Notturno soleggiato

di Federico Volpe

 

Notturno8

 

Io vivo di notte, come un gufo. Di giorno dormo.

La sera apro il locale alle nove, mai prima. Vendo alcolici e sogni, offro piccoli spuntini, musica jazz e blues, ammetto il fumo e pago le tasse. Accolgo artisti e sbandati, musicisti, poeti e altri uccelli notturni. Da me entra il popolo della notte. È un club privato, dove in realtà può accedere chiunque, basta che non rompa i coglioni. Sui tavoli di legno mi lasciano ricordi indelebili, poesie, disegni, numeri di telefono, dichiarazioni d’amore, scolpiti per sempre con la punta dei coltellini. Quando usano le tovagliette di carta, li incornicio e li appendo ai muri. In fondo al locale c’è una piccola pedana, con un pianoforte e la batteria. Io suono il sax, ma non sempre, soltanto quando sono in vena, quando mi prende lo spleen e darei un braccio per una donna come dico io, una tosta, una con carattere, cervello e belle tette, che non si fa paranoie per una semplice scopata. È tanto che non ne vedo una. Dove sono finite? Ai miei tempi ce n’erano a bizzeffe. Vicino alla porta c’è la lavagna con i cocktails del giorno. Potrei fare anche altro, ma mi scazzo.

Di solito non ci penso, ma stasera questa musica, combinata col Negroni, mi ha fatto un brutto effetto, mi ha condotto a ripensare a quella troia di Emma e a quel bastardo di Ruggero. Perché non li ho ammazzati? È proprio una serata da sax. Fa niente se non c’è Lorenzo per il basso. Io vado. Franco mi vede arrivare e sfuma il pezzo al pianoforte. Io gli faccio un cenno. Ci comprendiamo al volo. Fabio ci segue alla batteria.

Mi inumidisco le labbra, prendo fiato e parto per il paese dei sogni. Suono ad occhi chiusi, con lo stomaco, con le gambe, col busto, con l’anima che mi fa il controcanto. Un po’ alla volta, cala il silenzio. Una goccia di sudore mi scivola dall’attaccatura dei capelli, lungo il lato del viso, la sento scorrere come una carezza. La musica è fatica, è dolore, ma è anche ricompensa, rinascita, consolazione. La musica è passione, desiderio inespresso, sangue che scorre, battito del cuore. Dov’è il mio cuore? È nelle note che salgono dal sax. È stanco, lo sento, ma non si arrende. Mi è complice nella notte, che già sfuma nell’alba. Qualcuno applaude. Qualcuno si alza e se ne va. Rocco è alla cassa, come un cane da guardia, nessuno passa senza pagare il conto.  Altri applausi. Non suono per questo, lo faccio per me, per ritrovare le coordinate, fare il punto della situazione. Ecco, adesso so chi sono, dove sono e cosa sto facendo. Mi sento meglio. Finisco l’ultimo pezzo. Dico “Grazie a tutti e buonanotte” nel microfono e poi lo spengo, asciugandomi il sudore con un fazzoletto. Le cinque.

-            Gaetano, sei un grande. – mi dice Rocco.

-            Grazie. Vai a casa, adesso, che chiudo io. –

-            Va bene. Buonanotte. –

-            Buongiorno, Rocco, sono le cinque. –

-            Ah, sì, è vero. – ride, afferrando il giubbotto e buttandoselo su una spalla.

Fuori fa freddo, ma lui ha in circolo il calore di tre o quattro Negroni. Questo mestiere ci ucciderà.

Chiudo la cancellata, e poi la porta. Metto l’allarme e torno al bancone. Mentre lavo i bicchieri, canticchio un motivo. Poi vado a pulire i tavoli, raccogliendo i tovaglioli. Prima di gettarli, li guardo bene. Ci ho trovato cose affascinanti, a volte. Vere opere d’arte, roba da ubriachi, ma geniali. Eccone uno.

“Vorrei essere il tuo sax, farmi suonare come solo tu sai fare, con il ritmo che sai imporre. Le tue labbra… le tue labbra…

Beh, questo non lo appendo, non mi pare il caso. E quest’altro? Un ritratto. Bella, questa. Era qui? Non l’ho vista, peccato. Assomiglia a qualcuna che conosco, ma non mi viene in mente. Questa la incornicio, mi piace.

Spengo le luci. Nel retrobottega c’è un portoncino che sbuca sulle scale. Salgo di sopra, al mio appartamento. Prima mangio qualcosa e poi vado a dormire. Io vivo così. Tra poco sorgerà il sole e non voglio vederlo.

 

Alle tre squilla il telefono. Non ho avuto ancora la forza di alzarmi, ma sono sveglio. Quasi.

-            Chi è? –

-            Ciao, Gaetano. Sono Delia. Ti ricordi di me? –

-            La cantante? – le chiedo, schiarendomi la voce.

-            Sì, bravo. Sai, mi sono licenziata. Tu mi avevi detto che quando fossi stata libera, avrei dovuto chiamarti. Ecco, se hai ancora bisogno di una cantante, io sono disponibile. –

-            Vieni a trovarmi, così ne parliamo. –  le propongo.

-            Va bene, vengo stasera. A dopo. –

-            A dopo. –

Delia. Brava, bella, giovane, un po’ stronza. Ma mica si può avere tutto dalla vita. E poi le stronze mi sono sempre piaciute. Il problema è che non posso pagarla molto. Non so se si accontenta.

 

Alle sei scende Kora. “Ce l’hai un po’ di zucchero?” È in divisa da lavoro, una vestaglietta rossa di seta, aperta su un babydoll nero col pizzo, perizoma, autoreggenti nere e decoltè rosse con i tacchi a spillo. Io fingo che non mi provochi un leggero scompenso cardiaco e mi dirigo con nonchalance in cucina. Lei mi segue.

-            Quand’è che vieni su da me? – me lo chiede da un anno, da quando le ho affittato l’appartamento.

-            Mai. – rispondo, come sempre.

Kora mi si strofina addosso, mi accarezza il viso e mi da un bacio su una guancia. Poi prende lo zucchero e se ne va, ancheggiando.

-            Non sai cosa ti perdi. – dice, chiudendo la porta, mentre io deglutisco a vuoto.

Cazzo, se è bella. Un giorno o l’altro mi accerterò se sa fare bene il suo mestiere.

Scendo al bar, accendo lo stereo, cancello la lavagna e mi armo di gesso.

Cocktails del giorno

Billow

Mae West

Soul Kiss

Fourth Degree

Agonie

Davy Jones

Ira

Manhattan

 

Mi assicuro di avere a portata di mano tutti gli ingredienti e scendo in cantina a prendere quello che mi manca. Rifornisco i portatovaglioli, cambio una lampadina che ieri sera sfarfallava. Impilo i piatti sul bancone e vado ad aprire a Rocco, che ha bussato nel retro. È lui che si occupa degli stuzzichini.

-            Ciao, Gae, tutto bene? –

-            Ciao. Che ti sei messo? Sembri una profumeria ambulante.– gli dico, sventolandomi una mano sotto il naso.

-            È il dopobarba. Passa subito. –

-            Lo spero. Lavati bene le mani, sennò nel menù di stasera dovremo aggiungere crostini al bergamotto. –

Rocco ride, ma va a lavarsi. Io tiro fuori il disegno che ho trovato su un tavolo e lo stendo bene, per infilarlo tra due vetri con le clips.

-            Chi è? – mi chiede Rocco, sbirciando da dietro la mia spalla.

-            Non lo so, ma mi piace. –

-            Non era qui ieri sera, altrimenti me ne sarei accorto. –

-            Non avevo dubbi. –

Bussano di nuovo. È Delia.

-            Allora! La mia vocalist preferita! –

-            Ciao, Gaetano, ciao, Rocco. –

Le trattative sono brevi e concise. Per quello che le offro, può venire tre volte alla settimana.

-            Fai venerdì, sabato e domenica. – le dico.

-            Ci sto. – accetta Delia, dandomi il cinque.

-            Per le prove devi metterti d’accordo con Franco. Tra poco sarà qui. –

-            Dove le fanno? –

-            Sempre nella sua cantina. –

-            Dio, che squallore! – esclama, con espressione disgustata.

-            Puoi proporre di meglio? –

-            Mi informo in giro. – afferma con decisione.

È evidente che non si ritiene più tipo da cantina.

Quando arrivano i ragazzi, la lascio a loro e torno su a cambiarmi.

Jeans, camicia denim e gilè di pelle nera. Mi guardo allo specchio, mi riavvio i capelli, sempre più brizzolati sulle tempie. La doppia ruga verticale tra le sopracciglia si sta facendo più marcata, e anche le parentesi tonde ai lati della bocca. Dio, sto invecchiando. Me lo leggo negli occhi, intorno agli occhi, nella ragnatela di piccole rughe che cominciano a consolidare la loro presenza. Meglio che vada. Sono le nove.

 

Come tutti i giovedì c’è poco afflusso. È una serata di stanca. Rocco va a sedersi a un tavolo dove ci sono i suoi amici. Io mi sto rilassando col mio primo Soul Kiss, quando mi suona il cellulare. È Kora, ma quando rispondo, sento soltanto delle urla. Mollo il cellulare e volo di sopra, col cuore in gola. Sento il portone che si chiude. Trovo la porta aperta ed entro di corsa, nel corridoio buio. Kora è per terra, in camera da letto, tutta ripiegata su se stessa, illuminata appena dalle abajour con i paralumi rossi a frange.

-            Kora. – urlo, precipitandomi su di lei.

Kora si muove, gemendo. La aiuto a sollevarsi. Ha indosso solo gli slip.

-            Come stai? –

-            Male. Quello stronzo… mi ha picchiata. –

-            Hai niente di rotto? –

-            No, non credo. –

La aiuto a stendersi sul letto disfatto e ad indossare la vestaglia che ho raccolto in terra.

-            Prendimi un po’ di ghiaccio, per favore. –

Torno col ghiaccio, dentro un tovagliolo e lei se lo appoggia sul viso, con estrema cautela.

-            Mi verrà un livido mostruoso. – geme.

-            Chi è stato? Lo conoscevi? –

-            No, era uno nuovo. –

-            Bell’acquisto. – commento.

-            Lo sapevo che sarebbe capitato, prima o poi. –

-            Hai altri impegni per stanotte? –

-            No. –

-            Allora riposati. Ti serve qualcosa? –

-            No, grazie. Sei stato gentile a venire subito. –

-            Allora, io torno giù. Se hai bisogno di me, basta che chiami. –

Le rimbocco le coperte, con un vago senso di rabbia.

-            Grazie, Gaetano. Buonanotte. –

-            Buonanotte, Kora. –

Torno al bar, incazzato come una iena. Stanotte le è andata bene, ma bisogna fare di più. Devo parlarne con Kora. Franco mi fa un cenno, ma stasera non è aria. Gli faccio no con la testa. Rocco mi raggiunge dietro il bancone.

-            Che succede? –

-            Qualcuno ha picchiato Kora. –

-            Cazzo. Sta male? –

Rocco l’ha vista solo di sfuggita, un paio di volte, ma è preoccupato anche lui.

-            Stava meglio prima. – affermo, sempre incazzato.

-            Se vuoi andare su, ci penso io, qui. –

-            No, non c’è bisogno. L’ho lasciata a letto col ghiaccio. Se ha bisogno, mi chiama. –

-            Chi era il tizio? –

-            Non lo sa, un cliente nuovo. –

-            Deve stare più attenta. –

-            Gliel’ho detto anch’io. -

Alle due tutti si sono tolti fuori dalle palle.

-            Chiudiamo! – urlo a quelli che stanno ancora suonando.

Smettono subito e mollano la postazione.

-            Almeno dacci da bere. – dice Franco.

-            Che volete? – chiedo, mentre Lorenzo e Fabio si siedono.

-            Va bene tutto. – risponde Franco, issandosi su uno sgabello anche lui.

-            Vi siete messi d’accordo con Delia, per le prove? –

-            Iniziamo domani. Però, che tipa! Mi pare una con la puzza sotto il naso. – afferma Franco.

-            È un po’ così, ma è brava. Te ne accorgerai. –

-            Vedremo. –

Io intanto vado a pulire i tavoli. Su un tovagliolo hanno lasciato questa:

“Calmo e liscio il mare

della tua voce

ha solo lievi onde sulla riva

dove batte la parola

che ti ritorna indietro.

Lo scoglio del silenzio

ode la risacca ai suoi piedi,

amore segreto, nascosto,

intimo, eterno

impigliato per sbaglio

nel tuo cuore

e tu non sai che farne.

