Omaggio a Camilleri

 

Per gli appassionati di Montalbano: i due racconti potrebbero svolgersi qualche tempo dopo la vicenda narrata in La voce del violino. Il commissario ha quarantasei anni.

 

 

I - Il picciotto di Parma

 

Ad Andrea Camilleri, a cui ho rubato le parole,

a Luca Zingaretti, a cui ho rubato la faccia,

a Galeazzo, che mi ha regalato l’idea.

Primo episodio1

 

Nuttata fitusa,nfami, tutta un arramazzarsi, un votati e rivotati, un addrummisciti e un arrisbigliati, un susiti e curcati. E non per colpa di una mangiatina eccessiva di purpi a strascinasali o di sarde a beccafico fatta la sira avanti, perché ora che Adelina non c’era più, Montalbano cenava a passuluna e caciocavallo, sarde salate e salami. A lungo andare la cosa era addivintata scunsolante.

Si era trattato dei pinsèri nìvuri.

Arriva un momento - pinsò - nel quale t’adduni, t’accorgi che la tua vita è cangiata. Ma quando è successo? - ti domandi. E non trovi risposta, fatti impercettibili si sono accumulati fino a determinare la svolta. O macari fatti ben visibili, di cui però non hai calcolato la portata, le conseguenze. Spii e rispii, ma la risposta a quel “quando” non la sai trovare. Come se avesse importanza, poi! Lui, Montalbano, no, a quella domanda avrebbe saputo arrispunnere con precisione. Fu esattamente il venti di agosto che la mia vità cangiò, avrebbe detto.

Il venti agosto quando Livia telefonò, di ritorno dalla Siria. Uno dei compagni di viaggio, un uomo meraviglioso, di Savona, devi capire, il nostro rapporto non aveva più senso, non è stata una sbandata, lui vuole che viviamo insieme, mi spiace, ma non ce la facevo più. Tutte le stronzate che si dicono quando una storia è finita.

La verità vera era che Livia di lui aveva piene non sulo le scatole, ma intere vagonate di containers. E la verità vera vera è che anche Salvo Montalbano s’era stufato. Di Livia e di tutte le donne.

L’ultimo tradimento, perché quello vero tradimento era stato, l’aveva fatto Adelina, tre settimane prima, andandosene. Adesso gli era venuta in uggia anche la casa di Marinella: senza l’adenzia di Adelina era un puttanaio.

Ed ora erano macari tre mesi che non scopava. Ogni tanto gli veniva gana di spararsi una sega, ma non era più un picciotto.

 

Solo quando raprì la persiana, gli venne ‘u cori. La matinata s’appresentava felice di essere quella che era, viva di luce e colori. La spiaggia, almeno fino a dove si poteva vedere, pareva deserta d’òmini e vestie. Si vippi tazze di cafè una appresso all’altra, si mise i pantaloncini da bagno e scinnì in spiaggia. La rena era vagnata e compatta, forse nella prima sirata aveva chiuvuto a leggio. Arrivato a ripa di mare, allungò un piede. L’acqua gli parse assai meno ghiazzata di quanto aveva pinsato. Entrò cautamente in mare, didoppo principiò a nuotare a bracciate lente e larghe. Il sciauro del mare era violento, trasiva pungente nelle narici, pareva sciampagna. E Montalbano quasi s’imbriacò, perché continuò a nuotare e a nuotare, la testa finalmente libera da ogni pinsèro, compiacendosi d’essere addiventato una specie di pupo meccanico. 

Quando tornò a riva, c’era un picciotto vintino, in pantaloncini e pedi nudi, dall’ariata simpatica.  Il ragazzo taliò il commissario.

- Buongiorno.

- Buongiorno.

Ora il picciotto taliava il mare, dubbioso.

- Non è fredda, l’acqua?

- Tanticchia.

- Tanto? Allora niente bagno.

Il solito forestiero.

- No, non tanto, tanticchia, solo un poco.

