Sogni a colori

di Federico Volpe

 

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A Ferdinando Neri

 

Alan se n’era andato, lasciando Ramòn da solo al tavolino del bar, seduto a mezzo metro dal mare che quella notte sembrava una lastra di ossidiana. Chissà come sarebbe stato buttarsi di testa e scomparire al largo con poche rapide bracciate? Qualcuno se ne sarebbe accorto? Non Alan, di sicuro, che ormai era scomparso da tempo dietro l’angolo del bar.

Inutile farlo, pensò, decidendo di tornare in albergo. Non aveva alcun senso restare là.

Passando davanti ad una vetrina, vide il nuovo Visore Dreams Autoprogrammante, reclamizzato da un cartonato ad altezza d’uomo, con il prezzo proprio davanti ai suoi occhi, a caratteri cubitali: 2000,00 euro. Per un giocattolo del genere, un costo davvero esorbitante, nonostante le funzioni che prometteva.

Ma quella notte Ramòn era spinto da un profondo senso di disagio. Sentiva insieme un convulso bisogno di gratificazione, di rivalsa e di consolazione. Il cliente perfetto.

 

Tornato in albergo, Ramòn si sdraiò sul divano. Aveva la mente straripante di domande oziose, di quelle che non possono trovare risposta. Naturalmente avrebbe voluto rivolgerle ad Alan, ma sapeva perfettamente che non se ne sarebbe ripresentata l’occasione. Si sentiva desolatamente smarrito, e per giunta tradito da se stesso. Come aveva potuto sprofondare così completamente in quella stupida illusione?

La risposta era semplice: un carattere solare ma determinato, un’ottimismo ironico per opporsi alle spiacevolezze della vita, uno e ottanta di fascino bruno e due occhi neri, grandi e profondi come pozzi prosciugati. Questo era Alan, che viaggiava nella vita attraversando con passo sicuro frontiere di ogni paese, mai timoroso di superare alcun confine, tranne quella notte. Per renderlo ancora più irresistibile ai suoi occhi, Alan possedeva una voce roca e profonda, di quelle che ti mettono in risonanza come un diapason. Fu con essa che ordinò una birra ghiacciata al barman che gli si era piazzato di fronte con sguardo interrogativo, strofinando il bancone con gesti precisi. La lama di quella voce aveva raggiunto Ramòn, infilzandolo al cuore. 

Era stato semplice agganciarlo. Dopo la prima birra, si erano trasferiti fuori, sedendosi ad uno dei tavolini distribuiti proprio sul bordo del molo. Il buio, solo lievemente rischiarato da una candelina posta su ciascun tavolo, li aveva portati a parlare a bassa voce, spingendoli ad una confidenza tanto immediata ed intima da sembrare innaturale. Si erano raccontati di tutto, studiandosi a vicenda. Ramòn aveva i capelli rosso tiziano, la carnagione chiara, lievemente spruzzata di leggere efelidi, gli occhi celesti. Aveva la bocca carnosa ed un sorriso che tratteneva sul bordo dei denti, con una specie di timidezza controllata, come avesse temuto di esagerare. Il naso era sottile e una ruga verticale già segnava la pelle tra le sopracciglia, dovuta all’espressione concentrata con cui affrontava qualunque impegno. La corporatura  slanciata lo faceva sembrare più alto, impressione accresciuta dalle gambe decisamente lunghe.

Alan era bruno, col volto squadrato e gli zigomi alti, folte sopracciglia nerissime, un naso importante e labbra ben disegnate. Un velo di barba gli scuriva il viso abbronzato. Era più alto di Ramòn e più robusto. Aveva un sorriso ampio, che però sembrava fermarsi alla bocca, senza coinvolgere gli occhi. Le sue mani erano grandi e davano un’impressione di forza e solidità. Quelle di Ramòn, lunghe e affusolate, soffrivano a tratti di un lieve tremore, che nascondeva gesticolando. Alan era un fotografo freelance, che girava il mondo per passione. Ramòn lavorava a Burgos, in uno studio pubblicitario.  

    

Visore Dreams Autoprogrammante.  Ma vale davvero la pena di sognare, quando sappiamo che i nostri sogni non potranno mai avverarsi?

 

Ramòn era appena sbarcato a Rodi, che già sentiva il respiro più libero, come se un peso enorme gli fosse stato rimosso dal petto. Il sole splendeva in un cielo d’un azzurro eclatante. Aveva osservato dal traghetto l’isola che lo accoglieva come in un abbraccio. Erano passati attraverso le due colonne su cui un cervo ed una cerva li guardavano scorrere sull’acqua con indifferente alterigia. Alla sua destra sfilava la Rocca, alla sinistra i mulini con i tetti rossi che sovrastavano il molo, affollato di piccole barche colorate, cariche di spugne gialle stese ad asciugare.

Appena si fu svegliato, nel letto della sua stanza d’albergo, Ramòn si sentì totalmente felice. Erano trascorsi dieci giorni, da quando aveva conosciuto Alan. Dopo aver scoperto di essersi innamorato di lui, glielo aveva confessato, ed ora era in trepidante attesa. Alan, infatti, non gli aveva risposto subito, ma gli aveva chiesto di poterci riflettere sopra. Aveva avuto tutta la notte per riflettere, mentre Ramòn sapeva con certezza che tutto sarebbe filato liscio. Non vedeva alternative. Non esistevano bivi davanti ai quali scegliere una direzione, non esisteva un “troppo presto” né “un troppo tardi”, quello era l’amore che aveva sempre atteso. Quello era il momento. Aveva raggiunto lo striscione del traguardo.

Guardò l’orologio. Tra poco Alan sarebbe arrivato. Fece una doccia veloce, si asciugò i capelli con un asciugamano, ne avvolse un altro attorno ai fianchi e si affacciò sul balcone, in ombra. L’aria era calda, ma non soffocante. Un vento leggero portava il profumo del mare. Sentì bussare alla porta, con un tuffo al cuore. Era Alan. Aprendogli la porta, fu colpito dal suo sorriso che, per la prima volta, nasceva dalle labbra e dagli occhi contemporaneamente.

-            Scusami per ieri sera. – esordì, con la sua voce roca che gli faceva correre un brivido lungo la schiena.

-            Non c’è niente da scusare. –

Poi i loro volti si avvicinarono, con lentezza esasperante, fino a che le loro bocche non si raggiunsero. Alan fece cadere in terra l’asciugamano che Ramòn aveva stretto intorno ai fianchi e Ramòn iniziò a sbottonare la camicia di Alan, lentamente, un bottone alla volta, accarezzando man mano i riquadri di pelle scoperta che riusciva a raggiungere, un capezzolo, poi l’altro, sentendo il loro turgore che cresceva, sentendo il respiro di Alan farsi più affrettato nel cavo della sua bocca. Tutto era come doveva essere. Tutto accadeva al momento giusto. La camicia di Alan cadde per terra, accanto all’asciugamano, i calzoni sul tappeto, mentre, con passi impercettibili, si avvicinavano al letto. Il ticchettìo dell’orologio. Una lama di luce solare che attraversava la stanza in diagonale. Una musica lontana che giungeva attraverso la portafinestra aperta sul balcone. L’odore del mare. Gli occhi neri di Alan in cui sprofondare, ipnotici, magnetici, contro il suo sguardo di acquamarina, limpido come un cristallo, impregnato di un amore profondo e insondabile, il corpo e l’anima presi in un laccio impossibile da sciogliere.

-            Non farmi del male, non potrei sopportarlo. – sussurrò Alan, vicino al suo orecchio.

