La punizione 

 

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La prima volta che vidi il suo viso, si affacciava tra un Samovar in ottone argentato di fine ottocento, e un grammofono ‘La Voce del Padrone’, con la tromba dipinta di un bel rosso sfumato, che sembrava un lilium.

Giravo per il Mercato dei Navigli da un paio d’ore, in una splendida ultima domenica di maggio, osservando oggetti che mi tuffavano in un’altra epoca, donandomi staffilate di nostalgia per la mia infanzia ormai lontana e per parenti che non c’erano più. La teiera come quella della zia Carlotta, la tabacchiera del nonno Erasmo, le chiavi antiche che lo zio Guido teneva appese al muro, di fianco alla porta del vecchio mulino. Ed ecco il grammofono che avevo scovato in soffitta quando giocavo all’esploratore, nella casa in collina della nonna Tilde.

Il volto che si scorgeva dietro la tromba rossa del grammofono prese vita, sorridendomi. I miei ricordi si sfilacciarono, sfumando in volute evanescenti di nebbia colorata, attraverso le quali mi raggiunse la sua voce.

-       Funziona ancora. Vuoi sentirlo?

 

Non ero lì per caso, anche se, da circa quattro mesi, avevo applicato alla mia vita la teoria della procrastinazione programmata. Avevo sempre qualcosa d’importante da fare, prima di quella, che in tal modo evitavo accuratamente, costruendomi montagne di alibi incontestabili. Ma quel giorno ero distratto.

Molto tempo prima, avevo preso una tranvata pazzesca. Gianni era un amico, oltre che un collega. Ci frequentavamo da sei mesi, quando mi ero reso conto che aspettavo con ansia i nostri incontri, che mi deprimevo nei fine settimana, in cui non potevo vederlo, che il lunedì mattina ero sempre più ansioso di recarmi in ufficio. Ci avevo messo un po’ per capire quello che provavo per lui. E nel momento stesso in cui avevo dato un nome ai miei sentimenti, Gianni mi aveva presentato sua moglie (ma perché non portava la fede al dito, come fanno tutti? E perché non me ne aveva mai parlato prima?). Quella doccia fredda mi aveva ammutolito e reso asociale per qualche giorno. La sua acuta sensibilità deve avergli fatto comprendere quale fosse il motivo del mio mutismo e del mio rapido allontanamento. Forse per consolarmi, mi aveva parlato del suo gemello, alludendo ai suoi diversi gusti sessuali, al fatto che era un solitario e che si occupava di brocantage. Il suo mercato preferito era quello dei Navigli, che lo impegnava ogni ultima domenica del mese.

Mi aveva offerto un contentino, come si offre un ghiacciolo da succhiare a un bambino che vuole mangiarsi un’intera torta sacher. Mi sentivo umiliato e offeso. Poi, nella fase successiva, anche incazzato. Per chi mi aveva preso? Non aveva capito un cazzo di me. Aveva calpestato i miei sentimenti e poi si era pulito le scarpe. Credo di averlo odiato subito dopo. Anche per questo non avevo alcuna intenzione di ritrovarmi davanti un altro con la stessa faccia...

 

      ...quella faccia sorridente che aspettava una risposta, tra la tromba del grammofono e il samovar.

-       No, grazie.

-       Mi sembravi interessato. Ti ricorda qualcuno?

-       Mia nonna. Anzi, la soffitta di casa sua. Ce n’era uno uguale.

-       Io invece sarei interessato a comprarlo, se ce l’hai ancora.

-       No, non so che fine abbia fatto. La casa è stata venduta.

-       Peccato.

Ero intento ad osservare gli altri oggetti sul banco, quando all’improvviso me lo ritrovai accanto.

-       Quei bicchieri vengono dalla casa dei Martini di Fossano. Sono sempre a caccia di vecchi oggetti, meglio se ben conservati.

-       Belli.

Mi porse la mano mentre si presentava. Raffaele Torrente.

-       Vittorio Portolani. Ho un collega che si chiama Gianni Torrente. Gli assomigli moltissimo.

-       Lo credo, è il mio gemello. Allora lavori anche tu alla Dear?

-       Già.

-       Per questo mi guardavi in quel modo. Mi succede tutte le volte. Però, vedi, mi lascio la barba lunga, tanto per confondere un po’ le acque.

Non gli dissi che Gianni la portava esattamente come lui.

-       T’infastidisce assomigliare a tuo fratello come una goccia d’acqua?

-       Sono sempre stato insofferente all’idea di essere la copia conforme di un altro. Da piccolo volevo distinguermi da lui ad ogni costo. Ho preteso che a scuola ci mettessero in classi diverse, e ho sempre cercato di andare in una direzione alternativa alla sua.