Il picciotto non sembrava convinto.

- Mi metto a prendere un po’ di sole.

Si calò i càvusi e rimase nudo.

Poi aggiunse:

- Tanto qui non c’è nessuno.

Montalbano annuì. Ma aveva altro per la testa. Perché da quando non scopava, pure i picciotti lo attiravano. Gli stava venendo duro e con il costume si vedeva. E questo gli faceva firriare vorticosamente i cabasisi. Fece per andarsene, ma il ragazzo dimandò:

- Lei abita qui?

Montalbano annuì. Didoppo aggiunse.

- Adesso devo andare.

Tornò a casa, senza voltarsi. Dalle labbra gli niscì na vestemmia.

 

La mattinata fu da tragedia greca: ogni dieci minuti un problema nuovo. Gli òmini di Montalbano giravano alla larga, perché tirava mala aria. Telefonò pure il questore ed a quel punto il commissario era peggio di una belva.

Tra una cosa e l'altra, si fecero quasi le due e al commissario era smorcato un pititto che gli annebbiava la vista.

- Di là c'è posto? - spiò Montalbano trasendo nella trattoria San Calogero.

"Di là" veniva a significare un cammarino piccolo, con due tavolini.

- Non c'è nessuno - lo rassicurò il proprietario.

Si fece per primo un abbondante antipasto di gamberetti e purpiteddri in salsetta, appresso si sbafò una tripla porzione di nasello con salsina di acciughe ed aceto.

- Le porto un cafè?

- Dopo. Intanto, se non disturbo, mi farei una mezzorata di sonno.

Il proprietario accostò i battenti e il commissario si addormentò, la testa appoggiata sulle braccia intrecciate sopra il tavolino, in bocca ancora il sapore del pesce freschissimo, nelle narici l'odore della buona cucina, nelle orecchie il lontano tintinnare delle posate che venivano lavate. Alla mezz'ora spaccata il proprietario gli portò il caffè, il commissario si diede una rilavata, s'asciucò la faccia con la carta igienica e s'avviò al commissariato. Andava meglio.

Fuori dalla trattoria incontrò proprio il picciotto del mattino, che si cassariava per il viale. Vide che lo taliava, ma fece lo gnorri.

Il pomeriggio la viacrucis continuò. Sul suo tavolo c’era una montagna di carte da firmare e di pratiche da evadere. Montalbano, mischineddru, finì ‘na gran parte del travaglio burocratico che oramà erano le sei passate da un pezzo. Il resto stabilì di finirlo all’indomani.

 

Il giorno dopo Montalbano si susì presto, come ormai faceva sempre: il sonno lo lasciava di buon’ora. Aveva il tempo di farsi un bagno.

Arrivato a ripa di mare, s’accorse che il ragazzo era già lì, sdraiato. Aveva il costume.

- Buongiorno. Ieri l’ho vista in paese.

Montalbano fece solo un cenno con il capo. Non teneva gana di arrispunnere.

Entrò in acqua e nuotò a lungo. Quando niscì, il picciotto era ancora lì, a prendere il sole, con i càvusi. Gli sorrise e disse, frisco frisco:

- Senta, ho visto che abita proprio qui vicino. Le spiace se uso il gabinetto?

Il picciotto teneva veramente una faccia stagnata, se davvero era solo il cesso che voleva. Ma non doveva essere solo quello.

A casa del commissario, il picciotto entrò in bagno. Ne niscì nudo e spiò, avvicinandosi a Montalbano:

- Posso anche farmi la doccia?

Montalbano non cercò di nascondere che ormai ce l’aveva duro. Tanto la facenna era chiara, inutile fare il noccentino.

- Sì, fatti la doccia, me la faccio anch’io.

Si tolse il costume. Il picciotto gli taliò lo sperone e sorrise.