-            Non potrei mai fartene, ti amo. -

-            Sono proprio quelli che ti amano che riescono a farti più male. -

Ramòn non rispose. Le sue mani percorsero la schiena di Alan graffiandolo, fino ad affondare nei suoi glutei. Alan lo spinse sul letto con sorprendente energia. Tutti i loro movimenti si fecero più veloci e frenetici, come se qualcuno avesse schiacciato un pulsante per disinserire il rallenty. Sospiri e gemiti si confusero al sudore che presto iniziò a scorrere sui loro corpi lucidi, evidenziando i muscoli che guizzavano sotto la pelle. Poi, nel buio che calò improvviso, apparve un led rosso intermittente, che gli comunicò: DREAM OVER.

 

Ramòn sganciò il visore e lo gettò sul divano. Avrebbe potuto andare avanti all’infinito. Quel sogno lo aveva preso come una droga. Gli fu più chiaro a cosa servisse il timer. Stabilire una durata per il sogno era essenziale, se non si voleva rischiare di restare collegati per sempre. Quell’aggeggio infernale era pericoloso. E infatti si sentiva tentato di riprendere subito tutto da capo, dal momento in cui Alan lo aveva guardato attraverso il tavolino del bar, e il suo volto intriso di malinconia gli aveva mostrato un inaspettato lato del suo carattere, la paura di lasciarsi andare. In quel momento lo aveva perduto. Da quel momento doveva ricominciare il suo sogno, per imboccare il bivio nella direzione giusta. Accarezzò il visore abbandonato accanto a sé.

“Prendi la pillola blu, e la storia finisce qui. Ti svegli nel tuo letto e puoi credere a quello che vuoi credere. Prendi la pillola rossa, stai nella terra delle meraviglie e ti mostro quanto è profonda la tana del Bianconiglio.” Ma quello non era Matrix, era la sua vita. Valeva la pena di viverla senza aiuti, senza sostanze psicotrope, senza realtà virtuali, nonostante facesse così male? Forse, dopotutto, sarebbe stato il primo. Nessuno si accontentava più della propria banale esistenza. E lui? Ce l’avrebbe fatta?

Dopo quella prima sera, si erano frequentati assiduamente. Ramòn aveva ben presto scoperto che l’ironia di Alan era un’arma a doppio taglio. Era tesa a divertirlo, nascondendo, nello stesso tempo, quanto lo rendeva malinconico. La sua voce graffiante continuava a procurargli brividi lungo la schiena, che lo distraevano dalla conversazione. Alan allora lo scrutava in un certo modo, sollevando un sopracciglio, riportando Ramòn con i piedi per terra. Gli chiedeva a cosa stesse pensando e lui si sentiva arrossire. Sperava che non fosse evidente. Non aveva ancora il coraggio di confessargli che si stava innamorando di lui. Si conoscevano appena. Ramòn non aveva esperienza. L’unico con cui avesse avuto una storia era stato Jaìme. Ma era passato un po’ di tempo, da allora.

Poi, quella notte, aveva guardato Alan, seduto di fronte a lui, perdendosi nel suo sguardo.

Alan gli aveva sorriso, in quel suo modo aperto e affascinante, e Ramòn non era più riuscito a tacere. Ma qualcosa decisamente non aveva funzionato. Man mano che lui gli confessava la verità, Alan si era sempre più rattristato, finché Ramòn, comprendendolo, non si era interrotto a metà di una frase, costernato.

-            Non mi fraintendere, Ramòn. Tu mi piaci moltissimo, davvero. Ma io non me la sento più di affrontare queste storie che durano il breve spazio di un mese. –

-            Non era a niente del genere che stavo pensando. – lo contraddisse Ramòn.

-            Ti dico io cosa succederà. Tu te ne andrai a Burgos ed io chissà dove. All’inizio ci sentiremo al telefono, magari tutti i giorni, poi, man mano, sempre più di rado. Ci incontreremo, qualche volta, di sfuggita, magari a Londra, a Parigi, a Roma, ma un giorno tu ti stancherai e mi dirai che è finita, come è giusto. Ci sono già passato. Credimi, non piacerebbe neanche a te. –

-            Quello che provo per te non ha niente a che fare col bel quadretto che hai disegnato. Io ti amo davvero. –

-            Se saperlo può esserti di qualche conforto, anch’io ti amo. Ma non voglio più soffrire. Meglio farla finita subito. –

Calò un silenzio carico di infelicità.

-            Se è questo che vuoi… - mormorò Ramòn, avvilito.

-            È meglio per tutti e due, te lo assicuro. – affermò Alan, alzandosi.

Gli strinse forte una spalla e sparì nella notte, lasciandolo incurabilmente solo, davanti ad un mare di ossidiana. 

 

Ramòn preparò in fretta le valigie e lasciò l’albergo dopo aver affidato al consierge una busta per Alan. Avrebbe dovuto consegnargliela se si fosse fatto vivo. Sapeva che non sarebbe accaduto, ma era come concedersi il lusso di offrire un’ulteriore possibilità ad un destino distratto.

L’aereo lo portò a Madrid in una caldissima giornata di luglio. L’afa era come una coperta soffocante che non potevi toglierti di dosso. Il taxi lo depositò alla stazione, dove salì su un treno per Burgos. Alle dieci di sera era già a casa, terribilmente solo, incredibilmente affamato e orribilmente depresso. 

Al crepuscolo di un sabato pomeriggio di fine agosto, Ramòn passeggiava lentamente dalla Plaza del Cid al Paseo del Espolòn, il bel viale alberato che correva parallelo al fiume Arlanzòn. Intorno a lui una folla eterogenea faceva lo stesso, muovendosi in entrambe le direzioni. Deliziose fontane in pietra nera regalavano un illusorio senso di frescura, ma lui nemmeno le vedeva. Una volta giunto all’Arco de Santa Maria, lo attraversò, emergendo nella piazza della Cattedrale, vero trionfo del gotico, tanto splendida ed imponente da farlo sentire ogni volta piccolo ed insignificante. Con un sospiro si sedette sugli scalini che fronteggiavano la fontana con la statua della Madonna. Accese una sigaretta ad alta concentrazione di nicotina, fregandosene della sua salute. Il cielo si era scurito, assumendo quel profondo color cobalto su cui le stelle sembravano attaccate a testa in giù.

-            Hai da accendere? – chiese una voce graffiante alle sue spalle, facendolo sussultare.

Ramòn si voltò.

-            Alan! Che ci fai qui? – chiese, rabbrividendo.

-            Ti cercavo. –

-            Beh, mi hai trovato. –

-            Lo vedo. – affermò Alan, scendendo due gradini per sedersi accanto a lui.

Ramòn non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Diviso tra lo stupore e l’emozione, non trovava le parole per dirgli quanto fosse felice di rivederlo. Così Alan ebbe il tempo di precederlo.

-            Mi sei mancato. Ho capito di aver sbagliato tutto, ma quando mi sono deciso a venirti a cercare in albergo, mi hanno detto che eri tornato a casa. Poi mi hanno messo in mano una busta. Grazie per averci creduto, per avermi offerto una possibilità. –

-            Non riuscivo ad abbandonare tutte le speranze. Perché non mi hai chiamato? –

-            Preferivo vederti. –

-            Hai fatto bene. Non sai quanto mi renda felice che tu sia qui. –

-            È così anche per me, Ramòn. –

La notte stese un velo di ombre blu, solo a tratti rischiarate da chiazze di luce ambrata, proiettate da lampioni dall’aspetto vetusto. Alan camminava accanto a lui, col suo passo regolare e silenzioso. Il mondo sembrava risorto a nuova vita, dopo un incubo che lo aveva soffocato in una nebbia grigia e fredda. Ramòn ritrovava il piacere di notare quanto lo circondava. La piastrellatura a grossi riquadri di basalto lucido, le piantane di ferro sbalzato dipinte di verde scuro, le foglie lucide dei tigli, lo sbatacchiare dei becchi di cicogne che si richiamavano da un tetto all’altro, il mormorio del fiume che saltava sulle rocce, la lieve risacca lungo il margine sabbioso. Il mondo acquistava nuove consistenze, accanto ad Alan. Tutto sembrava magnifico, più reale, più vivido. Ramòn condusse Alan nel suo appartamento. Si scusò per la confusione. In quel periodo si era lasciato un po’ andare. Aveva perso la voglia di vivere. Anzi, si era perso.

