La leggenda dell’uomo dai dieci capezzoli

 

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C’erano una volta, tanto tempo fa, in un regno lontano lontano un re e una regina. I due vivevano felici in grazia e letizia e la gioia della loro unione fu completa quando ricevettero notizia dell’arrivo di un figlio.

Allorché il tempo della nascita fu prossimo, il re, ansioso di sapere se la sua sposa gli avrebbe partorito un degno erede, si recò a consultare una nota e temuta veggente che aveva dimora tra le Montagne Oscure, ai confini del regno, negli anfratti di una grotta ove di rado uomo o donna aveva osato addentrarsi a disturbarla. Si diceva, però, che prima della nascita del re, il re suo padre si fosse recato a interrogarla, come pure il padre di suo padre prima di lui. La veggente viveva là da sempre, da che gli uomini serbavano memoria. Anche questo re, che era un impavido e valoroso condottiero, si spinse sino al suo antro e, lasciati ai piedi del dirupo gli uomini della sua scorta armata, s’inerpicò sulle rocce e penetrò sin nella bocca cava della montagna.

La veggente sedeva accanto al fuoco, ammantata di nero. Quando il re entrò, lo fissò con occhi oscuri e indecifrabili. Né giovane, né vecchia, con un volto senza età e senza tempo, né brutta, né bella, ma incoronata di un’aura di maestà e di reverenziale timore. Apostrofò l’uomo minacciosa, chiedendo cosa portasse il sovrano più ricco e potente di quelle terre a sfidare le asperità di quel luogo desolato per presentarsi al suo cospetto. Il re, senza paura, la fissò negli occhi e le pose la sua domanda.

-Quale prole mi partorirà la mia amata regina? Sarà un maschio? Quale destino lo attenderà? Si rivelerà un principe valoroso e degno del mio nome, capace di proseguire la mia stirpe e di reggere il mio trono?-.

-Davvero vuoi sfidare il velo che nasconde il destino ai mortali?- domandò l’incantatrice -Perché è necessario tu sappia che nessun uomo né donna, pur conoscendolo, potrà mai eludere il dettato della sorte!-

-Io voglio sapere!- sentenziò imperturbabile il prode.

-In tal caso, potente re, preparati a inchinarti di fronte al volere del Fato! E prega tutti i tuoi dèi che l’ardire con cui ti accosti alla conoscenza non si rivolti contro di te o contro l’innocente creatura che ancora non è venuta al mondo!-.

-Io voglio sapere!- replicò l’uomo.

-E sia!-

La donna sollevò una manciata di erbe da una ciotola e le gettò sul braciere. La fiamma divampò tingendosi di cremisi e di scarlatto e sollevando un acre profumo di legni magici. Il bagliore si rifletté sul viso della strega e nelle voragini dei suoi occhi scuri, tingendoli di fuoco ardente. Poi ella levò il viso, i suoi occhi si fecero vacui e scuri, abissi di nulla, la bocca s’inarcò a coppa e la voce riecheggiò altera e spettrale nell’antro, non sembrava più nemmeno la sua.

-La tua sposa partorirà un maschio, un erede degno del tuo sangue! Egli erediterà la forza di suo padre e la bellezza di sua madre, crescerà in grazia e potenza, acuta e intrepida sarà la sua mente, sapiente la sua bocca, grande il suo cuore! E più che mai sarà meritevole del tuo trono!-.

A quelle parole il cuore del re si allargò di gioia.

-Ma ascolta, oh re!- lo richiamò brusca l’indovina -Un infausto destino penderà sulla sua testa!-

Il volto del re scolorì: -Quale male osa minacciare mio figlio? Parla, donna!-

-Te lo dirò!- sentenziò lei -Quando il tuo pargolo berrà latte dal seno di un uomo, colui che lo avrà nutrito, e costui soltanto, poco dopo lo ucciderà, strappandogli il cuore dal petto, lasciando la tua stirpe senza un erede e il tuo regno senza un re!-

-Latte? Dal seno… di un maschio?- chiese il re corrucciato e perplesso. Non sapeva se la vecchia sragionasse, se parlasse per enigmi o se si stesse soltanto facendo beffe di lui.

Ma a quelle parole gli occhi vacui della strega lo fissarono con uno sguardo che fece gelare il sangue persino a un uomo impavido come lui. Poi l’espressione umana tornò sul suo viso.

-Questa è la parola del Fato!- sentenziò con una voce che pareva di nuovo quella di una donna. E infine tacque.

A quelle parole il cuore del re si alleggerì. E dalla sua bocca risuonò una fragorosa risata, riecheggiando nell’antro, nella gola rocciosa e tra le montagne tutte. Un solo senso potevano avere quelle parole: il seno di nessun uomo è in grado di allattare, dunque nessun uomo avrebbe mai ucciso suo figlio, quel futuro valoroso re. Ridendo di gioia, uscì dalla caverna, balzò in groppa al suo destriero e corse fiero e felice giù dalla montagna. Seguito dai suoi uomini, galoppò a spron battuto per monti e valli sino alla reggia. Prima ancora che entrasse a palazzo, fu accolto dagli araldi di corte, che gli corsero incontro annunciandogli che la regina aveva partorito un maschio bello e sano. Il re corse nella stanza della sua bella sposa che, raggiante di gioia, ordinò alle fantesche di mostrare al padre il nuovo nato. Il re lo strinse tra le braccia. Era davvero bellissimo, una sottile peluria dorata gli adornava già la testina e aveva ereditato i meravigliosi occhi cerulei della regina. Esultante di gioia, il padre lo sollevò al cielo proclamando che quello era il suo erede, che avrebbe avuto una vita lunga e gloriosa e sarebbe stato un invitto condottiero e un grande re.

 

Gli anni trascorsero e il principe crebbe in grazia, bellezza e forza. Nessun uomo era in grado di eguagliare la sua abilità con le armi, né di batterlo in duello e, da quando iniziò a radersi la prima bionda peluria dalle guance, non ci fu donna in tutto il regno che non sognasse i suoi occhi azzurri e i suoi capelli d’oro. La sua mente era curiosa e pronta ad apprendere ogni sapere. I migliori precettori del mondo conosciuto furono chiamati a corte per istruirlo. Straordinariamente abile nell’oratoria si dimostrava la sua bocca, dote essenziale a ogni generale per arringare i suoi soldati e a ogni re per farsi amare dai propri sudditi. Ormai si apprestava all’età adulta, presto sarebbe stato pronto a sedere sul trono ed era giunta per lui l’età giusta per prendere moglie. Il re e la regina iniziarono a proporgli numerose possibili spose, belle e virtuose principesse dei regni vicini, che di certo sarebbero state lusingate dalla proposta di nozze di un principe tanto nobile e bello. Ma il principe non si curava di tali questioni e preferiva dilettarsi piuttosto della compagnia dei suoi cavalieri. Con loro s’intratteneva in tornei e in lunghe partite di caccia tra le montagne e i boschi e trascorreva serate di gioco e di canti nelle magioni e nei numerosi castelli di cui suo padre gli aveva fatto dono.

La sua mente curiosa e saggia nutriva inoltre un’innata curiosità per le terre lontane e le creature rare. In uno dei suoi castelli fra i monti aveva allestito una meravigliosa collezione di animali e piante esotici e prodigiosi. Un’enorme manticora impagliata si stagliava al centro di una grande sala, con faccia umana, corpo di leone, gigantesche ali di drago spiegate e una coda di scorpione tesa, da cui un tempo, si diceva, la bestia aveva scagliato veri aculei ai malcapitati che le capitavano a tiro. Pareva fosse stato il dono di un prode cacciatore che l’aveva presa viva negli altipiani delle Indie. Vi era poi un grande corno d’argento, staccato, a detta del principe, dalla fronte di un liocorno catturato in Persia e le zanne di uno dei giganteschi elefanti su cui, si diceva, cavalcavano i selvaggi nei torridi deserti del sud. E ancora tre grosse uova di drago, pesanti come pietre, ricoperte di scaglie e scintillanti come gemme preziose. Si narrava fossero state deposte da uno degli ultimi esemplari di quella razza, prima che il Grande Diluvio li sterminasse tutti.

Vi erano poi animali vivi, quali un rarissimo esemplare di araba fenicie, le cui penne di fuoco gareggiavano in lucentezza con l’oro zecchino della gabbia in cui era rinchiusa, altri uccelli esotici dai fantasmagorici piumaggi di tutti i colori dell’arcobaleno e miracolosi pappagalli del Katai in grado di imitare alla perfezione la voce umana.

Nel giardino del palazzo sorgeva una misteriosa serra, dove il figlio del re aveva fatto coltivare piante rare, come il loto egizio, l’estratto dei cui petali dava gioia al cuore degli uomini, facendo loro dimenticare ogni sofferenza, e la mandragola, le cui radici avevano forma umana e, si diceva, virtù afrodisiache. I maligni sussurravano che il principe stesso ne consumasse durante banchetti segreti assieme ai migliori tra i suoi guerrieri.