Resti a guardarlo, muto

e imbarazzato

e vorresti disfartene,

ma non ti lascia scampo.”

Questa la conservo per me. Ho una cartella piena di roba simile. Magari un giorno la metto insieme, me la faccio pubblicare e ci faccio pure un po’ di soldi. Ho già il titolo: poesie ubriache.

E di nuovo quel ritratto di ieri sera, in versione capelli raccolti all’indietro. Questo è fissato. Se ti piace tanto, perché non vai da lei, invece di venire qui a bere? Magari è già impegnata, oppure l’ha appena mollato. Le storie non sono mai tutte facili e lineari, io lo so bene.

I ragazzi se ne vanno. Chiudo il cancello e la porta del locale. Inserisco l’allarme. Lascio tutto come sta e vado di sopra. Apro con le doppie chiavi, cercando di non fare rumore e vado a vedere come sta Kora. La luce sul comodino è ancora accesa.

Sta dormendo. Il tovagliolo col ghiaccio è finito per terra. Lo raccolgo e lo porto in cucina, poi torno indietro ad asciugare il pavimento. Resto indeciso se spegnere la luce, ma mi dico che è meglio lasciarla accesa. Che ne so di come la preferisce? Magari è abituata così. Lascio la stanza e sto per andarmene, quando sento che si agita. Torno indietro.

-            Ah, sei tu. – mi dice, con la voce impastata.

-            Sono venuto a vedere come stavi. –

-            Va meglio. Ho preso un’aspirina. –

-            E il viso? –

-            Mi verrà un bel livido, ci scommetto, nonostante il ghiaccio. Dov’è? –

-            Era finito per terra. Si è sciolto tutto. –

-            Sei un badante perfetto. Quanto prendi? –

-            Non ho prezzo. –

-            Nel senso che lo fai gratis? –

-            Nel senso che se mi facessi pagare, dovresti chiedere un finanziamento. –

-            Peccato. Mi piaceva averti intorno. –

-            Dormi. Se ti serve qualcosa, sai dove trovarmi. –

-            È sicuro il portone? –

-            Vuoi che inserisca l’allarme? Di là non lo metto mai. –

-            Mettilo. Non aspettiamo nessuno, vero? –

-            No. Per stanotte abbiamo finito. –

-            Ho paura. –

-            Senti, visto che ci siamo, ho pensato che potremmo piazzare un altro allarme da qui al bar. Potremmo nascondere un pulsante nel letto. E poi piazzare una telecamera col registratore sopra al portone. Che ne pensi?-

-            Tutta questa tecnologia solo per me? –

-            Per stare più tranquilli. Hai detto che hai paura, no? –

-            Ma dai, è assurdo. Farò più attenzione. –

-            E come? –

-            Non accetterò nuovi clienti. Ne ho già a sufficienza di quelli soliti. –

-            Come vuoi. Comunque, pensaci. –

-            Lo farò. Grazie per le cure e l’interessamento. –

-            Non c’è di che. Buonanotte. –

-            Buonanotte, Gaetano. –

Torno di sotto e inserisco l’allarme al portone. Finisco di pulire i tavoli, metto tutto in lavastoviglie, spazzo e lavo il pavimento e cancello la lavagna. Visto che ci sono, mi preparo per domani, tanto a quest’ora non riuscirei a chiudere occhio. Quando ho finito, torno di sopra. Di dormire non se ne parla proprio. Accendo la televisione. Alla fine del primo tempo di un film cinese, dove gli attori si assomigliano tutti, sono al terzo sbadiglio e capisco che è meglio tentare. Sono le cinque. Spengo l’ultima sigaretta, l’ultimo barlume di pensiero, l’ultima nota che vaga nella mente e mi butto sul letto. Chissà se Kora dorme con la luce accesa.

 

È l’una e sono già sveglio. Ho fame. Mentre infilo due fette di pancarré nel tostapane, bussano leggermente alla porta. Può essere solo Kora.

-            Buongiorno. –

Ha indosso un paio di jeans e una t-shirt viola, che fa un bel contrasto con i suoi capelli biondi.

-            Buongiorno, come stai? – le chiedo, osservandole il volto. Ha una bella macchia scura sul lato sinistro.

-            Abbastanza bene. –

-            Hai già fatto colazione? –

-            No. Mi sono appena svegliata. –

-            Vieni. Mangia qualcosa con me. –

Kora non si tira indietro, seguendomi in cucina. Tiro fuori il pane e ne metto a tostare dell’altro. Sul tavolo ci sono già il burro e le marmellate.

-            Il latte come lo vuoi? –

-            Freddo, grazie. –

-            Ecco il caffè. – dico, sedendomi di fronte a lei.

-            Ti tratti bene. – commenta, ridendo.

-            Che nome è Kora? – le domando. Ho questa curiosità, da quando l’ho conosciuta.

-            La Kora è uno strumento musicale, una specie di arpa che suonano in Senegal. È fatto con mezza zucca svuotata, ricoperta di pelle di antilope, dove è conficcato un manico piuttosto lungo. Dalla cima partono una ventina o una trentina di corde. –

-            E che c’entri tu col Senegal? –

-            I miei genitori ci sono andati in viaggio di nozze e quando sono tornati, ero già in viaggio anch’io. Sono nata qui. –

-            Capisco. –

-            E tu di dove sei? –

-            Sono nato all’Elba. Poi ho vissuto in Sicilia, in Puglia, ad Ancona, a Roma, a Livorno e adesso ho messo radici qui da dieci anni. –

-            Un vero giramondo! Come mai tutti questi spostamenti? –

-            Mio padre era un militare. Lo trasferivano spesso. –

-            Una bella rottura. –

-            C’ero abituato. –

-            Però hai scelto un lavoro sedentario. –

-            Adesso sì. –

-            Perché, prima che facevi? –

-            Il poliziotto. –

-            Ah. – mormora, con espressione improvvisamente imbarazzata.

-            Non preoccuparti, se ti beccano sono io che vado nelle rogne, con una bella accusa di favoreggiamento e sfruttamento. Vuoi ancora caffè? –

-            Sì, grazie. Come mai hai mollato la polizia? –

-            Preferirei non parlarne, ti dispiace? –

-            Figurati. Odio essere invadente. –

-            No, non sei stata invadente, ma non ho voglia di ripensarci. Che fai oggi? Pensi di lavorare? –

-            No, per un paio di giorni mi riposo. –

-            Perché non fai un salto giù? Abbiamo una nuova vocalist.-

-            Con questa faccia? –

-            Ti dai una bella spalmata di fondotinta e ti siedi in un angolo buio. Chi ti vede? –

-            Ci penserò. Ero venuta a chiederti se avevi degli spaghetti, ma dopo questa colazione, non ne ho più bisogno. Adesso però devo andare. –

-            Ci si vede. –

-            Grazie per la colazione. –

-            Di niente. – rispondo, guardandola andar via.

I capelli tirati su, mi mostrano un piccolo tatuaggio che ha sulla nuca. Non ho fatto in tempo a capire cos’è.

 

Delia ha il jazz nel dna. Quando canta, mi fa salire i brividi lungo la schiena. Rocco è impazzito. Si è messo a scattare foto a raffica per immortalare la serata, come se fosse un evento eccezionale. Spero non importuni i clienti. Il locale è pieno. C’è anche un gruppo di giovani studenti, che hanno chiesto solo birra. Sono contento, odio vedere i ragazzi che bevono superalcolici. Fumano in molti e gli aspiratori non ce la fanno. Mi chiedono un Kremlin. Non è nel menù, ma posso farlo. Lo preparo per due, così uno me lo bevo io. Un bicchiere di vodka, 1/3 di rhum della Giamaica, 1/3 di succo di limone, un cucchiaino di granatina e ghiaccio. Metto tutto nello shaker e agito a tempo con la musica. Mentre lo verso per il cliente, vedo entrare Kora. Ha i capelli sciolti e pettinati in avanti sul lato sinistro del viso, per occultare il livido. Le sorrido.

-            Siediti al banco, non c’è neppure un posto libero, stasera. - le dico.

-            Allora dammi qualcosa da bere. – mi risponde, issandosi sullo sgabello davanti a me.

-            Prova questo. – le offro, svuotando lo shaker.

-            Buono, che cos’è? –

-            Kremlin. –

-            Me lo devo ricordare. – afferma, chiudendo gli occhi, come per concentrarsi meglio.

Poi si perde nei suoi sogni, o in quelli di Delia, che intanto si è scaldata e tira fuori tutta la sua voce da violino.

A uno dei tavoli più avanti c’è uno che ha adocchiato Kora e non la molla con lo sguardo per un attimo. Rocco ha finito il suo servizio fotografico e si decide a tornare al suo posto.

-    Che ne farai di queste foto? -

-    Qualcuna possiamo appenderla, no? –

-    Penso di sì. Potremmo anche farci un poster da mettere   

     fuori con le date delle serate di Delia. –

-            Giusto. Ci penso io, conosco la persona giusta. –

-            Sei sempre pieno di risorse. –

Ad un tratto, Kora si alza e mi saluta con la mano, facendomi cenno che esce dal retro. Io annuisco, salutandola. Forse il jazz non è la sua musica preferita. Dopo un po’ mi accorgo che il tizio che la guardava se n’è andato anche lui.

Delia raccoglie un successone. Ho fatto un buon acquisto. Alle tre smette di cantare. Ha fatto un sacco di pause, ma è davvero stanca. La capisco. Alle quattro il locale è vuoto e mi dedico alla raccolta delle schegge artistiche. Stranamente c’è solo il solito ritratto, proprio al tavolo dell’ammiratore di Kora e mi rendo conto, per associazione d’idee, che quella del ritratto è proprio lei. È voltata di tre quarti, di spalle, e ha un piccolo disegno sulla nuca, una farfalla. Lo conservo nella cartella e continuo le pulizie. Rocco pensa al bancone ed io al pavimento. Alle cinque abbiamo finito. Spengo tutto e ci salutiamo davanti al portone, poi metto l’allarme e salgo in casa. Mi sfiora l’idea di salire da Kora, ma me la faccio passare subito, è quasi l’alba.

 

Ogni primo lunedì del mese, due ragazzi filippini vengono a lavare le vetrate del locale, che sono piombate, con vetri colorati a losanghe. Io ne approfitto per fare l’inventario e ordinare quello che mi serve. Faccio un po’ di conti, metto in ordine le fatture e le bollette pagate. È un lavoro che odio, per questo mi sono imposto una scadenza mensile. Quando finisco sono più stanco e annoiato che nel resto del mese. Non ho neppure voglia di andare al cinema, come faccio il lunedì, che è il mio giorno di chiusura. Così vago per la casa come uno zombie. Kora non si è più vista. Il livido le è passato, ma non la paura. Se non vuole farsi dare una mano con la tecnologia, io sono impotente.  Posso soltanto sperare che sia prudente. Mi ha raccontato che la sera che è venuta giù, nel locale c’era il tizio che l’aveva picchiata, per questo è scappata via. Da allora mi domando chi fosse. Rocco ha fatto stampare il manifesto. È venuto bene. Lo abbiamo appeso fuori. Ha fatto ingrandire un paio di foto e le abbiamo appese a una parete, tra i contributi artistici dei clienti e una foto tratta dal film La città del Jazz, che ritrae Louis Armstrong con la sua Jazz Band.

 

Anche stasera Lorenzo ha trovato una scusa per non venire. Mi ha detto che non sta bene. Menomale che è martedì. Lorenzo è l’unico esemplare di uomo di neanderthal ancora esistente al mondo. È un primitivo sotto mentite spoglie. Il suo aspetto da bel ragazzo qualunque, nasconde un carattere ai limiti della semplicità, così poco sfaccettato da risultare scarno. È tetragono. Il suo eloquio è da autistico appena risvegliato. I suoi movimenti sono da robot malamente programmato, impacciato a tal punto da misurare male le distanze, andando ad urtare goffamente contro qualunque ostacolo. È un vero disastro. Il suo unico pregio è che suona bene il contrabbasso, unico momento in cui mi pare di scorgere in lui una larvata forma di sentimento.

Per fortuna, gli altri della cosiddetta band, sono molto diversi.

Fabio ha il ritmo nel sangue. Suona la batteria da quando aveva quattro anni. Adesso ne ha ventiquattro e si può ben definire un veterano. È di poche parole, ma ben calibrate. Non spreca fiato in stronzate, da autentico saggio. Ha la mania del surf e ogni tanto sparisce a caccia di onde, restando latitante finché non si è sfogato. Però, prima di sparire, mi trova sempre un sostituto. Lo apprezzo molto.