Alan lo abbracciò stretto, così forte da soffocarlo, lasciandolo senza fiato. Poi gli sussurrò in un orecchio:

-            Dimmi che non è cambiato niente per te. Dimmi che vuoi ancora stare con me. –

-            Sì, se mi lasci respirare. – rantolò Ramòn.

Alan allentò la presa, ridendo.

Poi afferrò l’orlo della sua polo e gliela sfilò dalla testa, gettandola su una sedia. Si spogliò in fretta della sua e sganciò la cintura di Ramòn, mentre lui tentava di fare lo stesso con quella di Alan, impacciato dall’intreccio delle loro braccia, dalla fretta di vederlo nudo, dall’emozione che lo sopraffaceva, da un vago senso di urgenza, di cui si chiedeva sconcertato il motivo. Poi, nel buio che calò improvviso, apparve un led rosso intermittente che gli trasmise un messaggio ferale: DREAM OVER. Merda!

 

Si sfilò il visore. Sognare avrebbe potuto davvero diventare l’unico scopo della sua vita. Ma non era proprio ciò a cui si era sempre opposto, con tutte le sue forze? Perché l’abbandono di Alan lo aveva ridotto a quella larva senza più spina dorsale? Che non fosse mai stato forte, lo sapeva benissimo, ma che la sua debolezza fosse tanto profonda, lo stupiva davvero. Aveva vissuto senza Alan per tutta la vita. Continuare a vivere senza di lui, non avrebbe dovuto essere tanto difficile. Cos’aveva Alan che non avrebbe potuto trovare in un altro? La delicatezza con cui si informava dei suoi stati d’animo, per esempio. La sua empatia. L’ironia con cui sapeva scacciare i suoi momenti cupi. L’ottimismo con cui sapeva trasformare le difficoltà in nuove opportunità. Quel suo sorriso contagioso. Quella malinconia che lo coglieva impreparato, ma che subito gli nascondeva, distraendolo con qualche battuta. Quella voce incredibile. Quei suoi occhi. Persino le sue mani. In nessun altro li avrebbe mai ritrovati. E se l’unico modo per possederli ancora, fosse stato l’uso del visore, ebbene, lo avrebbe usato, a dispetto dei suoi inutili princìpi.

Si rese conto che fuori era buio pesto, che non aveva mangiato né bevuto nulla in tutto il giorno e che era rinchiuso in quella stanza da ore. Scese al ristorante dell’albergo che fortunatamente chiudeva molto tardi. Mentre mangiava, si scolò un’intera bottiglia d’acqua. Gli sembrò di rinascere.

Chissà dov’era Alan? Cosa stava facendo? Pensava a lui o lo stava già cancellando? Come era possibile che un incontro tanto promettente si fosse trasformato in quella catastrofe? Conoscere Alan era stata la cosa più bella che gli fosse capitata negli ultimi due anni. Lo aveva reso profondamente felice. Gli aveva restituito speranze che pensava di non poter più nutrire, ma lo aveva precipitato in un pozzo di dolore tanto profondo da fargli temere di non poter più riemergere. Gli sembrava di avere di fronte un futuro grigio e patetico, del tutto privo di prospettive. Tutti i suoi sogni erano finiti nel cassonetto. Non gli restava nient’altro che andarsene.

Domani. Domani me ne andrò. Ma prima butterò via il visore. Se è per continuare a farmi del male col sogno di Alan, non vale la pena che me lo porti a casa.

 

Benché fosse passata mezzanotte, in centro ferveva la vita. Le bancarelle si ostinavano ad offrire cappelli di paglia e occhiali da sole anche se in quel momento nessuno poteva sentirne il bisogno. Mentre camminava fu investito da una cacofonia di suoni che lo frastornò. Ogni singolo locale diffondeva la sua musica. La gente chiacchierava ad alta voce, i bambini correvano urlando, qualcuno suonava un violino, con la custodia aperta sul selciato, sperando di attirare qualche mancia. Ramòn si allontanò in fretta da tutta quella confusione, rifugiandosi al bar del molo. Si sedette in riva al mare. Sul tavolino guizzava una fiammella consumata che stava per esalare l’ultimo respiro. Aspettò che si spegnesse, poi si accese una sigaretta, mandando a spasso lo sguardo sulla superficie del mare, nella zona in cui si concentravano frenetiche splendenti monetine di luce argentea, create dalla luna che si rispecchiava da un cielo di profondo velluto nero.  

Avrebbe voluto che Alan fosse accanto a lui, come durante le notti precedenti. Se solo gli avesse taciuto i propri sentimenti! Avrebbe voluto possedere un tasto rewind per riavvolgere quel film. Si chiese cosa avrebbe cambiato davvero. Fino a dove si sarebbe spinto indietro? A prima di conoscerlo? A prima di decidere quella vacanza a Rodi?

A prima… a prima… a molto prima… Stop.

 

Al giorno del suo venticinquesimo compleanno.

Jaìme era arrivato in moto. Si era liberato del casco e gli aveva sorriso, scendendo dal suo bolide con un’elegante movimento, avvolto nella sua tuta di pelle nera. Si era avvicinato al cancello con il casco sotto il braccio, tirando giù la lampo del giubbotto, con uno strattone secco.

-            Fa un caldo d’inferno. Dammi subito da bere, sennò svengo. –

-            Vieni in casa, spogliati. – gli consigliò Ramòn, distante anni luce dal pensiero che quell’invito potesse condurli tanto lontano. 

Jaìme gli piaceva molto. Era il suo migliore amico. Avevano studiato insieme molte volte, durante gli ultimi due anni di università, poi avevano continuato a frequentarsi. Parlavano di tutto. Del passato, del futuro, dei progetti che avevano, del lavoro che avrebbero voluto trovare, della vita che avrebbero voluto vivere, ma non avevano mai parlato di ragazze. Ramòn non ci badava. Non gli interessavano le ragazze.

Jaìme si era informato dei suoi genitori. Quando aveva saputo che erano in vacanza alle Canarie, si era tranquillamente spogliato, restando in boxer. Ramòn lo aveva guardato. Jaìme aveva sorriso, quindi si era chinato a prendere qualcosa in una tasca e aveva passato il sottile pacchetto a Ramòn, sedendosi sul divano.

-            Cos’è? –

-            Buon compleanno. – gli aveva risposto Jaìme, semplicemente.

Ramòn scartò il pacchetto e si rigirò il cd tra le mani.

-            Nickelback. Grandioso. Grazie. Lo metto subito. –

-            So che ti piacciono. –

-            Sei stato davvero gentile. –

Ramòn accese il riproduttore e poi andò a stappare due bottiglie di birra, portandole in soggiorno. Jaìme ne afferrò una, scolandosene la metà in un attimo.

-            Dio, ci voleva proprio. – sospirò.

-            Fa caldo. – commentò Ramòn.

-            Perché non ti togli quella camicia?  E magari anche i jeans? – gli aveva proposto l’amico.

-            Hai ragione. Non c’è motivo di restare imbalsamati nei vestiti. –

Jaìme aveva sorriso di nuovo, vedendolo liberarsi degli abiti.

-            Vieni qui. Siediti accanto a me. –

Ramòn l’aveva fatto. Avevano iniziato a parlare di vacanze, di viaggi, di impossibili mete. Poi Jaìme gli aveva offerto una delle sue pasticche.