E non mancavano alla collezione creature che agli occhi di molti apparivano incredibilmente simili agli umani, a cominciare dalle scimmie che il principe allevava nel suo giardino o a un’intera comunità di nani, per cui era stato costruito un villaggio in miniatura e che spesso erano preposti a fungere da buffoni per intrattenere gli ospiti. Vi erano stati anche due grossi esemplari di negri maschi catturati nelle terre dell’estremo sud che il principe adorava esibire nei suoi banchetti. Presentavano un’innata e straordinaria somiglianza con gli esseri umani, ma il principe non perdeva occasione per sbeffeggiare la stupidità di chiunque glielo facesse notare. I loro membri virili, dalle dimensioni quasi equine, avevano sempre sollazzato la curiosità dei commensali. Ma presto il principe si era stancato di quell’attrattiva ormai desueta e li aveva fatti vendere. In compenso però continuava a interessarsi all’esistenza di nuove specie rare e adorava intrattenersi con viaggiatori provenienti da terre lontane e ascoltare i loro racconti.

Un giorno giunse alla sua corte un cavaliere errante che aveva viaggiato nelle terre desolate dell’Occidente, dove di solito anche gli uomini più temerari evitavano di avventurarsi. Il principe non perse occasione di invitarlo a banchetto con sé e i suoi compagni e là, dopo che si furono intrattenuti con gustosa cacciagione, buon vino e spettacoli di nani mascherati, il sovrano invitò l’ospite a narrare le proprie avventure. E l’uomo, ormai non più giovane ma ancora forte e vigoroso, dal volto barbuto ancora energico e volitivo, segnato dall’esperienza e dalla conoscenza, narrò di montagne impervie e altipiani desolati dove mai anima umana aveva messo piede, di ghiacciai vicini al tetto del cielo ove la neve non si era mai sciolta e di villaggi di povera gente che non incontrava altri esseri umani da secoli. Questi a loro volta gli avevano narrato di creature misteriose che dimoravano tra quei monti: ippogrifi alati, giganti con un occhio solo che nessuno da secoli aveva più visto, ma che si favoleggiava dimorassero ancora tra quelle caverne, feroci Amazzoni pronte ad ammazzare qualunque maschio capitasse loro a tiro e altre creature ancor più strane. E narrò di uno strano popolo che si favoleggiava dimorasse tra le montagne di Mammel. Un gruppo di selvaggi, soli maschi a quanto si diceva, poiché nessuno aveva mai visto le loro donne. Uomini grandi e possenti, dai corpi villosi. Sul petto avevano enormi capezzoli che, si diceva, erano in grado di allattare come quelli delle femmine. Alcuni ne avevano anche più di due, arrivando a ostentarne quattro, sei o persino otto lungo il torace e il ventre. A quanto pareva nelle loro tribù erano gli uomini stessi ad allattare i propri piccoli e, stando alle leggende, il latte dei loro seni era più delizioso del nettare degli dèi e aveva addirittura virtù afrodisiache. Non a caso quei selvaggi avevano fama di godere di appetiti sessuali voraci e insaziabili.

I commensali risero divertiti a quel racconto, ma il viaggiatore replicò che c’era ben poco da ridere, che tutte le genti dei villaggi vicini ne erano terrorizzate. Un giorno essi avevano fatto incursione in un piccolo paese in cui l’uomo era ospite e tutti gli abitanti, avvistatili a distanza, erano fuggiti disperati, mettendo al riparo i fanciulli, maschi e femmine, non sapendo chi le voglie di quei bruti avrebbero prediletto. Era rimasta soltanto parte del bestiame, quei greggi che nessuno aveva fatto in tempo a mettere al riparo. E al loro ritorno gli uomini poterono costatare che i selvaggi si erano sollazzati con pecore e capre.

-Davvero esiste un popolo del genere?- chiese scettico uno dei cavalieri.

-Mai sentito menzionare! A quale razza apparterrebbero?-

-Nessuno sa quale sia il loro nome!- rispose serio il viaggiatore -Le genti a loro vicine li chiamano... i Popputi!

Tutti risero divertiti, non sapendo se l’uomo scherzasse per divertirli o se si stesse facendo beffe di loro.

-E senza donne come fanno a riprodursi? Defecano i loro infanti dal retto?- chiese un nobiluomo ironico.

-Questo è un mistero che nessuno è mai riuscito a svelare!- rispose quello serio e impassibile.

-Ne avete mai visto almeno uno?- chiese diffidente uno dei compagni prediletti del principe.

-Sì, un Popputo!- gli fecero eco gli altri.

-A distanza, poiché, nonostante la mia ormai non più giovane età, i miei ospiti mi convinsero a mettermi al riparo.

-Beh, non dubito che un uomo ancora in forma e di bell’aspetto come Voi potesse essere in pericolo!- lo riprese cortese il principe, senza alcun cenno di incredulità né di ironia nella voce –Ma ditemi, che aspetto aveva il selvaggio?- soggiunse con reale curiosità.

-Più alto di almeno una testa di Voi, Maestà, che pure siete uomo di rara prestanza. Muscoloso come un toro, peloso come un orso e con lo sguardo ancor più feroce. E dovete credermi se vi dico che, se a prima vista le protuberanze del suo petto non sembravano dissimili dai muscoli di un uomo vigoroso, in mezzo alla peluria gli svettavano due capezzoli più grossi e più rossi della fragola che siete intento a mangiare giusto in questo momento!-

Il principe si scostò dalle labbra l’enorme fragolone intinto in dolce glassa bianca che stava succhiando: era la fragola più grossa del vassoio, che non a caso aveva scelto per sé.

-Ed è vero ciò che si dice del siero che stilla da essi?- soggiunse il giovane signore leccando doviziosamente la glassa prima di infilare in bocca il frutto.

-Beh! Ne era rimasto sparso qualcosa sulle povere bestie malcapitate! Confesso di averne assaggiato una goccia e... in effetti non ricordo di aver mai degustato sapore altrettanto dolce... Sulle altre virtù... beh, non credo di poter rispondere io stesso...- soggiunse con un sorrisetto sghembo.

Tutti risero. Tranne il principe, che applaudì estasiato al suo racconto. Terminata la cena ordinò che fosse approntato per l’ospite il miglior alloggio del castello e si offrì di accompagnarvelo lui stesso prima di coricarsi.

Il giorno seguente, lo straniero ripartì di buon’ora, senza esimersi dal profondersi in inchini e ringraziamenti per la generosissima ospitalità ricevuta.

Quando fu di nuovo in compagnia dei propri cavalieri, il principe prese a decantare la gioia che gli avrebbe procurato aggiungere alla sua collezione uno di quei Popputi dai molti capezzoli e dal delizioso latte. Tutti i compagni risero ossequiosi e divertiti a quello scherzo.

Ma il tempo passò e il principe si rabbuiò. Sempre triste e irascibile, se ne stava per conto proprio, nelle sue stanze, disdegnando i giochi e la compagnia degli amici. Un giorno il suo compagno prediletto si recò a fargli visita. Lo trovò solo, intento a sfogliare un tomo nella sua biblioteca, mentre fissava l’orizzonte lontano da una larga vetrata, verso il sole che s’inabissava a occidente, tingendo il crepuscolo di porpora. L’amico chiese al suo signore che cosa avesse. Quello rispose che era giunto per lui il momento di pensare ai propri doveri. I suoi augusti genitori insistevano ché desse al suo regno una regina e lui avrebbe dovuto farlo. Il cavaliere chiese se la cosa lo rattristasse. Il principe rispose malinconico che la sua giovinezza era finita, assieme al tempo dei giochi e della spensieratezza. Il cavaliere gli chiese se avesse potuto lenire la sua tristezza, si offrì di suonare per lui, dote in cui era straordinariamente portato. Il principe lo lasciò fare e, mentre quello pizzicava le corde della sua arpa d’oro e intonava con voce calda e stentorea una melodia triste, che si accordasse agli umori del suo sovrano, questi si accasciò su un sofà. Il suo pensiero si perse nel vuoto, verso orizzonti lontani, e calde lacrime inumidirono i suoi occhi color del cielo e rigarono le sue belle e diafane guance. Fissò il suo cantore, era davvero bello il suo amico, il più bello e forte tra tutti i suoi cavalieri, secondo per prestanza solo a lui stesso. Lunghe chiome color bronzo incorniciavano il suo viso, dai tratti nobili e dolci ma virili e fieri, e, mentre gli ultimi raggi del crepuscolo scomparivano e le torce venivano accese per la notte, il colore dei suoi occhi danzava nella luce soffusa, oscurandosi dal verde dei boschi al grigio del mare in tempesta. La sua voce era profonda e viva, dolce nel canto quant’era possente e spaventosa nel grido di guerra, e le sue labbra, che si muovevano ad articolare la melodia, erano simili a petali di rosa, aggraziate e belle quanto quelle di una dama. Il cavaliere lo guardò con uno dei suoi sorrisi limpidi, che il principe sapeva fin troppo bene essere colmi di un affetto sincero.

-Non potremo più divertirci assieme come un tempo!- sussurrò con un sorriso amaro.

