 

Ardan affronta Fintan. A lungo e con valore ha combattuto il giovane, sconfiggendo avversari ben più esperti. Ma il biondo Ardan è un grande guerriero, che incalza Fintan e lo costringe ad arretrare. Il giovane non vuole cedere all’avversario più esperto, non vuole conoscere l’umiliazione della sconfitta, anche se essere battuti da Ardan è un onore, non una vergogna. Si difende Fintan, ma infine il valoroso Ardan colpisce la spada del giovane e questa sfugge dalla mano che l’impugnava.

- Mi hai battuto, guerriero. Uccidimi, perché non voglio divenire schiavo tuo o di chi ti vincerà.

Scuote la testa Ardan, facendo danzare i lunghi capelli.

- Io non uccido l’avversario che ho battuto. Non sei un nemico. Se sarò vinto nell’ultimo duello, non potrò decidere della tua sorte, ma se ne uscirò vittorioso, concederò a te la libertà, come a tutti quelli che ho battuto fino a ora: se vorrete rimanere con me, sarete i benvenuti, perché ho conosciuto il vostro valore. Altrimenti ve ne andrete senza conoscere catene.

Ride a sentire queste parole il feroce Fionn.

- Davvero uno sciocco sei, Ardan. Quando ti batterò, di certo non renderò la libertà né a te, né agli altri. Sarete al mio servizio, perché queste sono le leggi dell’isola di Mon e un re ha bisogno di soldati valorosi.

- Vedremo chi avrà la vittoria, ma prima di sfidarmi, dovrai vincere un avversario ben temibile.

Bran ha ascoltato le parole di Ardan e gli sono piaciute. Ama che un uomo sia forte e generoso. E sgradevoli gli sono parsi i discorsi di Fionn: tracotanza e ferocia non sono doti di un buon re.

Bran affronta Fionn. Lunga è la loro lotta, forti sono entrambi e le loro spade sprizzano scintille, tanta è la violenza con cui battono l’una contro l’altra. Non vuole cedere di un passo il forte Fionn, ma neppure Bran arretra e il combattimento infuria senza tregua. I nudi corpi degli eroi si coprono di un velo di sudore, ma nessuno dei due cede. Tremendi sono i fendenti e implacabili calano sull’avversario, senza riuscire a colpire. Invano la punta delle spade cerca una via per ferire, invano ognuno cerca di sorprendere l’altro.

I giudici sospendono la gara, ma dopo che i due eroi hanno deterso il sudore e hanno bevuto, nuovamente riprende la lotta, feroce, e ancora il sudore scorre a rivoli sui due corpi possenti.

Tutti coloro che assistono allo scontro guardano con stupore: davvero terribili sono i due guerrieri, difficile dire chi di loro avrà la vittoria.

Nessun guerriero ha ucciso Bran, anche se cinque ne ha sconfitti. Ma ora sa che non potrà piegare il forte Fionn e che solo la morte di uno di loro due darà all’altro la vittoria.

Attacca ancora, Bran, più volte colpisce con la spada il ferro dell’avversario e quando vede che questi, stanco della lunga lotta, più lentamente muove a difesa il braccio, con un attacco rapido sorprende Fionn e gli immerge la spada nel fegato.

Grida il valoroso guerriero, mentre le ginocchia gli cedono e l’anima sua fugge dal corpo. Si abbatte al suolo il forte Fionn e la terra pare rimbombare.

Un ultimo duello è ancora da combattere: Bran deve affrontare Ardan e il vincitore sarà signore dell’isola. Ma si fa avanti Ardan dai biondi capelli, mentre gli uomini trascinano via il corpo senza vita di Fionn.

- Sei stanco, Bran: hai combattuto a lungo e con valore. Rimandiamo a domani questo incontro, in modo che tu possa riposarti e riprendere le forze.

- Sei generoso, Ardan, ma non è necessario. Lasciami il tempo di riprendermi e, prima che il sole cali oltre il mare, ci affronteremo, in modo che questa notte Mon abbia un nuovo re.

- Come desideri, Bran.

Bran si riposa. Un ultimo scontro lo attende e il suo avversario è temibile, ma Bran fida nelle sue forze.

E quando il sole incomincia a calare, l’ultimo duello si svolge in cima alla scogliera.

Forte è Ardan, valoroso è Bran, possenti le loro mani stringono l’elsa della spada e, come in una tempesta di grandine i chicchi cadono tanto fitti da non poterli contare, così i colpi si susseguono ai colpi, senza che nessuno dei due mostri segni di cedimento. A lungo combattono, finché il sole scompare oltre l’orizzonte, a illuminare altre terre, mentre il manto della notte incomincia ad avvolgere l’isola. Ma prima che il buio avanzi e gli uomini accendano le torce, Bran vibra un colpo più forte e la spada di Ardan viene scagliata lontano, mentre l’arma di Bran sfiora il corpo del biondo guerriero. Facilmente potrebbe ucciderlo, Bran dal forte braccio, ma egli frena la spada e solo poche gocce di sangue colano dal petto.

- Con valore hai combattuto, Ardan. Sei libero di andartene, se questo è ciò che desidera il tuo cuore. Ma io sarei contento se tu rimanessi qui e fossi al mio fianco quando dovrò difendere questo regno con le armi.

- Ti ringrazio, Bran, figlio di Goll. Ben volentieri metterò la mia spada al tuo servizio.

La stessa scelta è data a tutti i guerrieri sconfitti: nessuno di loro rimarrà schiavo di Bran, che ha vinto gli altri eroi ed è quindi il loro signore. Essi possono restare al suo servizio come guerrieri o cercare fortuna altrove. Molti accettano, alcuni preferiscono lasciare Mon sperando di trovare sotto altri cieli ciò che bramano.

Il gran sacerdote pone al collo di Bran un monile d’oro, che solo il giorno della sua morte gli sarà tolto. Un gioiello divino portava al collo il dio, nella sua isola. Ora un diverso ornamento lo cinge, segno di potere terreno e non divino amuleto.

Bran è signore dell’isola di Mon e mentre la notte tutto avvolge nel suo oscuro manto, gli abitanti festeggiano il loro re.

Bran è seduto al tavolo del banchetto e alla sua destra egli ha posto Ardan. I pensieri dell’uomo di origine divina vagano lontano, all’isola dove Cernunnos regna, ai suoi compagni di caccia, al futuro. Che cosa significa vivere come uomo tra gli uomini? Che cosa gli riserva il destino?

La voce di Ardan lo riporta al banchetto.

- Mio signore, la tua mente e il tuo cuore non sono qui. Perché non sei con noi, in questa sera di festa, in cui tutti esaltano il tuo valore?

Lo guarda Bran, guarda gli occhi verdi e pensa ad altri occhi, azzurri come il mare profondo, che ha intravisto per un attimo. Sono belli gli occhi di Ardan, bello e vigoroso è il suo corpo e un violento desiderio accende lo sguardo del re. Non parla, Bran, nessuna parola gli sfugge, ma la sua mano si posa su quella di Ardan.

Sorride il prode guerriero e non toglie la mano.

Ride Bran e la gioia gli illumina gli occhi. Ha trovato un compagno, di cui conosce il cuore e il braccio. Sarà per il breve tempo di una vita umana, ma questo gli basta. Non conosce il dio la misura dei giorni di Ardan.

A lungo dura il banchetto e infine gli uomini si ritirano, ebbri di vino e di vittoria. Allora Bran si dirige nelle stanze più interne della sua vasta dimora e il prode Ardan lo accompagna. Entrano nella camera regale e Bran si toglie il mantello. Le sue mani possenti stringono il viso del biondo guerriero e le sue labbra cercano la bocca che ricambia con passione il bacio.

Bello è stringere un altro uomo tra le braccia, bello è possederlo senza timore di arrecare la morte.

Bran spoglia Ardan e le sue mani e i suoi occhi indugiano sulle larghe spalle e sulle braccia vigorose, accarezzano il torace muscoloso e i fianchi possenti e poi si muovono a incontrare la virilità del guerriero, già tesa nel desiderio. Stringe lo scettro robusto, la destra di Bran, re di Mon, e la sinistra avvolge i due globi, poi lasciano le loro prede le dita e scorrono nel solco, alla ricerca di una nuova meta.

Ardan scioglie i lacci che legano gli abiti di Bran e ne toglie le fibbie. Ora i due valenti guerrieri sono nudi uno di fronte all’altro, la loro virilità svettante e un identico desiderio brucia in loro.

Bran poggia le sue mani sulle spalle del compagno e lo guida a inginocchiarsi davanti a lui, così che il suo membro teso si offre alla bocca di Ardan.

Il guerriero non esita e volentieri gusta il frutto che il dio gli offre. La sua bocca diviene il fodero della possente spada del re divino e l’avvolge, le sue labbra ne stringono la lama e la percorrono avidamente. Ma non sangue spargerà questa volta l’arma del nuovo re di Mon.

La mano del re accarezza i folti capelli del compagno, le cui mani stringono i suoi fianchi.

E quando infine Bran sente che il desiderio in lui è troppo impetuoso, avverte Ardan, ma questi non abbandona l’arma e lascia che essa versi dentro di lui il seme. Beve avido quella nuova bevanda, il forte guerriero, ma troppo forte è il getto e un po’ del seme regale cola tra i peli della barba del giovane.

Bello è stato godere così e Bran è contento. A lungo il dio accarezza ancora la testa del biondo guerriero e, quando sente nuovamente il desiderio salire dentro di sé, come un’onda che il vento sospinge, invita Ardan a voltarsi per offrirgli il frutto che non ha ancora colto. Ubbidisce, lieto in cuore, il valoroso, nel cui petto arde un desiderio feroce. Mormora:

- Per la prima volta apro i miei fianchi e sono ben lieto che sia tu, re, il primo a possedermi.

Gioisce il valoroso Bran del dono che gli fa Ardan ed entra trionfatore, spingendo il membro possente nel corpo dell’impavido guerriero. Sussulta il giovane quando l’arma regale si fa strada dentro di lui, ma il dolore è breve e il vigore del re suscita in Ardan ondate di piacere sempre più forti, fino a che entrambi, insieme, raggiungono l’estasi.

Dormono uno accanto all’altro, i due guerrieri che la sera si sono affrontati in un duello di sangue e la notte in un duello di piacere. Nel primo Ardan è stato vinto, ma nel secondo non vi sono sconfitti, entrambi sono vincitori.

E da allora i due guerrieri sono inseparabili. Sempre a fianco del suo re è Ardan, ogni giorno, e di notte divide con lui il letto.

 

Passano sette anni. È lieto il cuore dell’uomo divino. Al suo fianco ha un compagno con cui si abbandona ai giochi dell’amore, un corpo che può possedere e stringere senza timore di spegnerne la vita.

Più volte Bran ha guidato gli uomini di Mon contro i nemici che cercavano di invadere la loro terra. Si stupisce il dio di quanto avidi e ingiusti siano gli uomini, di quanto siano pronti a versare il sangue dei loro fratelli. Ma Cernunnos è un dio cacciatore e non teme di versare il sangue. Potente è in battaglia l’uomo in cui vive il dio, Bran dal forte braccio, signore di Mon. E al suo fianco sempre combatte Ardan, compagno fedele, dal cuore generoso. Quando la battaglia si conclude e nel banchetto festeggiano i vincitori, accanto a Bran si siede il valoroso Ardan. E quando l’oscurità avvolge con il suo ampio mantello la terra, donando sonno e riposo, il re giace insieme all’uomo che è il suo braccio destro, il suo amico, il suo compagno.

Sette anni sono passati dal giorno in cui Bran divenne re e ogni notte egli ha diviso il letto con Ardan: solo nel primo e nel secondo plenilunio d’autunno Ardan ha dormito da solo, perché il dio è tornato nella sua isola per i riti di vita e di morte che vi si compiono.

Ora un nuovo nemico avanza, avido di sangue: terribile è la gente di Fomhoire, ovunque essa giunge semina strage. I guerrieri di Fomhoire prendono gli animali, le donne, gli schiavi e tutto ciò che ha un valore e lasciano dietro di sé i cadaveri degli uomini: non uno solo di coloro che possono portare armi viene risparmiato, anche se si arrende. Essi non conoscono pietà.

Le due schiere si fronteggiano, su due opposti colli. Nella valle che li separa, Magh Tuired, avverrà il grande scontro e molti perderanno la vita.

Poco prima che la battaglia si scateni, Bran vede due aquile in volo, una più grande e potente, l’altra più piccola. Esse calano verso di loro. Un branco di falchi le attacca e l’aquila più piccola viene straziata a precipita al suolo. Ma l’altra vendica la compagna e uccide tutti i falchi.

A Bran pare che un vento gelido lo abbia avvolto: in lui vive un dio e non gli è ignoto il linguaggio dei presagi. Si rivolge al gran sacerdote, il saggio druido Arawn, che sa leggere i segni inviati dagli dei.

