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Omaggio
a Camilleri
II - La camera segreta
Ad
Andrea Camilleri, a cui ho rubato le parole,
a
Luca Zingaretti e Domenico Centamore,
a cui ho rubato la faccia,
a
Galeazzo, che mi ha regalato l’idea.

Verso le sei, che già incominciava a fare scuro, Montalbano niscì dal commissariato per mittirsi
in machina e annare a
casa. Ci mise un quarto d’ura bono
e ‘na para di centinara
di biastemie prima che il
motori dell’auto s’addecidisse a fari il doviri so e questo naturalmente non fici
che peggiorare lo stato del so sistema nirbùso, già
‘ntaccato dalla jornata fitusa.
Era quasi arrivato a Marinella quando scorse l’auto che aspettava ferma
sul ciglio della strata. Appena la vide, Montalbano capì. Andrea Lo Monaco aveva giurato di
vendicarsi del commissario perché gli aveva ammazzato il figlio màscolo, anche se a sparare era stato Mimì. E ora
presentava il conto.
A fermarsi e fare inversione non faceva più
in tempo. C’era una sterrata sulla destra, che saliva verso la Ficazzana. Non aveva altra scelta. Sterzò di colpo e
l’auto prese la strata che s’inerpicava. Ma la sua
non era una Ferrari e di distanziare quelli, non si parlava
neanche.
Cercò di accelerare, ma alla quarta curva, quasi in cima al pizzo,
l’auto sbandò ed uscì di strata.
Girò su se stessa due volte e si fermò contro un albero. Seguì una devastante
rumorata di lamiera. Per un momento Montalbano non
vide nenti di nenti, la sua
testa venne prima violentemente spinta in avanti poi tirata narrè dalla cintura di sicurezza.
Quando tornò il silenzio e Montalbano raprì gli occhi, vide che c’erano due tizi vicino a lui.
Uno, sigaligno e nirbùso,
lo teneva sotto punterìa con un revorbaro;
l’altro, un quarantino sicco sicco,
aveva il mitra.
- Scendi, commissario, che sei arrivato
all’ultima fermata.
Sì, lo sapeva. Ultima fermata. Fazio glielo aveva detto di farsi
dare la scorta.
Dietro i due c’era Andrea Lo Monaco, appena sceso dall’auto.
Montalbano scinnì. C’era picca da fare.
Ora lo riempivano di chiummo.
Lo Monaco sorrideva.
- Fece male a mettersi contro di me, commissario.
Montalbano annuì. Inutile parlare. Aspettava la raffica.
Tutt’insèmmula si sentì una voce ed un quarto uomo sbucò dai cespugli, tenendo sotto punterìa un altro tipo.
- Questo stronzo stava arrivando dalla casa per vedere.
Lo stronzo era Enzo Russo. Anche se non lo frequentava, Montalbano
lo conosceva bene, perché erano stati compagni di scuola, a Catania. Era il proprietario
della Ficazzana. Doveva aver visto dalla finestra
l’inseguimento e l’incidente ed era sceso a vedere. Pagava con la vita la sua
curiosità, ma lui non era proprio siculo, lo era
solo a metà, a lungo era stato via ed aveva dimenticato che da quelle parti
bisognava farsi i fatti propri.
Lo Monaco si rivolse ai due tipi che
tenevano sotto tiro Montalbano.
- Là sotto, dietro quel capanno.
Lo Monaco non voleva che li ammazzassero
proprio sulla strada, meglio un po’ distante. Perquisirono Montalbano, per
sincerarsi che non avesse la pistola. Poi fecero segno di muoversi.
Montalbano e Russo camminavano nello scuro, davanti ai due che li
tenevano sotto punterìa. Ad
un certo punto Enzo troppicò su una pietra e cadde.
Montalbano lo aiutò a susìrisi e sentì che Enzo gli
metteva in mano qualche cosa, mentre gli sussurrava:
- Quando cado di nuovo.
Montalbano si rese conto che l’oggetto che gli aveva dato Enzo era
una pistola. Quindi Enzo era uscito di casa
portandosi dietro un’arma, ma questo a nessuno dei quattro era passato per il
ciriveddro. Neanche a lui.
Ma Enzo non era uno qualunque. Enzo era il figlio di ‘Ntoni u Santu.
Subito dopo Enzo finse di nuovo di truppicare.
Montalbano si gettò di lato e sparò, mentre Enzo sparava
due colpi pure lui. Aveva una seconda pistola.
I due òmini di Lo Monaco caddero e
rimasero immobili.
Montalbano si chinò su di loro. Anche se era buio, era chiaro che
erano morti. Disse solo:
- Minchia!
Enzo gli sussurrò:
- Ho chiamato la polizia, prima di uscire di
casa. Li ho avvisati che volevano ammazzare qualcuno.
Quindi Enzo non era niscito di casa per
curiosare, ma per intervenire, portandosi due pistole e sapendo benissimo che
potevano sparargli prima ancora che si avvicinasse. Non ci stava con la
testa. Meno male che non ci stava con la testa. Meno male per lui,
Montalbano.
In quel momento sentì il rumore del motore. Un’altra auto stava
arrivando. I suoi òmini, certamente. Montalbano si
lanciò in salita: se non interveniva ci sarebbe stata una sparatoria. Vicino
allo spiazzo si nascose dietro un albero. Enzo l’aveva seguito e si acquattò
lì vicino.
Lo Monaco e l’altro uomo si erano messi
lontano dalle auto, voltati verso la strata,
spiando chi arrivava.
Quando l’auto della polizia fu quasi arrivata, Montalbano urlò:
- Montalbano sono. Alzate le mani.
L’uomo si voltò e sparò, ma al buio non poteva vederlo. Montalbano
non sbagliò il colpo. Lo Monaco alzò le mani.
Montalbano avrebbe sparato volentieri macari a lui.
Fazio e Tortorella scesero dall’auto. Montalbano gli urlò che era
lui: non era il caso che si facesse sparare perché al buio non lo
riconoscevano.