-Tu sarai il nostro re!- rispose il cavaliere –Potrai far tutto ciò che vorrai!-

-Son cosa gravosa i doveri di un re! Non sarà più lo stesso in ogni caso!-

-Vorrei fare qualcosa per lenire la tua tristezza, per non vederti più quello sguardo sul viso!-

-Beh, forse c’è qualcosa che potrebbe farmi felice, ma...

-Dimmi cosa e lo farò!-

-Se solo tu potessi andare sui monti di Mammel e portarmi un Popputo da tenere qui nel mio Castello delle Delizie...- rispose il giovane sovrano con un sorriso sognante.

Al cavaliere si allargò il cuore a vederlo sorridere così, il suo amato signore aveva ancora voglia di scherzare. Ma per un attimo si chiese se non fosse davvero quella pazzia a far sognare la sua mente allontanandola dalle sofferenze del presente. Si limitò a rispondere con una gentile risata.

-Se esistessero davvero, puoi star certo che correrei a catturarne uno e lo trascinerei qui in catene perché tu possa abbeverarti alle sue poppe. Ma hai sentito tu stesso il racconto di quell’uomo. Di certo quelle mitiche creature sono solo una leggenda!-

-Già!- replicò il principe rabbuiandosi in viso –E questo pensiero non fa che acuire la mia tristezza. Ora smetti di suonare! Puoi andare!- soggiunse congedandolo con un cenno della mano –Desidero cullare il mio dolore in solitudine!-.

Il cavaliere ebbe un tonfo al cuore, ma chinò il capo e si allontanò, obbedendo ai voleri del suo principe.

Il tempo passò e il principe rimase cupo. A volte riprese a intrattenersi coi suoi cavalieri, ma non mostrava più la stessa gioia di vivere di un tempo e soprattutto non degnava più delle stesse attenzioni il Cavaliere dall’Arpa d’Oro, che fino a poco tempo prima era stato il suo favorito, né lo mandava più a chiamare perché suonasse per lui o lo intrattenesse in privato.

Presto annunciò che entro sette giorni si sarebbe recato nella capitale per una sontuosa festa da ballo, dove avrebbe conosciuto la Principessa di Rocca-del-Cigno, una damigella di rara bellezza che probabilmente avrebbe scelto come sposa. Pochi giorni dopo il Cavaliere dall’Arpa d’Oro gli chiese udienza. Il principe, dopo averlo fatto attendere a lungo, gliela concesse. Ma lo accolse con estrema freddezza. Il cavaliere gli fece le proprie congratulazioni, dicendogli che era felice per lui. Il principe lo guardò bieco in silenzio. Il cavaliere gli chiese se quella decisione avesse portato pace al suo animo e gli disse che ne avrebbe gioito per lui, pur essendo triste perché aveva la sensazione che l’affetto che il suo signore gli dimostrava non fosse più quello di un tempo. Il principe aprì bocca soltanto per rispondergli che ormai i doveri di erede avrebbero richiamato stabilmente il suo affetto altrove. Il cuore del cavaliere divenne pesante come un macigno all’udire il tono di voce del suo signore, ma sopportò il dolore in silenzio, con la fierezza del combattente che era. Replicò che avrebbe accettato ogni sua decisione e fatto qualsiasi cosa, se ciò avesse davvero reso felice il suo principe.

-Allora- replicò il principe sciogliendo improvvisamente il gelo in cui era rinchiuso –incamminati verso occidente e portami il dono di nozze che ti ho chiesto! Ed io ti giuro che, anche dopo le mie nozze e una volta che sarò re, il mio cuore ti sarà debitore per sempre!-

Il viso del cavaliere scolorì al pensiero di quella follia. Ma era un guerriero addestrato alle armi, forgiato dalla fatica e temprato dalla battaglia e, facendo appello a tutto il suo indomito coraggio, si disse che non poteva e non voleva tirarsi indietro.

-Se darà felicità al cuore del mio Signore partirò domani stesso all’alba!- replicò inginocchiandosi.

Allora il viso del principe s’illuminò. Si alzò dal suo trono, invitò il cavaliere ad alzarsi e lo abbracciò. E il cuore del cavaliere esultò, quasi scoppiando per la gioia.

Il principe volle intrattenersi con lui sino a tardi quella notte. E dopo che ebbero riposato, il prode si apprestò a partire.

Sellato il suo destriero color della notte, raccolto in una bisaccia il necessario per il viaggio, cinse la bella armatura di bronzo, imbracciò la fulgente spada d’acciaio, assicurò alla sella lo scudo e l’arpa d’oro e infine prese congedo dal suo signore.

-Il mio cuore e la mia speranza saranno con te ogni giorno!- sentenziò il principe –Nessuno dimenticherà mai ciò che stai facendo per il tuo futuro re!-

-I tuoi desideri sono ordini! La tua felicità è la mia!- replicò il cavaliere.

Il principe lo abbracciò ancora. Si chinò al suo orecchio e gli sussurrò: -Ho ragioni personali per prestare fede incondizionata alle dicerie sui benefici del latte di quei selvaggi, miracoloso anche per un uomo che l’abbia solo assaggiato. Portamene uno qui e potremo goderne entrambi!-

Il cuore del cavaliere accelerò la sua corsa, sorrise al suo signore, s’inchinò, balzò in sella e partì al galoppo verso occidente.

 

Il principe lo salutò col cuore impaziente. Già pregustava la grossa ed esclusiva meraviglia che avrebbe aggiunto alla propria collezione. Ma i giorni e le lune passarono e il cavaliere non tornava. Il principe sapeva che i Monti Mammel erano lontani e il cammino lungo, ma era certo che il suo drudo, da prode qual era, avrebbe catturato la preda e sarebbe tornato da lui in un baleno. Eppure il cavaliere non tornava. Il principe inviò i propri uomini a setacciare i confini del regno. Gli dissero che aveva varcato i confini alcune lune prima ma che poi nessuno lo aveva più avvistato. L'estate sfiorì lasciando il posto all'autunno. E il cavaliere non tornava. A volte il principe passava le sue giornate da solo, alla finestra, a contemplare le foglie che s’indoravano sugli alberi lungo il sentiero che conduceva ai confini occidentali del regno. Talvolta vedeva l'ombra di un viaggiatore che arrivava di lontano a cavallo e il suo cuore accelerava la corsa sperando che fosse il suo cavaliere venuto a consegnargli il bottino. Ma il cavaliere non tornava. L'autunno lasciò il posto all'inverno. Gli alberi e i monti si ricoprirono di neve e il principe iniziò a temere che il cavaliere non tornasse più e con lui neppure il suo premio, e il suo cuore si rattristò. Forse il suo compagno era morto, nelle lontane terre occidentali, chissà dove. Il cuore del sovrano s’incupì a quel pensiero, ma poi si disse che se quell’uomo non era riuscito nell'impresa che gli aveva assegnato, allora era un debole e nessuno aveva bisogno di lui. Capì che quella delusione avrebbe indurito il suo cuore e che non avrebbe mai più conosciuto le gioie di un tempo. I suoi genitori insistevano perché scegliesse una sposa ma lui gettava via le loro lettere o rispondeva evasivo, rimandando quell'incombenza. Una notte sognò il cavaliere. Era tornato, era di nuovo là a corte con lui, suonava per lui, si scusava per aver fallito, per esser ritornato a mani vuote, ma il principe rispondeva che non importava, che era comunque contento di riaverlo accanto a sé, che la vera ragione per cui passava le giornate ad attenderlo alla finestra non era il premio che gli avrebbe riportato, ma soltanto lui. E il suo cuore era contento. Ma poi si svegliò, solo nel suo freddo letto regale, in cui ormai da mesi rifiutava la compagnia di chicchessia. E il cavaliere non tornava. Infine ritornò la primavera. Gli alberi rifiorirono, la natura sorrise di nuovo, il principe non sorrideva più. Ma la neve disciolta sulle montagne sembrava aver lavato via gli ultimi infantili capricci di giovinezza dal suo cuore e infine egli capì che doveva rinunciare agli stupidi sogni e diventare uomo. Comunicò al re e alla regina che approntassero i festeggiamenti più sontuosi che si fossero mai visti nel regno, poiché era pronto a sposare la principessa di Rocca-del-Cigno.     

L'intero regno festeggiò la notizia delle imminenti nozze regali. Il bel principe era molto amato da tutti e il popolo era felice poiché presto sarebbe salito al trono e avrebbe donato loro un erede. Il re si rallegrò del giudizio mostrato infine dal suo figliolo, che presto, come lui aveva sempre saputo, sarebbe stato pronto a prendersi cura del regno al suo posto. La buona regina, felice che il suo diletto pargolo avesse scelto una consorte tanto bella e virtuosa, si dette da fare per regalare agli sposi la più bella e memorabile cerimonia che si fosse mai vista. Tutto era pronto perché le nozze avessero luogo dopo il Calendimaggio. Ma prima del matrimonio, il principe volle un sontuosissimo banchetto privato nel suo Castello delle Delizie per festeggiare un'ultima notte da scapolo con i suoi più amati guerrieri.