- Che significa questo messaggio che di certo ci mandarono gli dei?

Arawn guarda lontano, tra le nuvole dove l’aquila sta scomparendo.

- Significa che i nemici saranno sconfitti e non uno solo di essi rivedrà la sua casa.

Bran annuisce.

- Correttamente hai interpretato il presagio, ma non tutto hai detto. Un’aquila è stata uccisa. Che significa?

Arawn volge il suo viso verso il re:

- Colui che ti è più caro tra tutti i guerrieri troverà la morte nella battaglia. Questo è il prezzo che pagherà l’esercito di Mon per la vittoria.

A Bran pare che il cuore gli si spezzi. Non dice nulla, ma china il capo.

Al suo fianco è Ardan, che ha sentito la profezia. Sa che egli è la vittima designata. Allora così parla al suo re:

- Volentieri avrei trascorso altri anni al tuo fianco, fino a che i tuoi capelli imbiancheranno. Ma lieto offro la mia vita per il mio re e per la terra che è diventata la mia patria.

Bran guarda l’uomo che è stato il suo compagno per sette anni. Non dice nulla. Gli stringe un braccio con la mano e dà il segnale della battaglia.

Terribile è lo scontro: gli uomini di Mon combattono per la loro terra e non cedono di un passo. I guerrieri di Fomhoire, assetati di morte, si slanciano come lupi famelici, ma Bran ha intorno a sé prodi che non arretrano di fronte all’impeto nemico. Le lance fanno strage dei guerrieri, le spade si arrossano di sangue dall’una e dall’altra parte e chi non ha più altre armi combatte con il pugnale: senza tregua infuria la battaglia e la morte raccoglie un’abbondante messe.

Mai i guerrieri di Fomhoire hanno incontrato nemici tanto possenti: il loro impeto è frenato ed essi sono costretti ad arretrare. Onta e furia riempiono i loro cuori, perché, per quanto grande sia il loro coraggio, non meno coraggioso e ben più forte è il nemico, che ora li incalza. A duro prezzo pagano gli uomini di Mon la loro avanzata: terribile è la strage e non si contano le vittime da una e dall’altra parte. Ma i guerrieri di Mon vedono la vittoria e i loro nemici sanno che solo la morte li attende.

La sorte della battaglia è ormai decisa, ma ancora a lungo si combatte. Per quanto costretti a ritirarsi, i guerrieri di Fomhoire non si arrendono, fino all’ultimo combattono con ferocia, fedeli alla loro fama di coraggio e orgoglio. Uno dopo l’altro cadono e solo un manipolo ancora difende l’ultima postazione, ormai circondata da ogni parte dai valenti uomini di Bran.

Invano Bran offre loro la vita, in cambio di una resa. Spera così di salvare Ardan: il compagno ancora non ha ricevuto la ferita mortale che il destino gli riserva. Ma i nemici, per quanto ridotti a pochi guerrieri, non vogliono cedere.

Il grido di battaglia di Bran risuona ancora una volta e i suoi uomini si slanciano nell’ultimo attacco, guidati dal loro re: sempre primo nella mischia è Bran dal forte braccio e senza timore egli espone il suo corpo mortale.

Uno dei guerrieri nemici, Crom dalla mira infallibile, vede che il re di Mon è vicino e scaglia la sua lancia contro Bran, certo di coglierlo nel petto e spegnerne il soffio vitale.

Ma Ardan vede il gesto e si getta davanti al suo re, facendo del proprio corpo scudo per il suo signore e compagno. Il ferro gli trapassa il petto e il grande guerriero cade. Lo sostiene Bran. A lui rivolge le ultime parole il possente Ardan, mentre già gli occhi gli si velano:

- Addio, mio re. Addio e grazie.

Non fa in tempo a rispondere, Bran, perché il prode guerriero reclina il capo e la vita lo lascia. Bran lo bacia sulla bocca e poi lo depone dolcemente a terra. Guarda il corpo che tante volte ha posseduto e un’immensa tristezza sale dentro di lui.

- Addio, Ardan.

E poi una furia cieca si impadronisce di Bran, che si lancia sul nemico, seguito dai suoi uomini. Non un uomo pare, ma un dio vendicatore e terribile, quasi la natura divina del re di Mon si rivelasse ora. Per quanto coraggiosi, i nemici sentono l’angoscia attanagliarli. Orrenda è la strage che di loro mena il re, non uno dei guerrieri di Fomhoire ha salva la vita. Uno dopo l’altro essi vedono giungere il giorno oscuro e la morte li ghermisce. Le loro teste orneranno le dimore dei vincitori, secondo gli antichi rituali.

E quando tutti i guerrieri nemici sono stati abbattuti, come le spighe di grano che il falciatore miete nel suo campo, e il loro accampamento è stato razziato e incendiato, Bran dà ordine di raccogliere i corpi dei caduti. Egli stesso solleva da terra l’amico e lo porta alla tenda, dove sarà preparato per l’ultimo rito.

Festeggiano con un grande banchetto gli uomini di Mon. Ma il loro re beve appena un sorso dalla coppa e poi li lascia per ritornare nella tenda dove giace il corpo di Ardan, che domani sarà sepolto.

Bran accarezza a lungo quel corpo, poi si siede a fianco di quello che fu il suo compagno e lo spirito del dio abbandona la sua veste mortale. Cernunnos, invisibile a ogni occhio umano, chiama a sé Ardan. E il valente guerriero si alza, lasciando una spoglia sul lenzuolo funebre, e, con un nuovo corpo, senza traccia di ferita, segue il dio.

Scende verso il luogo della battaglia, il dio terribile, Cernunnos, e raduna i valorosi guerrieri che sono morti sul campo. I loro corpi giacciono al suolo, le teste dei vinti adornano le dimore dei vincitori, conficcate su lunghi pali, ma tutti ritrovano un nuovo corpo e seguono il dio oltre il mare. Tra loro vi è Ardan, che il dio ha amato e che ora lo segue da vicino.

      Cernunnos supera il mare e raggiunge un’isola che nessuno conosce. Tir Na Nog è il suo nome ed essa è fertile e ricca di boschi e acqua. Qui vivranno coloro che sono morti in battaglia.       

      A Tir Na Nog ogni giorno i guerrieri si amano e si sfidano, i loro corpi si stringono in un amplesso o si affrontano in un duello mortale. Ma nelle tenebre coloro che hanno incontrato la morte ritrovano il sentiero che li conduce alla vita e quando la notte ritira il suo manto oscuro e lascia che luce del giorno giunga nuovamente alla terra, essi riabbracciano gli antichi compagni.

      I guerrieri ascoltano i bardi cantare le vicende di dei ed eroi, alzano la coppa e inneggiano al dio possente che è il loro sovrano.

      Ma non con loro rimane il dio. Si separa per sempre da Ardan, che fu suo compagno per un breve volgere di anni, e torna al suo destino e al corpo mortale.

 

Nella tenda Bran si alza. Guarda il corpo di Ardan e si chiede se non sia meglio lasciare il corpo umano che è stata la sua forma per sette anni e assumere nuovamente la forma divina. Ma ha scelto un’esistenza mortale e aspetterà la morte, che è destino comune di tutti coloro che vivono sulla terra.

A dargliela sarà Maga, il grande sacerdote.

 

II - Maga, il sacerdote

 

È giovane Maga, quasi ancora un ragazzo, quando Bran guida il popolo di Mon nella grande battaglia di Magh Tuired, contro i feroci Fomhoire. Parteciperebbe allo scontro, Maga, se vivesse nel regno di Mon, perché ha l’età per portare le armi e sa bene maneggiarle. Ma egli abita in una terra lontana e solo più tardi gli giungerà notizia del combattimento: molti cantori celebreranno nei loro versi il grande Bran, che cancellò dalla Terra la stirpe spietata dei Fomhoire.

Caccia nei boschi, Maga, e abbatte senza fallire cervi e lupi, orsi e cinghiali. Insegue la preda il giovane, nel giorno d’estate in cui a Magh Tuired si svolge il sanguinoso scontro: un magnifico orso gli è apparso e Maga dopo una lunga ricerca lo ha ritrovato e ora gli scaglia contro la sua lancia. Non manca mai il bersaglio, l’arma gettata dal forte braccio di Maga, ma l’orso, benché colpito al cuore, non cade e assale invece il suo feritore. Invano il cacciatore cerca di difendersi dalla zanne che lo minacciano. Per quanto grande sia la forza del giovane e potenti i colpi che vibra con il pugnale, l’orso non sembra soffrirne e preme su Maga, mostrando le fauci spalancate. Il giovane è ormai certo di trovare la morte.

Ma ora l’orso sembra ridere, di riso umano. E sotto gli occhi stupiti di Maga il prodigio avviene, terribile: le zampe dell’orso diventano forti braccia e gambe umane, ricoperte da un vello scuro, e il muso dell’animale si trasforma in un viso barbuto.  

Non contro un animale ha scagliato la sua lancia, Maga, ma contro un dio, Lugh, il possente, astro solare, guerriero, mago e maestro di tutte le arti.

Il dio osserva il ragazzo e ne apprezza il coraggio. Bello è Maga, e giovane, con i rossi capelli che gli incorniciano il volto. Lo abbraccia il dio e lo bacia sulla bocca. Ricambia il bacio ardente, il giovane Maga. E la caccia diviene gioco d’amore.

Maga, che mai ha conosciuto un uomo, da un dio apprende i segreti degli amplessi maschili. Nella bocca accoglie il membro possente, fino a berne il nettare divino, mentre anche il suo seme si sparge. Bello è stringere tra le mani il corpo vigoroso del dio e a lungo lo accarezza Maga, ebbro di piacere e di desiderio.

E le carezze destano la brama del dio, non ancora sazio: Maga allora si stende per ricevere tra i fianchi l’arma gloriosa, che entra in lui e si apre la strada. Sofferenza e piacere accompagnano l’avanzata del membro e anche l’arma di Maga si tende, mentre il desiderio rinasce prepotente in lui.

Dentro di sé una seconda volta riceve Maga il seme di Lugh. E quel seme, due volte ricevuto, è la chiave che gli apre le porte del futuro, quelle che gli sguardi mortali non possono varcare. Tale è il dono del dio.

Torna al suo villaggio, Maga, e si chiede se incontrerà ancora il dio. Dentro di sé trova la risposta: no, il dio non gli apparirà più, ma un altro dio, in forma umana, sarà il suo compagno. Non tutto gli è chiaro, nelle visioni che gli appaiono, non tutto conosce del proprio avvenire, ma molto di più di ciò che un uomo mortale può sapere.

Si stupisce Maga di ciò che vede nel futuro. Guarda la casa in cui è nato e vissuto e sa che la sua ora è giunta: un lungo viaggio lo aspetta. Oltre il mare, nel regno di Mon, troverà la sua casa, ma prima di giungervi passeranno molti anni, perché questo è il suo destino.

Prende congedo dai genitori, dai fratelli e dagli amici, Maga, e si mette in viaggio. Sa dove deve andare e non si oppone al suo fato: vano è cercare di sfuggire a ciò che la sorte ha in serbo.

E ora che lascia la sua casa, il suo pensiero vaga verso il passato. E Maga scopre ciò che nessuno mai gli disse: figlio di un dio è Maga, anche se mortale. L’uomo che ha sempre chiamato padre, tale è dei suoi fratelli, ma non di Maga, che fu generato dal seme di Aed, dio solare.

Un dio immortale l’ha generato, un dio immortale sarà il suo compagno, sia pure sotto forma mortale e per un breve volgere di anni, e un dio immortale nascerà dal suo seme, questo conosce Maga, ma sa anche che il suo tempo di vita, per quanto più lungo di ciò che di solito gli dei concedono agli uomini, sarà quello di un uomo e non di un dio.

Maga raggiunge la grande foresta sacra di Nemeton, dove si riuniscono in segreto i druidi, per trasmettere le loro conoscenze. Nessuno gli ha indicato la strada, ma Maga la conosce, perché è un dio a guidare i suoi passi.

Qui Maga si presenta al sacerdote che comanda in quei luoghi.

- Maestro, ti chiedo di accogliermi tra i tuoi discepoli, perché vorrei imparare l’arte della profezia e i riti sacrificali.

- Maga, figlio di Aed, un dio ti diede la capacità di leggere ciò che agli umani non è permesso di vedere. I tuoi doni profetici non sono certo inferiori ai miei, che provengono dallo stesso dio. Ti insegnerò a praticare i riti, perché diventerai il grande sacerdote di un regno lontano, ma nessun mortale può aggiungere neppure un granello di conoscenza al tuo sapere.

Si stupisce Maga che il grande sacerdote conosca il suo nome e la sua origine divina, che egli stesso ignorava, ma quando scopre che è Lugh il possente ad avergli trasmesso questo sapere, tutto gli è chiaro.