-            No, grazie. Sai che preferisco avere il controllo della situazione. –

-            Ti rilassa soltanto, non temere. Ti dà una sensazione di benessere diffuso, senza offuscarti il cervello. Prova. –

-            No, preferisco di no. –

-            Come vuoi, ma ti vedo in tensione. – gli disse, appoggiandogli le mani ai lati del collo e frizionandogli le spalle. - Lo senti come sei teso? – continuò – Sei un fascio di muscoli contratti. Rilassati, sciogliti. Dai, che ti faccio un massaggio. Stenditi. –

Ramòn si distese sul divano e si lasciò fare. Ben presto le sue sensazioni imboccarono una direzione inaspettata e imbarazzante. Si era talmente eccitato che si spaventò, tornando ad irrigidirsi come uno stoccafisso. Jaìme sospirò.

-            Allora ci vuole proprio una terapia d’urto. – affermò, costringendolo a girarsi, proprio ciò che Ramòn più temeva, perché in quella posizione il suo amico si sarebbe  accorto della sua erezione. Ma Jaìme ignorò il suo imbarazzo, gli sfilò i boxer e iniziò a succhiare il suo pene come fosse la cosa più naturale e logica da fare.

In un attimo Ramòn annegò in una marea bollente che lo lasciò senza fiato, i pensieri dispersi, sparati chissà dove, impossibile saperlo, ridotto solo ad un vortice di piacere che non poteva contenere e ad un mugolìo sfrontato che non poteva trattenere. Le sue mani incastrate nei capelli di Jaìme, il suo cuore impazzito che batteva al ritmo dei Nickelback, una goccia di sudore che gli correva dall’attaccatura dei capelli fino al collo, sollecitando nuove sensazioni.

-            Jaìme! – urlò, inarcando la schiena.

Ma Jaìme continuò nella sua opera, restando a raccogliere, fino all’ultima goccia, l’esplosione del suo orgasmo.

Quello fu l’inizio della loro bellissima storia. Perché era finita? Perché Jaìme aveva un nuovo lavoro che lo avrebbe portato a New York, e lui non se la sentiva di seguirlo. Ecco, il rewind lo avrebbe condotto a quel momento, per sostituire la risposta che aveva dato a Jaìme, con un’altra che gli avrebbe risparmiato sofferenze, rimorsi e pentimenti:

 – Sì, vengo con te. –

 

-            È libero questo posto? – chiese una voce, raschiando il buio della notte.

-            Sì. È libero. – rispose Ramòn, chiedendosi quanto ancora quel sogno sarebbe durato.

La luna era sempre al suo posto e il mare continuava a brillare. Il suo bicchiere era ancora pieno. Non si era neppure accorto che il cameriere fosse venuto a portarglielo.

-            A cosa stavi pensando, così concentrato? – gli chiese Alan.

-            A cose del passato, di tanto tempo fa. –

-            A una persona in particolare, vero? Avevi una strana espressione. –

-            Come hai fatto a vederla, al buio? –

-            Non è tanto buio, e poi è da un po’ che ti osservo. E malgrado non ti conosca ancora profondamente, so cosa significa quell’espressione. –

-            Davvero? –

-            Davvero. –

-            Che ci fai qui, Alan? –

-            Ti cercavo. –

-            E mi hai trovato. –

-            Sì, ti ho trovato. Ho pensato molto a te. E ho pensato anche a me. Non ha senso che io soffra per la tua assenza, adesso, dal momento che ho la possibilità di essere felice con te. Preferisco esserlo in futuro, quando tu mi lascerai, come probabilmente accadrà. –

Ramòn guardò verso il mare. Le monetine saltellavano tra un’onda e l’altra, come i suoi pensieri, tra speranze che si rifiutavano di rinascere ed illusioni che non si erano mai estinte. Il dream over non era ancora arrivato, ma lui se lo aspettava da un momento all’altro.

-            Non dici niente? Ci hai ripensato? – gli chiese Alan, turbato.

-            No, non sono mai stato così certo di qualcosa come in questo momento. Vieni in albergo con me. –

-            C’è qualcosa che non va, Ramòn? –

-            No, niente. Ho solo bisogno di te. Ne ho talmente bisogno da star male. Andiamo. –

Questa volta il mondo restò al suo posto, lontano da lui e dalle sue sensazioni. Per quanto lo riguardava, avrebbe anche potuto sprofondare, lasciandolo là da solo con Alan. Non avrebbe potuto fregargliene di meno. Per tutta la strada fino all’albergo non degnò di uno sguardo nessuna delle persone che incrociarono la loro strada. Non si accorse della musica che usciva dai locali, del musicista che continuava a straziare il suo violino,  dei cappelli di paglia sulle bancarelle, della fontana in mezzo alla piazzetta, degli archi coperti di edera sotto cui passavano. L’unico suo pensiero era stringere tra le braccia Alan, nudo, al più presto possibile, prima che anche quel sogno si esaurisse.

Ramòn fu il primo ad entrare in camera. Alan si limitò a chiudere la porta con un calcio, poi saltò addosso a Ramòn senza lasciargli il tempo di voltarsi. Lo afferrò alle spalle, stringendolo in una morsa d’acciaio.

-            So che non puoi promettermelo, ma te lo chiedo lo stesso. Non farmi troppo male, Ramòn. Non ce la farei a sopportarlo.- sussurrò.

-            Ma io ti amo, Alan. Perché dovrei farti del male? –

Alan lo lasciò andare, permettendo a Ramòn di voltarsi.

-            Non farmene neanche tu, Alan. Non sono forte come sembro. – gli disse, fissandolo negli occhi e nell’anima allo stesso tempo.

-            Sarà quel che sarà. – affermò Alan, in un improvviso attacco di fatalismo, spingendolo verso il letto.

Ramòn pensò che quello era il sogno migliore che avesse fatto da quando aveva deciso di comprarsi il visore. Anche il tempo si era dilatato. Il dream over non arrivava mai. Era bellissimo. Aveva gustato ogni centimetro della pelle di Alan, prendendosi tutto il tempo. Il sudore dei loro corpi si mescolava, le loro bocche si univano per poi trovare altre destinazioni, le loro mani si stringevano in strette ferree, la violenza del desiderio si dipanava tra momenti di foga furiosa e languida dolcezza, morsi violenti e tenere carezze, gemiti attutiti e urla smorzate dai cuscini. Si erano amati senza mai stancarsi di guardarsi negli occhi: il cielo nero della notte, quelli di Alan, il cielo azzurro del mattino, quelli di Ramòn. Verso l’alba erano crollati in un sonno profondo.

 

Quando un raggio di luce aveva raggiunto il suo cuscino, Ramòn si era svegliato, sorprendendosi di trovare Alan addormentato accanto a sé.

Adesso basta, pensò. Forse aveva regolato male il timer. Forse il meccanismo si era guastato. Doveva uscire da quel sogno, subito. Subito. Prima di impazzire.

Ma per quanto tentasse con tutte le sue forze, non accadeva nulla. Non ci riusciva.

Alan era così bello, il suo volto così disteso e sereno, mentre dormiva. Perché svegliarsi, perché?

Avrebbe continuato a sognare fino alla morte. Si poteva desiderarne una migliore? Non se ne sarebbe nemmeno accorto.

Il sole stava inondando la stanza di luce. Ramòn voleva che Alan dormisse ancora. Voleva restare così, accanto a lui, limitandosi ad osservarlo, per imprimersi bene nella memoria i lineamenti del suo volto, il colore della sua pelle, il soffio del suo respiro dal ritmo tranquillo. Si alzò senza far rumore per chiudere meglio le imposte e passò davanti al divano.

 

Il visore era lì, abbandonato sui cuscini.

 

Ramòn restò di stucco. Poi si mise a ridere, a ridere, a ridere così forte che Alan si svegliò e lo osservò come solo lui sapeva fare, inarcando uno spesso sopracciglio, incuriosito.