L'intero castello fu lustrato, addobbato e decorato e fu imbandito il più ricco e sfarzoso convito che vi si fosse mai visto. Centinaia di portate si alternavano senza posa: succulenti timballi, arrosti di montone in salsa di latte, fagiani in salmì, le varietà più assortite di cacciagione, speziate con raffinati aromi venuti dall'Oriente. Le danzatrici più esperte del regno saltellavano sulla tavola vestite di veli, alla luce delle lampade d'oro in cui bruciavano essenze profumate. I cavalieri discorrevano e scherzavano allegri, mentre nani abbigliati da giullari trotterellavano attorno alla tavola esponendosi ai loro lazzi e il vino più prelibato del regno scorreva a fiumi nelle coppe, mesciuto da begli efebi profumati dai riccioli inanellati d'oro. E quando furono serviti i dolci e la gustosa frutta candita, i cavalieri fecero sfilare dinanzi al sovrano i propri doni di nozze al suono di raffinati inchini e salamelecchi. Spade e scudi d'oro e d'argento forgiati dai migliori fabbri del regno, cavalli rapidi come il vento e dal candido manto immacolato provenienti dai deserti dell'Arabia, scattanti levrieri da caccia, vesti e mantelli di seta finemente damascati in oro, una nuova rarissima specie di serpente in gabbia, catturato chissà dove, con cui sua altezza avrebbe adorato giocare, giovani schiavi da letto di entrambi i sessi, bellissimi, ignudi e profumati. Ma il principe se ne stava accasciato tra i cuscini del suo scranno d'oro, fissando malinconico e senza interesse quella sfilata di generosa mercanzia. Né sembravano rallegrarlo i migliori musici del regno, che, assisi in cerchio in una nicchia, allietavano il convito con suono d'arpe, flauti e cembali. Forse non era la loro musica che il principe desiderava.

Quando quel teatrino di opulenza e piaggeria fu terminato, allontanò con un cenno stanco il proprio piatto e disse ai commensali che continuassero pure a godersi la sua ospitalità. Lui era stanco e intendeva ritirarsi. Un soffocato mormorio serpeggiò attorno alla tavola, tra i compagni tristi e delusi al pensiero che il loro principe abbandonasse da solo la festa in suo onore. Ma all’improvviso le porte della sala si spalancarono. Una corrente d’aria fece ondeggiare i drappi di broccato cremisi e oro che decoravano le pareti e la luce dei lampadari di diamanti tremolò riflessa sugli specchi d’oricalco e sugli arazzi dai colori infuocati raffiguranti le fatiche di antichi eroi, possenti e ignudi. Prima ancora che il valletto alla porta, scaraventato a terra dall’irruenza del nuovo arrivato, facesse in tempo ad annunciarlo, gli amici del principe trattennero il respiro vedendo entrare colui che tutti, ormai, credevano non sarebbe più tornato.

-Non vorreste prima accettare anche il mio regalo di nozze, Vostra Altezza?- esordì con un sorrisino il Cavaliere dell’Arpa d’Oro. Indossava ancora l’armatura e il mantello da viaggio, le lunghe chiome scure erano scomposte sugli omeri, ma aveva lo stesso aspetto fiero ed eroico con cui tutti lo ricordavano.

D’improvviso il volto del principe s’illuminò.

-Sei tornato!- sospirò ancora incredulo sporgendosi in avanti sul suo trono.

-Mai e poi mai sarei mancato all’ultima notte di bagordi del mio Signore!-

-E la sola tua presenza è il più grande dono che tu potessi portarmi!-

-Aspettate di vedere l’altro mio dono!- rispose il cavaliere con un sorriso sghembo sul viso. -Vieni avanti, Capezzolone!-

Fece un piccolo gesto con la mano, dando un leggero strattone a una catena d’oro che pendeva da essa e, attraverso la porta, sotto gli occhi increduli di tutti gli astanti, fece il suo ingresso una gigantesca e quanto mai singolare creatura. Dall’aspetto lo si sarebbe definito simile a un uomo, ma era più alto di almeno una testa di tutti gli uomini presenti in quella sala e aveva una corporatura mastodontico. Era vestito di una pelle animale non conciata, allacciata sulle spalle, che lasciava a nudo le braccia tornite di giganteschi muscoli d’acciaio, le ginocchia, i polpacci altrettanto solidi e un paio di ragguardevoli piedoni. Lunghe chiome nere gli cadevano ispide e scarmigliate sulle spalle, una folta barba nera gli ricopriva le guance. Il suo volto dai tratti feroci e fieri e i suoi profondi occhi neri fecero tremare tutti gli astanti. La sua sola vista avrebbe potuto incutere terrore. Ma egli, con un innocente e ingenuo sorriso da bimbo, fissava sereno il cavaliere che lo conduceva ed avanzava placido e composto dietro di lui. Attorno al collo portava un grande anello d’oro cui era attaccata l’altra estremità della catena che il suo signore teneva in mano ed egli si lasciava guidare senza colpo ferire. Quando il cavaliere si fu fermato sotto il seggio del principe, strattonò appena la catena. Prontamente il colosso si inginocchiò accanto a lui e si prosternò a baciargli i piedi.

-Onora il mio Signore, non me!- sentenziò il cavaliere. Il bruto prontamente si volse verso il principe e si prostrò. Quello per un attimo, all’avvicinarsi dell’enorme bestione, ebbe un fremito ma, constatando la sua mansuetudine, lasciò che si genuflettesse e baciasse i suoi piedi. Poi lo invitò ad alzarsi.

-Obbedisci al principe!- lo invitò il cavaliere.

Quello prontamente si alzò e levò lo sguardo verso il suo nuovo signore che, dall’alto della pedana su cui sorgeva il trono, poteva fissarlo appena diritto negli occhi.

-Incredibile! Lo hai fatto davvero?- ansimò incredulo il principe al suo drudo.

-Desiderate scartare il regalo, Maestà?- gli chiese il cavaliere compiaciuto.

Il principe ebbe una scintilla negli occhi. Il cavaliere si accostò con assoluta tranquillità alle spalle del suo prigioniero, afferrò la pelle che lo rivestiva e gliela sfilò di dosso lasciandolo ignudo di fronte agli occhi increduli degli astanti.

Un corpo colossale e forte, due spalle enormi, un torace immenso e villoso e un paio di pettorali robusti e sporgenti su cui svettavano, in mezzo alla peluria nera, due ragguardevoli fragolone rosee ancora morbide ma ugualmente appuntite e protese all'infuori. E, spettacolo incredibile a vedersi, seminascoste dal pelo, due file di altri capezzoli di dimensioni progressivamente decrescenti gli discendevano lungo il petto e giù sul ventre muscoloso e tornito. Agli astanti sembrò di poterne contare almeno cinque per lato. La peluria scendeva poi in una striscia sotto l'inguine, dove pendeva un membro maschio di notevoli proporzioni.

Il cavaliere gli passò le mani attorno al dorso. Il bestione si lasciò toccare, per nulla contrariato. Il giovane gli allungò le mani sul petto e gli prese le poppe da dietro, le sue dita affondavano come nei seni di una dama.

-Ammirate che sizze, Maestà!- fece con un sorriso malizioso, sollevando da sotto le due tette e lasciando che si gonfiassero tra le sue mani, facendo sporgere le due grosse areole semierette che, da rosee che erano, si andavano colorendo di un regale porpora acceso.

Il principe non resistendo si avvicinò a occhi sgranati.

-Toccate pure, mio Signore!- lo incoraggiò divertito il cavaliere.

Il selvaggio aveva sul volto un sorriso smagliante. Facendosi coraggio, il sovrano allungò una mano a tastare una poppa villosa, la sollevò, la strinse nel palmo. Poi prese l’altra. Riempivano le mani, generose come i seni di una donna ma solide e tornite come i pettorali di un uomo. Carezzò il grosso capezzolo, lo strinse tra due dita, la punta grossa e rotonda si eresse. Il selvaggio contrasse il viso in un'espressione che pareva di gradimento. Il sovrano discese a palpeggiare gli altri capezzoli, come per assicurarsi che fossero veri.

-Incredibile!- sussurrò -Come sei riuscito a portarlo sin qui e a renderlo tanto mansueto?-

-Non voglio essere io stesso a vantare le mie prodezze, Vostra Altezza. Ma potrà dirvelo lui. Non è vero, Capezzolone?- soggiunse mollando una gentile pacca sulla spalla dell’omone.

Il principe guardò in viso la creatura che pareva sorridere.

-Tu parli la nostra lingua?-

-Poco, Vostra Altezza!- replicò la creatura con una voce cavernosa e roboante che fece sussultare tutti i convitati, benché il suo tono fosse tanto dimesso. Un brusio di incredulità serpeggiò in tutta la sala quando udirono quel bestione parlare.

-Cavaliere insegnato me!- soggiunse. Aveva uno spiccato accento barbaro, ma si esprimeva nella lingua del regno in maniera ben intellegibile.

-Donde vieni straniero?-

-Da tribù di Figli di Zizzon! In Monti che voi chiamare Mammel, verso dove muore Sole- si ergeva fiero e interloquiva sereno e a proprio agio, incurante della propria totale nudità.