Montalbano fece un cenno con il capo. Quello, obbediente, venne ad inginocchiarsi davanti a lui, si prese in bocca la radica del commissario e si mise all’opera. Se al picciotto andava bene, andava bene macari a lui: ci sapeva fare, il tipo, lavorava bene con le labbra e la lingua e macari con i denti, piccoli morsi che lo attizzavano. E quelle succhiate, che a Montalbano pareva di avere un gelato al posto della minchia! Ma era un gelato caldo caldo, che si scioglieva in quella vucca accogliente.

Montalbano pensò che era la prima volta che un masculo gli sucava la minchia e si chiese perché aveva aspettato tanto: era una goduria.

Non ci mise molto a venire, il commissario: da troppo tempo non scopava. Dopo dieci minuti, fece come quando salta il tappo a una botte troppo piena. Provò ad avvisare il picciotto, ma quello non si tolse. Montalbano sburrò ed il picciotto bevve lo spacchio con gusto.

- Adesso devo andare a lavorare.

Il ragazzo rise.

- Posso tornare domani?

- Non vuoi perdere tempo, eh?

- Tra una settimana torno a Parma. Di tempo ne ho poco.

- Stai qui in villeggiatura?

- No, sono con mio zio.

- Massì, facciamo domani.

Il ragazzo niscì. Non si erano manco detti il nome. Ma per quel lavoro il nome non serviva.

Quel giorno Montalbano fu di umore migliore.

 

La sera andò a coricarsi contento all’idea del mattino dopo.

Si arrisbigliò alle sette, dopo una nottata di sonno piombigno, senza sogni, tanto che ebbe l’impressione, raprendo gli occhi, che si trovava ancora nella stessa posizione di quando si era corcato. La mattinata non era certo di assoluta gaudiosità, nuvole sparse davano l’impressione di pecore che aspettavano di farsi gregge, però il ragazzo aspettava fuori dalla porta.

Questa volta il commissario lo fece accomodare nella càmmara.

Il picciotto si spogliò e poi si stese sul letto. Aprì bene le gambe.

Montalbano aveva comprato il prisirfatifo, come diceva Catarella, in una farmacia del paese vicino. Se lo comprava a Vigàta, erano tutti a chiedersi con chi scopava.

Era bello quel culo, giovane e sodo. Montalbano si disse che aveva aspettato troppo a fare spirenzia di un bel culo màscolo. Quand’era picciotto qualche gioco l’aviva fatto macari lui, con altri màscoli, ma cose di mani, un culo non l’aveva preso mai.

Ed adesso invece che vedeva la sua radica entrare in quel culo, affondando come la lama di un coltello nel burro, minchia!, che bello! Montalbano si domandò perché non l’aveva fatto prima, che quel bel culo era macari meglio di una fissa.

 

Dopo rimasero un momento a parlare. Il picciotto era di sciolta parola e difatti parlava quasi sempre lui, risparmiando a Montalbano il fiato. Si chiamava Gianni, stava a Vigàta dallo zio, Gaetano Smecca, fratello della madre. Ogni tanto Gianni scendeva in Sicilia. Montalbano pensò che era per ricordare allo zio che aveva un nipote a cui lasciare il patrimonio. Perché Gaetano Smecca era ricco come Creso. La notte Gaetano non arrinisciva a dormire, così il mattino si alzava più tardi. Guai se qualcuno faciva rumore in casa. Allora il ragazzo nisciva e ne approfittava per farsi un giro: l’unico momento di libertà, perché lo zio lo faceva trottare tutto il giorno, si faceva scarrozzare di qui e di là: il nipote se la doveva guadagnare l’eredità.

Didoppo il ragazzo se ne andò, zuppiando tanticchia: il commissario aveva una radica non da poco. Montalbano si fece la doccia. Sotto l’acqua si provò persino a cantare, come faciva di rado, ma essendo tanticchia stonato, si limitò a murmuriare il motivo. Fùttiri era una gran cosa ed il picciotto teneva proprio un bel culo.