-       Ma in questo modo non c’è il rischio che si vada dove non si vorrebbe andare?

-       Se ho commesso qualche errore del genere, direi che l’ho superato. Ormai da decenni sto viaggiando per la mia strada, senza occuparmi della sua. Ci vediamo poco. Non so cosa faccia o chi frequenti. Non m’interessa. Ognuno ha la sua vita, bella o brutta che sia.

-       Più o meno come fanno la maggior parte dei fratelli...

-       Infatti. E tu vai d’accordo con Gianni?

-       Siamo colleghi. - risposi con un lieve imbarazzo.

-       Cioè no.

Mi misi a ridere. Lui fece lo stesso. Poi ritornò dietro il banco e solo allora mi accorsi che zoppicava vistosamente. Lui tornò a sorridermi, ma con ironia.

-       In questo non assomiglio a mio fratello. Colpa di un incidente di moto, qualche anno fa.

-       Mi dispiace.

-       Perché? Tutto il resto funziona perfettamente. Stai cercando qualche oggetto particolare?

-       Se devo essere sincero, non so neppure perché sono qui.

-       Allora, devi cercare di scoprirlo. Ci sono due chilometri di banchi in questo mercato. Sicuramente, c’è qualcosa che ti ha lanciato il suo richiamo.

-       Può darsi.

 

Non comprai neppure uno spillo. Non c’era stato alcun richiamo. Ma quello che ero andato a cercare, forse, dico forse, l’avevo trovato lo stesso. Potevo guardare la faccia di uno che assomigliava a Gianni, senza odiarlo automaticamente. Non era una brutta scoperta. Inoltre, Raffaele mi aveva invitato a tornare a trovarlo.

Il mercato dei Navigli divenne una mia meta fissa. Cercavo Raffaele, gli portavo un panino e qualcosa da bere e insieme mangiavamo, bevevamo e scambiavamo qualche opinione, commenti senza importanza, niente di straordinario o di eclatante. Ero cautamente scettico. La nostra conoscenza - perché amicizia non era ancora - non poggiava su nulla che ci rendesse complici. Non avevamo passioni comuni, non facevamo discorsi impegnati. Sfioravamo la superficie di tutto, senza mai approfondire. Era come se volessimo tenerci a una prudente distanza. Eppure, una volta al mese, andavo da lui. Ogni volta, il nostro incontro mi lasciava un pot-pourri d’insoddisfazione, incompiutezza e incompletezza, a cui volevo rimediare la volta successiva. Senza riuscirci. Tanto calore, tanta profondità di pensiero e sentimento, avevo trovato in Gianni, quanto tutto l’opposto in Raffaele. Prima di Natale decisi di smettere, come si smette di fumare o di bere alcolici. Avevo finalmente capito cosa stavo cercando, una fotocopia di Gianni a cui chiedere quello che da lui non potevo ottenere. Ma non era Raffaele, quello giusto. Avevo tentato la scalata di un vetro molto liscio.

Non tornai sui Navigli. L’inverno trascorse lentamente, mentre le sfuriate di neve e pioggia, che sembravano non voler cedere neppure un centimetro al bel tempo, peggioravano il mio umore. Non uscivo quasi mai. Mi limitavo a trovare piccole soddisfazioni nel lavoro. Nel tempo libero, dormivo molto, leggevo, ascoltavo musica, rintanato in casa come un orso in letargo. Alla fine di febbraio, con un freddo siberiano che teneva ostinatamente lontana ogni speranza di primavera, mi giunse un saluto inaspettato.

-       Ti saluta mio fratello. - mi disse Gianni, un lunedì.

-       Grazie.

-       Non mi avevi detto che l’avevi conosciuto.

-       Non me ne sono mai ricordato.

Gianni mi guardò un po’ di sbieco. Poi sorrise, ma senza ironia.

-       Raffaele si stava chiedendo come mai non sei più andato a trovarlo.

-       Oh, non esco molto con questo freddo.

-       Voleva il tuo numero, ma io non gliel’ho dato. Preferisco dare il suo a te, così sei libero di decidere se vuoi sentirlo o no.

Mi allungò un post-it con una fila di numeri scritti con la sua bella calligrafia arrotondata. Io lo ringraziai. Faceva parte integrante del suo modo di essere, la discrezione con cui si era comportato in quel caso. O magari rientrava nel quadro dei rapporti contrastati tra i due fratelli, che gli aveva fornito l’occasione per fare un dispetto a Raffaele.