Dieci anni rimane Maga nella foresta sacra. Impara a conoscere i riti e attende che venga il suo giorno.

 

Episodio2

 

Da dieci anni Bran vive senza avere un compagno al suo fianco. Quando il desiderio si accende dentro di lui, il re sceglie un guerriero tra coloro che bramano il suo amplesso. Molti sono coloro che vorrebbero unirsi al re possente, che sempre guida il suo popolo alla vittoria e tiene lontana ogni minaccia, ma nessuno è suo compagno per più di una notte. 

Dieci anni dopo la grande battaglia di Magh Tuired, il grande sacerdote Arawn, che predisse la morte dell’uomo amato da Bran, vede un corvo appollaiato al centro del cerchio sacro dell’isola alzarsi in volo e poi precipitare in mare.

Conosce il messaggio, Arawn, perché grande è la sua saggezza, e sa che il suo tempo è giunto. Entra nel cerchio e rivolge un’ultima preghiera agli dei. E mentre prega un vento di tempesta si alza, tanto forte che sembra dover sradicare le case e lo stesso palazzo reale. Si rifugiano sgomenti nelle loro abitazioni tutti gli uomini e gli animali cercano riparo contro i recinti. Le belve si rintanano nei boschi e nessun uccello solca con il suo volo il cielo nero di tempesta.

Solo all’interno del cerchio sacro l’aria rimane calma. A lungo prega Arawn e, immerso nella sua preghiera, non vede neppure la bufera che sembra inghiottire il mondo. Ma quando ha concluso la sua orazione e alza lo sguardo al cielo, vede il nero della morte sopra di sé e intorno al cerchio un mulinello di vento. Sa che la tempesta è venuta a prenderlo e non si sottrae al suo destino. Lascia al centro del cerchio il pugnale sacrificale e l’amuleto del dio protettore ed esce dallo spazio che neppure il vento osa violare. Immediatamente il turbine lo afferra e lo trascina lontano, verso la morte. La tempesta scaglia l’anziano sacerdote contro gli scogli ai piedi del dirupo e poi si placa, perché ha assolto il suo compito.

 

Quando gli uomini, stupiti dall’improvviso calmarsi della bufera, escono dalle loro case, non vi è traccia del grande sacerdote, ma nel cerchio rituale sono rimasti i due emblemi del suo potere e tutti sanno che cosa questo significa.

Secondo le antiche usanze dell’isola, un nuovo sacerdote dovrà essere scelto, ma non tra coloro che vivono in quella terra: da altri lidi deve venire l’uomo che sa leggere la volontà degli dei. Messaggeri percorrono le terre dei Celti, invitando sacerdoti e indovini a recarsi nel regno di Mon.

Già si è messo in cammino, senza aspettare i messaggeri, Maga, figlio di Aed: egli sa che il grande sacerdote di Mon è morto e che egli ne prenderà il posto. Ben diverso è dal ragazzo che un giorno entrò nella foresta sacra. Ora è un maschio vigoroso e una folta barba gli incornicia il viso.

Molti sono convenuti nella terra di Mon e una grande contesa si accende. Tutti dovranno sottoporsi a tre prove, al termine delle quali i druidi e il re di Mon sceglieranno il nuovo grande sacerdote.

Il sacerdote più anziano di Mon invita coloro che sono giunti nell’isola a entrare uno dopo l’altro nel recinto sacro. Quando uno di essi si pone al centro del cerchio divino, un uccello si leva in volo: sono corvi e gabbiani, che si alzano brevemente e poi ridiscendono verso il mare. Ma quando entra Samildanach, figlio di Fionn, un magnifico cigno si libra nell’aria. È ora il turno di Luchta, figlio di Mil, ed egli suscita il volo di una splendida oca dal lungo collo. Davvero i due sacerdoti non hanno rivali e uno di loro sarà il prescelto.

Ultimo entra nel cerchio Maga e un’aquila possente si leva in volo, piomba sul cigno e lo uccide, poi i suoi artigli afferrano l’oca, che incontra la stessa morte. L’aquila si alza, sempre più in alto, fino a che gli occhi degli uomini fanno fatica a seguirla.

Chiaro è il segno, ma vi sono ancora due prove. Solo Samildanach, Luchta e Maga affronteranno la seconda, perché chiaramente hanno parlato gli dei.

Di fronte ai sacerdoti vengono portati tre guerrieri, feriti in battaglia: uno ha perso il braccio, l’altra la gamba e il terzo la mano. Profonde sono le loro piaghe e infette le ferite. Delirano e la morte si appresta a ghermirli. Preparano infusi e medicamenti per le ferite, i tre sacerdoti. L’uomo che Samildanach ha curato vede la sua ferita rimarginarsi e la mente torna lucida. Le cure di Luchta non sono meno efficaci. Ma quando Maga pone le mani sul guerriero ferito, un prodigio si compie e la mano ricompare. Si alza il guerriero, sanato da ogni ferita, e si inginocchia davanti al guaritore prodigioso.

Un mormorio si leva dalla folla che assiste. Non c’è ormai nessun dubbio su chi sia il vincitore della contesa, anche se c’è una terza prova.

I sacerdoti portano l’amuleto divino, segno del potere del grande sacerdote. Avanza la mano per toccarlo Samildanach e subito la ritira, perché il sangue sgorga dalle sue dita. Non migliore fortuna ha Luchta. Ma quando Maga tende la mano, l’amuleto si solleva e da solo si pone nel palmo del sacerdote.

Mai simili prodigi si erano visti e a tutti è chiaro come si è conclusa la contesa. Il verdetto dei sacerdoti e del re non fa che confermare quanto gli dei stessi hanno deciso.

I sacerdoti si inchinano davanti a colui che sarà il primo tra loro e gli offrono le vesti e i simboli del suo divino potere: il pugnale sacrificale e l’amuleto del dio protettore. Si spoglia, Maga, perché nulla di ciò che ha portato con sé rimarrà nella sua nuova dimora. E Bran ne ammira il corpo possente, il maschio vigore che accende dentro di lui un desiderio intenso.

Indossa le vesti, Maga, e si pone al collo il sacro simbolo e alla cintura l’arma.

Lasciano la terra di Mon gli altri sacerdoti, a cui non arrise fortuna: uno più grande di loro li ha battuti, ma non a loro vergogna devono ascrivere la sconfitta, perché da un dio potente ha ricevuto Maga i suoi poteri e un altro dio è suo padre.

Prende possesso della sua dimora, Maga, e per un intero anno egli vive a Mon, senza conoscere né uomo, né donna.

Ma un giorno, quando l’estate riveste i boschi dell’isola, Bran si reca alla cascata. Vuole bagnarsi sotto il getto d’acqua che scende dai monti e forma una piccola pozza segreta. Non a tutti è dato di raggiungere la cascata, perché le rocce che la circondano delimitano un luogo sacro, ma nel regno di Mon il re è ministro del culto degli dei, inferiore per grado solo al grande sacerdote, titolo che ora spetta a Maga.

Giunge Bran nei pressi della cascata e lascia le vesti regali su una pietra, in alto, prima di calarsi nella conca formata dalle rocce, dove l’acqua precipita e forma una vasca naturale. Ma quando raggiunge la cascata, vede Maga, che da uguale impulso spinto, è giunto prima di lui alla pozza e ora deterge il magnifico corpo sotto il getto d’acqua.

Lo vede Bran e di fronte a quel forte maschio che senza veli si offre alla vista, nel re rapido si erge il desiderio. Il sangue affluisce impetuoso al membro possente. Lo vede Maga e sorride. Sa quanto avverrà, a lungo lo ha desiderato. Non a caso è giunto questa mattina alla cascata, perché sa che qui avrebbe incontrato il re possente.

Il membro di Maga si tende, rivelando un desiderio non meno forte di quello che brucia nel corpo del re. Entra in acqua Bran e sotto il getto le sue mani stringono il corpo di Maga e la sua bocca cerca quella del sacerdote.

Si baciano e si stringono, a lungo, poi escono dalla pozza e sull’umido tappeto erboso Maga si stende, offrendo i propri fianchi al possente Bran.

Gode di questa offerta il re di Mon e accarezza il corpo che presto sarà suo. La mano percorre i fianchi ben torniti, la schiena possente, i rossi capelli dai riflessi dorati. E poi Bran entra nel corpo che stringe tra le dita e, come in un giorno lontano di un’altra estate, Maga conosce il piacere che può dare un dio, sia pure sotto forma umana.

Intenso è il piacere che prova Bran, più di quanto gli abbiano donato altri uomini, se non Ardan, che un tempo ha amato e il cui ricordo sempre gli è caro. E uguale godimento, sconfinato, prova Maga. Il seme del re si sparge nel corpo di Maga, ma di piacere non è sazio il re e dopo che a lungo le loro bocche si sono incontrate e le mani dell’uno e dell’altro hanno percorso il corpo del compagno, allora Bran guida Maga a inginocchiarsi davanti a lui. Ben volentieri piega le ginocchia il sacerdote e la sua bocca accoglie con gioia il membro voluminoso di Bran, mentre le sue mani stringono i fianchi del re. E una seconda volta Bran e Maga raggiungono il piacere.

Poi, distesi sull’erba umida, a lungo parlano. E le loro parole, simili a uccelli che volano alti in cielo verso lidi lontani, si spingono a percorrere il futuro e il passato, ben oltre quanto l’occhio umano possa vedere: ma né il re, né il sacerdote sono pienamente umani. Un dio in forma umana è Bran, egli è Cernunnos il terribile. E un figlio di dio, dai poteri divini, è Maga.

- Io conosco la tua vera natura, Bran.

Non si stupisce Bran: non gli sono ignoti i grandi poteri di Maga.

- Tu sai molte cose, Maga, e di certo i tuoi poteri sorpassano quelli di uomini mortali. Forse allora potrai rispondere alla domanda che io ti porrò.

- So qual è la domanda e posso dirti che non come uomo troverai quello che cerchi, ma come dio.

- Ma quanto ancora dovrò attendere?

- Il tuo tempo non è ancora giunto, ma non è più lontano. Colui che cerchi verrà concepito la notte in cui questo tuo corpo mortale incontrerà l’ora fatale.

Piace questa risposta a Cernunnos, perché  il tempo di una vita umana è breve. Ride il re divino e risponde:

- Se è così, che vengano nemici ben armati e facciano scempio di questo corpo, oggi stesso.

Scuote la testa Maga.

- Nessun nemico potrà ucciderti e non puoi affrettare la tua fine. Sarò io a darti la morte, quando i tuoi capelli imbiancheranno, secondo l’antico rituale che vige in quest’isola.

Annuisce Bran, lieto in cuore che a dargli la morte sia il compagno: non teme certo di morire il dio immortale, per lui la fine della vita è solo il liberarsi di un corpo che è inutile fardello.

Dieci anni ancora passano, molti per un uomo, ma appena un battere di ciglia per un dio. Ogni notte il gran re e il grande sacerdote dividono il letto in giochi d’amore. Profondo è il legame che essi hanno stretto e Bran, per quanto lieto all’idea di abbandonare il suo corpo mortale, soffre della separazione che è ormai inevitabile.

Bianchi sono divenuti i capelli di Bran. Ancora forte è il suo braccio, ma l’ora è giunta: non può regnare su Mon un uomo canuto, questo è l’uso dell’isola, e il re sarà sacrificato. Sarà Maga a decidere il giorno del rito.

Maga sa che il Sole sarà coperto da un disco nero e la Terra piomberà nell’oscurità il terzo giorno del mese seguente e quella è la data scelta.

Trascorrono gli ultimi giorni della vita mortale di Bran e i due uomini godono l’uno dell’abbraccio dell’altro.

Giunge infine il giorno prima del sacrificio. Quella notte stessa giacciono ancora insieme il re e il sacerdote e il possente Maga beve il seme del re divino. Poi lascia la dimora del sovrano e raggiunge la propria, dove l’attende la sacerdotessa, Deirdre. Non si stupisce di vederla Maga: egli conosce la volontà degli dei e sa che questa notte concepirà un figlio.

Giace con la donna Maga e la feconda. Nel seme del sacerdote vi sono tre scintille divine: una gli viene dal padre, una da Lugh il possente, che Maga conobbe un giorno, e la terza da Cernunnos stesso. E queste scintille passano al bimbo che nella notte viene concepito, colui a cui verrà dato il nome di Doche Mac Magach, Doche figlio di Maga.

 

Il sole è appena sorto, ma il cielo è plumbeo. Una pioggia sottile scende su Mon e solo all’orizzonte le nuvole si stanno aprendo. Già prima dell’alba gli uomini battono i tamburi in cima alla scogliera di Mon, dove tutto è pronto per il rituale. Cernunnos sa che la morte lo attende, ma per il dio è solo una trasformazione e senza timore lascia la sua dimora. Il manto regale sulle sue spalle, al collo il monile d’oro, simbolo del potere regio, Bran sale dalla sua casa fino al cerchio tracciato con le pietre sulla scogliera.