Arrivò in ufficio frisco e sorridenti e la giornata non fu mala. Macari quella notte durmì comu un angiluzzunnuccenti che non ha pinsèri o problemi.

 

Il giorno dopo fu la terza volta. Gianni aveva detto che si fermava ancora una settimana. Gianni fece il cavaddro e Montalbano il cavallarizzo. Quando niscì, Gianni zuppiava di nuovo parecchio: la cavalcata era stata longa e macari lo sperone del commissario era longo assai.

Montalbano si fece la doccia ed andò in commissariato. Era appena entrato che Fazio gli riferì:

- Ha appena telefonato uno di Parma. Ha trovato due cataferi a casa. 

Parma? Montalbano pensò subito a Gianni.

Non si era sbagliato. Fazio lo acconmpagnò. Augello era già sul posto con altri due agenti.

Gaetano Smecca stava stinnicchiato sul pavimento della cucina, massacrato da diverse coltellate alla schiena. Nella cucina non ci si poteva cataminare senza rischiare di sporcarsi di sangue. L'arma del delitto, un coltello tagliacarte col manico d'osso, era stata gettata dentro il lavello, la lama aveva ancora tracce di sangue, il manico era stato invece accuratamente puliziato per far scomparire le impronte digitali.

L’altro cadavere invece aveva la gola tagliata e stava disteso nell’ingresso. Era una vecchia conoscenza della polizia, Peppe Pignataro, un cinquantino minuto e segaligno.

Seduto su una sedia, bianco che pareva un morto pure lui, stava Gianni. Quando Montalbano intrò, il picciotto susì e didoppo si risedette, come se le gambe gli mancassero.

Il commissario non gli disse nulla. Questa faccenda era una grandissima rottura di cabasisi. Proprio quel mattino dovevano ammazzare Smecca? E pure Pignataro? Proprio mentre lui futtiva Gianni?

- Allora? - spiò Montalbano al dottor Pasquano, che stava acculato vicino alla testa dello Smecca.

- Allora che? - S'inviperì l'altro. - Vuole sapere di cosa sono morti? Indigestione di fichi d'india. Che camurrìa!

Quella matina però Montalbano non aveva gana d'attaccare turilla col medico legale.

- Porti pacienza. Volevo semplicemente conoscere...

- L'ora della morte? Posso sgarrare di qualche secondo o devo spaccare il minuto?

Il commissario allargò le braccia sconsolato. Al dottore, nel vederlo così sorprendentemente remissivo, passò il piacere dell'azzuffatina.

- Non è passata manco un’ora. Non è ancora freddo. La prima coltellata gliela hanno data in petto, lui ha avuto la forza di voltarsi, forse per scappare, e la seconda l'ha pigliato alla schiena. È caduto, a mio parere era già morto. Le altre coltellate sono state inferte mentre stava a terra, per finirlo.

- E il secondo?

Il secondo era Pignataro.

- Subbito dopo, direi.

S'avvicinò Fazio che si era fatto una taliàta in tutta la casa.

- Parrebbe cosa di furto. Cassetti aperti, nessun contante, niente orologio. Smecca ha sorpreso il ladro e questo l’ha ammazzato. Parrebbe…

- Ma tu non sei convinto. E perché?

- Due ladri alla stessa ora…

- Potevano essere insieme.

- No, Peppe Pignataro lavorava sempre da solo.

Già. Montalbano si disse che una prima idea della situazione l’aveva. La scientifica avrebbe fatto il resto e quelli, meno li vedeva, meglio era: Vanni Arquà, il capo della squadra, non gli faceva sangue e Arquà lo ricambiava d’uguale cordiale antipatia.

Quando Arquà trasì nella casa, Montalbano manco lo salutò.

Decise di tornare in commissariato e interrogare Gianni, anche se il solo pinsèro gli attorcigliava le budella.

Quando furono arrivati, Montalbano si assittò davanti al picciotto e spiò:

- Allora, che hai fatto questa mattina?