Mi ritrovai in mano quel post-it come fosse una patata bollente. L’avrei chiamato? Perché? Cosa voleva da me? Cosa volevo da lui? Mi ritrovai a rimuginare una sequela di domande senza risposta. Esauriti i primi tentativi, le lasciai dov’erano e attaccai il post-it al frigorifero, confuso tra una decina di altri.

Era ormai scoppiata la primavera, quando me ne ricordai. Mancava una settimana al Mercato dei Navigli. Mi chiesi se volevo rivedere Raffaele. No, sì, ni. Il fascino dei suoi occhi color miele non mi era sufficiente. L’attrazione che provavo per lui non bastava a rendermelo necessario. D’altra parte mi stupivo di tutte quelle menate. Non mi ero mai posto tanti problemi. Nei suoi confronti, per giunta, mi sentivo ingiusto. L’avevo paragonato continuamente a suo fratello e non potevo farci niente. Però capivo perfettamente che non era corretto.

Mi ritrovai davanti al suo banco con due panini e due birre, l’ultima domenica di aprile. Vedendomi, Raffaele balzò in piedi e mi abbracciò come un vecchio caro amico che gli era mancato, un sorriso splendente e un’espressione felice. Stupore e turbamento smorzarono qualunque impressione quell’accoglienza avesse l’intenzione d’infondere in me.

Mi rimproverò di non essermi più fatto vivo. Mi chiese il numero di telefono che Gianni gli aveva negato. Mi propose di vederci, di fare qualcosa insieme. Iniziò a fare programmi senza chiedersi se io fossi d’accordo. Mi spiazzò ancora una volta. Evidentemente lui aveva continuato per la sua strada, mentre io restavo al palo. Mi aveva introdotto nel suo immaginario, mentre io l’avevo lasciato ostinatamente fuori dai miei pensieri. I nostri tempi non concordavano. I nostri desideri non coincidevano. Quando finalmente si accorse del mio sfasamento, mi disse:

-       Scusa. Ero sicuro di non rivederti più. Mi sarebbe dispiaciuto molto. Forse ero troppo prevenuto nei tuoi confronti. Ero sicuro che facessi paragoni con mio fratello, che ti aspettassi che fossi come lui. Mi tenevo sulle mie, per non darti modo di capire chi fossi. Scusami. Sono riuscito ad allontanarti da me, lo capisco. Ma non era quello che volevo davvero. Vorrei che potessimo ricominciare tutto da capo.

-       Possiamo farlo, se vuoi, basta che non mi parli più di tuo fratello.

Raffaele sorrise.

-       Non sono il coglione che ti ho mostrato fino ad ora. Credo di essere meglio di così.

-       Anch’io credo di essere meglio, se ho la spalla giusta.

Così ricominciammo tutto da capo, come due persone che vogliono conoscersi davvero, dopo aver frequentato insieme una festa in maschera.

 

Raffaele era sempre stato un solitario, io lo ero diventato da poco, dopo la storia di Gianni, che mi aveva fatto rinchiudere a riccio. Quindi ero molto meno allenato di lui. Faticavo non poco ad adattarmi ai suoi ritmi e alle sue necessità. C’erano giorni in cui, quando ci vedevamo, sembrava che tutto andasse benissimo. Tendevamo ad essere affiatati, discutevamo su tutto liberamente, un po’ come ricordavo di aver fatto con Gianni nei primi mesi in cui ci eravamo frequentati. Ci guardavamo negli occhi con quel calore che sapeva di anticamera ad un livello successivo. Poi, per giorni, non si faceva vivo, non rispondeva alle mie chiamate, scompariva dalla circolazione. Salvo piombarmi in casa all’improvviso, con un’espressione da lupo affamato per dirmi che gli ero mancato.

Lui era così. Prendere o lasciare. Aveva bisogno d’isolarsi spesso, trascorrendo lunghi periodi per conto suo, finché non lo assaliva la nostalgia del mondo esterno. Io rappresentavo, in quei momenti, il resto del mondo.

L’ultima volta, però, si era permesso una pausa di riflessione tanto lunga, che mi ero chiesto se ne valesse la pena. Da parte mia, questo tira e molla era vissuto come un’indecente incertezza. Non capivo cosa rappresentassi per lui. Un amico? Un conoscente tappabuchi, da infilare tra i suoi momenti solitari, per provare l’ebrezza del contatto umano? Non riuscivo neppure a capire me stesso. Cos’era Raffaele per me? Le risposte erano tante, ma alla fine di quel periodo, una aveva preso il sopravvento su tutte le altre: niente.