Quando gli uomini lo vedono salire, intonano il canto di morte.

Bran raggiunge la cima della scogliera. Guarda gli uomini, che percuotono i tamburi e cantano la morte del re. Essi sono nudi e la pioggia scende sui loro corpi. Poi guarda il cerchio, al cui interno si trova Maga. Nudo è il sacerdote e in mano stringe il pugnale che vibrerà il colpo mortale. Sorride il re a vedere il superbo maschio con cui tante volte ha goduto.

Si toglie il mantello e lo lascia cadere davanti al cerchio. Nudo è anche il re, ora, come gli uomini che lo attendono. Bran ancora porta al collo il monile, simbolo del suo potere, come Maga porta l’amuleto divino, segno di altro potere.

Maga guarda l’uomo che ha amato, a cui darà la morte. Sa che il corpo mortale che ha di fronte è solo un involucro e un peso per il dio. Ma soffre della separazione.

Entra nel cerchio Bran e si pone davanti a Maga. Questi vibra con forza il colpo, squarciando il ventre del re. Porta le mani alla ferita, il grande sovrano, e si abbatte al suolo. E mentre la vita gli sfugge con il sangue che scorre copioso, Maga osserva gli ultimi spasimi di quel corpo e ne trae auspici per il regno.

Quando infine giace immobile il re divino, Maga gli toglie dal collo il monile che è il segno del potere regale.

Una tomba è stata costruita per il grande re di Mon. Il corpo del re viene trasportato nella sua tenda. Non gli pongono le vesti, ma solo i gioielli regali: il bracciale e gli anelli. Non il monile che porta intorno al collo, quello che gli ha tolto Maga, perché esso è simbolo del potere del re e verrà dato al nuovo sovrano di Mon.

Il corteo funebre si avvia verso la tomba. Il corpo nudo del re è portato dai guerrieri più nobili. La pioggia ha smesso di cadere e il vento spazza via le nubi, ma mentre il corteo procede, la luce del Sole perde forza e un disco nero avanza a coprirne lo splendore.

È buio come la notte, quando il cadavere del re è deposto nella tomba e una grande pietra viene posta a suggellare l’ingresso. Timorosi si rifugiano nelle loro case gli impavidi guerrieri di Mon, perché nessuno di loro ha mai visto un simile prodigio.

 

Nessun uomo cammina sotto il cielo buio, deserta appare l’isola di Mon. Nella tomba che gli uomini hanno chiuso, vi è una presenza divina: Cernunnos guarda il corpo dell’uomo che è stato.

Si chiede se rimanere ancora lontano dalla sua isola o se ritornare tra coloro che formano il suo seguito. Essi sarebbero lieti del suo ritorno, ma nessuno lo attende veramente e ancora deve nascere colui a cui è legato il suo destino. A lungo oscilla la mente del dio e questo infine decide Cernunnos: di attraversare il mare e raggiungere la grande isola che a volte si scorge da Mon, quando il cielo è sereno. Percorrerà quella terra e poi deciderà se rimanervi o se tornare all’isola su cui regna perennemente.

Assume nuovamente una forma umana, di un forte guerriero di trent’anni.

 

III - Loegaire

 

In un nuovo corpo mortale cammina sulla terra il dio terribile, Cernunnos, dalle corna di cervo, Cernunnos, dalle zanne di cinghiale, Cernunnos, dall’artiglio d’orso, Cernunnos, dai denti di lupo.

Il dio dell’isola lontana, il dio possente, ha assunto forma umana e come uomo, destinato a una nuova morte, lascia le sue orme sul suolo.

Iliach, figlio di Cass, è il nome che ha scelto, forte è il suo braccio e senza tema il suo cuore. Rossi i suoi capelli, come il fuoco che gli uomini accendono quando cala l’oscurità dopo il giorno più lungo. Chiari i suoi occhi, verdi come le praterie che la pioggia irrora.

Senza una meta si muove il dio che ora è uomo e mentre cammina sente un alto grido di donna. Rapido si muove il guerriero e, giunto a una radura, vede un uomo, di lui non meno possente, che prende con la forza una donna.

- Fermati! Non ti lascerò portare a termine un atto così vile.

Ride l’uomo e si alza.

- Troppo tardi, giungi, sciocco straniero. La mia opera è compiuta e il mio seme genererà un eroe tale che il suo nome sarà ricordato tra le genti. Ma tu, importuno, se non vuoi assaggiare la lama della mia spada, allontanati e senza voltarti lascia questo luogo.

Freme di rabbia Iliach e sguaina la sua arma.

- Di certo non ti temo. Prendi la tua spada e affrontami, se osi.

Ride l’uomo e la sua risata risuona alta. Afferra la sua arma e simile a leone feroce si lancia sul guerriero che lo ha sfidato.

Grida la donna:

- Bada, straniero. Figlio di un dio è il tuo avversario, Lugaid, ed egli ha tre vite.

Mortale è il corpo di Iliach, ma il suo cuore è senza tema.

- Fossero anche cento le sue vite, combatterò contro di lui fino a che uno di noi due non avrà versato tutto il suo sangue.

Lunga è la lotta e le lame, vibrate con forza da guerrieri vigorosi, generano scintille quando si scontrano. Grande è la forza di Lugaid, ma non gli è inferiore Iliach, in cui rimane una favilla della natura del dio.

E quando ormai i corpi dei due lottatori sono madidi di sudore, che scorre fino a terra, Iliach vibra un fendente e la sua lama recide la testa dell’avversario. Rotola tra l’erba il capo del suo nemico e dal collo sgorga un sangue bianco come la neve. Stupisce al prodigio il dio, che pure a eventi miracolosi non è nuovo. Ma altro portento lo attende, perché subito una nuova testa spunta sul collo e con rinnovato ardore si scaglia il guerriero contro Iliach divino.

Riprende il duello, senza tregua. Nessuno dei due contendenti è disposto ad arretrare e l’uno e l’altro menano colpi senza pietà. Qualunque avversario sarebbe già crollato, ma la natura divina che è in loro non facilmente si piega. Come grandine scendono i colpi, ma essi vengono respinti, finché per la seconda volta la spada taglia di netto la testa di Lugaid e dal collo scorre sangue, nero come la notte.

 

Stanco è Iliach, a lungo ha combattuto e il suo corpo chiede riposo, ma non gli è dato, perché dal collo reciso altra testa nasce e il guerriero temibile si alza e nuovamente si scaglia contro il divino Iliach.

Lo scontro riprende, implacabili sono i due avversari, e più volte Iliach vacilla. Si chiede se ormai non sia giunta la sua ora, se la sua seconda vita mortale non stia per concludersi, nel breve volgere di un giorno.

Radunando le sue forze, ancora una volta Iliach cala la spada sul capo del nemico e spiccata dal collo cade al suolo la testa. Questa volta rosso è il sangue che scorre e giace senza vita al suolo l’avversario: più non si rialzerà. Conclusa è la battaglia cruenta e spento è il forte Lugaid, cui nulla valse essere figlio di un dio, perché un nemico di lui più forte incontrò.

Ben duro è stato lo scontro e Iliach si appoggia alla spada. A lungo tace, poi si rivolge alla donna.

- Qual è la tua casa, donna? Ti accompagnerò dalla tua famiglia.

- Lasciami morire, guerriero. Sei stato generoso, ma troppo tardi è giunto il tuo aiuto. Quest’uomo, figlio di un dio, mi ha preso con la forza e so che attendo un figlio da lui.

- Non hai colpa. Ti riporterò alla tua casa.

- Mio padre regna su Roich, ma mi scaccerà quando saprà che aspetto un figlio senza che io abbia contratto nozze. E io mi troverò sola con questo figlio che odio.

- Ti porterò da tuo padre e gli chiederò la tua mano. Così il figlio che porti in grembo sarà per tutti il mio. E quando sarà nato mi separerò da te e lo porterò via con me.

- Sei generoso, guerriero. Qual è il tuo nome?

- Iliach, figlio di Cass.

     

E ciò che Iliach ha promesso si compie. Dopo nove mesi la donna partorisce un figlio, un maschio forte. A lui Iliach dà il nome di Loegaire, poi si separa dalla donna, che non fu sua compagna, e con il bimbo che non è suo figlio e una nutrice si dirige verso altre terre.

Lascia la terra della sua sposa, Iliach, e si mette in cammino. Egli giunge alla fertile contrada di Louth e qui si stabilisce, mettendo la sua spada al servizio del re, Ferdia.

Grigi sono i capelli di Ferdia, ma vigoroso è il suo corpo e senza tema il suo cuore. Quando vede il forte Iliach, il desiderio si accende dentro di lui. Nulla dice, ma quella stessa sera lo invita a un banchetto e quando ormai entrambi hanno saziato la fame e la sete, Ferdia esprime il suo desiderio: non è un ordine, non sono questi gli ordini che il re dà. È una richiesta, a cui Iliach ben volentieri acconsente.

Ferdia congeda i servitori e i due valorosi si spogliano, soddisfatti l’uno e l’altro di vedere il forte corpo del compagno. Si abbracciano il re e il guerriero, le loro bocche si incontrano e i loro membri possenti si tendono. Al forte Iliach offre i suoi fianchi il re Ferdia, valente e saggio, e con gioia entra in lui il prode guerriero, spingendo fino in fondo la sua arma.

Grande è il piacere di entrambi, perché immenso è il vigore di Iliach, e nei loro giochi amorosi essi trascorrono la notte, finché, quando ormai il sole si affaccia a incendiare il cupo mantello della notte, i due si abbandonano al sonno.

Ma qualcuno ha spiato i loro amplessi e una rabbia feroce scava il suo cuore. È Midhir, che a lungo ha goduto del favore e del letto del suo re. Egli trama vendetta contro il sovrano e contro Iliach.

 

3episodio copia copia

 

Presto una grande guerra si accende, gli uomini di Emain Macha hanno preso le armi e marciano compatti verso il confine del regno di Louth. Guerrieri sono gli uomini di Louth, la razza degli uomini del Nord è facile ad accendersi e con il sangue viene lavata ogni offesa.

Iliach affida il bimbo alla cura di una nutrice e dei servitori e segue il suo re. Le schiere nemiche si incontrano a Lugnasa e si sfidano in battaglia.

Immenso è il clangore delle armi, grande è la furia dei guerrieri, atroci le urla e la piana si copre di cadaveri. Sul fianco sinistro combatte l’uomo che ha natura divina. Imprese di grande valore compie Iliach e la sua spada è rossa del sangue versato. Gli uomini che guida mettono in fuga i nemici e ne rompono lo schieramento.

Ma un grande clamore si alza tra gli uomini di Louth. Un tradimento si è compiuto, il geloso Midhir per vendicarsi ha ingannato il re e l’ha attirato in una trappola mortale: così Uisnech il forte, spietato signore dei nemici, ha potuto colpire il re di Louth e ne ha spento la vita. Giace al suolo morente, colui che regnava su una moltitudine di uomini. Sono smarriti gli uomini di Louth e già molti pensano se dare le terga al nemico e fuggire, cercando almeno di salvare la vita, o se gettare le armi e chiedere pietà.

Ma alla testa dei suoi uomini rapido si muove Iliach, il valoroso, e si getta là dove giace il re. Terribile è il suo impeto e nessuno può resistergli. Uno dopo l’altro cadono i più valorosi guerrieri nemici e presto Iliach si trova di fronte il potente Uisnech. Violento è lo scontro e non tarda a sgorgare il sangue, ma troppo grande è la forza del dio e presto Uisnech si abbatte al suolo, la spada di Iliach conficcata nel ventre, come una quercia maestosa che un vento violento sradica e scaglia a terra, con strepito immenso. Gridano i guerrieri di Emain Macha e quando vedono Iliach scagliarsi contro di loro, rosso di sangue il corpo possente, il terrore li prende e, paventando la morte, fuggono come cornacchie che l’arrivo dell’aquila disperde. Lanciano alte grida e pensano solo a guadagnare la salvezza con una fuga precipitosa, indegna di tali guerrieri.

Iliach si inginocchia accanto a Ferdia e il re morente, di fronte ai nobili del regno, pronuncia le sue ultime parole:

- Iliach, oggi hai dimostrato il tuo valore e hai salvato il regno. Io non ho figli. Su Louth tu regnerai e tutti ti ubbidiranno.

Muore Ferdia, il re si spegne e un nuovo re viene incoronato, ancora lordo del sangue dei nemici uccisi.

Quel giorno stesso Midhir, il traditore, spogliato di ogni veste, le mani legate dietro la schiena, viene portato alla palude di Lindow. Qui un laccio è posto intorno al suo collo e le forti mani di un guerriero spengono la vita di colui che ha tradito. Il suo corpo è abbandonato, insepolto, nella palude.