Il bilancio della serata era stato di due morti, un ferito ed un prigioniero, che tanto presto di carzaro
non nisciva.
Montalbano chiese ad Enzo come mai era
sceso. Enzo disse che si era stupito di sentire il rumore di auto per la
strada, di lì non passava mai nessuno. Allora aveva guardato dalla finestra ed aveva capito. Aveva telefonato alla polizia ed era
sceso con le due pistole, sperando di arrinesciri a
fare qualche cosa.
Montalbano si disse ancora che quello non ci stava con la testa, ma
era stata la sua salvezza.
A casa, quella notte, non aveva sonno e così si curcò
con un libro, ma il pinsèro andò ad
Enzo Russo.
Avevano trascorso due anni l’uno allato
all’altro sullo stesso banco delle medie, Salvo Montalbano ed Enzo Russo, a
Catania. Poi i genitori di Enzo si erano separati ed Enzo era partito con la
madre per Milano. Però Enzo in Sicilia era tornato, soprattutto dopo i diciott’anni,
a trovare suo padre.
Enzo aveva la faccia di suo padre, ‘Ntoni u Santu, uno dei peggiori
figli di buttana di tutta la Sicilia. Perché lo
chiamassero u Santu, Montalbano non lo sapeva.
Sette od otto omicidi sulle spalle, che nuddru era mai arrinescito a
provare, ed un posto nel giro un gradino più sotto ai capi capi, non era proprio da santu.
Forse era santu perché nessun tribunale era mai
riuscito a condannarlo e lui era un òmo libero.
Enzo aveva la faccia di suo padre, ma dietro quella faccia da
contadino siculo, Enzo aveva una testa come nessun’altra, una di quelle teste
che non è facile capire.
L’ultima volta che Enzo era sceso a Vigàta,
dove allora stava il patre, era stato sei anni
prima. Che cosa si fossero detti Enzo e il patre,
in quell’occasione, nessuno lo sapeva. Enzo non era più tornato, fino alla
morte del patre.
‘Ntoni u Santu
aveva lasciato al figlio quattro tenute, una più bella dell’altra, tutte
prese con la forza dai legittimi proprietari, costretti a venderle per un
tozzo di pane. E poi due ville a Vigàta, di
commercianti che aveva rovinato e forzato a cedergli la casa. E infine la Ficazzana, una cascina grande ma mezzo
rovinata, con un piccolo podere, quella sì eredità della famiglia e
non frutto di latrocinio. Il resto era andato ai fratellastri di Enzo, quei
quindici o venti figli che il patre aveva seminato
come si semina il grano, perché non a caso lo chiamavano
anche il Toro.
Quando il patre era andato al Creatore,
opportunamente aiutato da ventotto proiettili, Enzo era sceso a Vigàta. Tutti pensavano che avrebbe venduto le proprietà
il più in fretta possibile e se ne sarebbe tornato a casa sua, a Milano.
Tutti sbagliavano, ma su Enzo fare previsioni non era
facile. Nessuno lo conosceva e si rivelò subito di scarsa e cortese parola
all’occorrenza, ma subitamente mutànghero non
appena la curiosità altrui manifestava l’intenzione di conoscerne il pinsèro.
Enzo aveva venduto tre delle tenute e le due ville a coloro a cui il
patre le aveva prese (o ai loro eredi), al prezzo a
cui il patre le aveva pagate, senza manco tener
conto degli interessi e della svalutazione (che su un tozzo di pane sarebbero
state briciole). La quarta tenuta non poté venderla, ché il proprietario si
era impiccato ed il figliolo era in America. Enzo
l’aveva affittata a una cooperativa di giovani, per una cifra per cui anche
la Ficazzana sarebbe stata un buon’affare.
Quanto alla Ficazzana quella
Enzo se la coltivava da sé, da solo, e ci campava.
Tra Enzo e suo padre, c’era stata una sfida, quello tutti l’avevano capito. Che razza di sfida, Salvo non avrebbe
saputo dirlo esattamente, ma sapeva che Enzo l’aveva
vinta.
Altre cose di lui aveva scoperto dopo, pure
che aveva insegnato all’università, prima di venire a Vigàta
per mettersi a fare il contadino, a quarant’anni. Contadino, ma non solo,
perché scriveva libri, di matematica, pare.
Nessuno lo capiva.
- Quello non ci sta con la testa.
E diversi aggiungevano:
- E non ha minchia.
Perché da quando era arrivato, ed erano quattro anni, nuddru lo aveva mai visto con fìmmina
o màscolo. Perciò lo chiamavano il Monaco.
Non arrinescivano a capirlo e questo non
glielo pirdonavano.
Enzo viveva solitario, era il classico santu
accutufatu. Aiutava spesso i ragazzi della
cooperativa, a volte lavorava con loro e gli dava consigli, ma non aveva
amici, non frequentava nessuno.
Il mattino dopo, quando Montalbano arrivò in commissariato,
Tortorella gli disse
a bassa voce, come se si trattasse di cosa di congiura:
- Nel suo ufficio c’è il Monaco.
- Lo Monaco?
E come minchia faceva quello ad essere nel
suo ufficio? Ieri lo avevano arrestato!
Didoppo capì.
- Ah, Enzo Russo.
- Sì, quello dicevo, il Monaco.
Quando Montalbano entrò, Enzo susì.
- Buongiorno, commissario.
- Commissario? Che minchia dici, Enzo? O pensi che non mi ricordi di
te? E dopo ieri sera, che mi hai macari
salvato la pelle.
- Scusa, Salvo, ma… vengo qui per un problema, come cittadino poco scrupoloso…
Montalbano decise di stare al gioco:
- E allora mi dica, cittadino. Che combinò?
Enzo proseguì, come se non capisse lo scherzo, ma per un attimo gli
occhi gli brillarono:
- Le pistole, quelle di ieri sera… Non
sono registrate. Erano di mio padre.
- Lei ha il porto d’armi?
- Sì.
- Però tiene poca memoria, perché le pistole le registrò
proprio qui due giorni fa.