 

Gli aprii la porta con una leggera insofferenza. Avrei preferito che non si facesse più vedere. Lui varcò la porta zoppicando, con il mezzo sorriso di cui era uno specialista. Ma non era sufficiente a nascondere la sua espressione abbattuta e depressa.

-       Come butta? Sei stato all’estero? - gli domandai, con un sottile filo d’ironia.

-       No, ho fatto un giro in Toscana.

-       Perché non rispondi al cellulare?

-       Ero impegnato.

-       Capisco.

Ma non capivo affatto.

-       Hai già mangiato? - mi chiese.

-       Sì.

-       Ti è avanzato qualcosa?

-       No, ma posso farti due spaghetti.

-       Va bene.

Mi seguì in cucina. Si sedette al tavolo e mi guardò mentre preparavo.

-       Che ti è successo? - gli chiesi, dopo un lungo silenzio.

-       Si vede che mi è successo qualcosa?

Lasciai tutto e mi voltai verso di lui.

-       Senti, io non ti capisco, è vero, però so riconoscere la faccia di uno che sta male. Che hai combinato?

-       Io niente. È Gianni che mi sta torturando.

-       Che vuole da te?

-       Continua a dirmi di lasciarti in pace, che io non sono il tuo tipo e che la nostra amicizia ti farà solo soffrire.

-       Mi avevi detto che non vi sentivate.

-       Ha ricominciato a perseguitarmi da quando gli ho detto che ti avevo conosciuto.

-       Ma è stato proprio lui a parlarmi di te!

-       Si vede che se n’è pentito.

-       Non capisco. Non può lasciarci in pace?

-       No. Lo scopo della sua vita è quello di torturarmi.

-       O.k. lasciamo da parte per un attimo tuo fratello. Tu che ne pensi?

-       Di che?

Mi caddero le braccia.

-       Della fame nel mondo...

-       Io...

-       Lascia perdere. - dissi, tornando ai fornelli.

Ero deciso a chiudere quella sera stessa. Non la nostra strana amicizia, che se affrontata nel modo giusto era del tutto inoffensiva, quanto tutti gli orpelli e le vaghe speranze che ci avevo infiocchettato sopra. Se un giorno ero stato innamorato di Gianni, questo non aveva alcuna attinenza con Raffaele. Fisicamente mi piaceva come lui, ovviamente, ma i sentimenti che provavo erano di tutt’altro genere.

-       Vai d’accordo con Gianni?

-       È un collega.

-       Ma cosa pensi di lui?

Mi voltai di nuovo a guardarlo.

-       Perché t’interessa?

-       Non capisco perché ti ha parlato di me. Non lo fa mai. Soprattutto se qualcuno gli piace.

-       Io non gli piaccio.

-       Stai scherzando?

-       Cambiamo argomento, ti dispiace?

Raffaele sospirò.

-       Tu non ne vuoi neppure parlare, lui continua a dirmi di starti lontano. Cosa c’è che non so?

-       Niente. Assolutamente niente.

 

      Dopo cena, ci andammo a sedere sul divano. Raffaele mi sorrise.

-       E dire che mi piaci tanto. Perché dev’essere tutto così complicato?

-       Cosa c’è di complicato?

-       Non lo so. C’è Gianni tra di noi. Me lo sento.

-       Se non la smetti di parlare di lui, ti sbatto fuori di casa.

Fu allora che lasciò da parte ogni remora e finalmente mi saltò addosso. Non mi dispiacque affatto. Avrei potuto negarlo, ma ero in vena di sincerità. Per qualche oscura ragione, avevo bisogno di chiarirmi. Le sue carezze mi eccitavano da morire. Lo sguardo rovente dei suoi occhi liquidi, mi dava un brivido che si concentrava sul basso ventre. Ci spogliammo in fretta. Avevo la sensazione di non poter attendere un attimo di più. Desideravo il suo corpo come mi era accaduto raramente di desiderarne uno. Raffaele mi baciò a lungo, poi si distese sul divano, offrendomi il culo. Avrei voluto farlo io, ma mi aveva fregato sul tempo.

-       Resta così, non ti muovere. - gli dissi.

-       Non essere crudele. Torna presto.

Andai a prendere i preservativi in bagno.

Quando tornai, Raffaele non c’era più.

-       Dove ti sei nascosto?

-       Sono qui.

La voce proveniva dalla mia camera da letto. Copriletto e cuscini erano volati per terra e Raffaele era disteso in mezzo al letto come l’uomo vitruviano, vista lato B. Uno spettacolo artistico che di sicuro anche Leonardo avrebbe apprezzato.