 

Re giusto e saggio è Iliach e a lungo regge la terra di Louth. Spesso la guerra si desta dal suo sonno e avanza tra i popoli della regione, ma ogni volta che giunge alla soglia del regno, Iliach raduna i suoi uomini e sconfigge i nemici.

Gli è a fianco, da quando compie quattordici anni, Loegaire, che tutti credono figlio di Iliach, ma che nacque dal seme di Lugaid, il semidio che Iliach uccise. Egli non è meno valoroso del padre e ben presto nessuno dei guerrieri di Louth può eguagliarlo in forza, se non Iliach stesso.

Con orgoglio vede Iliach combattere il giovane guerriero, di cui apprezza il coraggio.

A sedici anni, come è d’uso tra i giovani nobili del regno di Louth, egli parte per recarsi presso un altro re: qui combatterà e dimostrerà il suo valore, non come figlio del re, ma come guerriero tra i tanti.

Senza timore lo vede partire Iliach: sa che colui che ama come un figlio saprà superare ogni pericolo e tornerà per prendere il suo posto.

 

A lungo vaga Loegaire e infine giunge nel regno di Connacht. Al servizio del re si pone e stringe amicizia con un giovane, Doche Mac Magach, il figlio del grande sacerdote Maga. Viveva a Mon, Maga, quando vi regnava Cernunnos in forma umana, con il nome di Bran, ma poi lasciò il regno e si stabilì nella terra di Connacht.

Sempre insieme trascorrono i giorni Loegaire e Doche e dove è l’uno, lì si trova l’altro. In battaglia combattono l’uno a fianco dell’altro e seminano il terrore tra i nemici. Cacciano insieme ed entrambi non sbagliano un colpo.

Gode Loegaire della compagnia di Doche e ogni giorno che passa l’affetto che prova per lui si rafforza. Finché un giorno il figlio di Iliach capisce che non è solo amicizia a legarlo al compagno, ma un sentimento più profondo. Nulla si sono mai celati i due giovani e Loegaire rivela all’amico ciò che prova. Ne soffre Doche, ma il suo cuore arde d’amore per altri, per il dio Cernunnos, terribile e lontano.

Grande è il dolore di Loegaire per quell’amore non corrisposto e a lungo egli si chiede se rimanere con l’amico o cercare un’altra terra per dimenticare la sofferenza che lo attanaglia.

E infine questo gli pare preferibile, separarsi dall’amico e spingersi più lontano, dove il volto dell’amato non lo accompagnerà. Tornerà a Louth a prendere congedo dal padre, perché lungo sarà il suo viaggio.

Doche soffre per la decisione dell’amico, ma sa che è saggia: non può ricambiare l’amore che Loegaire prova per lui. Accompagnerà Loegaire dal padre e poi tornerà da solo alla sua dimora.

Giunti al palazzo reale di Louth, Doche si separa da Loegaire. Piangono entrambi di un addio che l’amore di Loegaire ha reso inevitabile. Augura buona fortuna all’amico il prode Doche e per sempre si separano.

Prima di partire, Doche guarda da lontano l’amico mentre questi corre al padre, Iliach, che esce dalla dimora reale e abbraccia il figlio. E in petto il cuore di Doche sembra balzare. Non capisce Doche che cosa sta succedendo, non può capire: ignota gli è la vera identità, divina e non umana, di colui che crede padre di Loegaire; ignoto gli è il proprio destino. Quell’uomo che porta il segno degli anni gli appare forte e gli incute rispetto, ma non sa spiegarsi perché tanto si sente turbato. Si volta e si allontana, ma nel cuore gli rimane quel volto.

 

Torna alla sua dimora Doche. Loegaire rimane tre giorni presso il padre, poi prende congedo da lui e si lascia alle spalle la fertile terra di Louth.

A lungo cammina Loegaire, finché non giunge nel regno di Goloring. Qui è sovrano il saggio March, fratello di Llywd, re di Goldberg. Vicini sono i due reami e gli abitanti dell’uno e dell’altro vivono in amicizia. Se un nemico minaccia uno dei due re, entrambi si armano per affrontarlo.

Loegaire si pone al servizio di March e alla prima battaglia si rivela il più forte dei guerrieri di Goloring. Lo elogia il re e da quel giorno Loegaire siede al primo posto tra i guerrieri del regno.

Molte sono le battaglie in cui rifulge il valore di Loegaire ed egli si lega presto d’amicizia con il grande Ingcel, il più forte tra i valorosi che pongono il loro braccio al servizio di Llywd.

I due eroi guidano senza paura le grandi schiere dei due regni e al vederli un cupo terrore si impadronisce dei nemici. Anche in tempo di pace volentieri i due guerrieri si ritrovano: insieme banchettano e fanno a gara a chi berrà più coppe di vino puro; oppure cacciano e si sfidano per vedere chi catturerà la preda più ambita; a volte si dedicano alla lotta e altre si sfidano con le armi, per gioco. Ma difficile è dire tra questi due eroi quale è il più forte.

Cinque anni vivono Loegaire e Ingcel l’uno a fianco dell’altro e le loro gesta sono cantate dai poeti.

Ma giunge infine un nero giorno in cui la discordia scende per separare i due re fratelli e i due regni amici. Grave contesa insorge, perché a entrambi è stata promessa una spada che rende invincibili e assicura prosperità al regno. I due fratelli rivendicano ciò che è stato promesso loro e ognuno si stupisce che l’altro avanzi simile richiesta.

Solo le armi possono risolvere la contesa. Ma legati da vincoli di sangue sono i sovrani dei due regni e i loro sudditi: questa guerra che si annuncia dividerà famiglie, armerà il fratello contro il fratello e il padre contro il figlio.

I due re si incontrano e si chiedono come risolvere la contesa che li oppone, senza che scorra il sangue tra fratelli. E questo pare a loro giusto: che due campioni si affrontino in duello, ognuno portando le insegne del re cui ha giurato fedeltà. Colui che vincerà, quello avrà vittoria e fama, reciderà dal collo la testa del nemico per ornarne la propria dimora e risolverà a vantaggio del suo re la contesa.

Non c’è tra le genti di Goloring guerriero più valoroso di Loegaire. A lui spetta il compito di affrontare in duello il rivale temibile. Quale sia il campione di Goldberg, è noto a tutti: nessuno è più forte di Ingcel.

Con la morte nel cuore i due amici si affronteranno e uno di loro ucciderà l’altro.

Il duello si svolgerà in un recinto, da cui i due contendenti usciranno solo quando uno avrà vinto l’altro.

Il suono del corno dà inizio al combattimento. Si affrontano i due guerrieri e senza esitare si slanciano l’uno contro l’altro, come tante volte hanno fatto per gioco. Ma altra è la posta e la morte deve dare la spada.

Sono entrambi forti e senza tregua combattono. I colpi lasciano segni sui loro corpi e il sangue scorre copioso.

Giunge infine la sera e il sole scende a coricarsi nel mare profondo, mentre la notte si prepara ad avvolgere nel suo oscuro mantello il mondo. I sacerdoti danno ordine all’araldo di suonare il corno, segno che il duello mortale deve interrompersi.

Loegaire e Ingcel non possono uscire dal recinto fino a che il duello non sarà concluso e a nessuno è dato di entrare nel terreno sacro. Gli uomini di Loegaire porgono sulla soglia cibo, bevande, erbe e fasce per il campione e lo stesso fanno i servitori del rivale.

I due guerrieri, che durante il giorno hanno combattuto senza pietà, dividono ora il cibo e l’uno cura l’altro delle ferite che gli ha inferto. Nudi sono i loro corpi e il duello ha acceso i loro sensi. Guarda l’amico Ingcel e sorride, poi gli dice:

- Domani uno di noi due darà all’altro la morte. Per l’ultima volta ci parliamo oggi, io e te, che siamo stati amici. E allora lascia che io ti sveli il mio cuore. Domani, se un dio mi darà la vittoria, ti ucciderò, ma il colpo che porrà fine ai tuoi giorni spegnerà ogni gioia per me. Perché il mio cuore ti appartiene, Loegaire. Combatterò fino all’ultimo per l’onore del mio re, ma più volentieri morirei per mano dell’uomo che amo.

Le parole di Ingcel turbano Loegaire. Profondo è l’affetto che lo lega all’amico e anche a lui morire peserebbe meno che dare la morte. Ma di amore ha parlato Ingcel. Loegaire ha amato Doche, in un passato ormai lontano, ma il ricordo del compagno di un tempo non desta più rimpianto nel suo animo. Guarda colui che ha sempre considerato un fratello, Loegaire, e capisce che dentro il proprio cuore arde la stessa fiamma.

Tende la mano Loegaire e sfiora il viso di Ingcel. Lo percorre e i suoi sensi si accendono. Le bocche dei due guerrieri si incontrano ed essi si affrontano in un nuovo duello, in cui ogni colpo è reso. Senza tregua procede la lotta. Sull’erba rotolano i due corpi avvinghiati, le loro mani stringono, le loro bocche si uniscono, i loro membri si tendono. E dopo aver combattuto a morsi e carezze, ognuno dei due eroi accoglie nella propria bocca il membro dell’altro e guida l’amico a raggiungere il piacere, mentre le sue mani stringono i fianchi possenti e accarezzano il corpo.

Grande è il loro piacere e quando la lotta ha termine, essi si rifocillano e poi riprendono lo stesso gioco. Domani la morte attende uno di loro e la notte pare troppo breve per saziare i desideri dei loro corpi ardenti. Sette volte Loegaire beve il seme di Ingcel e sette volte Ingcel accoglie il grande membro di Loegaire nella sua bocca.

E infine, quando già la notte ha compiuto oltre metà del suo percorso, i due eroi si stendono, abbracciati l’uno all’altro, e si abbandonano al sonno ristoratore.

Li svegliano i raggi del sole e, destandosi stretti nell’abbraccio, ognuno dei due vede con gioia l’altro. Le loro bocche si incontrano ancora, ma altro compito ora li attende e, la morte nel cuore, dividono ancora il pasto del mattino.

- Non posso sottrarmi al compito che mi è stato assegnato, Ingcel, e combatterò come se tu fossi il più feroce dei miei nemici e non colui con cui avrei volentieri diviso i miei giorni.

- E io farò lo stesso Loegaire. Gli dei daranno la vittoria a colui che sceglieranno. Ma spero che non sia la mia spada a macchiarsi di sangue.

L’araldo suona il corno e il duello riprende. Menano grandi colpi senza mai fermarsi, i due contendenti, e chi li vedesse direbbe che non amici e amanti sono, ma acerrimi nemici, che solo desiderano spegnere la vita dell’altro.

Pari è il loro valore e pari la loro forza. A lungo combattono e il sudore copre i loro corpi, più volte il sangue dell’uno o dell’altro scorre, ma nessuna ferita mortale viene inferta.

Quando il sole è alto in cielo, il suono del corno annuncia una pausa e nuovamente Loegaire e Ingcel dividono il cibo. Poi si baciano ancora e, quando arriva il segnale della lotta, si lanciano nuovamente nella battaglia cruenta.

Per tutto il pomeriggio si affrontano impavidi i due avversari, ma, malgrado le ferite che ognuno dei due riporta, la loro forza non scema.

Giunge la sera e il suono del corno li sorprende intenti a fronteggiarsi.

Con sollievo interrompono la lotta i due eroi, non perché temano di morire, ma perché non desiderano dare la morte.

Lasciano cadere le spade e si abbracciano, mescolando sangue e sudore. Sciolgono la stretta per ricevere cibo, bevande, erbe e bende. Ma quando si sono allontanati i servitori, i valorosi si stringono nuovamente. Il desiderio li guida e dopo che abbracci, baci e morsi hanno acceso i loro sensi, Ingcel offre i suoi fianchi possenti all’amico.

- Mai nessuno mi ha preso, Loegaire, ma vorrei che ora tu lo facessi.

Non rifiuta l’offerta, Loegaire, e spinge a fondo il membro gagliardo nella carne dell’amico. Grande è il suo piacere e non meno grande quello del compagno. A lungo cavalca Loegaire, senza riuscire a sfiancare la sua cavalcatura, e infine il suo seme si sparge nel corpo di Ingcel.

Estrae allora la sua arma, Loegaire, e si offre all’amico, che con uguale vigore lo prende. Vigoroso scava Ingcel i fianchi dell’amico, che mai conobbe altro uomo.

Solo dopo aver saziato il desiderio, i due amici provvedono a lavarsi e poi a curarsi a vicenda, bendando le ferite. Ma dopo aver condiviso il cibo e le bevande, il desiderio si accende nuovamente in loro e ancora l’amico possiede l’amico e ne è posseduto.