Enzo lo taliò, questa volta senza davvero
capire. Montalbano chiamò Augello.
- Mimì, sei il solito. Non hai registrato quando il signor Russo ha
denunciato di aver trovato le pistole di suo padre, due giorni fa. Adesso che
facciamo? Vuoi che vada nei casini per avermi salvato la pelle?
Augello mangiò la foglia.
- Mi scusi, commissario, persi il foglio con i dati, ma provvedo
subito. Gli mettiamo la data dell’altro ieri, così tutto a posto è.
Risolta la faccenna, Montalbano addimandò:
- Ci sono altre minchiate, Enzo, o possiamo parlare di cose che
contano?
Enzo sorrise.
- Grazie.
- Grazie a te. Il favore che mi hai fatto è un po’ più grosso che risparmiarti
qualche grattacapo per due pistole non denunciate. Certo che hai una bella mira e spari veloce.
- Ho imparato presto.
- Presto quanto?
- A sei anni.
- A sei anni? Vuoi babbiare?
- Salvo, tu sai chi era mio padre.
Già, il padre gli aveva insegnato a sparare molto presto. Il figlio màscolo. Doveva essere l’erede del padre. Ma Enzo aveva
scelto un’altra strada.
Il telefono suonò in quel momento. Dopo aver risposto, Montalbano
fece per riprendere a parlare, ma ci fu un’altra chiamata. Terminata macari quella, disse:
- Mi piacerebbe chiacchierare con te in pace.
Stava per proporre di andare a pranzo, ma
Enzo lanciò un’altra idea.
- Vieni a cena da me, alla Ficazzana. Ti
va bene domani sera?
Esitò un attimo. Che razza di cuoco era Enzo? Se cucinava come
sparava, sarebbe stata una cena con i fiocchi. E se invece cucinava come
scopava, cioè mai, secondo le voci del paese? Decise di correre il rischio.
- Grazie, così ti dovrò una cena, oltre alla pelle.
La sera dopo Montalbano susì fino alla Ficazzana. La casa stava proprio in pizzo alla
collinetta, dietro enormi ulivi saraceni che la nascondevano quasi per
intero. Era molto grande, ma Enzo viveva in poche
stanze.
Lo fece accomodare nella grande cucina. Il sciauro
era bòno, sembrava… sì,
era proprio la pasta ncasciata. Da quando Adelina era andata via, Montalbano non l’aveva più
gustata.
Gli sembrò un segno del cielo.
- Ma sai cucinare!
- Tanticchia.
- E parli pure siciliano.
- Naturalmente, ma lo faccio solo in certe occasioni.
La pasta era tenera e maliziosa e Montalbano se la scialò in estasi. Anche il secondo era buono.
Dopo s’assittarono su una panca davanti
alla casa e Montalbano si pigliò il cafè fumandosi
una sigaretta.
Durante la cena avevano parlato della Ficazzana,
che Enzo aveva quasi finito di risistemare, della tenuta affittata ai ragazzi
della cooperativa, del lavoro di Enzo: scriveva davvero libri di matematica
per la scuola. Il mattino lavorava nei campi o a risistemare la casa, il
pomeriggio scriveva.
E adesso era il momento di chiedere qualche cosa di più.
- Perché sei tornato qui, Enzo?
Ci fu un momento di silenzio.
- È… che qui sono intero, Salvo.
- Intero?
- Sì, intero. Salvo, tu hai perso tua madre molto presto e Dio sa
quanto hai sofferto, ma avere per padre e madre il giorno e la notte, volere
un bene dell’anima ad entrambi…
significa essere sempre spaccato in due. Non è stato facile neanche per me.
No, Montalbano non poteva che dargli ragione, avere come padre ‘Ntoni u Santu non sarebbe
comunque stato facile. E certo sua madre era ben diversa dal padre: era una
giornalista umbra, che lavorava per il Corriere della Sera e durante
un’inchiesta in Sicilia si era innamorata di ‘Ntoni
u Santu. Come, Dio solo lo sapeva. L’amore è cieco,
ma innamorarsi di un pluriomicida come quello…
Enzo proseguì:
- Qui riesco a non sentirmi dilaniato. Ho ritrovato le mie radici,
ho cercato di raddrizzare alcune cose, di chiudere certi conti.
Che poi voleva dire dar via ciò che suo padre si era preso con la
forza.
- E tutto quello che faccio mi piace: scrivere i libri per la
scuola, coltivare la terra, risistemare la casa, cucinare.
- Sparare a chi vuole ammazzarmi.
- Non avevo mai ammazzato nessuno, Salvo. E quello non mi è piaciuto
farlo, ma era l’unico modo.
Non c’era altra via, era vero.
Montalbano lo taliò. Era buio, ormai, ma
lì fuori si stava d’incanto e nessuno dei due aveva voglia di rientrare.
- Sei contento?
Gli parve che Enzo alzasse le spalle.
- Sono sereno. E non è poco. Non lo sono stato spesso, prima di questi
ultimi anni.
Ma qualche cosa non quatrava. Sereno era
una cosa, contento un’altra.
- Che cosa ti manca?
Stava diventando indiscreto. Ma Enzo rispose:
- Sono solo, Salvo.
- Non fai molti sforzi per conoscere gente. Te ne stai rintanato
quassù.
- Hai ragione, ma non è facile.
- Perché?
Ci fu un momento di silenzio, lungo.
- Una volta ti ho visto alla televisione. Sembravi un òmo pigliato dai turchi, come si dice da queste parti.
- E questo che c’entra?
- C’entra. Tu arrivi qui, diviso in due.
Sei il figlio di ‘Ntoni u Santu,
tu lo sai, Salvo. Fai delle cose che la gente non si aspetta da te. E allora
tutti vogliono sapere. Non gliene fotte niente di te, ma vogliono sapere,
vogliono conoscere le tue intenzioni, per poterti appiccicare addosso un’etichetta: il buon cristiano, il socialista,
l’idealista, lo scimunito, quello fuori di testa. Io sono io, Salvo, non un
idealista. Forse uno fuori di testa, questo sì. Quando sono con gli altri di
qui, mi sento… pigliato dai turchi.