Gianni lo taliò quasi senza capire, didoppo si riscosse e rispose.

- Sono uscito alle sette, come tutte le mattine. È l’ora in cui lo zio dorme e guai se sente rumori. Ho preso l’auto dello zio, sono andato a Marinella. Ho fatto colazione al bar, come gli altri giorni.

- Che bar?

- Quello che c’è vicino al torrione.

- Vai sempre lì?

- Sì, tutte le mattine. Rimango dieci, venti minuti. Poi…

Il picciotto si bloccò. Al commissario parve quasi che arrossisse.

- Poi sei venuto da me. Questo lo so. E dopo che sei andato via?

- Sono andato subito a casa. Ho aperto e

Il picciotto si fermò di nuovo, ma solo un momento.

- Ho visto un cadavere nell’ingresso, allora sono andato… pensavo allo zio, sono entrato nella camera e l’ho visto… Ho telefonato subito.

Tutto quatrava come tempi, se il picciotto era davvero stato al bar - Montalbano era sicuro che ci era stato - non poteva aver fatto lui l’ammazzatina. Questo però non voleva dire che non l’avesse fatta qualcun altro per conto suo, perché lui era l’erede e aveva tutto l’interesse a far fuori lo zio. E all’idea che era lui, il commissario Montalbano, a fornire l’alibi, gli firriavano i cabasisi. Che camurrìa. E comunque c’era qualcosa di trùbbolo, di favùso, in quella facenna.

- Come lasciasti la porta, quando uscisti di casa?

- Aveva lo scatto. Non l’ho chiusa a chiave, uscendo. C’era lo zio.

- E com’era quando l’hai trovata?

- Sempre con lo scatto.

- Tuo zio aveva soldi in casa?

- Non so, non mi parlava mai dei suoi affari. Ma ieri l’avevo accompagnato in banca ed oggi dovevo portarlo a Montelusa, perché doveva pagare uno.

Montalbano mandò Augello alla banca. Ovviamente avrebbe dovuto avere un mandato e tutto il resto, ma alla cassiera Mimì faciva sangue e probabilmente il suo vice arrinisciva ad avere le informazioni che servivano in tempi rapidi.

In effetti Mimì Augello tornò mezz’ora dopo e disse:

- Smecca aveva ritirato seimila euro in banca. In casa non c’è traccia dei soldi. L’assassino se li prese.

Montalbano annuì, ma per la testa aveva altro. Quei soldi non c’entravano. Fazio doveva aver ragione. Non era l’ammazzatina del ladro sorpreso a rubare. La verità era un’altra. E in quella verità c’entrava Gianni, che da lui era venuto per avere un alibi. Più ci maceriava sopra, più ci firriava torno torno, più ci passava ranto ranto, sempre più si faceva convinto che s’era messo sulla strata giusta. Tutta la facenna aveva una sua precisa logica.

Quando ci ebbe pensato un po’, disse a Fazio:

- Fa’ controllare tutte le telefonate partite dalla casa di Smecca da quando il picciotto è arrivato.

Ma se davvero era stato Gianni a ordinare l’ammazzatina, non c’erano telefonate strane. Non era tanto stupido da telefonare al sicario da casa.

 

Ci pensò e ci ripensò. Poi gli venne l’idea. Avrebbe aspettato due giorni, per vedere se veniva fuori qualche cosa di nuovo dalla scientifica o se si presentava qualche testimone. Poi avrebbe provato.

Le conclusioni della scientifica non servivano a nulla. Qualcuno era entrato dalla finestra sul retro, che non doveva essere stata chiusa. E poi aveva ammazzato Smecca e Pignataro, entrato anche lui dalla finestra, dopo l’assassino.

Il sabato fece chiamare Gianni con una scusa. Il picciotto tornava a Parma il lunedì. Lo interrogò ancora per venti minuti. Se aveva notato niente di strano e altre minchiate del genere.