Cominciai a lavorarmelo di bocca, dall’alto verso il basso, partendo dalla nuca. Lui girò la testa verso di me e ci baciammo. Mi staccai per seguire il sentiero delle sue spalle, l’avvallamento della colonna vertebrale, le due fossette laterali in fondo alla schiena, prima di arrivare al solco tra le natiche. Aveva un culo magnifico, su cui le mie mani e la mia bocca affondarono con gusto. Lo pizzicai con forza, lo assaggiai con piccoli morsi sadici, tanto da lasciargli impresso il segno dei denti. Lui si lasciava fare, ansimando. Lo leccai lungo il solco, avanti e indietro, con gran profusione di saliva, lo morsi ancora, era duro ma tenero, poi Raffaele, impaziente, mi sussurrò:

-       Ti prego, adesso basta, non ne posso più.

Allargò bene le gambe, e con le mani separò le natiche, a mostrarmi bene il buco, come a dirmi che quello era l’obiettivo. Io entrai, appena un poco, mentre lui m’incitava a non avere riguardi. Continuai ad affondare lentamente, ma le mie cautele dovevano sembrargli eccessive, perché quasi immediatamente cominciò a mormorare:

-       Affonda! Dai, dai, dai... - come per darmi il ritmo.

Non mi feci pregare. Ad ogni colpo andavo fino in fondo, e lui gemeva e mi incitava. Continuava a dirmi - affonda, affonda - con una voce da naufrago che vuole annegare. Così non sarei durato a lungo. Dopo un po’, rallentai, mi fermai, poi ripresi ad un ritmo più lento. - Dai, dai, dai... - Ripresi a colpire con forza, mentre con la destra afferravo la sua asta incandescente. All’improvviso mi resi conto che se avessi scopato con Gianni, avrei avuto davanti agli occhi esattamente la stessa visione. Sentivo di non potermi più fermare, che stavo per esplodere. Aumentai il ritmo, mentre le mie spinte erano un suono di schiaffi e risucchi del mio ventre sulle sue natiche, che mi eccitò ancor di più. Venimmo insieme, io con un sordo grugnito, lui con un urlo attenuato dal materasso. Completamente svuotato, per alcuni istanti collassai, senza capire più dov’ero.

Quando mi ripresi, a confondermi fu la sensazione di sdoppiamento che avevo provato. Mentre scopavo con Raffaele, il mio cuore palpitava per Gianni. Di nuovo. Era stata un’impressione stranissima.

 

Come per magia, smisi di odiare Gianni. Tornai a rivolgergli la parola, dapprima con cautela. Poi, come seguendo la via della minor resistenza, nel giro di poco tempo, ritornammo amici. Questa volta, sapevo esattamente fino a dove potevo spingermi. Mi limitavo ad amarlo in silenzio. E quando capitava, scopavo con Raffaele, immaginando che fosse Gianni. Avrei dovuto sentirmi ancora confuso, disorientato, smarrito, invece, assurdamente, avevo trovato un equilibrio perfetto. La calda amicizia di Gianni andava a riempire i vuoti che la mia relazione con Raffaele lasciava liberi. Quando il cervello trova originali strade per esaudire i propri desideri... Forse ero da psicoanalisi, ma in quel periodo non me ne rendevo conto.

 

Nei fine settimana, Raffaele cominciò a portarmi alla scoperta di vecchie dimore, a volte abbandonate da anni, in cui cercava come un cane da tartufo gli oggetti vecchi o persino antichi, che poi rivendeva. La fatica di trovarne i custodi o i proprietari, per farsi aprire quelle porte, lo ripagava quasi sempre con sorprendenti e soddisfacenti scoperte.

Raffaele aveva di nuovo smesso di rispondere al telefono, quando a chiamarlo era Gianni. Neppure io parlavo mai a Gianni di suo fratello, eppure un giorno lui mi chiese se ne fossi innamorato. Fu semplicissimo rispondergli di no, senza alcuna esitazione.

- Tu non sei uno che s’innamora. - commentò.

-       Ti sbagli. Io sono innamorato.

-       Davvero? Di chi?

-       Di un altro. Uno che non è per me.

Gianni rimase del tutto inespressivo. Disse solo:

- Devo tornare al lavoro.

Poi, mentre tornava alla sua scrivania, gli apparve sul viso uno strano ghigno. Non si accorse che l’avevo visto. Ma io mi chiesi cosa significasse.