Solo quando la notte ha compiuto oltre la metà del suo viaggio per il cielo, solo allora i due amici si abbandonano al sonno stretti in un abbraccio.

 Giunge il terzo giorno del duello. Grande è il peso che opprime i loro cuori e a entrambi pare che la spada sia tanto greve da riuscire appena a sollevarla. Ma essi si lanciano ancora l’uno contro l’altro e senza pietà infuria la battaglia.

Ancora il sangue scorre, mescolandosi al sudore. Ancora i colpi risuonano e le spade sia abbattono.

Ma quando il sole si avvia a tramontare, Loegaire attacca e nello slancio scopre il suo petto. Potrebbe colpirlo, Ingcel, e togliergli la vita, grande onore riportando per sé e vittoria per il suo re. Ma non può uccidere l’amico e la sua mano trema. Loegaire mena fendenti terribili. Ingcel arretrando cade a terra e la spada gli sfugge. Loegaire pone il suo piede sull’arma e Ingcel sa che la battaglia è conclusa. Lieto è il suo cuore, perché preferisce morire che dare la morte all’uomo che ama.

- Hai vinto, Loegaire, e lieto sono di morire per mano di un eroe valoroso e senza tema. Recidi il mio capo e potrai ornare la tua dimora. Non a me spetta dirlo, ma ora che la nera morte sta per ghermirmi, vano sarebbe per modestia negare la verità: non poco onore ti verrà da questo trofeo glorioso.

In ginocchio davanti a Loegaire, il capo chino, attende il colpo mortale l’eroe. Ma Loegaire non solleva la spada. Non vuole uccidere colui che ha acceso i suoi sensi e sparso sul suo cuore il balsamo che ha guarito antiche ferite.

- Alzati, Ingcel. Non ti ucciderò, perché non è questo che vuole il mio cuore. Se il mio re accetterà che io ti lasci la vita, rimarrai al mio fianco nel regno di Goloring. Se questo egli non desidera, ce ne andremo insieme.

Immensa è la gioia di Ingcel, non per la vita che gli viene concessa, ma perché nelle parole di Loegaire ha letto lo stesso sentimento che alberga nel suo cuore.

Lasciano il sacro recinto i due contendenti. Loegaire ha le due spade, segno della sua vittoria. Giunto davanti al re, si inginocchia e dice:

- Potente re, ho riportato la vittoria sul mio avversario e tu sei uscito vincitore dalla contesa che ti opponeva al re di Goldberg. Questo duello è servito per impedire che il sangue scorresse tra fratelli. Perché ora dovrei versare il sangue di un valoroso guerriero, che domani sul campo di battaglia potrà combattere contro i nemici comuni? Non è certo un uomo da poco, questo che ora mi segue. Permettimi di risparmiarlo ed egli sarà fedele a me e combatterà per te finché io resterò al tuo servizio.

Ben contento è il re di avere presso di sé un guerriero tanto valoroso.

- Loegaire, grande è il tuo valore e tua è la vittoria. Se questo ti piace e preferisci non ornare la tua dimora della testa di un sì forte guerriero, ma fargli dono della vita, non sarò certo io a oppormi.

Grande è la festa per tutti gli uomini di March e quando infine essa ha termine, Loegaire e Ingcel si ritirano nella tenda dell’eroe e rinnovano i loro giochi d’amore, con il cuore leggero.

Dividono la casa e il giaciglio, i due forti guerrieri e quando un messaggero viene ad annunciare la morte di Iliach e Loegaire torna alla sua patria per regnare su Louth, Ingcel lo accompagna e sempre rimane al suo fianco.

 

IV - Doche

 

Doche, terzo figlio di Maga, è nato nella notte del primo plenilunio d’autunno, la notte sacra al dio Cernunnos. Undici mesi lo ha portato nel ventre sua madre, perché è stato concepito nella notte del secondo plenilunio.

Non è venuto alla luce nell’isola sacra a Cernunnos e neppure a Mon, dove il dio è vissuto e ha amato un uomo, per poi conoscere la morte per mano sua.

Dopo la morte di Bran, Maga ha lasciato l’isola di Mon e si è stabilito nel regno di Connacht. Qui crescono i suoi figli.

Non sa Doche dell’amore che ha legato suo padre e l’uomo che Cernunnos aveva scelto di diventare. Non sa che in lui c’è un’essenza divina, che un semidio è suo padre. Non sa che in lui un’altra scintilla di immortalità viene dal dio stesso che venera e una terza da un’altra divinità che si congiunse con suo padre.

Ma fin da bambino Doche dimostra una particolare venerazione per il dio dalle corna di cervo, il dio dalle zanne di cinghiale, il dio dall’artiglio d’orso, il dio dai denti di lupo, Cernunnos dio terribile e potente.  

Presto Doche cresce in forza e coraggio: bambino non teme il pericolo e ama sentire i racconti dei guerrieri. Con loro vorrebbe andare in battaglia, ma essi non glielo permettono, perché i primi peli non sono spuntati sul suo mento.

Una notte d’inverno, quando i lupi spinti dalla fame si avvicinano al villaggio, Doche se ne accorge e da solo esce ad affrontarli: gran strage di lupi mena e volge in fuga gli altri. Poi torna a stendersi sul suo giaciglio, senza dire nulla. Si stupiscono gli uomini, quando il mattino giunge a illuminare i corpi delle temibili fiere, e nessuno sa chi abbia compiuto tale impresa. Ma Maga vede la sua spada insanguinata e sulle mani di Doche le tracce della carneficina. Da allora Doche combatte con i guerrieri, tra cui è il più giovane, ma tanto è valoroso, da non essere mai secondo a nessuno in battaglia.

 

Doche cresce e quando ha sedici anni ha gli occhi azzurri, non chiari come il cielo, ma scuri come il mare profondo, i suoi capelli e la sua barba hanno il colore dei campi di grano e la pelle è dorata come il miele. Doche è bello di viso e di corpo e uomini e donne lo guardano e si voltano quando passa, ammirandone la forza e la bellezza. Ma Doche non guarda le donne, né gli uomini, anche se gli uni e le altre non distolgono gli occhi da lui.

Doche vive solitario.

L’unico suo amico è Loegaire, che tutti credono figlio del re di Louth, Iliach. Anche Loegaire desidera Doche, ma la loro amicizia non cede all’amore.  

Doche non ama uomini mortali, solo al dio va il suo pensiero. Doche ama la caccia e quando abbatte una preda magnifica, ringrazia il dio. Ma Cernunnos non vede queste offerte, il dio è lontano. Il figlio di Esus non conosce Doche.

A diciotto anni Doche decide di partire, per raggiungere l’isola del dio che venera. Là vuole vivere, là morire, nei riti di sangue e di morte che si celebrano in onore del dio, nella notte in cui Doche è stato concepito, in quella in cui è nato.

Maga non può trattenerlo, ma a lui richiede un solenne giuramento: tornerà quando la sua terra avrà bisogno di lui. Perché una minaccia sovrasta il paese e Maga sa che tra undici anni una grande tempesta si abbatterà sul regno, un vento di frecce e lance, una bufera di spade e picche, in cui molti troveranno la morte. Doche formula il giuramento richiesto dal padre e lascia la sua terra.

Il giovane raggiunge l’isola di Cernunnos e qui si stabilisce in un villaggio di cacciatori: a cacciare si dedica e la sua mira è infallibile.

A vent’anni, quando ha raggiunto l’età necessaria, Doche partecipa per la prima volta alla caccia sacra.

Il dio ha preso la forma del lupo. L’animale corre veloce e a fatica i cacciatori riescono a non farsi distanziare. Tra tutti il più rapido è Doche, che incalza il dio da vicino, come un cane che, più forte e veloce degli altri, non dà tregua alla preda.

Quando il dio si accorge che un solo cacciatore gli è ancora vicino, si ferma e gli si scaglia contro. Rapido è il dio, come il lampo che per un attimo illumina la terra e poi scompare, lasciando il viandante sgomento. Ma rapido è anche Doche, come il tuono tremendo che segue da vicino il lampo.

Il dio si avventa sul giovane e i suoi denti sfiorano appena la gamba, lasciando un marchio di sangue, ma prima che essi affondino nella carne, la lancia del giovane trafigge il cuore del lupo divino.

E nell’attimo supremo, in cui il corpo mortale del dio immortale sprofonda nell’ombra, gli occhi di Cernunnos si fissano in quelli di Doche. Al dio pare di riconoscere quegli occhi, azzurri come il mare profondo, quel viso incorniciato dai biondi capelli, e mentre la mano del cacciatore afferra la sua virilità per reciderla e cibarsene, il dio si dice che forse è giunto il momento tanto atteso.

Arrivano trafelati gli altri cacciatori, ma la caccia divina è conclusa e la preda abbattuta. Dalla gamba di Doche cola un filo di sangue.

Gli uomini trascinano la bellissima fiera in una radura e qui la scuoiano, per cibarsene. Accendono un grande fuoco e intonano un canto in onore del dio e di Doche, che ha abbattuto la preda divina. Finché la carne cuoce sul fuoco, il canto non si spegne, ma quando essa viene distribuita e i cacciatori si sono cibati del sacro animale, tutti gli uomini, accesi da un nuovo desiderio che arde dentro di loro, si stringono, in abbracci che si sciolgono e si ricompongono senza tregua. E i loro molteplici amplessi per tutta la notte riempiono di gemiti di piacere il bosco.

Tra loro più d’uno cerca il cacciatore che ha abbattuto la preda divina, per offrirglisi, ma invano. Doche rimane in disparte. Egli non cerca il corpo dei compagni di caccia. Non per l’amplesso di altri uomini freme il suo corpo, anche se il desiderio divampa e il suo membro si tende.

Doche si allontana dalla grande festa e torna nella foresta, dove ha abbattuto il lupo. L’ombra del dio possente lo segue e a Doche pare di sentire intorno a sé una presenza sovrumana.

Doche ritrova il punto in cui il lupo si è scagliato su di lui e si stende tra i cespugli, dove ha versato il sangue del dio. Cernunnos si siede accanto a lui, invisibile, e la sua mano percorre il corpo del giovane. A Doche pare di avvertire una carezza calda. Non c’è nessuno, il bosco è immerso nel silenzio della notte, lontani sono i gemiti dei cacciatori, ma al giovane pare che la sua carne arda sotto una mano che accende in lui un desiderio impetuoso. Doche non può vedere il dio, non può sentirne il corpo, ma il suo membro possente si tende allo spasimo sotto il tocco divina.

E infine, tra la veglia e il sonno, Doche sente un’onda di piacere avvolgerlo e si abbandona, esausto, al sonno.

A lungo guarda quel corpo il dio e poi lascia l’isola, ma solo con il suo corpo mortale, perché la sua natura divina rimane a fianco di colui che sarà il suo compagno.

 

4episodio

 

L’isola è sempre feconda, anche quando il dio è lontano. Ma ora la natura offre i suoi frutti con una generosità sconosciuta.

La terra sembra affondare sotto il peso delle spighe di grano, fitte come i granelli di sabbia, e quando il falciatore miete le spighe, subito altre piante germogliano e più e più volte nel volgere dell’estate gli uomini raccolgono una messe abbondante. I rami degli alberi paiono spezzarsi, tanto sono carichi di frutti, e quando la mano di un uomo li coglie, sbocciano nuovi fiori, che presto diventano altri frutti. La selvaggina è così copiosa che ogni cacciatore ritorna col carniere pieno, senza neppure essersi allontanato dal villaggio. Nei fiumi e nei laghi i pesci sono tanto numerosi che il pescatore deve ritirare la rete subito dopo averla gettata in acqua, perché già così essa è tanto piena da rischiare di rompersi. Le api producono tanto miele che esso cola dai favi. E il desiderio arde nei fianchi degli uomini e delle donne dell’isola, un desiderio che sembra non saziarsi mai.

L’anno seguente Doche partecipa nuovamente alla caccia. Questa volta Cernunnos ha assunto la forma del cervo e a inseguirlo nel fitto dei boschi e nelle radure, più rapido di tutti, è Doche. Nuovamente il dio si scaglia contro il cacciatore e la punta delle corna ferisce Doche alla coscia, ma prima che essa penetri in profondità, l’animale divino trova la morte per opera del figlio di Maga.

Anno dopo anno, Doche abbatte l’animale sacro, senza che nessuno dei compagni di caccia riesca mai a superarlo. E ogni volta il dio ferisce Doche, una ferita lieve, che lascia una cicatrice sul corpo: per il cacciatore sono un trofeo che gli riempie il cuore di gioia. Per il dio sono il segno del legame che li unisce.

Si dolgono gli altri cacciatori, perché Doche è troppo forte: a loro non è mai dato di cogliere il frutto della divina caccia. Ma tutti lo ammirano e intonano canti su di lui. E Doche dice loro che quando avrà compiuto trent’anni, ad altri spetterà l’onore di abbattere l’animale divino. Perché Doche sa che quando avrà raggiunto l’età del sacrificio, egli ne sarà la vittima: altro non desidera.