- Però potevi farti vivo almeno con me.
Enzo lo taliò. Montalbano si sentì gli
occhi puntati addosso, anche se ormai era
completamente buio.
- Ci incontrammo due volte per strada, io cercai di parlarti, ma tu
avevi molta fretta.
Aveva detto “avevi molta fretta”, non “quasi mi maltrattasti”.
Perché quello era successo. Ma erano giorni brutti, quelli.
- Non era per te, Enzo, era che… ero nirbùso, era un brutto periodo. A volte ho un carattere fitùso. Troppi casini.
E gli parlò delle facenne di allora.
Concluse:
- Mi spiace. Non volevo proprio…
- Non ha importanza, Salvo. Ci siamo
chiariti.
Per superare il momento d’imbarazzo, Montalbano tirò fuori qualche
ricordo delle medie, quelle minchiate che vanno bene quando la conversazione
si spegne. Ma Enzo rispondeva appena. Didoppo, in
un momento di silenzio, gli disse:
- Ti volevo molto bene alle medie, Salvo. Mi ero un po’innamorato di
te.
Montalbano si sentì un po’ a disagio. Spiò:
- Non ti sposasti mai?
Enzo rispose:
- Non mi è mai passato per la testa.
Poi aggiunse, con una cadenza siciliana molto forte:
- Non m’interessa la fissa. Questa è la verità.
Disse ancora:
- Scusa, Salvo, spero di non averti
turbato. Preferisco essere sincero.
Montalbano non si sentiva turbato, la serenità di Enzo dava alla
faccenda la dimensione giusta. E sapeva benissimo che Enzo non lo aveva
invitato per fargli qualche proposta vastasa.
Si trovarono a parlare dei loro affetti. Salvo si sorprese a
raccontare di Livia.
Scese molto tardi. Strada facendo, nel quarto d’ora che separava la Ficazzana da Marinella, si chiese come era possibile che
avesse raccontato a Enzo tutte le sue facenne, cose
che non aveva mai detto a nessuno. Vero è che alle
medie erano davvero amici, ma nei trent’anni successivi in pratica non si erano
mai visti.
Si erano lasciati con un nuovo invito da parte di Enzo e una
settimana dopo Montalbano salì nuovamente alla Ficazzana.
La cena fu all’altezza delle aspettative: merluzzi freschissimi
bolliti con due foglie d’alloro e conditi al momento con sale, pepe, olio di
Pantelleria e un piatto di soave tinnirùme che
serviva ad arricriàre stommaco
e intestini. Enzo cucinava benissimo, ma di solito in modo più leggero di Adelina: con i suoi piatti non c’era da passarci la
nottata intera a discuterci, il bicarbonato non serviva.
Andarono avanti così per due mesi. Da Enzo Salvo stava d’incanto,
gli sembrava d’essere in paradiso. Capiva perché alla Ficazzana
Enzo era in pace con se stesso. Seduto sulla panca davanti alla casa, Salvo
provava un inspiegabile benessere fisico, una felice leggerezza
nell’intrecciarsi dei pinsèri, un armonioso
concatenamento dei muscoli, come capita, certe volte, nel paese del sogno.
Momenti come questi di solito duravano picca o nente,
ma erano bastevoli. Qui si ripetevano una sera sì ed
una no. Perché ormai il commissario cenava da Enzo almeno tre volte per
settimana. Si erano messi d’accordo e Salvo portava spesso pesce fresco, che
Enzo cucinava sul momento. Portava anche il vino, di cui Enzo beveva non più
di due bicchieri. Il whisky no, lo portò una volta, ma i liquori ad Enzo non interessavano.
Tutto andava benissimo ed in commissariato
gli òmini di Montalbano erano stupiti di vedere il
loro capo così sereno. Non sembrava più lo stesso.
Poi ci fu la faccenna del sogno.
Una notte Salvo si vide che passeggiava con Enzo sotto gli ulivi
della Ficazzana. Didoppo
Enzo si fermava a pisciare e si voltava senza abbottonarsi, facendogliela
vedere. Aveva una bella minchia grossa. E diceva: - È come quella di mio
padre. Non ci credi? Vuoi provarla?
Poi erano distesi nudi sulla terra, si rotolavano e a un certo punto
Montalbano era venuto e si era svegliato.
Non era più arrinescito ad addormentarsi.
Quella sera era a cena da Enzo, ma non disse niente. E neppure la
sera successiva, quando era di nuovo da lui. C’era qualche cosa che non quatrava.
La terza volta che andò a cena dopo il sogno, non c’era tanto con la
testa, perché continuava a pensare all’immagine di Enzo nudo. Alla fine della
cena, alzandosi, fece un movimento maldestro e rovesciò la bottiglia di vino
addosso ad Enzo. Enzo non si scompose. Si susì e si tolse la camicia inzuppata, sorridendo.
- Camicia bagnata, camicia fortunata!
Montalbano lo vide per la prima volta a torso nudo. Vigoroso,
piuttosto peloso. Un bel màscolo. Tutto si fermò
per un attimo, per un attimo andò via macari il confuso sottofondo sonoro del mondo. Persino
una mosca che stava decisamente puntando sul naso del commissario s’apparalizzò, restando, le ali aperte, suspisa
e ferma in aria.
Una specie di libeccio furioso percorreva intanto a grandissima
velocità tutti i giri e rigiri del ciriveddro del
commissario, che non arrinisciva a ripigliarsi.
Perché aveva capito, aveva capito che Enzo gli faciva
sangue ed ormai ci faciva
il pinsèro di bagnarci il pizzo.
- Che hai, Salvo? Non è successo nulla. Una
camicia macchiata, si lava.
- Feci un sogno…
Si interruppe. Aveva parlato senza rendersene conto.
- Che sogno?
Enzo lo taliava, la camicia in mano,
sorridente.
Montalbano non arrinesciva a parlare.