Franco ha un metabolismo da vagabondo, che ha sbagliato strumento. Se si fosse invaghito di una chitarra, oggi starebbe vagando per le strade del mondo, rincorrendo i suoi sogni. Ma è dura fare l’autostop con un pianoforte, ai bordi di una strada. La sua passione per i tasti è la zavorra che l’ha inchiodato qui. I suoi assoli sono rimasti l’unico momento di fuga verso nuovi e sconosciuti orizzonti. Un po’ frustrante, a volte, lo capisco, ma è proprio allora che dà il meglio di sé, come me, del resto, che non suono mai più soddisfacentemente il sax, di quando mi afferra lo spleen. 

-            Mi fai un Florida? – mi chiede un tizio con gli occhi a mandorla, che sembra completamente fuori posto.

-            Subito. – gli rispondo, afferrando uno shaker alle mie spalle, senza neanche voltarmi, facendolo roteare in aria, prima di aprirlo.

-            Bella musica, qui. – mi dice, fissando le mie mani che versano il dry gin.

-            Sono contento che piaccia anche a te. – commento, spremendo un’arancia.

-            Peccato per il volume, che è un po’ nemico della conversazione. – mi fa, senza staccare mai gli occhi dalle mie mani.

-            È più basso, quando non suonano dal vivo. Se vieni dopo le tre, puoi chiacchierare quanto vuoi. - gli rispondo, mettendogli davanti il Florida.

-            Mi organizzerò. – commenta, sorridendo e guardandomi negli occhi.

Mentre servo altri clienti, noto che resta al banco, appollaiato sullo sgabello, a fissare nello specchio quello che accade dietro di lui. Ha un’espressione concentrata, attenta, come se i suoi pensieri fossero tesi alla soluzione di un problema di estrema importanza. Ha i capelli così neri che le luci ne traggono riflessi di blu e un velo di barba gli scurisce il volto dai lineamenti vagamente orientali. Quando finisce il suo drink, scende dallo sgabello, con movenze quasi feline, mi fa un cenno di saluto e passa da Rocco a pagare, quindi esce dal locale.

Alle tre i ragazzi smettono di suonare e il locale si svuota. Io chiudo tutto ed esco dal retro con Rocco. Il portone è spalancato. Mi preoccupo.

-            Che c’è? – mi chiede Rocco.

-            Non so. Vado a vedere Kora. – dico, inquieto.

-            Vengo con te. – mi dice Rocco, seguendomi per le scale.

Anche la porta di Kora è spalancata. Le luci sono accese. Resto un attimo sulla porta, col cuore in gola, poi entro di corsa con Rocco alle calcagna ed entrambi ci blocchiamo davanti alla camera da letto, sconvolti, di fronte allo spettacolo che si offre ai nostri occhi. Rocco torna indietro gemendo. Io mi avvicino a Kora, evitando accuratamente di mettere i piedi dove non devo. Toccandola, capisco subito che è inutile chiamare un’ambulanza. Afferro il cellulare e chiamo il 113. Un sudore freddo mi scorre dalla fronte. Mentre telefono, lo sguardo mi corre tra le tende bianche, gli abatjour rossi, la poltroncina su cui è adagiata la sua vestaglietta di seta e una pantofolina che è finita sotto la finestra.

Arriva la volante. Guardo stupito l’uomo con gli occhi a mandorla che si fa avanti, con due agenti in divisa. Lui si presenta.

-            Ispettore Daverio. –

-            Ispettore… – ho solo la forza di dire, indicandogli la porta, al di là della quale Kora giace in un lago di sangue.

-            Ha toccato qualcosa? –

-            No, mi sono soltanto accertato che non servisse un’ambulanza. –

-            Non ce n’è più bisogno. – commenta un agente, che si è già chinato su di lei.

-            Lo avevo capito subito, ma speravo… non so. – dico.

-            La conosceva bene? – mi chiede l’uomo con gli occhi a mandorla.

-            Solo superficialmente. Abitava qui da un anno. –

-            Il suo nome? –

Mentre parliamo, prende appunti su un taccuino. Poi arrivano altri agenti incartati in tute bianche, che ci pregano di lasciare spazio.

-            Vogliamo andare di sotto? – propongo a Daverio.

-            Sì, è meglio. – accetta.

Riaccendo le luci nel locale e andiamo a sederci a un tavolo con Rocco.

-            Come mai è salito dalla vittima? –

Vittima? Kora non è già più Kora, è la vittima. Non ho avuto il tempo di metabolizzare. Mi sento male.

-            Mi scusi. – dico – Devo bere qualcosa. –

Mi alzo e vado a prendere tre bicchieri, una bottiglia di whisky e una coca cola, poi torno al tavolo. Me ne verso una dose, la ingollo in un sorso e poi inizio a parlare.

-            Siamo saliti perché abbiamo trovato il portone spalancato. Mi sono preoccupato. E anche la porta di Kora era spalancata, così siamo entrati a vedere. –

-            E ci avete chiamato. Naturalmente è inutile che vi chieda se avete sentito qualcosa. –

All’improvviso mi ricordo del cellulare che ho lasciato sul bancone e vado a prenderlo. Chiamata persa. Kora mi aveva chiamato ed io non l’ho sentita. Mi sento impallidire.

-            Che c’è? – chiede l’ispettore.

-            Mi aveva chiamato. Alle undici. Ma io non ho sentito. –

-            Proprio mentre ero qui. – commenta lui, con una strana espressione.

-            Già, perché era qui? – gli chiedo, vagamente insospettito.

-            Sono io che faccio le domande. Mi parli della ragazza. –

-            Faceva la squillo. –

-            Era suo l’appartamento? –

-            No, gliel’ho affittato io. –

-            Ah. –

-            Ho scoperto solo dopo, il mestiere che faceva. Io dalle nove alle cinque, all’incirca, sono sempre qui. Non potevo sentire l’andirivieni nel suo appartamento. –

-            Ma quando l’ha scoperto, l’ha fatta restare. –

-            Sì, l’ho fatta restare. –

-            Mi dovrà mostrare la sua licenza per il locale e il contratto d’affitto. –

-            È tutto in regola, non c’è problema. – rispondo, leggermente seccato.

-            Non ha qualche dubbio, qualche idea su chi potrebbe essere stato? Qualunque cosa che possa aiutare le indagini?-

-            C’è stato un tizio che l’ha picchiata, qualche tempo fa. Lei aveva paura che tornasse. È stato anche qui al locale. Credo che abbia lasciato i suoi ritratti sui tovaglioli. Adesso glieli faccio vedere. –

L’ispettore Daverio, quando apro la cartella, mi dice di non toccarli. Apre la borsa che ha con sé e ne estrae un paio di guanti in lattice e un paio di buste di plastica, poi prende i disegni.

-            Ce n’è un altro che ho appeso alla parete. –

-            Lo prenda. –

Mette tutto nelle buste e si toglie i guanti.

-            Che tipo è, questo tizio? Me lo può descrivere? –

-            Rocco, dove hai messo le foto della prima serata di Delia?-

-            Le vado a prendere. –

Quando torna indietro, ci mettiamo a studiarle.

-            Eccolo, è lui. – gli dico, indicandolo.

-            Ne siete sicuri? –

-            Sono sicuro che quella sera non le ha tolto gli occhi di dosso e che al suo tavolo ho trovato quel ritratto con la farfalla sulla nuca. Kora aveva i capelli giù e il tatuaggio non si poteva vedere. E poi Kora mi ha detto che quella sera c’era nel locale il tizio che l’aveva picchiata. Io ho messo insieme le cose, ma non potrei giurare che quel tale c’entri qualcosa. –

-            Dall’insieme delle parti può uscire qualcosa di più della somma delle stesse, insegna Durkheim. Beh, se qui ci sono le sue impronte, sapremo almeno che la conosceva. Non ci sono molte donne con una farfalla tatuata sulla nuca. Lei gliel’ha vista, no? –

-            Ho visto che aveva tatuato qualcosa, ma non sono sicuro che fosse una farfalla. L’ho vista da lontano. –

-            Sta tentando di mettere le distanze tra lei e quella donna? –

-            Le sto dicendo la verità. –

-            Mi sta dicendo che non eravate intimi. –

-            Infatti non lo eravamo. –

Daverio sospira, come se gli fosse davvero difficile credermi. I suoi occhi a mandorla mi fissano con intensità, concentrati su di me, per prendere una decisione. Poi mette via tutto quello che è sparpagliato sul tavolo, compresa la foto, beve un sorso di coca cola e si alza.

-            Per adesso può bastare. Si tenga a disposizione. –

-            Non mi muovo da qui. Il locale è aperto dalle nove. Se mi cerca prima, abito di sopra. –

-            Ho bisogno del suo cellulare, solo fino a domani. Glielo rendo, non si preoccupi. E dovete anche passare al Commissariato  per le impronte, così da escluderle nel caso le trovassimo di sopra, e sui disegni. Ho bisogno anche delle chiavi del suo appartamento. Dobbiamo perquisire anche quello e il locale, qui. –

-            Va bene. Capisco. – acconsento, porgendogli prima il cellulare e poi le chiavi di casa mia.

Lui se li mette in tasca e poi, come se si ricordasse solo in quel momento della presenza di Rocco, si rivolge a lui chiedendogli:

-            E lei ha niente da dichiarare? –

-            No. – risponde Rocco.

-            Resti nei paraggi. –

-            Io lavoro qui. – afferma Rocco, come per dire “dove vuole che vada?”.

-            A dopo. – ci saluta, lasciandoci al tavolo a guardarci come due allucinati.

Io riempio i bicchieri e mi dedico alla più salubre delle sbronze. Quando sentiamo che il trambusto di sopra è finito, gli agenti entrano nel locale per la perquisizione.

-            Possiamo andare di sopra? – chiedo ad un agente.

-            Sì, la stanno aspettando. – mi risponde.

Non poteva dirmelo prima? Impongo a Rocco di venire a dormire da me. È troppo ubriaco per tornare a casa, anche se è allenato. Daverio è davanti alla mia porta, con le chiavi in mano.

-            Possiamo andare a dormire? – gli chiedo.

-            Sì, ecco le sue chiavi. Ci scusi per il disturbo, ma è la prassi. – dice, osservando attentamente prima me e poi Rocco, con qualcosa nello sguardo che non capisco.

-            Capisco perfettamente. – gli dico invece. - Quando avete finito, chiudete il portone, per favore. – aggiungo, entrando in casa. Sono già le otto.

-            Vuoi mettere qualcosa sotto i denti, prima di andare alla branda? – chiedo a Rocco.

-            Voglio solo chiudere gli occhi. – mi risponde, andando a buttarsi sul divano, togliendosi appena le scarpe.

Io gli butto sopra una coperta, mentre già sta russando. Mi guardo intorno per verificare in che stato l’ha lasciata il passaggio delle forze dell’ordine. Non c’è poi molto caos. Mi mangio un panino e vado a dormire anch’io.

 

Alle quattro siamo svegli e affamati. Dopo colazione, Rocco va a casa a cambiarsi, mentre io rimetto in ordine il locale, che la perquisizione ha messo un po’ sottosopra. Alle cinque, mentre preparo la serata, suonano al portone. Vado ad aprire e mi trovo davanti Daverio.

-            Buongiorno. Venga, stavo preparando il menù. –

Lui mi segue ed entriamo dal retro.

-            Posso offrirle qualcosa? – gli dico.

-            No, grazie. Perché non me l’hai detto, ieri sera? –

-            Che cosa? –

-            Che sei un ex-collega. –

-            Non mi sembrava rilevante. – mi giustifico.

-            Lo è abbastanza, invece. Le tue deduzioni hanno un senso. Avevo capito che ragioni come uno sbirro. –

-            E adesso sai perché. – affermo.

-            Non ti sei pentito di aver dato le dimissioni? –

-            No. Dopo quello che era successo, ho capito che non potevo restare. Avrai letto il mio fascicolo, immagino. –

-            Sì.  È stata una reazione comprensibile, la tua. –

-            Non dire sciocchezze. Stavo per strangolare mia moglie. Lo trovi davvero tanto comprensibile? –

-            Ma ti sei fermato in tempo. –

-            Senti, Daverio, non voglio rivangare il passato. –

-            Ti senti ancora colpevole? Avrei avuto anch’io una reazione del genere, se mia moglie avesse permesso che mia figlia morisse, distratta da un altro uomo nel mio letto.–

-            Adesso piantala. Ti ho detto che non ci voglio pensare. –

-            Scusami. Sono venuto a restituirti il cellulare. – mi dice, tirandolo fuori dalla tasca.