Poi il telefono squillò. Montalbano rispose, voltandosi un po’ di lato. Così poteva taliare Gianni con la coda dell’occhio, senza che lui se ne accorgesse.

- Montalbano sono.

Dall’altra parte c’era Gallo, che gli leggeva il giornale. Montalbano si finse subitamente interessato.

- Sì, sì, dimmi?

Dopo la pausa opportuna, mentre Gallo leggeva un articolo sugli sbarchi dei clandestini, disse, con voce concitata:

- Il testimone ha visto l’assassino di Smecca? Mentre usciva dalla casa alle otto? Minchia!

Teneva d’occhio Gianni, senza guardarlo direttamente, e lo vide sobbalzare.

- È in grado di riconoscerlo? Fantastico!

Montalbano si voltò verso Gianni e lo taliò sorridendo.

- Buone notizie. È saltato fuori uno che ha visto un tizio uscire dalla casa di tuo zio, giovedì, all’ora del delitto, di sicuro era l’assassino. Se è così in poche ore lo identifichiamo e non sarà difficile beccarlo.

Gianni annuì. Fingeva di essere contento della notizia. Ma non fingeva bene. Era sconvolto.

Montalbano aveva gana di spaccargli la faccia, ma continuò a sorridere e concluse:

- Vai pure, ora. Penso proprio che tra poche ore il caso sarà risolto. Ti farò sapere.

Gianni ringraziò e uscì. Montalbano aveva detto ad Augello e a Fazio di seguire Gianni. Erano già fuori, in auto, con il motore acceso.

Sicuro che Gianni cercava di mettersi in contatto con il sicario, che gli diceva di scappare, perché se lo beccavano e quello confessava, didoppo beccavano pure lui.

Pochi minuti dopo Fazio telefonò:

- C’inzertò, commissario. Il picciotto sta telefonando dalla cabina.

Se quel figlio di buttana telefonava dalla cabina, era perché nessuno potesse scoprire che aveva fatto quella telefonata. Al killer stava telefonando. Montalbano teneva gana di livargli u pilu.

Poi Gianni tornò a casa e prese l’auto dello zio. Fazio ed Augello non lo mollarono: ormai avevano tutti l’idea di dove stava andando. Montalbano seguì su un’altra auto della polizia, ma a distanza. Fazio lo informava sugli spostamenti.

Gianni usci da Vigàta e didoppo prese la strada che si inerpicava in contrada Fava. Lì dovevano stare a distanza, perché se Gianni li vedeva, mangiava la foglia. Però rischiavano di perderlo.

Fazio e Augello si fermarono. Quando ripartirono, temettero davvero di averlo perso, ma qualche chilometro avanti videro la macchina di Smecca, quella che guidava Gianni,  parcheggiata sotto un ulivo, a duecento metri da un casolare.

Montalbano arrivò con Galluzzo. Erano appena scesi, quando sentirono gli spari. Corsero nella direzione da cui provenivano. Arrivati al casolare, videro più in basso un uomo con la pistola e un corpo a terra. Il tizio si accorse di loro e sparò. Montalbano sentì fischiare il proiettile a un dito dalla sua testa: il tizio aveva buona mira. Augello sparò subito e non mancò il colpo, perché il tipo cadde a terra, ma tirò ancora. Allora Augello sparò di nuovo e il tizio non si mosse più.

Scesero. Il cadavere che avevano visto era quello di Gianni, ma anche il tipo non ne aveva più per molto.

L’assassino lo conoscevano, era Salvatore Lo Monaco, il figlio di Andrea, un delinquente dall’ammazzatina facile. Il padre lo cercavano per tre omicidi, ma nessuno sapeva dove si nascondeva. Il figlio aveva solo diciott’anni, ma evidentemente aveva preso la strada del padre, principiando ad ammazzare; dal padre però non aveva imparato a non farsi beccare ed ora la sua carriera era finita alla seconda ammazzatina.