- Che succede?
Montalbano lo guardò negli occhi. Non assaiava
parlari. Non era attrivito
bastante.
- Un sogno strano. Ma è una minchiata.
Il sorriso di Enzo si allargò.
- Eh no! Adesso me lo racconti.
- Una cosa… io e te
che facevamo cose vastase.
Enzo non sorrideva più. Era serio. Disse:
- A me piacerebbe molto, Salvo.
A Montalbano mancò il fiato.
- Hai voglia di babbiare?
- No. Ero già innamorato di te alle medie.
- Dai, non rompermi i coglioni.
- I coglioni no, il culo magari sì.
Enzo rise, didoppo salì con la sua camicia
bagnata in mano e scese con addosso un’altra
camicia.
Si sedettero davanti alla cascina ed Enzo gli parlò:
- Salvo, sto bene con te, come non mi era mai capitato. E so di
essere innamorato di te. Non te l’ho mai detto perché non voglio rovinare
questo rapporto. Non ti farò mai una proposta o una richiesta. Ma il giorno
in cui decidessi che quel sogno…
Non completò subito la frase. Dopo un silenzio aggiunse:
- Quel giorno io sono qui.
Non si dissero altro.
Quella sera Montalbano non andò subito a dormire. Gli necessitava di
farsi una passeggiata a ripa di mare, aveva bisogno d'aria bona. Era lunedì, dovevano rivedersi il mercoledì.
Il martedì sera Salvo lo passò a pensare. Non quatrava, la faccenna non quatrava.
Decise di stendersi sul letto e di finire il romanzo che stava
leggendo. Non arriniscì a leggerne manco un
capitolo: per quanto interessato, il sonno ebbe la meglio.
Si arrisbigliò di colpo manco dopo un’ora, taliò il rologio, erano appena
le undici.
Nudo com’era, si mise a passiare a ripa di
mare, tanto a quell’ora non c’era anima viva. Niente fame e niente sonno.
Verso mezzanotte si gettò nell’acqua, nuotò a lungo, poi tornò a casa. Gli
era venuto duro.
Pensò a Enzo, Enzo nudo e càvudo di sonno
nel suo letto. Pensò che una telefonata ad Enzo ci
sarebbe stata bene. Poi si disse che era una testa di minchia. Però aveva
preso il telefono e stava facendo il nummaro.
Sentì la voce di Enzo, càvuda e roca, come
se l’era immaginata.
- Pronto.
Montalbano fece per riattaccare, ma Enzo proseguì:
- Sono contento che tu abbia telefonato, Salvo. Vieni, ti aspetto.
Enzo riattaccò e Montalbano rimase col microfono in mano. Come aveva
fatto a capire? Uno di quei telefoni moderni che ti dicono il numero di chi
chiama, tutto lì. Rimise a posto il ricevitore.
Passiò nirbùso
avanti e narrè. Fece la doccia, lesse qualche
pagina del libro capendoci poco, tambasiò da una
stanza all’altra toccando tutto quello che gli veniva a tiro di mano. Addrumò il televisore e l’astutò
subito, gli diede un senso di nausea.
Ce l’aveva sempre duro. Pensò che poteva fare da solo, ma non era più un picciotto segaiolo.
Mentre guidava alla volta della Ficazzana,
Montalbano sentiva che gli mancava il fiato. Fermò l’auto
un po’ prima della casa, ad uno spiazzo dove partiva una trazzera che saliva alla Ficazzana.
Subito gli venne gana di rimettere in moto e
tornarsene a casa, mandando a patrasso Enzo e
quella testa di minchia della sua minchia, dura come
roccia. Accostò meglio la macchina al ciglio della strata.
Tirò un profondo sospiro e pigliò ad acchianare
lento, un pedi leva e l’altro metti,
lungo il viottolo sassoso che saliva tra ampie distese di viti verso la casa
di Enzo. C’era la luna e si vedeva abbastanza bene.
Arrivato in cima, dalla sacchetta dei càvusi
il commissario tirò fora un accendino e un pacchetto di sigarette, se ne mise
una in bocca e l’addrumò, sistemandosi controvento
con un mezzo giro su se stesso. Tirò due boccate, didoppo
andò deciso alla porta. Non fece in tempo a tuppiare
col pugno, perché la porta si aprì.
- Entra, Salvo. Ti aspettavo.
Dintra era completamente scuro, ma Enzo addrumò un lume.
Enzo indossava solo i boxer ed era chiaro che l’aspettava, si vedeva
benissimo, dalla grossa sporgenza.
Enzo si avvicinò, il suo corpo s’incollò a quello di Montalbano, le
sue labbra forzarono quelle del commissario, la sua lingua andò a carezzare
l’altra. Montalbano sentì che le ginocchia gli diventavano di ricotta e gli parse che la temperatura ambientale era acchianata di colpo di ‘na vintina di gradi.
Poi Enzo si scostò. Lo pigliò per la mano e se lo tirò appresso.
Salì al primo piano, trasì nella càmmara e richiuì la porta.
Dalla finestra entrava un po’ di luce lunare.
- Dov’è la luce?
- Lascia perdere.
- Ma così non si vede niente.
- Vedo io.
E se lo ritrovò, nudo, tra le vrazza. Il
commissario si sentì come un tonno nella càmmara
della morte, l’aria principiò a mancargli, raprì e
chiuse la bocca a vacante. Il sciauro della so pelli sturdiva. La vucca incoddrata a quella di
lui, Enzo si lassò cadiri
narrè trascinannusillo supra al letto. Montalbano era accussì
‘ntordonuto che pariva un
manichino.
Sentì le mani di Enzo che l’agguantavano. E in un vìdiri e svìdiri si trovò
collocato a pancia sotto e con le gambe aperte. Poi sentì contro il culo
qualche cosa che gli parve fatto di petra ferrigna
e che si stava facendo strada dentro di lui. Si
abbandonò.