-            Grazie. –

-            Ieri sera non ero qui per caso. –

-            Stavi cercando qualcuno? –

-            Proprio il tizio che tu hai sospettato. Avevo un identikit fatto per un’aggressione a una studentessa, il mese scorso. Qualcuno lo aveva visto da queste parti. Ero nel posto giusto, ma al piano sbagliato. –

-            Se è stato di sopra, avrà lasciato qualche impronta. –

-            Comunque ci sono i disegni e le foto. Non potrà negare di essere stato qui. –

-            Ma non ieri sera. Sono sicuro di non averlo visto qui, ieri.-

-            Vedremo. Stiamo studiando il cellulare della vittima, di sicuro c’è almeno una sua chiamata. –

-            Senti, ti dispiacerebbe chiamarla Kora? –

-            Scusa, capisco che per te sia difficile. –

-            Non mi sono ancora abituato all’idea. Era una donna così solare. Se la chiami Kora, me la ricordo com’era, se la chiami “la vittima” mi torna in mente come l’ho trovata ieri sera, e vorrei scordarmelo. –

-            Va bene. – accetta Daverio, comprensivo, con un lieve sguardo ironico nei suoi occhi a mandorla.

-            Senti, Daverio, adesso ti va qualcosa da bere? -

-            Chiamami Ferdinando. – mi fa – Per bere, torno quando sono fuori servizio. Adesso devo andare. –

-            Un’altra cosa. Avete trovato l’arma? In terra non c’era niente. –

-            Infatti. Sei un ottimo osservatore, non c’era. Ma di questo non posso ancora parlare. –

-            Certo, capisco. –

-            Vado. -

-            Dammi il tuo numero, non si sa mai. – gli dico.

-            Te l’ho già registrato sul cellulare, perché non si sa mai. – risponde, sorridendo.

-            Ti accompagno, Ferdinando. –

-            Non c’è bisogno, conosco la strada. A presto, Gaetano. –

 

È appena mezzogiorno, quando suonano al portone. Mi alzo in coma e rispondo come posso.

-            Sono Ferdinando. –

Apro il portone e mi metto addosso un paio di jeans. Quando arriva sono ancora a torso nudo. Al primo sguardo, capisce che stavo dormendo.

-            Scusa, ti ho svegliato. –

-            Non importa, tra un paio d’ore mi sarei svegliato comunque. –

Lui ride e mi osserva, dalla massa di capelli arruffati ai piedi nudi.

-            Forse ti ci vuole un caffè. Posso fartelo io? –

-            No, faccio io. – gli dico, precedendolo in cucina.

-            Cosa volevi dirmi? – chiedo, mentre preparo la caffettiera.

-            Abbiamo fatto un buco nell’acqua. Nel confronto tra le impronte trovate in casa e quelle sui disegni non c’è corrispondenza. Ma ci stanno ancora lavorando. C’erano un sacco di impronte diverse, in camera da letto. –

-            Dubito che fosse armato di guanti, ci saranno pure le sue, da qualche parte. – commento.

-            A meno che non si sia trattato di omicidio premeditato. –

-            Non so cosa pensare. Comunque, Kora stava molto attenta e apriva la porta solo dopo aver guardato dallo spioncino. –

-            Quindi siamo fuori strada. Non può aver aperto ad uno che l’aveva già picchiata una volta. –

-            No, credo di no. –

-            Forse non servirà a niente, ma mi daresti le altre foto che mi hai fatto vedere? –

-            Certo. –

-            Sono le uniche che avete? –

-            Devo chiedere a Rocco. È lui che si diletta. –

Verso il caffè nelle tazzine. Ferdinando lo prende amaro, come me.

-            Non ti è venuto in mente niente, che possa aiutarci? –

-            Purtroppo no. La conoscevo poco e non mi ha mai parlato dei suoi clienti. Faceva vita molto ritirata. Non usciva mai, o solo per fare la spesa, e a volte neanche per quello. Veniva a chiedermi in prestito di tutto, dallo zucchero alle carote. Di giorno dormiva. –

-            Come te. –

-            I nottambuli vivono così. – commento.

-            Già. –

-            Non avete ricavato niente neppure dall’agenda? – chiedo.

-            Quale agenda? –

-            La sera che l’hanno aggredita, c’era un’agenda di pelle sul comodino. –

-            Non l’abbiamo trovata. –

-            Eppure dev’esserci. Forse lì prendeva nota degli appuntamenti. –

-            Accidenti. Bisognerà ripetere la perquisizione. –

-            Chissà dove la teneva? Se non l’hanno trovata, forse la nascondeva. –

-            E c’è riuscita bene. Magari c’era scritto qualcosa di compromettente, perciò ci teneva a non mostrarla ai suoi clienti. Hai idea di quanti fossero? –

-            Io non ne ho mai visto neppure uno. Salivano mentre ero impegnato al locale. –

-            Neanche Rocco o i tuoi strumentisti l’hanno mai frequentata? –

-            Che io sappia no, nessuno me ne ha mai parlato. Rocco non l’ha neppure riconosciuta nei ritratti. L’aveva incrociata solo un paio di volte, al portone. –

-            Insomma, non ti risulta se avesse qualche amica, qualcuno che potrebbe parlarci più approfonditamente di lei? –

-            Non ne so niente. Studiate i tabulati telefonici e trovate quell’agenda. –

-            Va bene. Ti terrò informato. Adesso vado e tu vestiti, fa troppo freddo in questa casa, per camminare scalzi. –

Così mi accorgo che sono ancora a torso nudo.

-            Hai ragione, mi sono distratto. In effetti il pavimento è piuttosto freddo. – rispondo, sorridendogli.

-            A presto. – mi dice dalla porta, senza voltarsi.

Da chi avrà preso quegli occhi a mandorla?

 

Dopo un paio di giorni, una squadra rompe i sigilli sulla porta di Kora e torna a ravanare nell’appartamento. Dopo un , Ferdinando mi si presenta davanti, piuttosto irritato.

-            Sei sicuro di non essertela sognata, quell’agenda? –

-            Dammi un paio di guanti e di soprascarpe. – gli dico, con tono imperioso, leggermente irritato anch’io.

-            Che devi fare? –

-            Voglio cercare quella fottutissima agenda. –

Ferdinando mi guarda fisso, sostenendo duramente il mio sguardo, ma dopo qualche secondo leggo un barlume di cedimento. Infine capitola.

-            Va bene. Vieni. –

Mi proteggo mani e piedi ed entro. Non ho più messo piede qui da quella notte. Non hanno spostato niente. O quasi. Qualche cassetto è rimasto semiaperto, anche l’anta dell’armadio. Non so perché, il primo posto che mi viene in mente è la cucina. Ci ho visto dei libri di ricette. Non è che Kora cucinasse molto, in realtà, quindi a che cosa le servivano?

-            Dove vai? – mi chiede Ferdinando.

-            Kora non cucinava un granchè. In cucina ci sono dei libri. Sono gli unici che ho visto in casa. –

-            Li abbiamo già visti. L’agenda lì non c’è. –

Io entro in cucina. Guardo nel freezer, sposto tutti i libri, salgo sul tavolo per guardare sopra ai mobili, poi apro il forno. È pieno di padelle e di teglie nuove di zecca. Le tiro fuori e, tra una padella e l’altra, vedo un tovagliolo a quadrotti rossi e bianchi. Lo sfilo, ed ecco apparire l’agenda.

-            Hai visto che c’era? – gli dico, consegnandogliela.

-            E dire che lì ci avevamo guardato. – commenta lui.

-            Non abbastanza, si vede. – affermo, riprendendo il corridoio e tornando di sotto, senza nemmeno salutare.

L’ho sempre detto che se vuoi un lavoro fatto bene, devi fartelo da te. Ferdinando mi segue. Io ricomincio quello che ho lasciato a metà. Stavo svuotando la lavastoviglie e riponendo i bicchieri sulla rastrelliera. Lui si arrampica su un trespolo, pianta i gomiti sul bancone e mi segue con lo sguardo.

-            Vuoi bere qualcosa? – gli chiedo, dopo aver finito.

-            Niente di alcolico, per favore. –

-            Certo, era sottinteso. Coca, succo d’arancia, sprite, chinotto, latte? –

-            Coca, grazie. Come mai tieni tutta questa roba non alcolica in un posto del genere? –

-            Qui da me è vietato somministrare alcolici ai minori di diciotto anni. –

-            Ma va? Chiedi i documenti? –

-            Ci pensa Rocco. Quando sei venuto quella sera non ti ha bloccato all’ingresso dicendoti che questo è un club privato? – gli chiedo, porgendogli il bicchiere.

-            Sì. Mi ha detto che la prima volta si può dare un’occhiata, ma alla seconda bisogna fare l’iscrizione. –

-            E se tu fossi stato un ragazzino, ti avrebbe anche chiesto i documenti. Si entra con il tesserino, viola per gli adulti, giallo per i minori. –

-            Non scherzi con le regole, tu. –

-            Dimentichi che sono un ex-poliziotto. Le regole fanno parte del mio corredo genetico. –

-            Mi rendo conto. – nel suo tono c’è una parvenza di ammirazione.

-            Spero che troviate qualcosa di utile, in quell’agenda. –

-            Me lo auguro anch’io. – risponde.

Prima che vada via, gli consegno un tesserino viola col suo nome.

-            Per la prossima volta. – gli dico.

-            Ah, già. Grazie. – risponde, mettendoselo in tasca.

 

Come disse Friedrich Nietzsche, “A guardare troppo a lungo dentro l’abisso, l’abisso finisce per guardare dentro di te.” Per questo sono cotto a puntino per la mia serata di Jam Session, anche senza Lorenzo, che ancora non ritorna. Sto rimuginando sulla misteriosa vita di Kora, da una settimana, cercando appigli che non trovo e sentendomi sempre più sprofondare in un pozzo senza fondo. Lo spleen sta rasentando l’agonia.

Evito con cura di suonare BilliÈs Bounce, così come ho pregato caldamente la vocalist di evitare di cantare Summertime, semplicemente perché hanno veramente rotto le palle. Solo perché forzati da una gentile ma decisa richiesta, alla fine della serata, abbiamo fatto Georgia on my mind, che benché sia un pezzo da novanta, tollero ormai come il mio mal di fegato, anche perché di solito la suonano da schifo. E, infatti, anche stavolta, non si sono smentiti. Mentre metto via il sassofono, leggermente incazzato, scorgo Ferdinando al banco e mi avvicino.

-            Sei un grande. – si complimenta – Non mi avevi detto che suonavi anche tu. –

-            Non me lo hai chiesto. – rispondo, asciutto.

-            Bella quella di Ray Charles, come si chiama? Georgia in my mind. –

-            È Georgia on my mind e non è di Ray Charles. L’ha scritta una trentina di anni prima un certo Hoagy Carmichael. E poi, se si suona in FA, bisogna evitare di mettere il RE7 a metà della quinta battuta, quando ci va il MI7. – preciso, rendendomi conto della mia sterile pedanteria.

-            Senti, io non ne capisco niente di musica. Mi piace ascoltarla e basta, e quello che ho ascoltato mi è piaciuto.-

-            Scusami, sono un po’ fuori. -

-            Non fa niente, ti capisco. –

Non so se mi capisce davvero, ma apprezzo la buona volontà.

Per smussare gli angoli, gli chiedo cosa vuole bere.

-            Mi faresti un Montana? –

-            Dì, ma dove vai a bere di solito? Questa roba non la chiede più nessuno. –

-            Io sono per le vecchie tradizioni. Puoi farmelo o no? –

-            Certo che te lo faccio. – confermo, afferrando un mixer e infilandoci qualche cubetto di ghiaccio.

Lui mi osserva le mani con molta attenzione, come per carpire un segreto che è in attesa di svelare da tempo. Verso sul ghiaccio un bicchiere e 1/3 di cognac, 1/3 di porto bianco e 1/3 di vermouth dry. Poi mescolo piuttosto energicamente, lascio riposare un paio di secondi e ricomincio a mescolare, ma più lentamente. Lui continua a guardare la mia mano, mentre lo verso in due coppette da cocktail. Uno glielo metto sotto il naso, l’altro lo tengo per me. Lui solleva il bicchiere e lo urta contro il mio. Non so se sia di buon augurio, ma di sicuro è un buon inizio della sbronza con cui ho il fermo proposito di andare a dormire all’alba. Giro intorno al bancone e lo invito a sederci ad un tavolo.