-            Per favore, fai ridere anche me? – lo invitò, con la sua voce graffiante e la sua calma serafica.

Poi un led rosso gli annunciò: DREAM OVER.

 

 

Ramòn partì col primo volo, senza lasciarsi nulla alle spalle. Non aveva neppure avuto il coraggio di gettare via il visore, benché fosse perfettamente consapevole della necessità di una profonda disintossicazione. Burgos lo accolse a braccia aperte. Era lui che si rifiutava, per il momento, di ricambiarne l’abbraccio. Voleva stare da solo, porre un balsamo sulla ferita ancora aperta, dimenticare Alan, cacciandolo in fondo al pozzo più profondo dei suoi ricordi, quelli impossibili da riafferrare.

Quando giunse agosto, il caldo tornò più sopportabile, anche perché mitigato dall’aria fresca che giungeva dalle montagne. La prima sera che Ramòn si decise ad uscire, gli tornò il ricordo del sogno in cui Alan lo aveva raggiunto proprio là. Era insopportabile. Doveva dimenticare… dimenticare… dimenticare… Ma pur ripetendoselo come un mantra, il volto di Alan non voleva distogliersi dagli occhi della sua mente. Forse era il caso che iniziasse a distrarsi, ritrovando i suoi amici. Li aveva trascurati per troppo tempo. Non sapevano neppure che fosse tornato. 

L’insegna dell’Happy Hours era accesa, e intorno ad essa tre parole scritte con i neon lampeggiavano a turno: tapas, pincho, caña. Ramòn vide i suoi amici seduti a un tavolino, Pedro, Miguel e chi era l’altro seduto con loro? Ramòn si avvicinò. Pedro incrociò il suo sguardo e subito balzò dalla sedia per abbracciarlo. Poi fu la volta di Miguel. Il terzo sorrise, porgendogli la mano da una certa distanza. Possibile che fosse Jaìme? Uguale a lui, ma diverso. Un Jaìme più maturo, che si era fatto crescere i capelli, i baffi e il pizzetto e che Ramòn quasi non riconosceva. Un Jaìme distaccato, che ci teneva a mantenere quelle distanze che Ramòn non avrebbe di sicuro tentato di accorciare. Non quella sera, non là, non dal luogo desolato in cui si trovava. L’abbandono non era stato solo il momento in cui Jaìme gli aveva detto: “Io parto”. Si era dilatato a dismisura, accogliendo il tempo e lo spazio che erano intercorsi, quei due anni e mezzo di silenzio assoluto, conditi di rimpianti, solitudine e nostalgia.

Jaìme era là davanti a lui, ma Ramòn non riusciva a gioirne. Si sentiva da un'altra parte, su un pianeta lontano. Quello che vedeva intorno sembrava filtrato da un vetro, come fosse racchiuso in un acquario.

Furono Pedro e Miguel a gestire la serata, mentre Jaìme sorrideva, senza fornire un rilevante contributo alla conversazione. Ramòn taceva, osservandoli, come li vedesse per la prima volta. Dopo la seconda birra, li salutò, adducendo la scusa di un gran mal di testa, di cui non aveva mai sofferto in tutta la sua vita. Tornò a casa.

Dall’alto dell’ultimo scaffale, il visore, ben confezionato all’interno della sua custodia originale, lo guardò. Ma Ramòn non si fece incantare dal suo richiamo di sirena. No, non avrebbe ceduto. Voleva riprendere in mano la sua vita. Doveva rioccupare il suo posto. La vacanza era finita.

Jaìme era a Burgos. Per quel poco che lo aveva raggiunto, attraverso la nebbia di pensieri in cui si era smarrito, Ramòn aveva capito che era in vacanza per pochi giorni. Presto sarebbe tornato a New York. Questo nuovo distacco non avrebbe significato nulla per lui. Ormai il suo Jaìme non esisteva più. Quest’altro, che aveva preso il suo posto, non sapeva bene chi fosse e non gli interessava nemmeno saperlo. Non ne valeva la pena.

 

Jaìme aveva rivisto Ramòn, diviso tra l’imbarazzo ed il piacere. Gli era sembrato cambiato. Si era fatto tetro e muto. Lo aveva sentito distante anni luce. Era colpa sua, certo. Dopo averlo abbandonato per inseguire la sua carriera, non aveva osato chiamarlo, neppure una volta. Temeva quello che avrebbe potuto dirgli. Quindi, oltre alla distanza fisica, se n’era creata un’altra, ben più grave, colmata interamente dal silenzio. Il senso di colpa gli aveva scavato dentro una trincea. Eppure non poteva finire così. Due che si conoscevano tanto profondamente, come loro, la cui amicizia era stata un’ancoraggio sicuro, in mezzo alle tempeste che imperversavano, avrebbero dovuto almeno trovare il modo di parlarsi, di ritrovare un linguaggio comune. Ramòn non l’avrebbe cercato, di questo era certo. Quindi toccava a lui. E se Ramòn gli avesse sbattuto la porta in faccia? Quanto dura era quella porta? Quanto male avrebbe potuto fargli? Jaìme sapeva di aver già perduto Ramòn, tanto tempo prima. Per lui non sarebbe cambiato nulla, quindi tentare non gli costava niente. 

 

Come un tempo, Jaìme giunse sotto casa di Ramòn e lo chiamò al cellulare.

-            Sono al tuo portone. Ti va di fare due passi? –

Ramòn si sentì trascinare indietro nel tempo, come risucchiato da un aspirapolvere temporale. Quella frase l’aveva sentita mille volte. Aveva il suono delle abitudini consolidate, eppure, in quel momento, assumeva il senso di un ritorno da distanze infinite. Nonostante tutto, l’abitudine fu più forte del senso di straniamento.

-            Arrivo. –

Jaìme esalò un profondo respiro.

Ramòn trovò un sorriso da qualche parte e lo regalò a Jaìme, il quale si accorse immediatamente di quanto gli fosse costato rispondere al suo e gliene fu grato.

-            Ho sentito che sei stato in vacanza a Rodi. Dev’essere un bel posto. – esordì Jaìme, per rompere il ghiaccio.

-            Sì, era davvero un bel posto. – rispose Ramòn, laconicamente.

-            Io è la prima vacanza che mi prendo, da quando sono a New York. Avevo nostalgia di casa, dei miei, degli amici, del cibo, persino di poter parlare tranquillamente la mia lingua. –

-            Però ti trovi bene, laggiù. -

-            Mi sto abituando. In fondo non è difficile. Ce n’è per tutti i gusti. Il lavoro mi piace. Ho colleghi in gamba. Ho trovato un’appartamento passabile, al Village, anche se mi costa abbastanza caro. Per ora va tutto bene. –

-            E amici te ne sei trovati? –

-            Qualcuno, sì, ma sono rapporti un po’ superficiali, sai. Noi qui siamo più espansivi, più caldi.–

Io non mi sento tanto caldo, pensò Ramòn, e nemmeno tanto espansivo. Guardò Jaìme con la coda dell’occhio.

Jaìme sorrise.

-            Lo so quello che pensi. –

-            Lo sai? –

-            Avrei voluto chiamarti mille volte, ma ogni volta c’era qualcosa che me lo impediva. Un freno. La sensazione che tu mi avresti trattato freddamente, come stai facendo ora. –

-            Scusami. Non ce l’ho con te. È stata una storia che ho avuto a Rodi, a ridurmi così. –

-            Racconta. –

Ramòn gliela raccontò in ogni minimo dettaglio, dimenticandosi che quello era lo Jaìme che non conosceva.

-            Questo visore è un attrezzo davvero fantastico! Me lo fai provare? – chiese Jaìme quando ebbe finito.