 

Non c’erano più dubbi, ormai.

In commissariato misero insieme i pezzi.

- Il picciotto era sceso già con l’idea dell’omicidio, doveva avere preso contatto con Salvatore Lo Monaco prima di venire a Vigàta, probabilmente in una visita precedente. Doveva solo procurarsi un alibi. Tutte le mattine alla stessa ora, una passeggiata.

- Così la gente pensava che il latro lo aveva visto niscire il mattino ed aveva deciso di svaligiare la casa mentre c’era solo lo zio, che dormiva; ma il latro, che latro non era, aveva fatto rumore, Gaetano Smecca si era alzato e così aveva trovato il latro, che lo aveva ammazzato. Ben pensato.

- Certo, veniva alla spiaggia perché sapeva che io facevo il bagno. Così chiacchieravamo. Un alibi perfetto: all’ora del delitto stavo con il commissario.

“Mi facevo fùttiri dal commissario” - pensò Montalbano, ma questo non lo disse. Il picciotto aveva pensato che il commissario era davvero l’alibi ideale: per paura che si venisse a sapere, ci sarebbe andato con i piedi di chiummo. Era stata una mossa azzardata, ma poteva essere vincente. Peppe Pignataro aveva avuto l’idea sbagliata di provarci per davvero a svaligiare la casa e questo aveva un po’ scompigliato i piani, ma la cosa poteva filare liscia comunque.

La piccola trappola del commissario aveva funzionato ed il complice di Gianni lo aveva ammazzato, per evitare che il picciotto lo tradisse, perché aveva capito che Gianni era capace di confessare tutto.

Montalbano provava sollievo all’idea che il picciotto non potesse più abbanniarlo, ma tutta la facenna gli aveva lasciato l’amaro in bocca. Era una vera fitinzìa.

 

Per fortuna quella sira Montalbano era invitato dalla signora Clementina Vasile Cozzo, l’anziana ex-maestra che lo aveva aiutato in diverse occasioni. Come faciva spisso, Montalbano si trattenne a cena: la cucina della càmmarera Pina prometteva bene e manteneva sempre meglio e per il commissario, da quando non c’era più Adelina, le occasioni di mangiare bene a sina si erano ridotte alquanto.

Montalbano era infuscato, la faccenda di Gianni non gli andava giù.

La signora capiva come si sentiva il commissario, senza bisogno che lui le dicesse niente. Parlarono di diversi argomenti, ma non di ciò di cui parlava tutta Vigàta, cioè dei tre omicidi e della sparatoria con il quarto morto, il tutto in tre giorni. Alla signora Clementina poco importava e Montalbano non aveva proprio gana di discuterne. Parlarono di solitudine e di sentimenti e la signora recitò a memoria:

- Quando l’amore vi chiama, seguitelo,/ anche se ha vie ripide e dure./ E quando dalle ali ne sarete avvolti, abbandonatevi a lui,/ anche se, chiusa tra le penne, la lama vi potrà ferire… Conosce questi versi, commissario?

- No. Di chi sono?

- Di Gibran, li ha scritti ne Il Profeta.

Gli venne da sorridere. Abbandonarsi all’amore… Non era il tipo, lui.

- Guardi, commissario, che è una cosa seria.

Montalbano incassò il rimprovero.

- È che non fa per me, signora Clementina. Abbandonarsi all’amore… No, non è mai capitato e non mi capiterà di certo.

- Il passato lo conosce, ma quanto al futuro, non ne sia troppo sicuro. Prima o poi qualcuno entrerà in quella che chiamano la camera segreta, quella che sta dentro il cuore, e allora non ci saranno più difese…

Montalbano non se lo immaginava proprio. Nella sua càmmara secreta, se una cosa del genere esisteva, non era mai entrata nessuna e nessuna ci entrava più.

Almeno Montalbano ritornò a casa meno nirbùso.

 

2010

 

                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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