-            Qualche svolta nelle indagini? – gli chiedo.

-            Il diario è molto interessante. – mi rivela.

-            Quale diario? –

-            L’agenda che hai trovato, non era per i suoi appuntamenti, era un diario. Soprattutto l’ultima parte è molto singolare. Parlava di te. Pare fossi l’unico che la trattava con rispetto, come una vera signora. Questo le aveva messo in testa che poteva tornare ad esserlo davvero. Stava cercando lavoro e inoltre aveva allontanato i clienti. Nell’ultimo periodo pare stesse con un uomo che non sapeva nulla del suo mestiere, un certo L. Può darsi che lui abbia scoperto all’improvviso quello che faceva e l’abbia colpita in preda ad un raptus di gelosia. Sarebbe comprensibile. Non trovi? –

-            Quindi l’arma era in casa. Un omicidio passionale, un uomo spaventato dalla improvvisa consapevolezza di quello che ha fatto, fugge spaventato, portandosi dietro l’arma, presumibilmente un coltello da cucina, per andarlo a gettare chissà dove, lontano da qui. Sì, sarebbe plausibile. –

-            Era un coltello da cucina, infatti. Mancava dal ceppo che era di fianco ai fornelli e in casa non lo abbiamo trovato. –

-            Bisogna trovare questo L. –

-            Avremmo proprio bisogno di un colpo di fortuna. –

-            Kora se lo merita. –

-            Parlava molto bene di te. Le piacevi. –

-            Anche lei mi piaceva. –

-            Ne eri innamorato? –

-            Quel capitolo l’ho chiuso dieci anni fa e ho deciso di non scriverne altri. –

-            Non è una cosa che si può decidere. Un giorno ci si innamora e basta. Non puoi farci niente. –

-            Non io. Quel genere di cose non fa per me. –

-            Pensi di restare uno spettatore distaccato? Raccogli poesie d’amore scritte da gente un po’ sbronza e resti a guardare come le storie qui dentro nascono, crescono o muoiono e pensi che tutto ciò non ti riguardi? Sei proprio convinto che non verrà mai il giorno in cui uno schizzo d’amore non raggiunga per sbaglio il tuo bel gilè, proprio all’altezza del cuore? –

-            Non ti pare di essere troppo sdolcinato per essere un ispettore di polizia? –

-            Sono fuori servizio. – mi dice, con un mezzo sorriso e un leggero ammiccamento degli occhi a mandorla, scolandosi il bicchiere.

-            E tu, sei innamorato? – gli chiedo, benché non me ne freghi niente.

-            Mi sto adoperando. –

-            Da chi hai preso gli occhi a mandorla? –

-            Da una nonna vietnamita, che ha sposato un siciliano emigrato in America. Dopo la guerra era rimasto l’unico erede di una specie di feudo dalle parti di Siracusa e si sono trasferiti in Italia. I miei sono ancora là e fanno un ottimo vino. Beh, lasciamo da parte la famiglia. Hai un elenco dei tuoi clienti? –

-            No, cosa dovrei farmene? –

-            Peccato. Potevamo cominciare almeno da tutti quelli che frequentano il tuo locale, il cui nome inizi per L. –

-            Già. – dico, mentre il mio cervello comincia a fare i salti mortali carpiati con triplo avvitamento.

-            Che c’è? – mi chiede Ferdinando, stupito dalla mia espressione riflessiva.

In effetti è un esercizio che evito come la peste.

-            Il nostro contrabasso si chiama Lorenzo. –

-            Quale contrabasso? –

-            Quello che è assente dalla sera del delitto. Mi aveva telefonato dicendo di sentirsi poco bene e non è ancora tornato. –

-            E cos’ha? –

-            Mi ha detto che si è fatto male a una mano e non può suonare. –

-            Faccio prendere le impronte sul contrabasso, anche se sarà sicuramente una perdita di tempo. Nel diario, Kora non accenna mai al fatto che questo L. abbia a che fare col locale. – mi dice.

-            Meglio non tralasciare niente. A forza di escludere, qualcosa resterà. -

-            Regola base delle investigazioni. –

-            Ti faccio un altro Montana? –

-            No, meglio che vada a dormire. Sto bevendo dalle undici e devo guidare. Se mi fermano i colleghi della stradale, mi becco un cazziatone coi fiocchi. –

-            Allora non puoi guidare. Ti offro il divano in soggiorno. –

-            Ti ringrazio per la gentilezza, ma non posso accettare. –

-            Perché?  Io resto qui. Non disturberesti affatto. –

-            Non è per questo. – dice, alzandosi in piedi, senza barcollare. Regge l’alcol come un camionista rumeno.

-            Allora ti chiamo un taxi. –

-            Smettila di fare il baby-sitter. So badare a me stesso. Buonanotte. – mi dice, forse un po’ duramente, dirigendosi poi verso la cassa.

Rocco mi guarda e io gli gesticolo un no con un dito. Lui insiste, ma deve cedere, davanti alla sua pervicace faccia da poker. Ferdinando si volta verso di me e, a mani giunte sulla bocca, mi fa un leggero inchino alla maniera orientale, prima di uscire. A una gheisa, ecco a cosa mi ha fatto pensare. Se lo sapesse, sono certo che mi sparerebbe con la sua pistola d’ordinanza.

 

Ancora uno dei miei risvegli rocamboleschi. C’è del lucido cinismo nella irritante abitudine che Ferdinando ha preso di venirmi a svegliare prima di mezzogiorno. Mi sto ancora abbottonando i jeans, quando entra.

-            Ti ho svegliato? – mi chiede, osservandomi attentamente dai piedi nudi alla testa, soffermandosi un momento sul torace.

-            Dì che lo fai apposta e che ci godi. Facciamo prima. – rispondo, lievemente incazzato.

-            Ora che mi ci fai pensare, forse c’è qualcosa di vero in quello che hai detto. –

Mi sorge spontaneo un adeguato vaffanculo, ma non osa attraversarmi le labbra. Sarebbe oltraggio a pubblico ufficiale.

-            Sono fuori servizio. Puoi dirmi liberamente tutto quello che ti passa per la testa. – mi invita, ridendo e dimostrando di sapermi leggere nel pensiero.

Anche perché i miei pensieri, appena sveglio, non hanno nulla di originale.

-            Meglio di no. – rispondo.

-            Ti ho portato delle brioches. – mi fa, porgendomi un sacchetto bianco, piuttosto panciuto, come segno di pace.

-            Ti va un thè, un caffè, una bibita? – gli offro.

-            Un caffè, anche se sto per andare a dormire. Spero non mi tenga sveglio. –

-            Anche tu hai degli orari del cavolo. – commento.

-            Ho fatto la notte. Ho smontato da un’ora, ma sono andato a fare la spesa. Avevo il frigo  vuoto. –

Ne deduco che vive da solo.

-            Novità? – gli chiedo, dopo che si è seduto al tavolo della cucina.

-            Niente di che. Le solite risse tra rumeni e un accoltellamento vicino alla stazione. –

-            Intendevo dire novità sulle indagini. –

-            Ancora niente. Se non si arriva a un risultato subito, e che sia il più scontato possibile, dopo un mese si può considerare chiusa l’inchiesta. Nel frattempo se ne sono aperte altre dieci. –

-            Quando pensate di prendere le impronte sul contrabasso? –

-            Cosa? Non sono ancora venuti? –

-            No. –

-            Sei sicuro? –

-            Sicurissimo. –

-            Cazzo! – gli sfugge, autorizzandomi, da questo momento in poi, ad usare liberamente il mio gergo.

-            Senti, - gli dico, mentre rovescio le brioches in un cestino – ci sto pensando da un po’ e qualcosa mi dice che Lorenzo potrebbe entrarci qualcosa. È tornato ieri sera, ma ancora non può suonare. Mi ha detto che si è tagliato affettando il pane. Gli hanno messo sei punti. Poi, prima di quella sera, era già da un mese che saltava qualche serata, giusto un paio alla settimana, e non era mai successo. I tempi coinciderebbero. –

-            Ma lui ti aveva già detto, quella sera, che non si sentiva bene. –

-            Potrebbe essere stata la solita balla e poi, invece, si è fatto male sul serio. Kora si è difesa. Aveva dei tagli alle braccia, li ho visti. Potrebbe avergli fatto scivolare il coltello e causare una ferita anche a lui. –

-            Non è stato trovato altro sangue, a parte quello di Kora. –

-            Senti, ci avrà messo sopra un fazzoletto. Ne teniamo sempre in tasca almeno uno, per abitudine, sai per il sudore. – gli dico, estraendo il mio dalla tasca posteriore dei jeans.

-            Vedo. Però non mi convince. Che tipo è questo Lorenzo? –

-            Un troglodita.-

-            Cioè? –

-            Puoi capirlo solo conoscendolo. –

-            Puoi farlo venire al locale e presentarmelo senza farlo insospettire? –

-            Perché tutta questa cautela? –

-            Non c’è uno straccio di collegamento tra il delitto e il tuo bassista. Come dovrei giustificare, per esempio, una perquisizione, per ottenere un mandato? Il magistrato mi riderebbe in faccia. –

-            Comincia dalle impronte, allora, e poi ne riparliamo. –

-            Spegni il caffè. – mi dice, con voce stanca.

-            Non è che ci vuoi un po’ di zucchero? – gli chiedo, ironico.

-            Non ti azzardare. –

-            Almeno mangia una brioche, per addolcirti la vita. –

-            Il girovita, sicuramente. – risponde, sorridendo, e addentandone una, con un’espressione di sano godimento.

Gli verso il caffè, seduto di fronte a lui e sorrido, guardandolo.

-            Che c’è? –

-            È un piacere vederti mangiare. – mi sfugge.

-            E tu che aspetti? Sono buone. –

Ne prendo una anch’io e la mangio insieme a lui.

-            Sei libero lunedì sera? – gli chiedo, senza rifletterci.

-            Devo vedere i turni. Perché? –

-            È la mia serata dedicata al cinema. Mi piacerebbe andarci con te. –

-            Perché? –

-            Così. –

-            Mi pare un’ottimo motivo. Ti farò sapere. –

 

È venerdì, la sera di maggior affollamento per il locale, quando vedo spuntare Lorenzo. Lancio un sos a Ferdinando e lui arriva dopo un quarto d’ora. Ha sempre quell’aria di essere fuori posto, sarà per l’abbigliamento. È in borghese, ma ha la peculiarità di sembrare in divisa. Con nonchalance lo presento a Lorenzo e me ne torno dietro il banco, cercando di non mollarli mai con lo sguardo, nonostante riempia bicchieri e distribuisca tartine, con Rocco, come in una catena di montaggio. Ferdinando sorride, con espressione serena. È un attore provetto o davvero trova divertente Lorenzo? Il fegato mi dà una stilettata di preavviso. Stasera sarà meglio che mi tenga sull’analcolico. Porto un thè a Ferdinando, mimetizzato da whisky in un tumbler, e un gin tonic a Lorenzo, che non beve altro, scambio con loro un paio di battute e torno dietro il banco. Rocco mi guarda strano. Io alzo le spalle. È tutto improvvisazione e speranza di una botta di culo. Se Lorenzo c’entra qualcosa, forse lo scopriremo presto. Intanto ieri hanno finalmente preso le impronte. Se ne hanno tratto qualche deduzione, ancora non mi è dato sapere. Delia è scatenata e si lancia in acuti struggenti che mi mandano in tilt la spina dorsale.  All’improvviso Ferdinando e Lorenzo si alzano e vanno verso l’uscita. Io li guardo senza capire. Ferdinando mi sfiora con lo sguardo solo un attimo, con calma e un piccolo sorriso, come per invitarmi a stare tranquillo. I suoi occhi a mandorla e il suo atteggiamento sicuro innalzano la bandiera del tutto sotto controllo, ma io non sto affatto tranquillo. Vorrei seguirli, ma non posso lasciare Rocco da solo in mezzo a questo casino. Non so perché, ma ormai mi sono convinto che Lorenzo non c’entri niente. I suoi sentimenti e i suoi pensieri sono molto primitivi, ma non tanto da non distinguere il bene dal male. E poi credo che sarebbe incapace di fare del male persino a una mosca. La curiosità di sapere cosa si siano detti mi tiene sulle spine. Aspetto fino alle cinque, poi non resisto più e lancio un messaggio sul cellulare di Ferdinando: “Chiamami”, al quale non giunge risposta. È già a casa a dormire? Alle otto non riesco ancora a chiudere occhio e lo chiamo al cellulare. Non risponde. Non so più cosa fare. Torno a letto, tentando di calmarmi con il mio mantra personale. Dormi, va tutto bene. Dormi, va tutto bene. Dormi, va tutto bene. Dormi. Va. Tutto. Bene.