-E dimmi- soggiunse il principe divertito -Perché hai seguito il mio amico sin qui?-

-Io suo schiavo- replicò il bruto -Lui Padrone. Lui ordinare, io seguire-.

-Dimmi come ha fatto a fare di te il suo schiavo- sentenziò il principe.

-Venuto nostra terra, lottatore forte e instancabile, sottomesso me con grande e potente spada di acciaio. Intero mio popolo ceduto a suo volere. Io suo schiavo!-

Tutti i presenti trasecolarono per l’ammirazione, immaginando la strenua prodezza del guerriero, solo di fronte a un’intera tribù di enormi giganti.

-I miei sinceri complimenti!- gli fece il principe con un sorriso, riallontanandosi verso la pedana del suo trono.

-Maestà- lo trattenne il cavaliere suadente, stringendo in mano una poppa del buon selvaggio e giocherellando con il capezzolo -Avete gustato i cibi e i vini più prelibati del regno! Non desiderate assaggiare il mio dessert?-.

Gli astanti guardarono, trattenendo il fiato. Il principe sembrava a disagio, pareva che tutto l'ardente coraggio di quel guerriero si fosse spento alla vista del feroce bestione. Qualcosa di strano fluttuò nella sua testa.

-Ogni sovrano ha un assaggiatore che provi i suoi cibi prima di lui!- sentenziò.

-Oh! Su questo posso garantire personalmente, Maestà!- replicò il cavaliere con un sorriso.

Il principe si riassise sul trono e lo fissò circospetto.

-Siete miei ospiti!- esordì poi con un sorriso, allargando le braccia a tutti gli astanti -Gustate la mia primizia e ditemi quanto merita. Per me terrò l'ultimo sorso!-

-Come desiderate!- replicò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro con una riverenza -Sia lode alla vostra generosità! Vieni, Capezzolone!- soggiunse poi saltando d'un balzo sulla tavola imbandita e tendendo la mano al bestione che lo seguì, facendo tremare piatti e portate con i passi dei suoi gravi piedoni nudi sulla tovaglia di satin.

Il cavaliere gli afferrò di nuovo le poppe da dietro e prese a giocarci e a martoriargliele.

-Coraggio, signori! Ammirate che capezzoloni! Chi vuole favorire?- apostrofò i commensali. Gli uomini si guardarono tra loro, tra l'interdetto e il divertito. Il bestione pareva gradire, aveva un'espressione deliziata in viso e anche il suo membro pareva essersi ingrossato, ma si sarebbe lasciato palpeggiare da chiunque con la stessa mansuetudine?

-Io!- sentenziò all'improvviso il Barone di Tor del Mastino, un gigantesco guerriero dalla testa rasata la cui voce era simile a un rutto e la cui stazza era superiore a quella della maggior parte degli uomini presenti, sebbene non eguagliasse quella del selvaggio.

-Tutti sanno che esperto succhiatore di tette tu sia, amico mio!- lo provocò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro.

-Sebbene io ammetta di non averne mai degustate di così pelose!- sentenziò l’altro. Tutti risero.

-Non vediamo l'ora di ammirare la tua abilità!- lo invitò l’altro.

Quello montò sul tavolo e si parò dinanzi al selvaggio. Per un attimo fissò l'energumeno in cagnesco, ma quello era serafico tra le braccia del suo aguzzino.

-Fa' assaggiare le zizze a questi bei cavalieri!- gli sussurrò quello all'orecchio. Il Barone di Tor del Mastino con un impeto di coraggio allungò una mano e gli afferrò una tetta, la strinse, la manipolò un po' facendo sfuggire un gemito al bestione, poi si chinò e se la infilò in bocca, come fosse stata quella di una donna. Iniziò a succhiare avidamente. L'omone nudo parve emettere un gemito.

-Qualcun altro desidera mostrarci quello che sa fare?- fece frattanto il Cavaliere dell’Arpa d’Oro sfiorando con le mani l'altra poppa e altri capezzoli sotto di essa -Come vedete, c'è posto per tutti!-

Si fece avanti il Conte di Volpe Rossa, un elegante gentiluomo dal viso sornione e dalle lunghe chiome fulve, con baffi e barbetta ben coltivati. Il cavaliere gli fece cenno di accomodarsi. Quello si chinò sull'altro pettorale dell'omone, tirò fuori la lingua e iniziò a lavare il capezzolone roseo. Quando fu completamente eretto, lo addentò cavando al bestione un grido soffocato. Faceva uno strano effetto vedere un uomo barbuto succhiare il seno villoso di un altro maschio. Ad alcuni dei presenti veniva da ridere, ad altri sortiva una reazione di genere differente.

-Oh sì! Bravo Capezzolone!- gli sussurrò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro.

-Ma è asciutta! Dove sarebbe quel leggendario latte?- fece il Barone di Tor del Mastino staccandosi dalla poppa e sollevando interdetto il suo testone.

-Sii paziente, amico mio!- rispose il cavaliere stringendo uno dei capezzoli sul ventre e torcendolo tra le dita -Queste fragole sono come il membro di un uomo. Devi condurle all’apice del godimento perché ne esca il latte!-

-Oh beh, in tal caso!- replicò fiero l'altro -Le femmine gridano impazzite quando lavoro le loro bocce!- e si chinò a slinguare il contorno dell'areola per poi tornare sulla superficie del capezzolo.

Frattanto altri uomini, incuriositi dallo spettacolo e rassicurati dalla condiscendenza del bestione, si stavano arrampicando sul tavolo.

-Facciamo i signori!- esordì il Barone di Tor del Mastino -Il dessert va degustato con le posate!-. Ridendo prese una forchetta d'oro dal tavolo. Vi sfiorò un capezzolo ancora morbido e liscio, poi lo pizzicò con le punte.

-Aaah!- gemette Capezzolone con voce cavernosa.

Per un attimo il barone temette di averlo fatto arrabbiare, ma quando capì che erano gemiti di godimento e vide il capezzolone arrossarsi e farsi coriaceo, non resistette e riprese a punzecchiarlo e infilzarlo, giocando a imprigionarne la punta tra i denti della posata e a vedere quanto riusciva a farlo indurire.

-Potremmo annaffiare il dolce con del buon vino!- propose il conte sollevando una bottiglia di delizioso rosso e versandolo sulle poppe per poi chinarsi a succhiarlo. Rivoli di vino colarono sul torace e sul ventre, stillando su tutti i capezzoli turgidi, mentre altri cavalieri si chinavano a rincorrerli con la lingua.

Il selvaggio pareva davvero eccitato, il volto e il torace arrossati ansimavano, il grosso fallo svettava ormai completamente eretto. Uno degli uomini lo prese in pugno e cominciò a menarselo in mano.

-Attento!- lo trattenne il Cavaliere dell’Arpa d’Oro.

-Lo faccio eccitare!- replicò quello.

-Ma attenzione a non far eiaculare il membro prima che ci abbia saziati tutti con il latte dei seni!- lo avvertì lui.

Il principe guardava lo spettacolo dal suo trono, sempre più entusiasta ed incuriosito. Quell'enorme energumeno in ginocchio sulla sua tavola, in mezzo ai suoi uomini. Erano in dieci, adesso, chini a suggere un capezzolone ciascuno. E il suo cavaliere prediletto lo teneva tra le braccia da dietro e gli mormorava sconcezze nell'orecchio.

-Ti piace, Capezzolone?-

-Sì!- ansimò il bruto con un sorrisone. Le sue manone calarono sulle teste dei due uomini intenti a ciucciargli le poppe. Quelli per un attimo sudarono freddo ma poi si resero conto che erano solo carezze, che il bestione se li stringeva al petto invitandoli a degustare con più ardore.

La bocca del cavaliere calò a baciare il collo taurino dell'omone. Quello divenne paonazzo. Poi iniziò a gemere e gli uomini che erano su di lui dettero come l'impressione di accelerare il ritmo della poppata. Quando il primo di loro si staccò, il principe vide che aveva la bocca sporca di una patina bianca e che un getto candido zampillava ritmicamente fuori dalla punta del capezzolone eretto.

-Mmmmm!! È il nettare più delizioso che abbia mai assaggiato!- sentenziò il Barone di Tor del Mastino staccandosi con la bocca ancora grondante.

-Né uomo né donna ha mai secreto umore tanto sublime!- gli fece eco il conte leccandosi i baffi. Avevano i volti arrossati e gli occhi stravolti come fossero stati ebbri di vino.

Continuarono a poppare avidamente sinché non furono saturi, poi si scansarono per far posto agli altri compagni. I capezzoloni eretti continuavano a eiaculare fiotti di liquido bianco, simili a fontanelle o a piccoli membri virili in orgasmo. Il cavaliere accostò ad uno una coppa di cristallo e lasciò che la secrezione del capezzolo la riempisse. Poi la sollevò sorridendo in direzione del suo sovrano.