Gli parse che la fioca luce della luna
aumentasse progressivamente d’intensità fino ad esplodere nel lampo di un
flash. Allora chiuse gli occhi mentre il desiderio accumulato in mesi e mesi si gonfiava. Gli parse di
essere attraversato da una corrente ad alta tensione e stimpagnò,
come una bottiglia di champagne.
Nelle due ore che vennero, Enzo servì il commissario a tinchité.
Infine sudato, morto di stanchezza, Enzo s’abbatté su Salvo.
Restarono così, a cercare di pigliare aria. A Montalbano sembrava che i botti
della festa di san Gerlando li avessero fatti nel
suo culo, tanto se lo sintiva abbrusciare,
ma stava bene come non mai. Era bello sentire il peso di Enzo su di sé e la ràdica di Enzo in culo.
Quando Enzo accese la luce, Montalbano guardò i tre prisirfatifi sul pavimento. Si disse che era un garruso.
- A me in culo non me l’aveva mai messo nessuno.
- E ora invece ne hai fatto spirenzia.
- E a te?
- In culo? Pure a me mai nessuno. Ma posso fare spirenzia
pure io. Con te, solo con te. Nissun altro mi può incignare.
Un’altra notte, pensò Montalbano. Ora proprio non ce la faciva. Ma un’altra volta sì, voliva
provare pure lui.
Montalbano si disse che doveva tornare a casa, ma non gliene fotteva
un’amata minchia. Rimase a dormire con Enzo.
Il mattino, taliando il telefono,
Montalbano vide che era un modello come il suo, senza macchinetta.
- Enzo, come minchia hai fatto a capire che
ero io a telefonare, ieri notte?
Enzo sorrise che pariva un angileddro e lo baciò sulla bocca.
- E chi vuoi che mi telefonasse, a quell’ora?
Dopo colazione Salvo scinnì lungo la trazzera tra i vigneti.
Il mercoledì dovevano vedersi la sera, ma
all’una, invece di andare a mangiare, Montalbano raggiunse la Ficazzana.
Enzo stava trafficando davanti al fienile. Gli
sorrise.
Montalbano spiò:
- Ti distrubbo? Hai travaglio?
- Il travaglio te lo do io, Salvo.
Allora, quasi a forza, lo trascinò dentro il pagliaro.
Arristò fermo a taliarlo,
le gambe larghe, i pugni supra i scianchi.
Un tauro pareva, squasi
faceva fumo dalle nasche. Lo taliava
e quella taliata di Enzo gli ordinava di levarsi
via tutto quello che aveva indosso. Montalbano bidì
di gran cursa, affatato, ammagato da quella taliata ‘mpiriosa. Mentri che lui si
spogliava, macari Enzo faciva
l’istisso. La porta del pagliaro
era stata chiusa da Enzo, ma lasciava passare una larga
fascia di luce dalla parte alta, mancava mezza tavola. Enzo si stese
per terra.
- Travaglia di bocca, commissario.
Montalbano cominciò a succhiargli i capezzoli, didoppo
glieli mordicchiò. Infine si mise a leccarlo. Si teneva lontano dall’arma, ma Enzo gli prese la testa tra le mani e lo guidò
nell’area strategica. Salvo esitò un attimo, poi si mise a travagliare di
gusto. Dopo un po’, capendo che Enzo stava per scoppiare come un cocomerello selvaggio e spandere torno torno il suo seme, Salvo si voltò e aspettò il peso del
suo maschio sul corpo.
L’improvviso dolori in mezzo alle gambe lo pigliò a tradimento.
- Ahi!
Enzo, che se ne stava tutto trasuto dintra di lui, gli posò una mano sulla vucca. Salvo gliela muzzicò. Doppo Enzo accomenzò a cataminarsi. Lo tirò narrè e l’ammuttò avanti, lo tirò narrè e
l’ammuttò avanti, lo tirò narrè
e l’ammuttò avanti, narrè
avanti, narrè avanti, avanti, avanti.
Restarono abbannunati ‘n terra come du’ morti sciatanti. Montalbano
aveva un vesparo in culo.
Si susirono, si vasarono
e dopo le vasate, tante, persero
ancora dieci minuti a livarsi reciprocamente i fili
di paglia che s’erano ‘nfilati in tutti i posti indove che si potivano ‘nfilare. E poi finirono di nuovo distesi nel fieno a vasarsi. Ancora sudato d’amore,
Montalbano accarezzava il corpo di Enzo, che lo muzzicava
tanticchia, ora una spalla, ora le dita, ora la
radica.
Infine Enzo spiò:
- Hai pititto?
- Beh, sì.
- Vuoi mangiarti tanticchia di pane di
frumento? L’ho sfornato due ore fa. Te lo conzo?
In cucina Enzo tagliò due fette da una scanata,
le condì con olio d’oliva, sale, pepe nero e pecorino, le sovrappose, gliele diede.
Montalbano niscì fora, s’assittò sulla panca allato alla porta e al primo boccone
si sentì ringiovanire di quarant’anni, tornò picciliddro,
era il pane come glielo conzava sua nonna.
Andava mangiato sotto quel sole, senza pinsare
a niente, solo godendo d’essere in armonia col corpo, con la terra, con
l’odore d’erba, con Enzo assittato allato, che pure
lui mangiava pane e pecorino.
Il commissario ricambiò il favore a Enzo tre giorni dopo, sul letto
nella càmmara al primo piano.
Si trovavano una sera sì e l’altra no e
prima o dopo cena salivano in càmmara.
Montalbano aveva paura che la gente sparlasse, ma a volte veniva
anche verso l’una, perché Enzo lo catafriccicava,
Enzo infatato era.
Due mesi dopo che la storia era principiata, Salvo arrivò alle due.
Sembrava non esserci nessuno. Salvo fece il giro della cascina e raggiunse la
parte che Salvo stava finendo di risistemare. L’erba davanti alla porta
d’ingresso era ancora bruciata dalla calce e c’erano macari
delle tegole nuove ammucchiate in un angolo dello spiazzo. Il commissario taliò attentamente cercando Enzo. Lo chiamò tre volte,
senza ottenere risposta. Ma quando si voltò per andarsene, Enzo uscì e lo
prese alle spalle. Lo trascinò dentro, lo spogliò e lo mise contro la parete.