 

Se non parlavo di Raffaele con Gianni, di sicuro non facevo neanche il contrario. Raffaele non sapeva nulla dei miei sentimenti per suo fratello. E per non tradirmi in alcun modo, non lo nominavo neanche. Poiché sin dall’inizio del nostro strano rapporto, mi ero rifiutato di parlarne, Raffaele non ci faceva caso. In pratica Gianni era il nostro unico tabù.

Per qualche mese andammo avanti come inforcando un tandem in discesa, poi, un giorno, ci bloccammo in una villa che conoscevo bene.

Era una splendida mattina di metà settembre. Dalla collina si osservavano distese di vigne mature per la vendemmia, e pronte a fornire buon vino. L’appuntamento con i padroni di casa era per le dieci, ma arrivammo con mezz’ora di ritardo. Mentre salivamo per il sentiero, ero ammutolito. Conoscevo bene la villa. Era quella di nonna Tilde.

Due distinti signori ci aspettavano davanti al cancello. Lasciammo la macchina e ci presentammo. Per tutto il tempo rimasi soprappensiero. Mi aspettavo di vedere nonna Tilde sbucare da un vialetto del giardino, da un momento all’altro, o sentire la sua voce chiamarmi dall’interno della casa, per annunciarmi ch’era ora di pranzo. Quanti ricordi mi si risvegliarono nella mente, quante voci, quanti pomeriggi assolati, trascorsi a fare nulla, eppure pieni come mai più erano state le mie giornate. Mi bastava seguire una formica fino al suo formicaio, mentre trasportava una briciola di pane molto più grande di lei. Oppure riempire un secchiello di grilli, afferrati per le zampette con mossa fulminea e imprigionati con una retina per farfalle. Le farfalle no. Mi piacevano troppo. Le amavo. E da quando la nonna mi aveva detto che toccare le loro ali magnifiche le condannava a non volare più, mi limitavo a guardarle, al massimo a seguirle per un po’. Il pensiero di essere stato la causa della morte di tre o quattro di loro, anche se per pura ignoranza, mi faceva sempre soffrire. Ma ero un bambino, e poi, certe cose, passano. Anche la fanciullezza.

La voce di Raffaele, accanto a me, mi riscosse dal sogno ad occhi aperti.

-       Adesso mi dici cos’hai.

-       Niente.

-       Niente un cazzo. È un’ora che fai una faccia!

-       Lo sai dove siamo?

-       Che vuoi dire? Ti ci ho portato io!

-       Questa era la casa di mia nonna, quella del grammofono.

-       Non ci credo.

-       Invece è proprio vero.

-       Allora devo dare un’occhiata anche in soffitta. - disse, tornando verso i proprietari con cui aveva parlato per mezz’ora.

Raffaele mi chiamò.

-       Entriamo. Vieni?

Volevo entrare? Volevo tornare tra quelle mura in cui ero davvero stato felice? Esisteva ancora la mia cameretta con gli aeroplani di latta che riproducevano quelli della seconda guerra mondiale? Il mappamondo su cui avevo studiato viaggi immaginari, mentre fuori pioveva? La raccolta di cartoline, il compasso, le matite colorate, la finestra col vetro a bolle su cui il sole disegnava arcobaleni che vedevo solo io?

-       No, vai pure. Ti aspetto qui.

Non volevo saperlo. Volevo ricordare tutto com’era, come sarebbe rimasto, intatto, immobile, per sempre, dentro di me, con la polvere del tempo ad offuscarne la nostalgia.

 

Il grammofono aveva la tromba azzurra. Non me ne ricordavo. Per il resto era identico a quello che avevo visto sul banco di Raffaele, prima che lo vendesse. Aveva una base in noce con un piccolo cassetto, che serviva per conservare le puntine. Invece c’erano dentro delle vecchie foto dei miei nonni. Chissà come c’erano finite. E, proprio sul fondo, un biglietto di carta ingiallita, ripiegato. Aprendolo, la carta scricchiolò. Lo riconobbi. Ce l’avevo messo io. Con la mia calligrafia infantile avevo vergato quelle poche parole. ‘Quando sarò grande, sarò sempre felice.’ Non ero stato un buon profeta, ma potevo accettarlo come augurio.

Raffaele rise, poi mi chiese:

-       L’hai scritto tu?

-       Sì. Beata innocenza dell’infanzia.

-       Dovevi essere un bambino molto triste.

-       No, al contrario. Mi ricordo di essere stato molto felice, qui.

-       Evidentemente hai una memoria selettiva.

 

Andammo a mangiare in un agriturismo nei dintorni, bevemmo in maniera esagerata, e dopo ci rendemmo conto che nessuno dei due avrebbe potuto guidare. Allora decidemmo di prendere una stanza, per smaltire l’inizio di sbronza.