-            Dopo tutto quello che ti ho raccontato, l’unica cosa che ti interessa è il visore? – si stupì Ramòn, deluso.

-            È una storia triste, come ne ho avute anch’io. Ti passerà presto, vedrai. E ogni volta che ti capiterà di nuovo, guarirai sempre più in fretta, fino a non farci più caso. –

-            Stai scherzando? –

-            No, Ramòn. Tu ti illudi ancora di trovare il grande amore. Io ho semplicemente già smesso di sperarci. –

Ramòn lo fece salire in casa.

-            Ci è passato un tornado, da queste parti? – gli chiese Jaìme, guardandosi intorno.

-            Lascia perdere. – rispose Ramòn. – Non sono in vena di fare ordine, per il momento. –

-            Potrei darti una mano. – gli propose l’amico.

-            Magari domani. Sei qui per il visore, no? Eccolo lassù. Puoi prenderlo. –

-            Si può usare in due? –

-            No, non è un video-game. Il visore si allinea alle frequenze del cervello di chi lo indossa. Il sogno lo crei tu, ma il visore fa in modo che sia reale, come se lo stessi vivendo davvero. È una sorta di amplificatore. –

-            Capisco. – affermò Jaìme, rigirandosi la custodia tra le mani.

-            Credo che sia meglio delle tue pasticche, ma dà assuefazione. Bisogna starci attenti. –

-            Lo farò. –

-            Te lo regalo. – disse Ramòn, all’improvviso, stupendo anche se stesso.

-            Ma perché? –

-            Così ti ricorderai di me. –

-            Io mi ricordo di te senza bisogno di aiuti. Non ti ho mai dimenticato, Ramòn. E mi sei mancato immensamente. Ancora mi dispiace che tu non sia voluto venire con me. –

-            Credevo che mi avessi dimenticato subito, visto che non mi hai mai chiamato. –

-            Ho sbagliato. –

-            Sì, hai sbagliato. Adesso vai, Jaìme. Vai a giocare col tuo visore. –

 

 

Jaìme conosceva Ramòn da un paio d’anni. Gli era sempre piaciuto, ma non aveva ancora trovato il modo per dirgli che oltre alla loro bellissima amicizia, per lui era nato qualcosa di più. Come ci si innamora? Quando accade, esattamente? Jaìme non avrebbe saputo dirlo. Ma quel pomeriggio sentiva che era giunto il momento di dirglielo o di farglielo capire. Erano sul divano, in casa di Ramòn, entrambi in boxer per riuscire a sostenere il gran caldo.

-            Mi sembri teso. – gli disse, appoggiandogli le mani ai lati del collo e frizionandogli le spalle. - Sei un fascio di muscoli contratti. Devi rilassati. Dai, che ti faccio un massaggio. –

Ramòn, ubbidiente, si distese sul divano. La sua schiena era una visione. Lo massaggiò a lungo, sentendo il calore della sua pelle trasmettersi alle dita, sentendo i suoi muscoli che si rilassavano. Avrebbe voluto baciarlo o morderlo, avrebbe voluto assaggiare la sua pelle. All’improvviso, sotto le sue mani, sentì Ramòn irrigidirsi di nuovo. Jaìme sospirò. Era il momento. E non lo avrebbe lasciato passare.

-            Allora ci vuole proprio una terapia d’urto. – affermò, costringendolo a girarsi. Jaìme vide l’erezione del suo amico e gioì silenziosamente. Lo privò dei boxer, senza che Ramòn si opponesse minimamente e, travolto dall’emozione, si tuffò su di lui.

Ramòn allungò le mani sul suo capo, tirandogli i capelli, mentre emetteva gemiti di indiscutibile piacere. Jaìme se lo sarebbe mangiato. Il cuore gli andava a mille. Aveva sognato cento volte di farlo. Ne aveva sognate altrettante in cui Ramòn lo faceva a lui. Aveva sognato di baciarlo, di stritolarlo nudo in un abbraccio. Ed eccolo finalmente giunto, quel momento.

 - Jaìme! – urlò Ramòn, inarcando la schiena.

Ma Jaìme continuò nella sua opera, finché Ramòn, tremando, non raggiunse l’orgasmo. 

Ramòn ritrovò il ritmo del respiro, riaprì gli occhi e si tuffò sulla labbra di Jaìme, come un assetato. Quanto lo aveva desiderato anche lui? Perché non glielo aveva detto o almeno lasciato intuire? Il calore che provava in quel momento non aveva nulla a che fare con il caldo di quella meravigliosa giornata d’estate. Gli partiva dal cuore, e si irradiava alla pelle, e là dove il suo corpo si univa a quello di Ramòn, mille brividi lo obbligavano a fremere. Perché avevano aspettato tanto? Jaìme smise di chiederselo, quando Ramòn si inginocchiò davanti a lui e chinò la sua testa rossa verso il suo ventre. Fu allora il suo turno di stringere il capo di Ramòn e affondargli le dita tra i capelli, di avvicinarlo e allontanarlo da sé, col ritmo forsennato del suo cuore. Stava già venendo, ma non volle avvertirlo. Voleva che anche Ramòn provasse quello che aveva provato lui. Poi esplose, con ogni singola cellula del suo corpo, travolto da un’onda irresistibile che gli fece dimenticare per qualche istante chi fosse, dove si trovasse e perché. 

-            Ramòn, è stato splendido. – mormorò, col poco fiato che gli rimaneva.

-            Anche per me, Jaìme. –

-            Era da un sacco di tempo che volevo farlo. – gli confidò, accarezzandolo con tenerezza.

-            Anch’io. –

-            Perché non me l’hai detto? –

-            Perché non me l’hai detto tu? –

Jaìme non aveva una vera risposta, così si limitò a baciarlo, a lungo. E da quel momento ricominciarono da capo, sperimentando nuove opportunità. Un bip suonò esattamente all’unisono con un suo sospiro, mentre un led rosso luminoso si accendeva dichiarando DREAM OVER.

 

Jaìme si sfilò il visore. Pazzesco! È stato come rivivere esattamente quel giorno. È stato come tornare indietro nel tempo. Anche Ramòn mi amava. È stato l’unico ad amarmi davvero. Se non me ne fossi andato… Se fossimo rimasti insieme… Non c’è mai stato nessun altro con cui mi sia trovato così completamente a mio agio, con cui mi sia sentito davvero vivo, completo, al posto giusto. Lui era la mia strada maestra, il mio compagno perfetto. Mi comprendeva anche se non dicevo nulla, sapeva sempre quello che provavo. E adesso? È talmente lontano, talmente estraneo. Come se questi due anni lo avessero portato in un paese a cui non ho accesso. Non posso più raggiungerlo.

 

-            Sono al tuo portone. Ti va di fare due passi? –

-            Arrivo. –

Jaìme sorrideva. Ramòn ricambiò il suo sorriso, chiedendogli:

-            Hai provato il visore? –

-            Oh, sì. È fantastico. Penso che mi servirà, quando sarò lontano da qui. Potrei sognare di te, ogni tanto. –

-            Lasciamene fuori, Jaìme. – disse Ramòn, di nuovo serio.

-            Perché? –

-            Non serve a niente. Non lo capisci? –

-            No. Non lo capisco. Per me non è cambiato niente. La mia proposta di venire con me è sempre valida. –

-            Anche la mia risposta. – concluse Ramòn, asciutto.

-            Dai, andiamo a farci un bagno. Oggi fa un caldo d’inferno.-

-            Ci avevo pensato anch’io. Ho già il costume indosso. –

Jaìme lo guardò di sghembo. In fondo erano ancora sulla stessa lunghezza d’onda, anche se Ramòn non se ne rendeva conto o, semplicemente, si rifiutava di ammetterlo. Sorrise.