Alle dieci suonano al portone. Ferdinando.

-    Ferdinando! Non mi hai fatto sapere più niente. – esclamo, completamente rincoglionito dal sonno.

-            Calma, cow-boy. Stavo solo facendo il mio lavoro. Perché non ti vai a mettere qualcosa addosso? – dice, osservandomi, innervosito – Fa un freddo cane. -

Mi rendo conto di essere in boxer e afferro un plaid dal divano, avvolgendomelo intorno alle spalle.

-    Va meglio? – gli chiedo.

-            Credo di sì. – risponde, anche se non sembra molto convinto.

-            Allora, che è successo? Perché non hai risposto al mio messaggio e nemmeno alla mia chiamata? –

-            Avevo da fare. – risponde con durezza.

-            Che te n’è parso di Lorenzo? –

-            Uno strano tipo, il tuo bassista. Non mi sembra normalissimo. –

-            È un eufemismo? –

-            Sì, - risponde ridendo – è un essere primitivo, appena sbozzato, sfuggito per sbaglio alla preistoria.

-            Un troglodita, appunto. – sottolineo - E il confronto delle impronte? – chiedo, ricordandomene improvvisamente.

-            Positive. Sono state ritrovate in tutto l’appartamento di Kora. L’ho appena saputo. –

-            Questa era la prova che cercavi. Comincia a chiedere il mandato per la perquisizione. –

-            Già fatto. – mi comunica, seccato.

-            Mi raccomando, fammi sapere. –

-            Perché ti preoccupi tanto? – mi chiede, ancora infastidito come poco fa.

-            Così. –

-            Ah, a proposito, lunedì per il cinema sono libero. –

Mi domando a proposito di che?

-            Bene. Sono contento. – rispondo, un po’ smarrito.

-            Allora ciao. –

-            Tienimi al corrente. –

-            Torna a dormire, le occhiaie ti hanno raggiunto le ginocchia. – mi dice dalle scale.

Io abbasso gli occhi e per la prima volta mi accorgo che davanti alla mia porta non c’è il mio zerbino, ma quello di Kora.

-            Ferdinando! –

-            Che c’è? –

-            Torna su. –

-            Che vuoi? Non puoi aspettare? –

-            No, è importante. –

Ferdinando risale le scale con un’espressione poco amichevole.

-            Dimmi. – mi invita, con voce pericolosamente piatta.

-            Questo è lo zerbino di Kora. –

-            E te ne accorgi solo adesso? –

-            Sei tu che mi hai fatto guardare in basso. Stavo cercando le mie occhiaie, e invece ho visto lo zerbino. Guarda bene, non ti sembra che ci siano delle macchie scure? Potrebbe essere sangue. Questo era davanti alla porta di Kora. Avrebbe senso, che li abbiano scambiati, se qui sopra ci fosse il sangue di un altro. –

-            Ma che cazzo! Erano tutti ubriachi quella sera? Fammi telefonare. – dice, duramente, scavalcando lo zerbino.

Quando finisce, io sono ancora davanti alla porta. Qualcosa non mi torna. Per quale accidenti di motivo Lorenzo non se l’è portato via, lo zerbino, se temeva che ci trovassero il suo sangue? Non è poi così pesante. Perché scambiarlo col mio? Pensava che da me non avrebbero controllato? Un uomo in fuga si mette a fare il gioco delle tre carte con gli stoini? Un uomo in fuga, dopo un omicidio, non ha soprattutto il terrore di essere scoperto e la fretta impellente di sparire?

-            Sì, anche a me convince poco. – commenta Ferdinando tornando verso di me.

-            Io non ho detto niente. –

-            Ma la tua espressione è molto eloquente. –

-            Di chiunque sia il sangue che c’è qua sopra, se davvero si tratta di sangue, non è dell’omicida. –

-            Sono d’accordo con te. –

-            Ma che significa? –

-            Ancora non lo so. Dammi un sacco della spazzatura, per favore. Devo portarlo alla scientifica. –

Vado e torno. Gli tengo aperto il sacco e lui ce lo butta dentro come se si trattasse di un gatto morto.

-            Ah, dimenticavo. Ti ho conservato il bicchiere di Lorenzo. Magari può essere utile per il dna. -

-            Tu sei ancora un poliziotto, mio caro sassofonista. – commenta, divertito.

Io vado a prenderlo, ben chiuso in un sacchetto di plastica e lui butta nel sacco anche quello.

-            Fammi un favore, adesso. Vai a dormire. – mi dice, con una voce tutta zucchero e miele.

-            Sono già in fase rem, se non te ne fossi accorto. – gli rispondo, senza spostarmi dalla porta e costringendolo a strofinarsi addosso a me, per uscire.

Dalle scale, si volta, mi fa l’occhietto e se ne va, ma forse l’ho solo sognato.

 

Esalazioni etiliche. Pensieri in libera uscita. Mi dedico ai soliti esercizi armonici, che ho trascurato per troppo tempo. Emetto note lunghe, impegnandomi a mantenere un suono uniforme su tutto il registro. Ormai, non temo più di disturbare nessuno, qualunque ora sia. I miei due grammi di pazienza sono esauriti. Penso alla perquisizione in casa di Lorenzo, e non suono come vorrei. O penso, o suono. Concentrati, Gaetano. Se ci saranno novità, qualcuno verrà a dirtelo, prima o poi. Suono e sudo, soffiando nel bocchino di ebanite, come se ne dipendesse della mia vita. Ma in realtà è un po’ così, la mia vita è appesa da tempo al mio sassofono Yamaha, ai cocktails che riesco a spararmi la notte, con il fermo proposito di stordirmi, alle due chiacchiere sui massimi sistemi che intavolo con i soliti beoni che ondeggiano a tempo di musica, davanti al mio bancone. Guardo l’orologio. Ho appena il tempo di farmi una doccia e scendere di sotto.

I ragazzi stanno già suonando. Rocco si destreggia tra tartine e cruditè. Io lo avevo preso in giro, ma hanno conseguito uno straordinario successo, soprattutto con le donne, che tra una fettina di pane tostato coperta da una fetta di sano lardo di Colonnata e un triste gambo di sedano, preferiscono il secondo. Stasera abbiamo anche ostriche. Stiamo esagerando. La profondità del mio spleen mi ha permesso di raggiungere concetti astratti al di là della ragione. Guadagno la pedana e inizio al mio sfogo. Ho tutta questa roba di cui liberarmi e che non vedo l’ora di buttare addosso a qualcuno. Ricomincio a sudare. Alle dieci arriva la vocalist ed io le cedo il microfono. Sono stanco. Raggiungo il bancone appena in tempo per bloccare Ferdinando che se ne sta andando.

-    Ehi, dove credi di andare? – gli urlo, per farmi sentire.

-    C’è troppo casino, qui. – mi risponde.

-   Vieni di sopra un attimo. –

Lui mi fa un cenno di assenso e ci troviamo nel retro.

-            Hai novità? –

-            Sì. – mi risponde, mentre usciamo.

Una volta in casa, avvolti da un relativo silenzio, ci andiamo a sedere sul divano.

-            Allora? –

-            La perquisizione non ci ha portato a niente. Lorenzo non c’entra nulla. Però ha ammesso che stava con Kora, da poco più di un mese. –

-            E sullo zerbino? –

-            Ancora non ho notizie, mi dispiace. –

-            Dunque, Lorenzo stava con Kora. Non ci posso credere. Cosa ci avrà trovato in un tipo come lui? –

-            La semplicità, forse. –

Io lo guardo. Un velo di barba gli scurisce le guance.

-            Certo è una dote che può affascinare. – ammetto.

-            Non so, può darsi che la tua amica fosse stufa di complicarsi la vita. –

-            Può darsi. Senti, mi sono sempre dimenticato di chiedertelo, ma era davvero una farfalla che aveva tatuata sulla nuca? –

-            Sì. –

-            Forse bisognerebbe tornare ad indagare sul tizio dei ritratti.-

-            Si era detto che Kora non gli avrebbe mai aperto. –

-            Kora no, è vero, ma se ad aprirgli fosse stato Lorenzo? –

Ferdinando mi guarda con una certa espressione, che non so decifrare.

-            Forse non ho finito, con il tuo bassista. –

-            Forse conviene aspettare le analisi sullo zerbino. –

-            Adesso devo proprio andare. Domani sono di turno al mattino. Ho bisogno di riposare. –

-            Vengo giù con te. –

Gli apro il portone.

-            Buonanotte, Ferdinando. –

-            Hai suonato con sentimento, stasera. –

-            Suono sempre con sentimento. –

Lui mi guarda in modo strano, e sembra pronto a ribattere qualcosa, ma poi ci rinuncia e abbassa gli occhi. Siamo vicinissimi.

-            Buonanotte, Gaetano. – mi dice, con una voce un po’ più profonda, che mi fa scorrere un brivido lungo la schiena.

Hey, che mi sta succedendo?  Chiudo il portone e torno dietro al banco. Delia è nel bel mezzo di Summertime. Non le avevo chiesto di abolirla dalla lista?

 

Lunedì. Alle tre chiamo Ferdinando per accordarci sul cinema, ma non mi risponde. Gli mando un messaggio: “a che ora stasera?” Alle otto non ha ancora risposto e non risponde neppure alla seconda chiamata. Decido di andare da solo. Appena uscito dal portone, mi assale la nebbia. Una nebbia fitta come non ne vedevo da tempo. Mi passa la voglia. Invece di andare a prendere la macchina, arrivo in piazza, alla pizzeria da asporto. Mi faccio preparare due pizze e me le porto a casa. Scelgo un film dai miei dvd, Heat – La sfida, e lo inserisco nel lettore. Al Pacino e pizza ai peperoni: è il massimo della goduria. A metà della pizza, Al Pacino si rivolge alla moglie Diane, dicendole:

“Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere.”

Forse ho scelto il film solo per questa frase. Sto rimuginando sulla mia scelta, quando suonano al citofono. È Ferdinando. Alla buonora!

Fingo che non avessimo un appuntamento di massima, che non mi abbia dato buca e che non sia incazzato con lui. Lo saluto tranquillamente e torno a sedermi.

-            Siediti. Ti va una pizza? –

-            Magari. Sono affamato. –

-            Birra? –

-            Sì grazie. –

Vado in cucina e torno con le ordinazioni. Niente bicchiere. Gliele piazzo davanti, sul tavolino dove c’è già la mia, mentre il film scorre, nella nostra più completa indifferenza. Lui si tuffa sulla pizza come un affamato cronico del terzo mondo, con lo sguardo spaurito di chi teme che gliela portino via.

-            Mangia con calma, sennò ti resta sullo stomaco. – gli consiglio.

-            Fame. Non mangio da ieri sera. – riassume, per non perdere tempo.

-            Il tuo lavoro aiuta a mantenersi in forma. -

Non spreca fiato a commentare o ribattere, si attacca al collo della bottiglia senza battere ciglio. Mi viene da ridere. Vorrei chiedergli cosa gli è successo, ma piuttosto mi mangio le palle. Voglio proprio vedere che scusa trova. Quando finisce la pizza, si rilassa, appoggiando la testa allo schienale del divano. Io alzo il poggiatesta, accessorio che a suo tempo, insieme al poggiapiedi, mi ha convinto all’acquisto.

Lui mi guarda soddisfatto. Che diavolo ci fai qui?

Aspetto che dica qualcosa, ma dopo un po’ sento il suo respiro regolare. Dio, sta dormendo. Gli sollevo il poggiapiedi, spengo il video e gli butto addosso un plaid, poi spengo la luce centrale, lasciando accesa la piccola lampada vicino alla tv e me ne vado a letto.

 

Quando mi sveglio, sono le dieci. Non sono abituato a queste alzatacce. Mi ricordo del poliziotto in soggiorno e vado a vedere se c’è ancora. Ha lasciato il plaid perfettamente piegato. I cartoni della pizza  e le bottiglie vuote sono spariti. Vicino alla tv, ha lasciato un biglietto: “È bello avere un amico come te.”