-Volete favorire, Maestà?-

Il principe incuriosito fece cenno a un coppiere che gliela portasse. La accostò alle labbra e assaggiò. Appena tiepido e dolcemente zuccherato. Altro che umore di uomo o di donna, neppure il miele o il vino aveva mai avuto sapore tanto dolce. Lo tracannò tutto d'un fiato, lasciando che gli infuocasse la gola e gli salisse alle guance. Ma era un fuoco diverso da quello del vino o dell'idromele. Guardò i suoi uomini eccitati e divertiti che si abbeveravano a quel nuovo giocattolone, il suo cavaliere prediletto che lo fissava sorridendo. Guardò lo scimmione in estasi tra quelle braccia, il suo largo torace villoso, i capezzoli eretti e stillanti dolce siero e una voglia insana si impossessò di lui.

-Fai assaggiare anche a me, Capezzolone?- lo invitò con un sorriso e un cenno della mano.

Il volto del bestione si illuminò.

-Coraggio!- lo sospinse il cavaliere con una carezza sulla spalla. Gli uomini del principe si scansarono rispettosamente mentre il bruto avanzava sul tavolo e saliva sulla pedana, di fronte al trono del suo signore, fissandolo negli occhi. Si sollevò una poppa in una mano a coppa e la porse a Sua Altezza. Il principe con un sorriso si chinò, si attaccò e bevve quel dolce nettare di felicita, e di oblio. Succhiò avidamente, si saziò. Poi affondò la testa nel mezzo del petto muscoloso e sfoderò appena i denti a marchiarlo del proprio segno, saggiandone la possanza. Il bestione guaì di piacere stringendo una manona tra i capelli d'oro, che danzarono slacciati sulla pianura sterminata di quel torace. Il principe si lasciò imprigionare nel solco villoso tra i pettorali.

Quasi vi soffocò.

Poi risalì a ciucciare avidamente l'altra sizza sinché non fu ebbro e dissetato.

-Divino!- sentenziò con un sorriso al cavaliere.

-E non sapete cosa sa fare la sua bocca ai capezzoli di un altro uomo!- rispose quello ammiccando.

-Vuoi dire...- balbettò il sovrano.

-Forse voi non vorrete esibirvi qui dinanzi a tutti,- replicò l'altro -ma...-

Non aveva ancora finito di parlare, che il principe, alzatosi in piedi, già s’era strappato di dosso giustacuore, camicia e farsetto ostentando con fierezza il proprio scultoreo torso nudo.

-Allora, Capezzolone- lo apostrofò il cavaliere -ti piace il principe?-

-Bellissimo!- ansimò il selvaggio estasiato. Aveva la pelle diafana e liscia di un efebo ma la muscolatura soda e guizzante era quella di un guerriero allenato, due capezzoli rosei come fiori di pesco spiccavano contro il candore del torace, rivolti verso il basso per la possanza dei pettorali. Il bestione si chinò a sfiorargli il collo con le sue labbra generose con una delicatezza inaspettata, discese poi al centro del petto, si avventurò su un capezzolo. Un'espressione di abbandono si dipinse sul volto del principe, che strinse a sé la testa di quel bestione, lo afferrò per le chiome e se lo serrò contro il petto. Con una mano il bruto prese l'altro capezzolo e cominciò a titillarlo tra due dita. Il principe gettò all'indietro la testa lasciando fluttuare nel vuoto la chioma d'oro e i suoi occhi si offuscarono di lacrime. Il bestione gli leccò il torace passando, con ansimante desiderio, da un capezzolo all’altro, come un cucciolo affamato. Il principe iniziò a gemere soavemente. Una mano del bestione s’accostò appena alla patta dei calzoni regali senza neppure sfiorarli. Istantaneamente i gemiti si fecero più serrati, ripetuti fremiti scossero la schiena ignuda del principe mentre le sue mani strattonavano isteriche le chiome del bestione. Continuò ad ansimare, sinché il bestione non si staccò sorridendo. Il principe restò immobile, gli occhi vacui, e si lasciò cadere tramortito sul trono, come fluttuasse nel vuoto. Il suo volto candido era divenuto infuocato e agli occhi attenti sembrava che una vasta marea umida avesse impregnato il satin azzurro e argenteo su un lato delle sue brache a palloncino.

-Mai provato niente di simile!- sospirò. Fece cenno ai suoi uomini che si riaccostarono prontamente al bestione. Alcuni ripresero a succhiare il latte che ancora stillava dai capezzoli e che stimolato dalle loro bocche prese a zampillare in getti di nuovo più violenti. Trascinato da loro il Popputo si sdraiò sulla tavola lasciando che si chinassero ad abbeverarsi, mentre appoggiava la testa sulle ginocchia del Cavaliere dell’Arpa d’Oro, accovacciatosi dietro di lui.

Ormai infuocati da quel dolce nettare e accaldati dalla foga, alcuni di loro avevano preso a denudarsi.

-Vuoi succhiare anche le mie sizze?- lo incitò uno strappandosi la camicia.

Il Popputo lo guardò di sottecchi, mentre era intento a baciare e contemporaneamente a slacciare voglioso la patta dei calzoni del Cavaliere dell’Arpa d’Oro.

-O forse ti piace succhiare anche altro!- ammiccò un altro calandosi le brache e restando ignudo.

Il selvaggio sorrise, rizzandosi all'improvviso in ginocchio con la lingua di fuori.

-Oppure potresti farmelo infilare qui in mezzo!- soggiunse un terzo sollevandogli le poppe tra le mani e passando un dito nel solco tra di esse -E alla fine vediamo se, uno vicino all'altro, il mio seme è più bianco del tuo latte!-

Buona parte degli uomini iniziarono a gettarglisi addosso e l'energumeno pareva deliziato. Alcuni restavano invece ai propri posti, limitandosi a dar gioia ai propri occhi, godendo dello spettacolo e della reciproca compagnia. Ed altri traevano ispirazione dalla scena mentre stringevano a sé una danzatrice o un giovane coppiere.

      -Lascia che si divertano e vieni con me!- Il Cavaliere dell’Arpa d’Oro alzò gli occhi e vide il principe, sopraggiunto alle sue spalle -Sarai stanco e teso dopo tutti questi mesi di viaggio! Nessuno aveva mai fatto tanto per me, lascia che ti esprima tutta la mia riconoscenza!- Gli strinse una spalla e poi si allontanò nel turbinio del suo manto blu.

      -Devo andare Capezzolone!- sussurrò lui all'orecchio del selvaggio -Divertiti e falli divertire tutti!- soggiunse vedendo l'estasi dipinta sul viso del ragazzone mentre si allontanava dal baccano di quella colossale orgia.

 

      La luna era già alta nel cielo mentre, nella tranquillità delle stanze del principe, il sovrano e il suo cavaliere lenivano la fatica in un bagno ristoratore. Cascate d’acqua tiepida danzavano fuori da conchiglie e bocche di pesci di pietra smaltata sorretti da statue di efebi nudi e scrosciavano nella larga vasca di marmo dove, immersi placidamente sino alle spalle, i due uomini sorseggiavano vino dorato da calici di cristallo.

-Spero di poterti prima o poi dimostrare tutta la mia gratitudine!- fece il principe sorridendo al suo prediletto che, sul lato opposto della vasca, si ristorava dalle pene del viaggio sotto la carezza di un getto d’acqua.

-La mia felicità è aver reso felice te, mio Signore-.

-Intanto stiamo rendendo felici i nostri amici!- sghignazzò il principe -Il tuo omone sembrava ben contento di darsi da fare!-

-Oh, lo è! La fama degli appetiti sessuali dei Popputi è assolutamente ben meritata e non c'è schiavo migliore nel dar gioia al proprio Padrone di quello che gioisce lui stesso nel farlo!-

-Inizio a chiedermi come tu abbia fatto ad ammaestrarlo così bene! È bastata davvero la sola minaccia della tua spada alla gola?-

-In un certo senso!- rispose il cavaliere con un sorriso evasivo.

-Che vorrebbe dire? A me puoi raccontare la verità! So quanto tu sia prode e valoroso, ma hai davvero messo in ginocchio da solo un'intera orda di bruti inferociti?-

-Ciò che ha detto Capezzolone è tutto vero, anche se... non esattamente nel senso che si potrebbe credere...-

-Cosa?- fece l’altro divertito.

-A te non voglio mentire, mio principe. Ma prometti di non ridere di me!-

-In nome della gioia che provo nel riaverti qui e del meraviglioso regalo che mi hai fatto, potresti dirmi qualsiasi cosa e ti onorerei comunque. Narrami dunque!-

-D’accordo!- sentenziò il cavaliere -Ti dirò tutto per filo e per segno!

Dopo essermi congedato da te, cavalcai instancabile, per giorni e notti, ritto sulla sella, collo sguardo volto a occidente. Quando ero stanco fermavo la cavalcatura e riposavo nei boschi o a volte sostavo presso le città e i villaggi che trovavo sul mio cammino. A volte gli abitanti mi offrivano da bere e da mangiare ed io, grato, li ricompensavo con monete d’oro. Continuai a cavalcare per settimane, sinché i luoghi abitati non si fecero sempre più radi e attorno a me non vi furono che boschi e pianure incontaminate. Infine si profilarono all’orizzonte le sagome delle immense montagne dell’Occidente che sfidano il tetto del cielo. Ebbi un tuffo al cuore al pensiero di dovermi arrampicare su quei dirupi impervi, ma raccolsi le forze e spronai il destriero.