Presero la moto e si diressero fuori città, fermandosi presso una piccola ansa dell’Arlanzòn, dove avevano spesso fatto il bagno. Era un luogo isolato, nascosto dagli alberi, con una bella spiaggetta di sabbia scura. L’acqua era gelida. Vi entrarono ridendo e tremando, fino alle ginocchia, ma poi Jaìme cominciò a schizzare Ramòn e lui a rispondere con  maggior slancio. La battaglia durò pochissimo, poi, ancora ridendo, si tuffarono. Continuarono a lottare nella placida corrente, afferrandosi e sfuggendo, tentando di annegarsi a vicenda, finché Jaìme non bloccò Ramòn in una presa ferrea, e i loro volti si ritrovarono a pochi centimetri l’uno dall’altro. Si guardarono negli occhi e smisero di ridere.

-            Jaìme…

-            Ramòn…

C’era poco altro da dire, in quel momento. C’era solo da avvicinare le loro labbra e vedere fino a dove sarebbero arrivati. Il desiderio era tornato impetuoso, impellente, come una volta, eppure era diverso. Non possedeva più l’impronta leggera e spensierata di una promessa, ma il carattere nostalgico e sconsolato di un commiato.

Fu su quella spiaggetta nascosta che si salutarono, a modo loro, rivangando un passato che non potevano dimenticare, senza riuscire a trascinarlo verso un futuro che avrebbe potuto esistere.

-            Domani parto. –

-            Lo so. –

-            Mi dispiace. Vorrei restare. –

-            Il tuo lavoro è più importante di ogni altra cosa. –

-            Non so se davvero valga la pena di perdere tutto il resto. –

-            Quando lo avrai deciso, ricordati di farmelo sapere. – commentò Ramòn.

 

Il Greenwich Village accolse Jaìme con la solita confortante indifferenza. A metà di Christopher Street, salì i pochi gradini che lo separavano dal portone verde di casa, trascinando stancamente il peso del suo trolley. Dove aveva messo le chiavi? Dopo una ricerca che man mano si fece sempre più frenetica, le trovò nella tasca posteriore dei calzoni, dove non le metteva mai. Cosa lo aveva spinto a farlo? Infine entrò nel minuscolo appartamento. Lasciò la valigia davanti alla porta e si guardò intorno. Un’unica stanza, che qualcuno gli aveva ottimisticamente presentato come soggiorno, un angolo cottura lillipuziano, una rientranza di due metri per due dov’era incastrato un letto matrimoniale che la occupava interamente, la porta del piccolo bagno, in legno dipinto di verde. Incastrata in un’altra rientranza del muro, la doccia, un metro per un metro, nascosta da una semplice porta scorrevole alla giapponese. Casa dolce casa. L’intero appartamento era meno grande della stanza dove aveva vissuto, in casa dei suoi genitori. Si buttò sul divano, ricordandosi troppo tardi di quanto fosse scomodo, perché conteneva un letto d’emergenza. Sì, quello era un appartamento per tre persone. In quel mondo. Nel suo non bastava neppure per una, però si accontentava. Guardò le due sedie e il piccolo tavolo tondo che completavano l’arredamento e poi lanciò un sms verso la Spagna, piuttosto lapidario, a dire il vero: “Sono a casa.” Casa dolce casa.

Pensò a Ramòn. A quanto lo avessero fatto soffrire la sua indifferenza, il suo distacco, la sua noncuranza. Con quanta passione gli aveva invece raccontato di Alan. Ogni volta che aveva pronunciato il suo nome, una stilettata lo aveva raggiunto al cuore. Non sapeva di amare ancora Ramòn in quel modo. Non se n’era reso conto, finché non lo aveva rivisto, in quelle condizioni… Ma non era per lui che stava male, no, era per quell’Alan che aveva pescato in un bar, una sera. Pescato in un bar? Un bel pesciolino da friggere, che invece era scappato dalla padella.

Menomale che aveva il visore. Ma quanto conforto avrebbe potuto trarne?

 

 

Christopher Park. Un piccolo parco molto carino in Sheridan Square. Jaìme ci andava qualche volta, prima di tornare a casa. Si rilassava. Si sedeva su una panchina e tirava fuori un libro, leggendone qualche pagina, finché il brontolio del suo stomaco non lo costringeva ad alzarsi e trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Anche quel giorno era là, sulla panchina dipinta di marrone, all’ombra di un imponente tiglio dal profumo delicato.

Il tramonto tingeva d’arancione un cielo striato di piume viola.

-            Ti dispiace se mi siedo? –

-            Ramòn! Che ci fai qui? – chiese Jaìme stupito, col cuore che gli era subito balzato in gola.

-            Avevo ancora un po’ di ferie da smaltire e così ho pensato di venirti a trovare. –

-            Ramòn, è magnifico. Vieni. Ci procuriamo qualcosa per cena e ce ne andiamo a casa. –

-            Non vedo l’ora di vederla, la tua famosa casa. –

-            Ah, per questo, ti basterà un’occhiata… - disse Jaìme, ridendo.

Ramòn sembrava quello di un tempo. Tranquillo, pronto al sorriso, col passo dinoccolato di chi ha le gambe troppo lunghe e fatica ad accorciare il passo. I suoi occhi d’acquamarina osservavano tutto, le deliziose file di case e i vicoli nascosti, i bar, le vetrine delle piccole boutique e delle librerie, le signore con i passeggini, i vecchi seduti sulle scale, gli idranti rossi a bordo marciapiede, le ringhiere dipinte di nero. Entrarono in un minuscolo mini-market, dove Jaìme comprò il necessario per cucinare due spaghetti. Lo aveva imparato lì. Ormai era un piatto nazionale, come in Spagna la paella. Salirono i pochi gradini e Jaìme aprì la porta, facendolo entrare per primo.

-            Sono senza parole. – mormorò Ramòn, guardandosi intorno. – Praticamente vivi in una roulotte, solo che questa non te la puoi portare in giro. –

-            Esatto. E l’affitto mi costa un occhio. –

-            Hai un bello spirito di adattamento. – si complimentò Ramòn.

-            A qualcosa non mi sono ancora adattato. – ammise Jaìme.

-            A cosa? –

-            A saperti lontano da me. –

-            Sono qui, Jaìme. Sono venuto solo per te. –

-            E quanto resterai? –

-            Per tutto il tempo che vuoi. –

Jaìme appoggiò la spesa sul tavolino e si voltò verso Ramòn.

-            Ci hai ripensato? Sei sicuro? – gli chiese, guardandolo bene in faccia.

-            Sono sicuro. Ho fatto male a lasciarti venire da solo. Dovevo capirlo subito che non avrebbe funzionato. –

-            No, infatti. Non ha funzionato. –

Ramòn fece un solo passo, attraversando la distanza che li aveva separati. Le sue mani afferrarono il volto di Jaìme e lo avvicinarono al proprio. Poi si scambiarono il bacio più incredibile che Jaìme avesse mai provato.

Bip. Il led rosso si accese su DREAM OVER.

 

Se un bacio come quello se lo fossero scambiati il giorno prima che lasciasse Burgos, Jaìme non avrebbe più avuto la forza di partire. Era un bacio senza scampo. Si sfilò il visore.

La mia unica consolazione è che Ramòn non possa più utilizzarlo per sognare di Alan. Ma è difficile essere felici per così poco, pensò Jaìme. Questo giocattolo è davvero pericoloso. Si può essere spinti a crederci, a certi sogni, se sono così vividi da sembrare più reali della realtà. Ramòn, che dono mi hai fatto? Sei stato crudele. Lo sapevi che ci avrei sognato di te, e me l’hai dato lo stesso.