Il gestore si scusò di poterci offrire soltanto un bungalow un po’ lontano dall’edificio principale, che purtroppo era attrezzato con letto matrimoniale.

Raffaele ebbe la sfacciataggine di rilanciare:

-       Vorrà dire che ci farà uno sconto.

E quello abboccò.

Il bungalow era non solo ben distante, ma anche circondato da un boschetto, sotto la cui ombra ci sentimmo subito meglio.

La casetta era composta di un piccolo soggiorno, un cucinotto, il bagno e la camera da letto. Era completamente arredata, con tanto di tende alle finestre. Il letto aveva la testata e la pediera composte di poco eleganti sbarre di ottone. Non appena lo vide, Raffaele ne fu immediatamente ispirato. Si guardò in giro in cerca di qualcosa. Tornò zoppicando in soggiorno e rientrò, poco dopo, portando con sé i cordoni che avevano tenuto aperte le tende.

-       Che intenzioni hai? - gli chiesi.

Ma era una domanda retorica. Sapevo già cosa voleva farne, solo non sapevo su chi sarebbero state usate.

- Sono per me?

Si spogliò e cominciò a legarsi un polso a una sbarra.

-       L’idea è mia. Quindi tocca a me. - mi disse - Dai, aiutami, che da solo non riesco.

Quindi si distese nella posizione dell’uomo vitruviano, la mia preferita, lasciandosi legare. Quand’ebbi finito, mi disse:

-       Tu non hai idea di quello che ti ho fatto. Merito una punizione magistrale.

-       Sì, lo so. - risposi, stando al gioco.

-       No, dico sul serio. Ti ho fregato. È stato divertente prenderti per il culo, ma poi qualcosa è andato storto.

-       Succede. Uno pensa di prendere per il culo un altro e invece scopre d’inculare se stesso.

-       È esatto. È proprio quello che è successo. Adesso merito il castigo.

-       E lo avrai.

Mi spogliai anch’io e lo guardai. Pur stando al suo gioco, volevo giocarne un altro tutto mio. Volevo immaginare che quello fosse Gianni, che io l’avessi rapito e condotto là, in mezzo a un boschetto lontano dal mondo. Gli avrei fatto pagare tutte le mie sofferenze. L’avrei punito, possedendolo contro la sua volontà.

Quel pomeriggio iniziò così, con uno stesso gioco che ciascuno, un po’ ubriaco, giocava a modo suo. Fui violento. Più pensavo a Gianni, più i segni dei miei morsi impiegavano tempo a sbiadire. Lo picchiai sulle natiche a mano piena, con tutta la forza che avevo, lasciandogli il segno delle dita. Quel gioco mi eccitò in una maniera inaspettata e sorprendente. Raffaele mugolava appena, come temendo che smettessi.

- Adesso pagherai. - dissi, mentre il mio spiedo in pieno assetto di guerra sfondava il suo bel culo, senza pietà.

Raffaele urlò, ma subito dopo iniziò a mormorare - Dai, dai, dai... -

Non l’avevo mai fatto con nessuno. Non avrei voluto che nessuno lo facesse a me. Ma Raffaele continuava ad incitarmi, come se per lui non fosse ancora abbastanza.

Venne prima di me, con un grido soffocato. Io resistetti ancora, rallentando, poi mi lasciai andare. E anch’io gridai, il nome di Gianni.

Mi resi conto immediatamente di aver fatto una cazzata. Ammutolii. Restando dentro di lui, aspettavo che dicesse qualcosa. Mi sarei inventato che faceva parte della punizione.

-       Come hai fatto a capirlo?

-       Cosa?

-       Come hai fatto a capire che sono Gianni?

Rimasi di sasso, disteso su di lui, senza avere più la forza di muovermi.

-       Volevo dirtelo, ma ormai non ne avevo più il coraggio. - aggiunse.

-       Di dirmelo? Perché? - gli chiesi, completamente frastornato. In fondo non ci credevo neppure.

-       Perché mi sono innamorato di te. E invece tu ami un altro. Si può sapere chi cazzo è?

-       Prima fammi capire chi cazzo sei tu. - dissi, cominciando ad incazzarmi alla velocità della luce. Ricordavo il giorno in cui Gianni me l’aveva chiesto e il ghigno che era sfuggito al suo controllo.

-       Slegami.

-       Non se ne parla proprio. Adesso mi racconti tutto, per benino. Poi, se sarai convincente, deciderò cosa fare di te. Se non mi dici la verità, temo che dovrò punirti ancora. Aspetta che vado a prendere una cinghia.