Poi balzò su di lui, con il corpo leggermente piegato sulle gambe, e
principiò a ficcarlo. Montalbano quando se lo sentì dentro fece un lamento.
Alla fine, il commissario disse:
- Bada, Enzo, fùttiri addritta
e caminari na rina, portanu l’omu a la ruvina.
- Per te mi rovino volentieri, Salvo.
Dopo, quando si furono risistemati, Salvo
spiò:
- Perché hai risistemato tutta quest’ala? Non ti basta lo spazio che
hai?
- Un po’ l’ho fatto perché mi piace lavorare con le mani. In ogni
caso volevo risistemarla tutta, la Ficazzana.
Potrei sempre affittarlo, come un appartamento. Si vede macari
il mare, da questa parte. E in un quarto d’ora sei
sulla spiaggia.
L’idea non andava a genio a Montalbano. Se c’era qualcuno alla Ficazzana, capace che li vedeva e capiva.
- Affittare?
- Sì, che so, magari a un commissario che cerca casa. Così mi sento
più sicuro, con la polizia alla porta accanto. E se non chiudo il passaggio
al primo piano, stiamo insieme e nessuno sospetta
che in realtà simmo inganzati.
Montalbano calò gli occhi a terra e non raprì
bocca. Enzo proseguì, scordandosi il dialetto:
- A me piacerebbe vivere con te, Salvo, ma non voglio spaventarti.
Fa’ conto che non abbia detto niente.
Ma parlare aveva parlato. E Montalbano
rimase senza parole. Era combattuto, un core
d’asino e uno di lione. Anche lui voleva vivere con
Enzo, ma non se la sentiva.
Scese con le idee confuse. Lavorò male. Doveva vedersi con Enzo
quella sera stessa, ma non andò. Telefonò che non poteva. Non disse altro.
Enzo non chiese nulla. Non fissarono un altro appuntamento. - Ti telefono io
- aveva detto Montalbano.
Passarono quattro giorni e non telefonò. Il telefono a volte sonava.
Montalbano lo taliava sospettoso. Non rispondeva.
Ma ogni notte andava peggio. La quarta notte proprio non ci poté sonno. Si votava e si rivotava nel letto intorciuniandosi nelle lenzuola. Verso le due del matino capì ch’era inutile
tentare di dormire. Ma continuava ostinatamente a tenere gli occhi inserrati, sapeva che tutto il malumore che lo maceriava dintra sarebbe sbommicato di fora appena aperti
gli occhi, facendogli fare o dire minchiate delle quali doppo
avrebbe dovuto pentirsi.
Il mattino dopo non ci stava più con la testa. Amminchiava.
Alle undici entrò Tortorella e gli disse:
- Commissario, c’è il Monaco.
Montalbano provò friddo e càudo nello stesso momento, aveva la fronte sudata e la schina aggelata.
Enzo entrò senza aspettare che lo chiamassero.
- Voscienzabinidica, sono zaurdo, so che ha chi fari,
m’avi a scusare un momento solo.
Il dialetto di Enzo era perfetto, ma Salvo
vi lesse un’ironia amara. Lo usava di rado il dialetto, Enzo, e non per
affrontare argomenti seri. Mentre facivano cose vastase, sì, lì lo usava e ci stava bene.
Montalbano fece cenno a Tortorella di niscire.
Ezio si assittò e lo taliò,
senza raprire bocca.
Montalbano provò vrigogna, abbassò gli
occhi e non disse nulla.
Allora Enzo parlò:
- Se è finita, è finita, Salvo, però almeno
potresti dirmelo in faccia.
Non poteva dirglielo. Non era vero e non sapeva dire grosse farfanterìe alle persone che stimava, s’impappinava,
arrossiva, distoglieva lo sguardo.
Montalbano era difficortato. Non arrinisciva a parlare. Il silenzio era insopportabile. Il
vedersi Enzo davanti gli provocava un peso sul
petto, mancanza di respiro, il retrogusto di una sconfinata malinconia, l’accùpa, insomma.
Il dolore che lo assugliava non lo
lasciava respirare. Doveva toglierselo di torno, perché se continuava a taliarlo con quegli occhi…
Respirò a fondo e disse:
- Enzo, mi fai un gradito regalo?
- A disposizione.
- Vuoi levarti d’in mezzo ai cabasisi?
Enzo non fece la faccia offìsa. Si susì e raprì la porta. Didoppo, di fronte ad Augello che arrivava, gli rispose, niscenno:
- Commissario, sei un grandissimo figlio di buttana,
salvando tua madre, s’intende.
Didoppo si allontanò, senza voltarsi.
Rimase aggrugnato, trùbbolo,
la faccenda di Enzo gli pesava, provava rimorso d’averlo trattato così.
Lavorò male tutta la matinata, a pranzo manco aveva
pititto. Alle quattro non reggeva più. Ancora era
troppo presto per intanarsi a Marinella, ma preferì andarci lo stisso. La vera e propria raggia
che gli schiumava drinta, contra se stisso, gli faceva vuddriri il
sangue e sicuramente gli aveva portato
qualche linea di febbre. Era meglio se trovava modo di sfogarsela da solo,
questa raggia, senza farla ricadere supra i so òmini del commissariato
cogliendo a volo il minimo pretesto.
La sera a casa sotto la doccia ci stette assà,
a lavarsi il pinsèro di Enzo, che si sentiva trasuto, ridotto a
invisibili frammenti, fin dintra i pori.
Didoppo se ne niscì
sulla verandina, s’assittò
sulla panca e pigliò a taliare il mare. Non poteva
fare altro, leggiri, pinsàri,
scrìviri, nenti. Taliare il mare. Stava perdendosi, lo capiva, nel pozzo
senza fondo di un’ossessione.