 

Ramòn tornò alla sua vita, al lavoro, ai suoi amici, ma con un senso profondo che qualcosa gli mancasse. Una volta abbandonato il visore, era riuscito a dimenticare anche Alan. A volte, invece, ripensava a Jaìme. A quello che erano stati l’uno per l’altro, a quanto completa gli sembrasse la sua vita, quando lo aveva accanto. Confrontando la sua vita con Jaìme a quella che stava vivendo, si sentiva menomato, privo proprio di ciò che era più importante. Faticava a respirare liberamente. Un peso di piombo gli si era piazzato sul petto. Di nuovo.

Non è la solitudine che mi pesa. Sono stato solo per molto tempo. Che cos’è allora? La sensazione di aver sbagliato strada, di essere tutto sbagliato. Sì. È questo. Sono tutto sbagliato.

 

 

Jaìme riprese il suo lavoro, che lo impegnava molto. Quando non lo impegnava a sufficenza, trovava la maniera di inventarsi qualcosa, in modo da tornare a casa il più tardi possibile. Se lo invitavano fuori, aveva sempre una scusa pronta. Non voleva vedere nessuno. Voleva soltanto infilarsi il visore e spararsi in vena un sogno qualunque, possibilmente con il suo protagonista preferito, quel Ramòn di qualche anno prima, quello che lo aveva fatto innamorare.

 

 

Bussarono alla porta. Jaìme era appena rientrato, con tanto di cena già pronta, dentro scatole di cartone rosa.

Andò ad aprire e si ritrovò davanti alla sorpresa del secolo.

-            Ramòn! –

-            Ciao, Jaìme. Posso entrare? –

Jaìme si scostò dalla porta, richiudendola poi alle sue spalle. Ramòn lo abbracciò.

-            Mi mancavi. Ho pensato che fosse giunto il momento di porvi rimedio. -

-            Hai fatto bene. Sono così felice che tu sia qui! –

-            Beh, ho l’impressione che ci staremo un po’ stretti, però. – commentò Ramòn, guardandosi intorno.

-            Quanto pensi di poter rimanere? – gli chiese Jaìme.

-            Finché vuoi. –

-            Allora ci converrà cambiare casa. – concluse Jaìme, ridendo.

Ramòn osservò il piccolo divano, poi lanciò uno sguardo verso il letto incassato nella parete.

Jaìme sorrise e lo abbracciò.

-            È meglio il letto. –

Jaìme non ci era mai stato con nessun altro e questo pensiero, senza riuscire a spiegarsi perché, gli piacque.

Divisero la cena, parlando a lungo di quello che Ramòn aveva deciso, quasi subito dopo la sua partenza. Non gli era rimasto molto che lo legasse a Burgos, dopo che i suoi si erano definitivamente trasferiti alle Canarie. Il suo lavoro era piuttosto banale. Ne avrebbe potuto trovare un altro simile ovunque. Perché allora non a New York?

Jaìme si sentiva un miracolato che non merita il miracolo ricevuto. Per ottenere un miracolo bisogna pregare molto, insistentemente, e si deve aver fede, ciecamente. Jaìme non aveva pregato che Ramòn lo raggiungesse, inoltre non credeva che sarebbe mai accaduto, perciò era immeritevole di quel sogno che si avverava. Ma già, era soltanto un sogno, gentilmente fornito dal visore. Esserne cosciente, mentre ancora lo indossava, gli sembrò un alto tradimento della tecnologia. Deluso, se lo sfilò, senza nemmeno aspettare il dream over.

 

Adesso basta. Devo proprio sganciarmi da questo strumento di tortura. Dovrei nasconderlo da qualche parte e dimenticarmene, pensò Jaìme. E forse dovrei telefonare a Ramòn e chiedergli di venire qui. Potrebbe anche cedere, prima o poi.

 

“Il quartiere di Greenwich Village è approssimativamente delimitato dalla 14th Street a nord, da Houston Street a sud, dal fiume Hudson a ovest e dalla Broadway ad est.” Così diceva la guida che Ramòn si portava dietro dal primo pomeriggio. La ricerca di Christopher Street non era stata molto impegnativa, ma poi si era perso in fondo alla via, dove sette strade s’incontravano in un labirinto, proprio dov’era situato il cuore del Village. Era tornato indietro dopo aver chiesto indicazioni varie volte. Aveva fatto quella passeggiata perché doveva passare il tempo, in attesa che Jaìme tornasse a casa. Adesso era proprio davanti al suo portone. Non gli restava che bussare.

-            Chi è? Arrivo. – 

La porta si spalancò. Jaìme, con i capelli gocciolanti e un asciugamano avvolto attorno ai fianchi, strabuzzò gli occhi.

-            Ramòn! –

-            Ciao, Jaìme. –

-            Entra. Che incredibile sorpresa. –

Quanto durerà, stavolta? si chiese Jaìme. Lo lascerò finire, o me lo toglierò, buttandolo definitivamente nella spazzatura?

-            È bello qui. Molto raccolto. – commentò Ramòn, guardandosi intorno.

-            Sì, è piccolo e raccolto, io ci sto di merda e per di più lo pago un occhio. – rispose Jaìme, con irritazione.

-            Scusa, Jaìme. Ti ho disturbato? Posso tornare in un altro momento. – mormorò Ramòn, turbato.

-            Ma no, che dici? Sono felice che tu sia qui. – commentò con voce piatta.

-            Non sembri molto entusiasta. Forse ci hai ripensato? Stai con qualcuno? –

-            Ma no. È che sono stufo di fare questi sogni. Tu arrivi. È tutto bellissimo, ci baciamo, io ti amo, tu mi ami, finalmente posso tornare tutto intero, e poi bip, dream over, e ripiombo nel mio baratro. Vedi, quello che mi fa incazzare è che adesso, anche nel sogno, so che sto sognando. Devo aver fatto un’overdose. Non funziona più.-

-            Jaìme, questo non è un sogno. Sono venuto davvero. Ho buttato tutto all’aria e sono venuto da te, come mi avevi chiesto. Sono venuto per restare, se tu mi vuoi ancora. –

-            Per la miseria, certo che ti voglio. Non so più nemmeno respirare senza di te, figurati vivere. Credo che tornerò a Burgos, così sarò io a farti una sorpresa. –

-            Che stai dicendo, Jaìme? Sei ancora convinto che questo sia un sogno? – gli chiese, iniziando a guardarlo con il timore che fosse impazzito.

-            Ma certo che lo è. –

Adesso anche Ramòn si era incazzato.

-            Dove hai messo il visore? – gli chiese, con espressione dura.

-            L’ho ficcato in fondo all’armadio. –

-            Vallo a prendere. –

-            Lì non c’è. Adesso ce l’ho in testa. –

-            Vallo a prendere, Jaìme. – gli ordinò, con un tono che non ammetteva repliche.

Jaìme si decise ad ubbidire, anche se lo riteneva del tutto inutile. Quando si voltò, sorpreso, il visore era tra le sue mani.

-            Adesso buttalo a terra. – disse Ramòn, con decisione.

Jaìme lo gettò davanti ai suoi piedi e Ramòn iniziò a saltarci sopra, con tutta la forza del suo peso, con incredibile rabbia, con ferma determinazione, fino a ridurlo ad un ammasso informe, mentre frammenti di plastica schizzavano su tutto il pavimento.

-            E adesso dimmi ancora che stai sognando. – lo sfidò Ramòn, mentre lo raggiungeva con un solo balzo e lo stritolava in un travolgente abbraccio.

-            Ramòn…

-            Jaìme…

Ecco, non c’era bisogno di tante parole, nella vita reale, soltanto di stringersi forte e cercare di restare con i piedi per terra, per quanto fosse possibile, quando si era innamorati.

Quel famoso bacio senza scampo, se lo scambiarono proprio là, in mezzo al minuscolo soggiorno di Christopher Street e durò molto, molto a lungo... 

…fino a quando non sentirono un distorto bip proveniente dall’ammasso informe di quel che restava del visore, e scoppiarono a ridere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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