Sorrido. Non è il primo che me lo dice. Sono la perfezione fatta amico. Mi faccio sempre i cazzi miei. So ascoltare. Non impongo consigli non richiesti. Non mi incazzo se ignorano quelli richiesti. So consolare con pochi semplici  accorgimenti: alcol, cibo, musica e una pacca sulle spalle. Quando spariscono, non li cerco. In fondo, è solo questo che tutti vogliono da me. Al poliziotto ho offerto anche un divano comodo su cui schiacciare un sonnellino. Mi sto allargando.

Guardo fuori. Ancora nebbia fitta e tutta una settimana davanti a me. È ora di fare colazione. Sta a vedere che oggi ci scappa anche un pranzo.

 

Già venerdì. Alle undici Delia attacca la serata con Besame Mucho. È impazzita? Cos’è questa? Una provocazione? Una punizione perché l’ho cazziata quando ha osato rifarmi Summertime? Come secondo pezzo ci mette Deedles’ Blues. Forse potrei perdonarla. Vedo entrare il tizio dei ritratti. Questa volta non voglio lasciarmelo scappare. Telefono a Ferdinando e lui mi chiede di bloccarlo con ogni mezzo, almeno per un quarto d’ora. Io estendo la notizia anche a Rocco. Tra tutti e due, saremo pure in grado di riuscirci. Mister X è affascinato dalla vocalist e non sembra avere alcuna intenzione di distrarsi. Beve con calma. Fuma. Si mette a scarabocchiare sul tovagliolo. Batte il tempo con un piede nervoso. Passa mezz’ora prima che il cellulare mi vibri nel taschino.

-            Abbiamo un agente appostato fuori dal locale. Puoi lasciarlo andare. –

-            Non ha nessuna intenzione di andarsene. –

-            Meglio così. Aprimi il portone. –

Vado ad aprire senza capire.

-            Perché entri da qui? – chiedo a Ferdinando.

-            Ho dimenticato la tessera. –

-            Per caso hai già bevuto? – gli chiedo, insospettito.

-            No, ho intenzione di cominciare adesso. –

-            Vieni, va. – dico, richiudendo il portone.

-            No, aspetta. – mi ferma, afferrandomi con vigore per un braccio.

-            Che c’è? –

-            Il sangue sullo zerbino è quello di Lorenzo. –

Io lo guardo nella luce giallognola della lampada a risparmio energetico. Lui mi lascia il braccio, ma mi resta per qualche secondo l’impressione di calore della sua mano.

-            Andiamo. – gli dico.

Ferdinando si issa su uno sgabello.

-            Con che cosa vuoi iniziare? –

-            Fai tu. – risponde distratto, cercando nello specchio il riflesso di Mister X.

Lui è ancora al suo posto, in adorazione di Delia. Spero che non abbia trovato una nuova vittima. Metto davanti a Ferdinando un Negroni e comincio a scolarmi il mio. Lui beve senza partecipazione, come recitando una parte all’unico scopo di mimetizzarsi con l’ambiente.

-            Sei in servizio? – gli chiedo, sporgendomi verso il suo orecchio.

Lui annuisce, sorridendo. Non mi sembra prudente che beva in servizio. Se l’avessi saputo, gli avrei dato del thè.

Mister X svuota il bicchiere e io me lo vado a riprendere, infilandolo in un sacchetto che ho preparato sotto il bancone.

Non vuole altro, quindi ne deduco che tra poco alzerà i tacchi. Alla pausa della band, infatti, si alza e va a pagare. Ferdinando lo segue dallo specchio. Quando esce, lui ritorna tra noi.

-            Fatta. – dice, con l’espressione soddisfatta che hanno certi ragazzini, quando hanno finito un’equazione.

Io lo guardo, sorpreso che non si butti alle sue calcagna.

-            Adesso puoi darmi da bere. – mi fa.

-            Ti sei appena scolato un Negroni. – gli ricordo.

-            Davvero? – chiede, scendendo dalle nuvole.

-            Parola mia. -

-            Sorprendente. Allora dammi un thè. –

-            Meglio. Quando stacchi? –

-            Un’ora fa. – dice, guardando l’orologio.

-            Forse è ora che tu vada a casa a dormire. –

-            Mi dai il bicchiere che hai messo nel sacchetto? –

-            Mi hai visto? –

-            No, ho immaginato. –

Prendo un sacchetto di carta da pane e ci ficco dentro il bicchiere. Poi vado nel retro e Ferdinando mi raggiunge, togliendomelo di mano.

-            Siamo una bella squadra. – commenta.

-            Io sono un freelander. – ribatto.

-            Grazie, comunque. – mi dice, appoggiandomi una mano sul petto, all’altezza del cuore.

-            Buonanotte, Ferdinando. –

-            Buonanotte, nottambulo. –

Non lo accompagno. All’improvviso non vedo l’ora che si tolga dalle palle e sparisca dalla mia vita.

Quando vado a pulire i tavoli, cerco il tovagliolo di Mister X e non lo trovo. Se l’è portato via. Il sospettato è sospettoso.

 

Finalmente Lorenzo si degna di tornare a suonare. È guarito. Non so come abbia preso la triste dipartita della sua ragazza, perché, come al solito, dal suo atteggiamento non traspare nulla, e ancor meno dalle sue parole. Tristezza o felicità, sul suo volto, hanno la medesima espressione, un po’ come su Harrison Ford. Fingo di non sapere nulla della perquisizione, né dell’interrogatorio a cui è stato sottoposto. Ho avvertito Delia del pericolo che può rappresentare per lei l’attenzione di Mister X e si è organizzata per farsi sempre accompagnare dai ragazzi. Meglio non correre rischi. 

 

Domenica sera. Il locale è ancora chiuso, quando arriva Lorenzo. I miei due neuroni devono essere già un po’ diluiti nell’alcol, perché altrimenti non farei quello che sto per fare.

-            Lorenzo, mi spieghi perché hai scambiato il mio stoino con quello di Kora, quando l’hai sporcato di sangue? –

Lorenzo mi guarda con espressione terrorizzata.

-            Non preoccuparti. Non lo dico a nessuno. Sono solo curioso. E poi, come ti sei tagliato? –

Lorenzo deglutisce un paio di volte, restando in silenzio.

-            È così tremendo quello che hai fatto, da non potermelo confidare? –

-            Io non ho fatto niente. –

-            Lo sapevo. Ne ero sicuro. Allora raccontami com’è andata.-

-            Quello ha detto di essere un amico di Kora e io l’ho fatto entrare. Sembrava lì per parlare, poi ha chiesto un caffè. È venuto in cucina con me, ha preso un coltello e me l’ha sventolato contro, urlandomi di sparire. Io indietreggiavo, indietreggiavo, ma alla fine, sulla porta, mi ha colpito, qui e qui. –  mi dice, mostrandomi la cicatrice sulla mano e toccandosi un fianco.

-            Fammi vedere. –

Lorenzo solleva la camicia e vedo un lungo graffio appena sotto le costole. Gli è arrivata di striscio, altrimenti adesso non starebbe qui a raccontarmelo.

-            È così che si è sporcato lo zerbino? –

-            Sì. Allora ho pensato che  se faceva lo stesso anche a Kora e trovavano il mio sangue, davano la colpa a me. Per questo l’ho portato di sotto. Lì nessuno ci avrebbe guardato. E poi sono scappato. –

-            E non hai pensato di venirci a chiamare? Magari potevamo aiutarla e quel tizio non le avrebbe fatto del male. –

-            Ma voi non lo sapevate che io stavo qui. Ti avevo detto che non potevo uscire, perché stavo male. –

-            Capisco. –

-            Peccato che quello la volesse tutta per sé, così adesso non ce l’avrà più nessuno. –

-            Già. –

-            Mi piaceva tanto, Kora. Io le piacevo, sai? La facevo ridere, e lei mi baciava sulla fronte. –

-            Ti baciava sulla fronte? –

-            Sì, per dimostrarmi che gli piacevo. –

-            Santiddio. – esclamo. Lorenzo mi ha messo al tappeto.

Chiamo Ferdinando e gli racconto tutto. Lui si precipita e porta Lorenzo di sopra, in casa mia. Quando scendono, mi viene vicino e mi dice:

-            Lorenzo ha riconosciuto Massimo Defeo dalle foto. –

-            E chi è Massimo Defeo? –

-            Il tizio dei ritratti. –

-            Ah, Mister X ha un nome. Hai abbastanza per arrestarlo? –

-            Sarebbe meglio trovargli il coltello in casa, ma dubito che sia così stupido. –

-            Non si sa mai. – commento. – Lorenzo sembra innocuo, ma temo che sia contagioso. –

-            Vedremo. Adesso scappo. –

-            Sì, scappa. Cerca di incastrarlo, quel bastardo. –

Ferdinando mi stringe in un abbraccio frettoloso e si dilegua. Non ti starai prendendo troppe libertà con me, mio caro sbirro? Mi attacco a una bottiglia di birra e mi perdo nel piacere di sentire la band al completo. Manco solo io. Perché sprecare questa splendida occasione?

 

Idee annacquate, sentimenti sfocati, movimenti che prendono iniziative arbitrarie, lontane dalle mie abitudini consolidate. Rassettare i cassetti della biancheria, impilare i piatti per dimensione e specie negli armadietti della cucina, spolverare i mobili anche se non sembrano averne un’apparente necessità. Davvero non so cosa mi stia accadendo. Ho bisogno di ordine, intorno a me. Potessi fermarmi un momento e farne anche dentro di me. Pensavo di essere al riparo, di aver trovato l’equilibrio perfetto, ma c’è qualcosa che mi disturba e il pensiero ci scivola sopra, come quando mi cade la saponetta nella doccia e non c’è verso di riafferrarla. Se prendo tempo, se la lascio là, so che prima o poi si asciugherà ed allora non potrà più sfuggirmi.

Le finestre splendono, le fatture sono in ordine, il locale è tirato a lucido e ho fatto gli ordini per i fornitori. È uno splendido primo lunedì di marzo. Ferdinando mi chiama per dirmi che ha bisogno di parlarmi.

-            Parlami. Sono tutto orecchi. – gli dico.

-            Adesso? –

-            No? E quando vuoi parlarmi? –

-            Stasera, a cena? – mi fa.

-            Va bene. – dico.

-            Ti porto in un posticino che conosco. –

-            D’accordo. Dove ci vediamo? –

-            Lì da te. –

-            Allora ti aspetto. –

Che non sia come quella volta, sennò ti strappo la tessera del club e ti inserisco nella lista nera degli indesiderati.

Giacca blu sopra jeans e camicia azzurra, cravatta Pierre Balmain - Paris, polacchine Clarks, un moderato spruzzo di Agua Brava, reperibile ormai solo nel paese di produzione. Le otto. Decido di andare di sotto a farmi un aperitivo. Oggi sono stato bravo, ho bevuto solo acqua, una specie di penitenza che il mio fegato deve aver gradito, perché non si è ancora fatto vivo.

Non faccio in tempo a scendere l’ultimo gradino, che suonano al portone. Apro in tempo record. Ferdinando mi guarda stupito.

Ho fatto troppo presto?

-            Ciao, nottambulo. –

-            Ciao, Ferdinando. –

-            Beh, allora andiamo? –

Esco in strada, chiudendomi il portone alle spalle. Ferdinando mi precede verso la sua macchina. Ha una Ford Ka Leather Collection con i cerchi in lega, nera, che vista di profilo sembra il casco di Darth Vader, il cattivo in Star Wars. Quando mi arrotolo per entrarci, scopro che se non mi sposta il sedile, rischio il soffocamento. Lui ride, mi allarga lo spazio e poi lancia un giornale sui sedili posteriori. Partiamo a razzo verso destinazione per me ignota. Guida bene, anzi benissimo. Riesce ad essere veloce e prudente allo stesso tempo, scattando e frenando con sicurezza ed abilità.

-            Sei silenzioso, stasera. Sei di quelli che in macchina non stanno tranquilli se non reggono il volante? –

-            No. Sono di quelli che preferiscono farsi scarrozzare, piuttosto che togliere la macchina da un buon parcheggio.–

-            Bene, allora siamo contenti tutti e due. –

-            Dove stiamo andando? –

-            Sorpresa. – mi risponde, con un sorrisetto.

Così metto piede per la prima volta nel locale della concorrenza. Il posto si chiama Summertime, un nome che comincio ad odiare, bar ristorante con aspirazioni jezzistiche. Niente musica dal vivo, almeno non sarò costretto a fare confronti. Ferdinando ha prenotato un tavolo d’angolo. Sono i miei preferiti, perché puoi guardare in ogni direzione, con la certezza che nessuno ti stia osservando la schiena. Ferdinando ha un’espressione rilassata. Studiamo il menù, con qualche commento sagace, interrotto dall’arrivo del cameriere in gilè stile Arbore and friends.