Ci andai sul serio, sfilai la mia cintura dai pantaloni e, così armato, tornai sul letto, sedendomi sui talloni, tra le sue gambe ben divaricate.

-       Puoi iniziare. Attento a quello che dici, però. Ogni volta che mi sembrerà che stai mentendo, o non mi piacerà quello hai fatto, ti arriverà un bel colpo di cinghia. Ti faccio tornare a casa come una zebra viola. Te lo giuro. Chi sei?

-       Sono Gianni. E sono anche Raffaele.

La cinghia volò da sola. Non c’era stato, tra l’udire e l’agire, il concorso di un singolo pensiero razionale.

-       Raffaele non esiste. Non ho nessun fratello. Me lo sono inventato per metterti alla prova. Per vedere come avresti reagito.

La cinghia lo colpì ancora. Era la punizione minima che meritava.

-       È la verità.

Io non fiatai.

-       Avevo capito di piacerti. Volevo solo giocare un po’. Vedere fino a dove potevi arrivare. Quando ti ho presentato Cristina, spacciandola per mia moglie, volevo vedere la tua reazione, se avresti insistito. Ma non l’hai fatto. E io già me n’ero pentito. Per questo mi sono inventato un gemello. Non ti avevo mai raccontato che andavo al mercato dei Navigli. Il banco non è neppure mio, ce l’ho in prestito soltanto l’ultima domenica del mese.

Mentre parlava, mi tornò duro. Mi distesi su di lui, facendogli sentire come reagivo al suo racconto. Lui s’interruppe.

-       Continua. - gli ordinai.

-       Mi hai fatto aspettare per mesi. Ero convinto che non saresti mai venuto. E intanto, in ufficio, mi guardavi in cagnesco oppure m’ignoravi ostentatamente.

Allargai bene le sue natiche ed entrai con un colpo secco. Lui tacque solo un momento, per emettere un piccolo gemito, poi continuò.

-       E io mi sono innamorato di te. Non sapevo come fare. Ero disperato. Quando sei venuto sui Navigli, ho creduto di avere ancora qualche speranza. Ma dovevo fingermi un altro e questo mi è risultato molto più difficile di quello che pensavo. Così ho rischiato di perderti un’altra volta.

Lo penetravo con un ritmo regolare, spingendo fino in fondo e poi ritraendomi fin quasi ad uscire. La sua voce tremava leggermente, ma continuava a raccontare.

-       Poi non ce l’ho fatta più. Ho deciso che ti sarei saltato addosso, in un modo o nell’altro, ma questo lo poteva fare solo Raffaele, visto che Gianni lo tenevi a distanza.

Il mio ritmo aumentò, come la forza con cui lo colpivo. Mentre parlava, Gianni ansimava.

-       E oggi ho deciso di dirti la verità. Ma tu avevi già capito. Come hai fatto?

Urlammo insieme i nostri nomi. Poi restammo in silenzio, a lungo. Io rimasi dentro di lui. Non l’avevo ancora guardato in faccia, né lui aveva guardato me. Non poteva rendersi conto di come mi sentissi, di come quella rivelazione mi avesse sconvolto e tuttavia avesse rimesso al loro posto tutte le sparpagliate tessere di quel puzzle che era diventato il mio amore per lui. Gianni. Solo Gianni. Nessun surrogato, nessun altro che lui, l’uomo che amavo da tanto e che mi era sembrato irraggiungibile. Ma meritava davvero una punizione esemplare.

-       Come hai fatto? - ripeté.

-       Come attore fai schifo.

-       Sei un osservatore troppo attento.

-       E tu sei un emerito stronzo.

-       Ti amo, Vittorio. Puoi dirmi o farmi tutto quello che vuoi, ma io ti amo.

-       Io no.

-       Dimmi chi è.

-       No. Non sono cazzi tuoi.

-       Slegami.

-       No, bello. Non ho ancora finito con te.

 

Quella sera guidai io. Gianni non riusciva neppure a stare seduto. Ma non lo riaccompagnai a casa. Lo feci salire da me.

-       Adesso ti dirò quello che vuoi sapere. Ma la mia verità ha un prezzo.

-       No, ti prego, Vittorio, non ce la faccio. Ho il culo in fiamme.

-       Ma io no. Bada solo ad essere molto ma molto delicato. Non amo essere strapazzato come te.

-       Ti amo, Vittorio. Farò tutto quello che vuoi. Me lo dici, adesso?

-       No, dopo. Se sarai stato all’altezza.

-       Lo sarò. Poi semmai vado ad ammazzarlo.

Io risi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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