 

Nove volte Doche ha abbattuto l’animale sacro, il dio sotto forma mortale. Ancora una volta potrà farlo, prima di compiere trent’anni.

Doche ha scordato la patria, il fertile Connacht. Ma un messaggio del padre lo richiama nella terra natia, lasciata da tempo: le genti del Connacht partono per una spedizione contro l’Ulster e Doche deve unirsi a loro.

A malincuore lascia Doche l’isola del dio. Non gli pesa il pericolo, non ha paura della morte: sa bene che l’amore che porta al dio è foriero di morte e che nella notte del sacrificio il suo ardore si spegnerà per sempre. Ma l’isola di Cernunnos è la terra che ha scelto come patria e dal dio vuole ricevere la morte.

Non sa che il dio da lui venerato e bramato vive sotto forma umana proprio in quella terra che Doche ha abbandonato. Non sa che a lui tocca liberarlo del suo corpo mortale, divenuto ormai un inutile fardello per Cernunnos.

Doche salpa e la nave, spinta da un vento gagliardo, lo porta a Tara, dove si erge la reggia della regina Mebd, sovrana del Connacht. Qui Doche si unisce alle truppe che la regina guida alla conquista dell’Ulster. Futile è il motivo che spinge alla guerra gli uomini del Connacht: la regina Mebd vuole il toro bruno di Cuailnge, perché le sue proprietà siano pari a quelle del consorte, Ailill il forte. Ma per questa contesa molti uomini perderanno la vita e grande lutto colpirà il Connacht e l’Ulster.

Avanza l’esercito, menando gran strage tra i nemici. Tra gli uomini è Doche, che dimostra il suo valore, ma che ha mente e cuore ben lontani dalla guerra che combatte.

 

Iliach, il grande re che nessuno ha mai sconfitto, corpo umano assunto dal dio Cernunnos, siede accanto al fuoco e pensa. Sa che la sua esperienza mortale è giunta alla fine e il pensiero vaga tra il passato e il futuro, tra i giorni in cui amò uomini la cui vita si è da tempo conclusa e ciò che lo aspetta. Molte domande si pone il dio, perché neppure a lui è dato conoscere il futuro.

E mentre la sua mente vaga, due messaggeri vengono. Gli riferiscono che la gente del Connacht ha attaccato l’Ulster e sta menando gran strage. Iliach sa che è giunto il suo giorno: si libererà di un corpo mortale che ormai gli è solo di peso.

Iliach prende lo scudo di ferro, al fianco sinistro appende la spada e poi afferra le lance. Non sono armi nuove e scintillanti: portano i segni del tempo e delle molte battaglie. Onore a chi può portare simili armi, perché nessun nemico ha mai potuto strappargliele. I suoi uomini mettono rocce e pietre sul suo carro e Iliach parte per il campo di battaglia. Non indossa armatura e sul suo corpo nudo sono i segni delle numerose ferite riportate in guerra.

Lo scorgono da lontano gli uomini del Connacht. Ridono i soldati di a vedere tale guerriero. Stolti, o forse accecati da un dio, non sanno che terribile strage l’anziano re farà di loro.

Solo Doche non ride: alla vista di Iliach egli freme, senza sapere perché. Il figlio di Maga ha visto una sola volta colui che crede essere il padre di Loegaire, ma lo riconosce, non potrebbe scordarlo. Gli va incontro e lo saluta. Il suo cuore è turbato e non può spiegarne la ragione.

- Sei il benvenuto, Iliach, padre di Loegaire.

Si stupisce Cernunnos di trovare Doche e ancora di più che il giovane lo conosca: non lo ha mai visto quando era compagno di guerra e di caccia di suo figlio. Ma il dio sa che i loro destini sono intrecciati e poco dura il suo stupore.

- Credo al tuo saluto, Doche. Se vieni per combattere, aspetta che sia scesa la sera, quando sarò stanco. Allora sarai tu a tagliarmi la testa, con cui potrai ornare la tua casa. 

- Io non ti sfiderò, Iliach, perché un patto di amicizia mi unisce a tuo figlio Loegaire.

- Allora verrò io da te, quando sarà giunto il momento.

Doche si allontana e Iliach incomincia a scagliare le sue lance. Nessuna manca il bersaglio e più d’una trafigge molti uomini insieme. Quando non ha più lance, incomincia a gettare pietre e rocce, finché non rimane neppure un proiettile: e ogni pietra abbatte un guerriero, mentre il sangue scorre abbondante.

Ora Iliach prende la spada e incomincia a menare colpi. Terribile è la sua forza e nessun guerriero può resistergli. Atroce è la strage che compie e uno dopo l’altro i guerrieri più valorosi muoiono, trafitti dalla lama. Robusto è il ferro della spada e non meno forte è il braccio che la regge. Ma i colpi mettono a dura prova la lama e infine essa si spezza. Allora Iliach si lancia sui guerrieri più vicini e uno a uno li afferra e li stringe tra le braccia fino a stritolarli.

È una tale carneficina che ancora oggi viene ricordata in quelle terre: essa fu chiamata Mellgleo nIlliach, il Combattimento dei Proiettili di Iliach, e è una delle tre sterminate carneficine della Razzia del Toro Bruno.

Al tramonto Iliach ha abbattuto tanti di quegli uomini, che la pianura è rossa di sangue. Ora però non ha più armi. Ma quando un soldato scaglia una lancia contro di lui, Iliach l’afferra al volo e la rimanda contro chi l’ha lanciata, uccidendolo infallibilmente.

Le forze ormai gli mancano: per ore e ore ha combattuto da solo, menando gran strage tra i nemici. E allora cerca Doche. Lo vede e sorride Iliach: bello è Doche e è una gioia per i suoi occhi contemplarlo. Cernunnos sa che presto si ritroveranno nell’isola sacra al dio, ma questo Doche lo ignora. 

Il dio è stanco di guerra e di vivere in forma umana e allora Iliach si avvicina a Doche, che gli dice:

- Bene hai combattuto, vecchio, menando gran strage tra i tuoi nemici. Davvero sei valoroso. Ma perché ora vieni verso di me?

- Doche, figlio di Maga, il mio giorno è finito e la notte che mi segue si sta avvicinando rapida. Ho combattuto la mia ultima battaglia e non posso più oppormi ai nemici del mio re. Ma, in nome dell’amicizia che ti lega a mio figlio, due favori ti chiedo. 

Non esita Doche:

- Esaudirò le tue richieste

- Non voglio finire prigioniero nell’accampamento della regina. Voglio morire sul campo di battaglia dove ho combattuto. A te spetta menare il colpo fatale. E la seconda cosa che ti chiedo è di consegnare i frammenti della mia spada a mio figlio. Egli saprà forgiarla per tornare a colpire ancora.

- Ho promesso di fare ciò che mi avresti chiesto e non mi tirerò indietro.

Doche solleva la sua spada. Iliach china il capo, lieto del colpo che porrà fine ai suoi giorni terreni.

Doche cala l’arma e taglia la testa a Iliach, con un unico colpo. Non sa Doche che ha liberato il dio da un corpo mortale, di cui ormai era stanco.

Poi egli cerca i due tronconi della spada. Prima di tornare nell’isola di Cernunnos, troverà Loegaire e glieli consegnerà.

 

E quella notte Cernunnos raccoglie i guerrieri caduti e li porta con sé nell’isola di Tir Na Nog. Qui essi incontrano altri valorosi, caduti nelle battaglie del passato.

Non con loro rimane il dio, altro brama il suo cuore. E sa che presto l’avrà, anche se ignora ciò che avverrà. Le parole che un giorno lontano gli disse il dio-serpente risuonano ancora nelle sue orecchie.

La guerra si è conclusa. Doche ha consegnato la spada a Loegaire e ora ritorna all’isola di Cernunnos, che è la sua patria. Sa che non rivedrà più la terra dai verdi pascoli in cui è nato. La morte l’attende nell’isola che è il suo paese d’elezione, ma il dio lo chiama e il desiderio lo guida. Il primo plenilunio d’autunno è vicino e per l’ultima volta Doche parteciperà alla grande caccia.

Doche guarda il profilo dell’isola che appare all’orizzonte e il suo cuore è in festa. Bella gli appare l’isola, come bella sembra la patria a chi vi torna dopo un lungo errare per mari e per terre. Meno di un anno è stato lontano Doche da questa terra che ora si svela al suo sguardo, ma gli sembra di tornare da un lungo esilio.

 

V - Il sacrificio

 

Doche ha trent’anni. Nel secondo plenilunio d’autunno potrà infine offrirsi al dio, se non perderà la vita nell’ultima caccia a cui parteciperà. Freme il corpo di Doche, che null’altro desidera se non l’amplesso del dio, pur sapendo che il prezzo di quell’abbraccio è la morte.

Doche sa che il dio lo sceglierà e che perciò la grande caccia a cui si appresta a partecipare è di certo l’ultima. L’animale sacro è un cinghiale, grande e temibile.

Molti sono i cacciatori che partecipano al feroce rito e più d’uno si vanta di abbattere il feroce animale, ma tutti sanno in cuor loro che sarà Doche a colpire il nero cinghiale. Qualcuno, meno coraggioso, è ben contento di partecipare alla caccia in compagnia di Doche, perché ne conosce la mira infallibile. Altri soffre di sapere che la magnifica preda gli sfuggirà di certo, perché un ben più forte cacciatore l’abbatterà.

Come negli anni precedenti si svolge la caccia. I cani inseguono l’animale e Doche corre, ben più veloce degli altri, senza lasciarsi distanziare dai cani, senza che la preda riesca a ingannarlo o a far perdere le sue tracce.

E infine giunge il grande momento, quello in cui l’animale non ha più vie di fuga e affronta il cacciatore. Sono uno di fronte all’altro, entrambi forti. Paura non alberga nei loro petti, né odio, perché fortissimo è il legame che li unisce. Il cinghiale carica, ma Doche è più rapido e scansa le zanne portatrici di morte. E mentre la preda si volta, Doche ne afferra la testa, per colpire l’animale al collo, dove il sangue della vita scorre verso il capo. Ma scivola la sua mano e la fiera si libera.

Ora il ventre di Doche si offre privo di difese alle zanne del cinghiale. Doche si sporge in avanti per ghermire nuovamente la testa dell’animale e recidergli la gola, ma sa che è troppo tardi. Ciò che ha sempre temuto e desiderato si compirà, il dio gli darà la morte. Doche non teme la morte, rimpiange solo di non potersi offrire al dio nella notte del prossimo plenilunio, quando avrà infine compiuto gli anni che la sacra cerimonia richiede: il suo più grande desiderio non sarà esaudito, anche se bello è morire nella caccia, ucciso dal dio feroce. Il membro di Doche è teso allo spasimo, mentre egli si protende per colpire, pur sapendo che il dio sarà più rapido di lui e gli darà la morte.

Per un attimo gli occhi del cinghiale e quelli di Doche si incrociano, poi il cinghiale sfiora appena con le zanne il ventre di Doche. Il sangue zampilla dalle due ferite e il seme sgorga violento, mentre il piacere avvolge il cacciatore. La mano di Doche vibra il colpo che recide l’arteria dell’animale. 

Ancora per un attimo lo sguardo dell’uomo e quello dell’animale si incontrano. Doche vi legge un appuntamento, a cui non mancherà.

 

Episodio5H

 

Giungono gli altri cacciatori e non si stupiscono nel vedere morto ai piedi di Doche il feroce cinghiale. Lodano la sua bravura e il suo coraggio e intonano un canto in suo onore. E intanto preparano la carne per il grande banchetto. Per l’ultima volta si ciba l’eroe della virilità dell’animale. Lieto è il suo cuore, non per la preda abbattuta, ma perché sa che il dio l’ha risparmiato perché altro destino gli riserva.

Al termine del banchetto, quando il desiderio accende i corpi degli uomini, Doche si allontana e raggiunge la radura dove la sua mano ha spento la vita della preda. Sul suolo vi è ancora il sangue versato dall’animale e qui Doche si stende. Il sonno scende su di lui e nel sogno gli appare il dio, che lo chiama a sé. Vicino a lui è davvero Cernunnos, che lo accarezza con la sua mano forte, ne stringe la carne, mentre le sue labbra si posano su quelle del giovane. Freme Doche nel sonno, ma non si desta, perché un magico sonno è su di lui e lo tiene nelle sue catene.

Ardono di uguale desiderio i due corpi, ma il dio non vuole prendere nel sonno quel corpo che presto gli si offrirà. Le sue mani scorrono lungo il viso del giovane, scendono sul torace e sul ventre, sfiorano infine l’asta tesa e il seme sgorga abbondante. E anche il dio sente che il suo seme prorompe e si sparge su Doche e sul suolo.