Andò avanti due settimane. Nelle prime notti s’arramazzava
tutto il tempo nel letto, ma non ci poteva sonno. Si susiva
come se avesse corso la maratona. Poi però la stanchezza lo pigliava a
tradimento, in commissariato, i quarantasette erano darrè
l’angolo ad aspettarlo. Trasiva in ufficio così
evidentemente pigliato dal nirbùso, che i suoi
uomini, per il sì o per il no, si tenevano alla larga.
- Ma non scassatemi la minchia, tutti quanti!
Erano tutti offìsi. Cha carattere fitùso aveva questo commissario!
Macari il pititto
gli era passato.
Poi si mise a bere. La sira si sbacantava una buttiglia di
vino e due o tre bicchieri di whisky, poi appuiava
la testa sulle vrazza ‘ncrociate
sopra al tavolino e cadiva in una speci di dormiveglia affannato. Spesso lo arrisbigliava solo il frisco
dell’alba.
Almeno così dormicchiava tanticchia.
Furono quindici giorni in cui in commissariato erano tutti con la
faccia lunga, da due novembre, scansavano Montalbano
come se fosse contagioso, non lo taliavano negli
occhi.
- Ma andate tutti a cacare.
Poi quel mattino, entrarono Augello e Fazio. Mimì gli disse:
- Lo sai che hanno ammazzato Lo Monaco?
Questa volta l’equivoco fu al contrario: ma in testa un solo Monaco
aveva Montalbano, dell’altro pure il ricordo era svanito.
Montalbano sentì una violenta fitta al petto, un diluri
che gli fece ammancari il
sciato, scantato serrò le palpebre, le raprì nuovamente, sgriddrò
smisuratamente gli occhi, tentò di dire qualcosa, non ci arriniscì.
Trimàva,
pareva con la febbre terzana. Didoppo si susì di scatto.
- Che hai?
- Lo Monaco?
- Sì, in carzaro. Un altro detenuto. Gli
aveva mancato di rispetto.
Solo allora capì. Andrea Lo Monaco.
Se ne stracafotteva di Andrea Lo Monaco.
Fazio lo taliava.
- Commissario, ci scantammo che le veniva
un colpo, era giarno giarno. Che spavento!
Montalbano annuì. Non arrinesciva a
parlare. Non ce la faciva cchiù,
aveva un groppo alla gola.
Quel giorno niscì alle tre, perso in un
abisso di sconsolazione. Se ne partì in direzione
di Montelusa. C’era, allato di una casuzza rustica sdirrupata, un
enorme ulivo saraceno che la sua para di centinaia di anni sicuramente li
teneva. Lì, assittato a cavasè
sopra uno dei rami bassi, s’addrumava una sigaretta
e principiava a ragionare sulle facenne da
risolvere. Aveva scoperto che, in qualche misterioso modo, l’intricarsi,
l’avvilupparsi, il contorcersi, il sovrapporsi, il labirinto insomma della
ramatura, rispecchiava quasi mimeticamente quello che succedeva dintra alla sua testa, l’accavallarsi dei ragionamenti.
Ora, assistimato sul ramo, si pose due
domande fondamentali. Poteva vivere senza Enzo? E poteva vivere con Enzo?
Enzo era entrato nella càmmara segreta, se lo
portava dintra. Anche se non lo avesse visto più,
sarebbe vissuto sempre con lui.
Era quasi notte quando Montalbano decise ch’era
arrivata l’ora di finirla di giocare a io Tarzan tu Jane e di tornare, tanto
per dire, alla civiltà. Alle due domande aveva risposto. No, sì. Senza dubbi.
Mentre si scotoliava le formicole dal vestito, si
pose l’ultima domanda: e se Enzo si era stufato di lui? Due settimane erano
passate. Più quattro giorni prima, in cui Salvo si era negato, spingendo Enzo
a venire in commissariato. Enzo non era tipo da stufarsi in venti giorni. Ma… Se Enzo… Ebbe una leggera
vertigine.
Quella sera non mangiò. C’era picca da fare, aveva lo stomaco
chiuso.
Doveva telefonare a Enzo.
Notte funnuta. Sollevò il
ricevitori, sentì il signali di libbiro.
Oramà il sudori a
Montalbano gli cummigliava l’occhi, l’acciccava e la cornetta gli sciddricava
dalla mano. Fici il nummaro
di Enzo. Il tilefono squillava a vacante.
Stava malissimo. Le mani principiarono a tremargli, si sentiva
agghiacciare tutto, un pirtuso gli si scavava dintra lo stomaco. Non arrisponniva
nessuno. Enzo non c’era. Improvvisa, gli venne la voglia di chiàngiri, di stinnicchiarsi
sul letto incuponandosi tutto con un linzòlo come una mummia.
Un quarto d’ora dopo, lo squillo del campanello della porta lo
sorprese, non aspettava nessuno. Corse esasperato all’ingresso e, senza raprire, gridò, ncaniato:
- Chi cazzo è?
- Sono Enzo.
Arriniscì a tempo a bloccare la commozione
a costo di muzzicarsi quasi a sangue il labbro di sutta. Diede una manata allo scoppo,
spalancò la porta. Enzo disse:
- Ci vuole una pazienza, con te, Salvo!
E senza dargli il tempo di arrispunnere,
lo abbracciò.
Salvo sentì che tutto il male di quei quindici giorni svaniva, una
bolla d’aria. Aveva gana di chiàngiri,
ma di consolazione.
Per la prima volta lo fecero nel letto di Montalbano. E quando
infine ebbero concluso, Enzo spiò:
- Quando ti trasferisci nel tuo nuovo appartamento, con vista mare?
- Il più presto possibile.
- Allora domani porti le tue cose da me, malacunnùtta! Per il trasloco vero ci rivolgiamo ai
ragazzi della cooperativa. Sono sempre contenti di guadagnare qualche soldo
extra.
Poi Enzo lo strinse tra le braccia, avvolgendolo completamente. Mai
Montalbano si era sentito così bene, come in quelle
catene di carne.
Dormirono splendidamente, come si dice dormano
gli dei soddisfatti del loro operato.
2010
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