 Avanzai per giorni nella natura desolata, sinché, ai piedi delle montagne, non mi imbattei in un remoto villaggio di pastori. Erano gente semplice e non parlavano la nostra lingua, ma si mostrarono ugualmente cordiali e accoglienti. Parlando a gesti chiesi loro come giungere ai Monti Mammel. Quelli mi guardarono terrorizzati e cercarono di dissuadermi, provarono a farmi capire quali feroci e potenti uomini selvaggi avrebbero tentato di uccidermi, ma io insistetti sinché un vecchio non mi disegnò una mappa. Guardandola compresi: avrei dovuto inerpicarmi sino alla cima del monte più alto, al di là della vetta, vi era un lussureggiante altopiano che conduceva alla Foresta Oscura e oltre quella vi erano i Monti Mammel. Il mio viso scolorì a quel pensiero e al vedere il terrore sul volto dei miei ospiti. Mi chiesero perché lo facevo: io pensai alla tristezza che avrebbe oscurato il tuo volto, mio Signore, se fossi tornato a mani vuote e risposi a gesti, portandomi le mani al cuore. Gli stranieri compresero. Mi rifocillarono e mi offrirono scorte di cibo, acqua e vino rosso perché potessi scaldarmi nel gelo dei monti. Io avevo finito le monete, ma loro indicarono la mia arpa e fecero cenno che li ricompensassi con una canzone. Iniziai a suonare, ripensai alla nostra terra e a te, mio Signore, e intonai un canto triste. Tutti i presenti piansero.

La mattina seguente ripartii. Mi inerpicai sugli aspri pendii dei monti. Quando il gelido vento del nord mi fece battere i denti, mi ricoprii con una calda pelliccia offertami dagli stranieri, arrancai sulle distese di neve e ghiaccio, infine guadagnai la vetta del monte più alto. Oltre vi era la discesa e poi un altopiano sterminato. Prati e boschi lo tappezzavano e oltre ancora vi era un’altra catena montuosa, distante giorni e giorni di cammino. Non v’era traccia alcuna d’anima umana. Sentii la terra vacillare sotto i miei piedi per il senso di desolazione. Ma raccolsi le forze e continuai ad avanzare. Raggiunsi la Foresta Oscura e spronai il cavallo tra l’intrico dei rami. Avanzai per giorni e giorni, seguendo l’ombra dei Monti che intravedevo laddove le chiome degli alberi si diradavano. Ben presto persi il conto del tempo e la percezione dello spazio. Il bosco si infittiva e a me non restava più cognizione alcuna della strada. Vagai disperato per giorni. Infine il mio cavallo era esausto, così decisi di accamparmi ai piedi di una vecchia quercia e accesi un fuoco. Tutt'attorno v’era solo muta oscurità. Non sopportando più quella solitudine, presi l'arpa e riempii il silenzio con una melodia malinconica, la stessa che avevo cantato l’ultima volta per te, mio Signore. Tanti ricordi risorgevano alla mia mente. Poi, non sapendo che altro fare, pregai. Pregai tutti i miei dèi e tutti gli altri che conoscevo e primo fra tutti il dio dell’Amore, che sino ad allora mi aveva dato la forza e aveva guidato il mio cammino. Ma attorno a me vi erano solo le ombre del bosco, i suoi inquietanti e minacciosi rumori e il buio. Guardai il bagliore delle fiamme e ripensai a te, mio Signore, ai tuoi occhi azzurri, ai tuoi capelli d’oro, e -che gli dèi tutti e tu, mio principe, vogliate perdonarmi- mi chiesi come ciò che era nato come un passatempo, come un gioco tra uomini fosse diventato qualcosa di tanto colmo di devozione, tanto forte e tanto crudele. M’ero spinto in capo al mondo, e compresi che non sarei mai più tornato indietro, né vivo, né morto.

Ma ad un tratto un’ombra si fece strada tra gli alberi, un viandante, un altro essere umano che s’aggirava in quella desolazione. Indossava un manto scuro, e un ampio cappello piumato gli ombreggiava il viso. Attonito e incredulo quanto felice di vederlo, lo salutai. Il viandante mi sorrise, ricambiando il saluto. Mi chiese se potevo offrirgli ospitalità presso il mio fuoco e io fui ben contento di fargli spazio. Mi chiese chi fossi e cosa facessi in quel luogo desolato. Io ero talmente felice di parlare con un altro essere umano che gli offrii di dividere il mio vino e gli narrai tutta la mia storia, gli dissi come ero partito da ormai svariate lune per raggiungere i Monti Mammel, che ero in cerca dei Popputi, che ne avrei dovuto catturare uno e portarlo in dono di nozze al mio signore, ma che avevo smarrito il cammino ed esaurito i viveri e che presto sarei morto. Lo straniero mi guardò, in silenzio, con quello che pareva un misto di stupore e ammirazione, e chiese cosa mi spingesse a un’impresa tanto ardua. Io ripensai all’ultima notte in cui ti avevo visto, mio Signore, alla gran gioia che mi avevi espresso alla promessa di quel dono di nozze e la risposta mi sorse spontanea:

<<Amore!>>

E lo straniero sorrise: <<Amore... la forza più potente dell’universo intero! In tal caso... prendete il sentiero dietro quell’albero di mirto e procedete sempre diritto. Tra due giorni la strada inizierà a inerpicarsi in salita, sinché non giungerete a un valico. Quelli sono i Monti Mammel! Superate il passo e sarete nel territorio dei Popputi.>>

<<E come li troverò?>> chiesi frastornato.

<<Se entrate nella loro terra, saranno loro a trovare voi. Ma prima di passare il valico sotterrate la spada e proseguite disarmato: in seguito ai presagi nefasti dei loro dèi, gli uomini dai grossi capezzoli uccidono all’istante qualunque straniero osi varcare i loro confini con le armi in pugno. E non provate ad opporre resistenza ai loro attacchi: sarebbe uno scontro perso in partenza!>>

Improvvisamente mi sentii totalmente stordito, forse dal vino o forse da quella conversazione surreale, in quel luogo ai confini del mondo conosciuto. Avvertii il sonno sopraffarmi.

<<Grazie!>> replicai <<Come sapete tutto questo? Chi siete? Non so neppure il vostro nome!>>

Lo straniero sorrise: <<Con molti nomi diversi mi chiamano uomini e donne di questa e di altre terre.- rispose -Ma io sono noto al cuore di ognuno di loro, in ogni tempo e in ogni luogo, in questo e in altri mondi!>>

Lo guardai senza capire, mi chiesi se non stessi vaneggiando in preda ai fumi del vino. Intorpidito dal sonno e dal freddo mi sdraiai nel manto di pelliccia.

<<Allora, uomo dai molti nomi, non avete freddo?>> gli chiesi <<Desiderate condividere il mio giaciglio e il calore delle mie coltri?>>

Lo straniero sorrise, si avvicinò, lasciò cadere il cappello e il manto e mi guardò con due occhi colmi d’amore, di innocenza, ma anche di infantile malizia e di somma saggezza al tempo stesso. Era completamente nudo sotto il mantello. Incredibilmente giovane, poco più di un ragazzo, e bellissimo. Un volto roseo incorniciato di riccioli d’oro, il volto più incantevole che avessi mai visto. Si chinò su di me e mi baciò le labbra.

<<Io accorro sempre da chi mi evoca con animo sincero!>> sussurrò. Si infilò sotto la pelliccia, il contatto di quel corpo nudo e caldo, della sua pelle morbida fece avvampare in me il desiderio, con lo stesso ardore del fuoco, che, poco più in là, si ravvivò all’improvviso sulle braci e scacciò ogni gelo dalle nostre membra.

<<Sei pronto a seguire l’amore sin dove ti condurrà?>> mi sussurrò il giovane nudo. Somigliava a te, mio principe, eppure era così diverso.

<<Sì>> risposi d’istinto stringendolo a me.

<<L’amore sarà con te, ti assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo. Ma fa attenzione: l’amore è imprevedibile. Nessun mortale può governarlo davvero! E potrebbe condurre il tuo cammino a mete del tutto diverse da quelle che ti aspetti! Sei davvero pronto a seguirlo?>>

Ebbi un fremito a quelle parole, ma ripensai ancora a te, mio Signore, e all'immensa devozione che ti porto:

<<Sono pronto!>> replicai.

Il giovane sorrise e mi baciò di nuovo le labbra. Il sonno calò sulle mie palpebre.

 

Il mattino dopo mi svegliai da solo accanto ai resti del fuoco. Il sole era già alto oltre gli alberi, avevo ancora la testa dolorante e mi sentivo stordito. Mi chiesi se quello della notte prima non fosse stato un sogno ingenerato dai fumi del vino, ma poi vidi una piuma di pavone accanto al mio giaciglio. Riconobbi che era caduta dal cappello dello straniero e trasalii. Era accaduto davvero? Sembrava assurdo, ma tutto quel viaggio e l’avventura in cui mi ero imbarcato lo erano. Decisi di seguire le sue istruzioni, tanto ormai non avevo nulla da perdere.