Si allontana il dio. Il mattino Doche si sveglia in un intrico di vegetazione da cui esce a fatica. Alberi e arbusti intorno a lui offrono una tale ricchezza e varietà di frutti, che Doche rimane ad ammirarli. Ma non si stupisce, l’isola di Cernunnos è terra di prodigi e leggendaria è la sua fertilità miracolosa .

Dentro di sé Doche sente una gioia infinita. Sa che il dio lo attende, che il momento a lungo sognato è vicino. La morte non lo spaventa, tremendo sarebbe il suo dolore se Cernunnos non lo volesse come vittima sacrificale. Ma non c’è dubbio nel suo cuore.

 

Il secondo plenilunio d’autunno sta per giungere. Doche ha compiuto trent’anni e potrà finalmente coronare il suo sogno: offrirsi al dio. Ciò che gli uomini dell’isola temono, Doche lo sogna con tutta l’intensità del suo amore feroce. Perché Doche ama il dio, lo desidera, smania per il suo abbraccio mortale.

Per anni ha aspettato di compiere i trent’anni, per anni ha respinto ogni offerta d’amore: il suo corpo non ha conosciuto altri maschi, anche se molti l’hanno desiderato, uomini e donne, nell’isola e nel Connacht. Ma non sono verginali i suoi pensieri, perché egli arde di un desiderio che solo l’abbraccio del dio potrà saziare. Febbrili sono i suoi giorni e le sue notti e gli sembra di avvertire vicino a sé la presenza del dio. Perennemente eretto è il suo membro e di continuo nella sua mente appare la visione del terribile Cernunnos.

     

Giunge infine il mattino in cui in ogni villaggio gli uomini che hanno partecipato alle cacce divine si ritrovano, perché uno di loro parta per la grande sala dove il dio sceglierà la sua vittima.

Impaziente, Doche dice che si offre, che non è necessario procedere all’estrazione, ma i sacerdoti gli ricordano che non sono gli uomini a scegliere, ma è il dio terribile e la sua volontà non può essere discussa. Dieci uomini estraggono la pietra, bianca come la luna, e tutti sentono placarsi l’ansia che si agitava in loro.

Undicesimo Doche pone la mano nell’urna e sceglie una pietra. È nera come una notte senza luna e pare che dalle aperture della sala non entri più luce, ma che una penombra avvolga la stanza. Tutti osservano il prodigio, ma non si stupiscono. Nel loro cuore sanno che Doche sarà la vittima del sacrificio.

Con il cuore leggero e il corpo che arde lascia il suo villaggio Doche. Sa che non lo rivedrà, ma di nulla gli importa. Affida la sua casa a un amico e si mette in cammino. Lungo la strada incontra altri uomini che hanno estratto la pietra nera. Tutti appaiono sereni, ma più d’uno nasconde in cuore l’ansia che lo rode. Doche arde d’impazienza.

Si dispongono a cerchio nella vasta sala gli uomini. Uno dopo l’altro estraggono la pietra. Tutte sono nere. Ma quando è il turno di Doche la pietra che estrae dall’urna è bianca come la luna e sembra splendere tanto che nessuno riesce a fissarla, se non Doche. Egli guarda la pietra del sacrificio e ora gli pare un diamante che raccoglie tutta la luce del sole, ora un rubino, rosso come il sangue, ora uno zaffiro che raduna l’azzurro del cielo, ora uno smeraldo in cui si riflette il verde dei boschi. Ma gli altri vedono solo un biancore abbagliante, che li costringe a volgere altrove lo sguardo, non sono destinati al dio i loro corpi; non vedranno il fulgore del dio possente i loro occhi; non stringeranno la carne del dio le loro mani.

Come vuole il rituale, gli uomini si inginocchiano davanti a Doche e lasciano la sala.

I sacerdoti si preparano a condurre la vittima al tempio. È giunto il momento supremo. Il primo dei sacerdoti prende la corda per legare le mani di Doche, ma questi si sottrae:

- No, non voglio essere legato. Io mi sono offerto.

I sacerdoti si guardano, incerti. Tutti conoscono Doche, la sua devozione al dio è nota in tutta l’isola, le sue imprese già sono cantate durante i banchetti. La pratica di legare la vittima non è stata imposta dal dio, è stata decisa dai sacerdoti per evitare una nuova fuga. Che senso avrebbe legare Doche, che spontaneamente si è offerto?

Doche viene accompagnato al tempio. I sacerdoti lo introducono nella stanza dove è posta la statua del dio, coperta da un velo. Nulla si vede della grande statua, perché il velo, che pende dalle ampia corna con cui è raffigurato il dio, copre completamente l’immagine sacra.

Doche si inginocchia davanti alla statua. C’è una grande calma dentro di lui. La notte che si avvicina sarà l’ultima della sua vita, ma la certezza della morte non lo spaventa. Il dio lo prenderà, lo possiederà.

Il pensiero dell’abbraccio del dio accende i suoi sensi e il sesso si tende, turgido e impaziente.

Quanto durerà l’attesa del dio? Verrà solo a notte? Il sole non è ancora tramontato e Doche non sa attendere.

Il giovane si avvicina al grande velo. Le sue mani si protendono sotto il tessuto, fino a incontrare i piedi della statua.

Doche sfiora la pietra e gli sembra di toccare la carne del dio. Doche chiude gli occhi e si prosterna. Le sue braccia cingono le caviglie della statua, le sue mani accarezzano i polpacci e poi risalgono lungo le gambe. La pietra sembra farsi carne sotto le sue dita, che si impigliano tra la peluria che ricopre le gambe del dio. Il desiderio arde in Doche, tanto forte da essere quasi insostenibile. Le dita salgono lungo le cosce, le braccia si tendono, Doche solleva il viso e la sua bocca accarezza le gambe villose.

Le mani di Doche hanno raggiunto i fianchi possenti del dio e stringono con forza, poi scendono e risalgono verso i testicoli fecondi del grande Cernunnos. Ma ora trema, Doche, il cacciatore che non ha paura, il guerriero che non teme di affrontare la morte in battaglia. Trema di fronte al desiderio che arde in lui.

Sorride il dio e dice:

- Sono stati il tuo cibo dieci volte, ora puoi ben accarezzarli.

Il cuore di Doche batte forte e le sue mani sfiorano il pelame che avvolge le due sfere, poi, fattesi più ardite, toccano la pelle e stringono, con delicatezza. Trent’anni ha atteso, Doche, di poter toccare il corpo di Cernunnos il terribile, il dio dalle molte forme.

E ora il cuore di Doche trabocca e gli sembra di morire. Davvero beffardo sarebbe il destino, se proprio adesso gli togliesse il soffio vitale, ora che stringe tra le mani la carne del dio amato. Eppure sarebbe una bella morte, per il giovane cacciatore. Il viso di Doche è di fronte al sesso del dio ed egli avvicina le labbra, e lentamente la sua bocca avvolge la punta del membro. Conosce Doche quell’arma tremenda, sa che lo ucciderà, ma il desiderio in lui arde selvaggio.

Divenuto più ardito, stringe con forza i fianchi del dio e il desiderio lo guida a muovere labbra e lingua per dare piacere al dio: così come i piccoli dell’aquila, nati in un nido posto a strapiombo su una valle profonda, quando è giunta l’ora muovono le ali e si lanciano in volo, senza che nessuno abbia loro insegnato i movimenti da compiere, così Doche, che pure non ha conosciuto né uomo né donna, che mai ha stretto un corpo, trova i movimenti e i gesti per saziare il desiderio insaziabile del dio.

E Cernunnos sente che il piacere lo avvolge e riempie ogni fibra del suo corpo. Mai fu così forte la brama che arde dentro di lui, mai fu così intenso il godimento. Riempie del suo seme la gola di Doche, mentre le mani avvolgono i lunghi capelli del giovane cacciatore.

Il seme del dio scende dentro Doche e questi sente una nuova forza penetrare dentro di lui. Con la lingua percorre l’asta ancora tesa del dio e poi scende a esplorarne i testicoli fecondi e tratto a tratto percorre il corpo vigoroso del dio, nuovamente portandolo al piacere. Il seme del dio si sparge una seconda volta e mentre esso ricade su Doche, anche il cacciatore conosce il piacere, stretto al corpo del dio, ed esso è tanto intenso che il fiato gli manca.

A lungo il dio e il cacciatore si accarezzano, le loro bocche con movimenti simili percorrono il corpo del compagno e più e più volte il seme si spande, abbondante. Beve Doche il nettare divino e per ogni attimo di questa notte egli darebbe volentieri tutta la sua vita.

L’alba non è lontana e per il dio è giunta l’ora di possedere quel corpo che tanto piacere gli ha donato. Esita il dio, timoroso di provocare ancora una volta la morte dell’uomo che possiede, ma Doche si stende e gli offre i suoi fianchi. Li accarezza il dio e il desiderio impetuoso lo spinge ad avanzare il grande membro. Guizza il corpo di Doche quando il dio forza l’ingresso e un gemito gli sfugge. Sofferenza e godimento si mescolano e l’uno non può essere distinto dall’altro, come le fibre di un unico tessuto.

Penetra a fondo l’arma del dio e Doche sa che la morte sta per ghermirlo, ma per nulla al mondo vorrebbe fermare l’avanzata. Tutto il suo corpo è percorso da un immenso piacere, che si avvolge nel dolore e quando infine il dio, con spinte possenti, viene dentro di lui, il mondo svanisce in un’estasi che il cacciatore non pensava possibile.

Giace a terra esanime Doche e un dolore sordo opprime il cuore del dio: ancora una volta il suo amplesso è stato fatale all’uomo che ha posseduto. Neppure Doche, che amava ed era amato, è sfuggito al destino.

Grida il suo nome, Cernunnos, cui aspro dolore rode il cuore. E a quel grido Doche si risveglia e chiama il dio.

Ebbro di gioia Cernunnos abbraccia Doche e i due riprendono i loro giochi amorosi.

 

Il mattino è giunto. I sacerdoti salgono in processione al tempio del dio, per raccogliere i resti mortali della vittima offerta in sacrificio.

Arrivati al torrente che scorre intorno al tempio, vedono che esso è gonfio d’acqua e impedisce l’accesso. Invano i sacerdoti tentano di attraversarlo: simile a onda di mare in tempesta, l’acqua si solleva.

Chiaro è il prodigio: il dio è nel tempio e nessun mortale può avvicinarglisi.

Per dieci giorni il prodigio si ripete. Solo il mattino del decimo giorno l’acqua non si solleva più all’arrivo dei mortali.

I tre sacerdoti entrano infine nella cella sacra. Non c’è traccia del corpo di Doche. Ma c’è qualche cosa di strano nella statua, che il velo non nasconde completamente: ai piedi del dio c’è una massa ingombrante.

I sacerdoti sollevano il velo e vedono Doche, inginocchiato ai piedi del dio, che le sue labbra sfiorano. Ma non è un uomo in carne e ossa, è anch’egli statua, dello stesso materiale di quella del dio. I sacerdoti osservano muti il prodigio.

E quando il giro delle stagioni si compie un’altra volta e giunge il primo plenilunio d’autunno, i cacciatori che partecipano al grande rito scoprono che la preda è doppia: due sono i lupi, uno più grande e terribile, ma temibile è anche l’altro e l’uno e l’altro compiono grande strage, prima di trovare la morte per mano di giovani valorosi.

 

Giunge il giorno del secondo plenilunio d’autunno. In ogni villaggio nessuno estrae la pietra nera, che pure il sacerdote ha messo: essa sembra scomparire, sostituita da un’altra pietra bianca. Si riuniscono i sacerdoti di tutta l’isola, per interpretare il prodigio: chiaro è il significato, il dio non vuole più sacrifici.

Il giorno seguente essi si recano in processione al tempio. Qui la statua del dio ha cambiato forma: Doche è in ginocchio, con un braccio stringe i fianchi possenti del dio, l’altro è teso in alto, verso l’ampio torace. La bocca di Doche sfiora il grande sesso di Cernunnos il terribile.

Anno dopo anno muta la statua e sempre due sono gli animali che i cacciatori devono inseguire nel rito di sangue. E infine il quarto anno dopo il sacrificio di Doche, nella cella sacra del tempio Cernunnos e Doche appaiono entrambi in piedi, affiancati. Un braccio di Cernunnos cinge le spalle di Doche e l’altra mano si appoggia su uno dei capezzoli. Anche Doche tiene un braccio sulla spalla del compagno e la sua mano accarezza il grande sesso.

Alle cacce d’autunno è difficile distinguere i due cinghiali, ugualmente possenti e feroci, che menano grande strage e vengono infine uccisi insieme.

E nelle case dell’isola gli abitanti mettono accanto all’immagine di Cernunnos quella del suo compagno.

 

2011

 

 

 
 
 
 
 
 
            

 

 

 

 

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