-            Avete deciso? –

Odio questa domanda, soprattutto se non è preceduta da un educato “buonasera”.

Ferdinando si lancia in un’ardita combinazione di antipasto di mare, spaghetti al cartoccio e grigliata mista. Quando mangia, lo fa sul serio. Credo che faccia così per ogni cosa. Il cameriere aspetta le mie decisioni, ma per quanto mi riguarda, sono ben lungi dall’aver deciso alcunché. Così, per toglierci tutti dall’imbarazzo, mi limito a dire:

-            Per due. –

-            Vino? – ci chiede.

-            Posso vedere la carta dei vini? –

Il cameriere si allontana per un attimo e torna con la carta, porgendomela con un “prego”. Mi pare che vada già meglio.

Studio per qualche secondo la scelta dei bianchi, ripensando a quello che mangeremo e abbino mentalmente.

-            Ci porti un Vermentino di Gallura e poi, con la grigliata, un Verdicchio di Matelica. –

Il cameriere mi fa un inchino e se ne va, per bloccarsi di colpo, tornare indietro e chiedere:

-            Vi porto anche dell’acqua? –

-            Sì, grazie, avete la Vichy? – risponde Ferdinando.

-            Certo, signore. -

Soddisfatto, finalmente, si dirige a passo spedito verso la cucina.

-            Acqua di Vichy? – gli chiedo, ironico.

-            Era per metterlo in imbarazzo. Non ha nemmeno salutato.–

-            L’hai notato anche tu? –

E ci mettiamo a ridere, non so perché, ma è un’esplosione così spontanea e naturale, che mi fa star bene.

-            Non ti avevo mai visto con la cravatta. Ti sta bene. – mi dice Ferdinando.

-            Grazie. – rispondo – E tu sei molto elegante. Dovresti proprio abbandonare tutto quel nero che metti di solito. –

-            È la mia divisa. Non riesco a farne a meno. –

-            Di che cosa volevi parlarmi? –

-            Di me. Devo lasciare la casa che ho in affitto, allora ho pensato, quando si decideranno a togliere i sigilli dall’appartamento di Kora, che ne diresti di affittarlo a me? –

Non c’è ragione al mondo per cui non dovrei acconsentire alla sua richiesta, eppure un pensiero mi scivola nella testa, come la solita saponetta.

-            Certo, perché no? –

Perché continuerò ad averlo sempre intorno. Perché non potrò allenarmi al sax ad ogni ora, come faccio adesso. Perché potrebbe diventare invadente. Perché potrei innamorarmi di lui. Eccolo, il sapone. Lo sapevo che l’avrei acchiappato, prima o poi, nonostante la sua schiuma. 

-            Sai, non devi preoccuparti per il rumore. Io riesco a dormire anche in una discoteca. Potrai continuare tranquillamente a fare tutto quello che fai. Non mi disturberà affatto. Non ti accorgerai nemmeno che esisto. –

-            Con gli orari che fai, lo credo. –

-            Lo sai com’è il nostro mestiere. Non si possono fare programmi. Non esistono le domeniche, né i Natali, né i Capodanni. Noi siamo sempre a disposizione. –

-            Lo so. È uno dei motivi che mi rendono felice di aver cambiato mestiere. In effetti non è un lavoro, è una missione. –

Arrivano le bevande e, subito dopo, gli antipasti, con un cestino di piccoli panini al sesamo, ai semi di papavero e alle olive. Per cinque minuti ci dimentichiamo di parlare.

Io ne approfitto per rimettere ordine nei pensieri. Questa storia di averlo per inquilino mi mette ansia. Sento le barricate che si rinsaldano e si rinforzano, là dove la distrazione e la noncuranza avevano lasciato cadere qualche asse. Sento i chiodi conficcarsi bene a fondo nel legno, per sostenere la struttura portante della mia condizione di irriducibile lupo solitario, inespugnabile come la Fortezza da Basso. Adesso sono più tranquillo.

Ferdinando si complimenta per la scelta dei vini, torna a dirmi come gli piaccia il mio modo di suonare il sax, quanto abbia ammirato la maniera con cui ho gestito lo pseudointerrogatorio di Lorenzo. Ma le sue manovre non mi toccano più. Io sono già da un’altra parte, dove non c’è spazio che per me, il mio locale, la mia musica e il mio modo di vivere da gufo.

Quando mi riaccompagna, lo ringrazio per la serata e scendo dalla macchina con un semplice buonanotte, guardandolo negli occhi solo per una frazione di secondo.

 

Giovedì alle dieci, con la solita odiosa noncuranza, Ferdinando mi sveglia per  dirmi qualcosa che non può aspettare. I miei capelli sono più sconvolti del solito e la mia faccia deve essere uno spettacolo. Ieri sera ho esagerato con gli assaggi.

-            L’abbiamo preso. – afferma, eccitato.

-            Chi? – gli chiede il mio unico neurone risvegliato dal coma.

-            Il ritrattista. Aveva in casa il coltello. Avevi ragione tu, Lorenzo dev’essere contagioso. –

-            Bene, allora è finita, finalmente. – commento, sbadigliando incontenibilmente.

-            Sì, la nostra parte l’abbiamo fatta. Adesso passa tutto in altre mani. –

-            Sono contento. – affermo, inserendo il pilota automatico.

-            Torno stasera per brindare. –

-            O.k.  rispondo, senza sapere a che cosa.

-            Torna a dormire. Stai cascando dal sonno. – dice, soffermando il suo sguardo a mandorla nel mio.

-            Non mi ero accorto di essere sveglio. – rispondo, chiudendogli la porta in faccia, con l’unica certezza che adesso posso continuare a dormire in una posizione più comoda.

 

Con l’annuncio che hanno arrestato l’omicida, spargo un balsamo benefico sulla mia band e sul mio braccio destro. Sono tutti soddisfatti dalla svolta delle indagini. Lorenzo mostra sempre la medesima espressione, ma quando inizia a suonare, ci mette una leggerezza che ha il sentore del sollievo. Anche il mio sound si adegua e prende il volo, ricordandomi una farfalla che si era posata sulla nuca di una deliziosa ragazza, che nei miei ricordi sarà sempre vestita con un babydoll nero, autoreggenti e tacchi a spillo.

Intorno alle undici, mi cade lo sguardo su un tavolo, dove sono seduti Delia e Ferdinando. Entrambi in divisa nera, con i capelli neri, hanno un aspetto inquietante. Finisco il pezzo e presento la vocalist. Ti pago per cantare, non per stare là a ciangottare con uno sbirro fuori servizio. Scendo dalla pedana, facendo un cenno di saluto a Ferdinando e vado nel retro a riporre il sax nella custodia. Sono sudato fin nelle mutande, così decido di salire un momento in casa per cambiarmi. Mentre sto per affrontare le scale, sbuca dal retro Ferdinando.

-            Dove scappi? –

-            Devo cambiarmi. Torno subito. –

-            Vengo con te. –

Non so come dirgli di restare dov’è, senza offenderlo. Quindi, nel dubbio, sono costretto a tacere.

Entra in casa con me e va a sedersi sul divano. Io vado a ficcarmi sotto la doccia, giusto due minuti. Poi mi asciugo i capelli con un asciugamano e mi cambio. In tutto otto minuti. Torno in soggiorno e trovo Ferdinando che dorme beatamente. Questa storia è ridicola. Lo lascio dov’è e torno di sotto. Rocco è un po’ sottosopra. Da solo non ce la fa.

-            Vai alla cassa, Rocco. Qui ci penso io. – gli dico.

-            Stasera eri proprio in vena. Hai suonato da mito. –

-            Serata in onore di Kora. Doveva essere così. –

-            Che ne diresti di appendere una sua foto? –

-            E Lorenzo? No, meglio di no. Ce la ricorderemo lo stesso, vedrai. –

-            E il poliziotto che fine ha fatto? –

-            Sta dormendo di sopra. –

-            Si è scolato tre Bronx. Mi sa che non lo svegli neanche con le cannonate. –

-            Non ho nessuna intenzione di svegliarlo. –

Alle cinque torno di sopra. Ferdinando è coricato sul divano in una posizione molto più comoda. Gli butto addosso il solito plaid e me ne vado a dormire.

Quando mi sveglio, all’una, il plaid è ben ripiegato sul tavolino, accanto ad un biglietto con su scritto “Il Bronx non mi frega più. Comunque potevi pure svegliarmi, stavolta mi mettono in punizione.”

 

Arrivo fino al lunedì senza chiedermi se in punizione ce l’abbiano messo oppure no. È decisamente primavera e il mio unico obiettivo è di andarmene a passeggiare in un parco. Mi compro il giornale e lascio a malincuore il miglior parcheggio dell’anno, proprio di fronte al locale. Faccio benzina e dirigo fuori città. Non ho idea di dove stia andando, ma appena trovo il posto giusto, ho intenzione di fermarmi.

Guido da un’ora e mi convinco che il posto giusto non esiste. Torno indietro. Se non riesco a sentirmi “giusto” dentro, nessun luogo al mondo potrà regalarmi questa sensazione. È con me stesso che devo sentirmi a posto. Adesso non vedo l’ora di tornare a casa e mettermi a suonare.

Quando arrivo, sono travolto dal miracolo di trovare subito un parcheggio, dietro una Ford Ka nera. Scendendo dall’auto, le passo di fianco, senza badarci. Una strombazzata di clacson mi fa sobbalzare. È Ferdinando.

-            Che ci fai qui? –

-            Ti aspettavo. –

-            Vieni su. – gli dico, burbero ma rassegnato.

Il mio entusiasmo lo commuove. Lo capisco dalla sua espressione. Ma Ferdinando è uno che non demorde. Purtroppo, ho capito anche questo. Una volta in casa, senza una parola, mi si avvicina e mi si avvinghia addosso, imponendomi un bacio che sembra voglia risucchiarmi anche l’anima. Vorrei scrollarmelo di dosso, ma quello che mi si smuove nel basso ventre non sembra affatto essere d’accordo. Ferdinando si stacca da me e mi guarda dritto negli occhi.

-            Scusami. È stato più forte di me. – dice ansimando.

Io lo fisso a mia volta e intanto comincio a spogliarlo. Ferdinando fa un sospiro di sollievo.

-            Non ero sicuro che lo volessi anche tu. –

-            Nemmeno io sono tanto sicuro di volerlo, ma ormai che ci siamo… -

Gli afferro il membro e stringo forte. È duro come l’acciaio. In un attimo siamo già nudi sul divano. Non pensavo di potermi eccitare così tanto. Ferdinando ha un corpo perfetto, sembra una statua greco-romana. Lo sguardo dei suoi occhi a mandorla mi turba profondamente. Capisco da come si muove che per lui non è la prima volta e la sua esperienza mi tranquillizza, perché io non so cosa fare. È tutto così inaspettato e meraviglioso che sento come sciogliersi le ossa. E il duro nodo aggrovigliato nella mia anima pare sciogliersi di pari passo. Non sono mai stato tanto bene in vita mia.

 

 

Oddio, che sogno assurdo. Apro gli occhi.

Sogno? Ferdinando dorme tranquillamente accanto a me, con la testa appoggiata su un cuscino. Dio, quanto mi piace. Dio, se vorrei innamorarmi di lui. Ma che dico? Lo sono già. Ero convinto di non volere legami e adesso... “Che stai facendo?” mi urla una voce dentro. Faccio l’unica cosa che devo fare, per tornare tutto intero. Non sarebbe stupendo svegliarmi ogni tanto con lui accanto, come in questo momento? Lo sveglio? No, mi piace guardarlo dormire. Mi piace ridere con lui, osservarlo mangiare di gusto, vederlo concentrato nei suoi pensieri, ammirarlo mentre guida la sua macchina.  Mi piace come mi guarda attraverso i suoi inquietanti occhi a mandorla, sentire la sua voce da brivido, calda e un po’ roca.

-            Non guardarmi così. – mi dice ad occhi chiusi.

-            Come ti guardo? – lo sfido.

-            Come uno che stia prendendo una decisione troppo importante. – mi dice, voltandosi a guardarmi anche lui.

-            Sei bellissimo. –

-           Anche tu. Baciami. Avremo tutto il tempo, per le decisioni.-

 

 

 

 

 

 

 

 

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