Avventuratomi dietro l’albero di mirto che era poco più in là, scovai davvero, occultato dagli arbusti, un sentiero. Alzai gli occhi al cielo ringraziando il misterioso forestiero e seguii il viottolo. Continuai a procedere sempre diritto. A giudicare dal muschio sul lato delle cortecce rivolto a nord, mi sembrò di essere diretto a occidente. Avanzai per due giorni finché la strada non iniziò a inerpicarsi in salita. Continuai per un altro giorno, nel folto della boscaglia, sinché gli alberi non si diradarono appena e non mi resi conto di essere giunto a un valico tra due pareti montane. Le guardai. Due alture boscose dalla forma rotondeggiante, ciascuna delle quali aveva una erta roccia isolata a forma di pinnacolo sulla vetta.

<<I Monti Mammel!>> trasecolai tra me e me.

Il sentiero boscoso passava nella valle tra le due mammelle. Ero davvero sul sentiero giusto. Ricordai le parole del bel giovane. Presi la spada, compagna inseparabile di tante battaglie, dono del mio valoroso padre, pace alla sua anima d’eroe. Rimirai la lama d’acciaio scintillante, l’elsa riccamente istoriata, non me n’ero mai separato. Ma poi pensai agli avvertimenti dello straniero e alla gioia che avrei visto sul tuo volto, mio Signore, se fossi tornato vittorioso. La infissi ai piedi di un albero e feci rotolare un masso a coprirla, sarei tornato a prenderla al mio ritorno. Se mai fossi tornato.

Levai una preghiera a tutti gli dèi e le dee che conoscevo e al dio Amore per primo. Poi feci appello a tutto il coraggio che avevo e, disarmato, attraversai il valico e ridiscesi nel pendio boscoso. Ero nel territorio dei Popputi.

Dopo poco che avanzavo nella boscaglia, mi resi conto, col sesto senso del guerriero addestrato alla caccia e alla guerra di imboscata, che qualcuno, da qualche parte, mi stava seguendo. La paura vibrò nel mio stomaco e mi fece tremare le ginocchia, ma ho imparato sin troppo bene ad affrontare il pericolo. Mi feci forza e avanzai. Se mi seguivano avrebbero avuto ciò che volevano. Ero disarmato, ma ero pur sempre un guerriero, addestrato al corpo a corpo.

Poi udii un fischio nell’aria. Mi gettai a terra appena in tempo per vedere un enorme bastone andare ad abbattersi su un albero. Mi voltai di scatto e lo vidi. Capelli neri, barba nera, occhi neri colmi di una ferocia animalesca che mi fece contrarre i visceri. Un gigante dal corpo smisurato, la cui testa sfiorava i rami frondosi delle alte querce. Urlò con una voce cavernosa e terribile che scosse gli alberi come una tempesta e poi si lanciò verso di me come una furia. Quasi per riflesso condizionato feci una capriola rotolando via sulla schiena e lasciai che il bestione si abbattesse d'impeto a terra. Si alzò. Ebbi appena il tempo di squadrarlo. Aveva un fisico colossale e forte, braccia possenti come tronchi, una pelle animale allacciata su una sola spalla che lasciava scoperta metà del petto villoso e.... in mezzo alla peluria nera lo vidi: un grosso capezzolo roseo largo quanto una noce e leggermente sporgente. Ma non feci in tempo ad accertarmi di averlo visto davvero che il selvaggio mi fu addosso con un balzo ancor più rapido. Mani smisurate e forti mi sbatterono addosso ad un albero serrandomi in una stretta più dura del ferro. Il bestione, come hai potuto vedere, era davvero enorme e dotato di forza smisurata, ma io indossavo un’armatura, oltre ad essere ben addestrato ed enormemente più agile. L’energumeno mi afferrò e mi gettò a terra avvinghiandomi in una stretta sotto il suo peso smisurato. Io lo agguantai a mia volta cercando di mozzargli il respiro. Avvertii il suo odore dilatarmi le nari, forte e selvatico ma limpido e non sgradevole. Rotolammo nel sottobosco nel tentativo di prendere uno il sopravvento sull’altro. Io sollevai un ginocchio e gli assestai un calcio nel ventre. Svelto il selvaggio balzò in piedi sottraendosi alla mia stretta. Io rotolai su me stesso e mi allontanai. Nella lotta gli avevo strappato di dosso parte della sua veste rudimentale. Ora era ignudo sino alla cintura: aveva davvero due grosse ciliegie sporgenti sui pettorali villosi e... benché seminascoste dal pelo due file di altri capezzoli gli discendevano lungo il petto e giù sul ventre. Con sommo stupore, mi sembrò di poterne contare dieci! Ma mentre ero rimasto immobile e incredulo, a bocca sbarrata, vidi le file di capezzoli danzare e marciare nell’alternarsi di luci e ombre e, un attimo dopo, quella montagna di muscoli pelosi mi fu addosso e mi serrò sollevandomi di peso e stritolandomi come fossi stato un fuscello. Mi sentii mancare l’aria. Non sapendo che fare reagii d’istinto afferrando i due capezzoli più grossi, quelli sulle tette e li torsi a sangue. Sentii all’istante le areole contrarsi e indurirsi, le punte scattare sull’attenti e dalla bocca della bestia scoppiò un urlo animalesco e selvaggio. Per un attimo non capii se urlasse di dolore o di piacere, mentre percepivo qualcosa di duro che si gonfiava inequivocabilmente sotto la pelle conciata che ancora gli restava attorcigliata ai fianchi. Come impazzito, continuai a strattonare e a scuotere l’intero corpo del bestione tenendolo per le punte delle poppe. Quello continuò a strillare. Infine mollò la presa su di me e io, benché stravolto e senza più fiato, m'allontanai con un rapido balzo.

Ma ecco che all’improvviso, forse richiamati dall’urlo, altri bestioni balzarono fuori dagli alberi, altri giganteschi selvaggi barbuti, cinti di pelli, accorsero in aiuto del compagno. Mi circondarono. Ma io, col mio stupido orgoglio da guerriero, non mi piegai-.

Il principe sembrava vivamente eccitato dal racconto di tanta prodezza.

-Ad uno ad uno mi attaccarono- continuò il cavaliere -ed uno ad uno li fronteggiai a mani nude. Mi vennero addosso due alla volta ed io, abbassando rapidamente la testa, lasciai che si colpissero tra loro. Continuammo così finché il sole non calò oltre le chiome degli alberi e le ombre del bosco non si infittirono. Infine caddi a terra esanime. Le bestie mi furono addosso e mi seviziarono-.

E il principe, improvvisamente rattristato, si lasciò cadere sul bordo della vasca.

-Giacevo immobile. I loro occhi feroci si posarono tutti su di me. Mi chiesi se m'avrebbero ammazzato. Invece uno di loro, dietro di me, mi agguantò trascinandomi in piedi. Poi in due mi afferrarono l’armatura e me la strapparono. Subito dopo mi stracciarono la tunica, lasciandomi completamente ignudo. Emisero una serie di rantoli che ricordavano qualcosa di simile a una risata e confesso che mi sentii avvampare di vergogna. Sono sempre andato fiero del mio corpo, temprato dall’esercizio e dalle battaglie, che mai sino ad allora aveva suscitato scherno ma soltanto ammirazione, nei gentiluomini quanto nelle dame!-

-Hai tutte le ragioni per esserne orgoglioso!- replicò il principe riempiendosi nuovamente il calice, mentre squadrava da un lato all'altro della vasca il fisico muscoloso e abbronzato dell'amico.

-Eppure di fronte a quel consesso di giganti nerboruti e villosi mi sentii come un pupo inerme dalla pelle diafana e glabra. D’istinto abbassai le mani a proteggere le vergogne. Ma il selvaggio che era dietro di me mi afferrò i capezzoli, li strizzò, li torse e disse qualcosa ridendo. Sono abituato a sopportare dolori ben peggiori, eppure non riuscii a trattenere un grido. Poi mi gettarono di nuovo a terra.

Il selvaggio dai dieci capezzoli tirò fuori il membro virile di sotto la pelle che gli cingeva i fianchi. Era sorprendentemente grosso. Gli altri lo imitarono. E all’improvviso capii quale sorte mi attendeva. Le mani dei selvaggi mi furono addosso e mi immobilizzarono. Iniziai a divincolarmi e a scalciare, avrei voluto alzarmi in piedi e battermi ancora, ma ero nudo, malconcio e le mani forti dei popputi non mi lasciavano possibilità di ribellione. Mi rivoltarono prono e poi il primo di loro mi disonorò. Se solo avessi avuto la forza di difendermi...- il cavaliere si interruppe, pallido come la morte.

-Lo capisco, amico mio, non avevi scelta! Sono commosso al pensiero che la tua devozione per me sia giunta sino a tanto!- lo rassicurò il principe.

-Potete immaginare cosa accadde dopo...-

-Sì! Ma raccontamelo! Voglio sapere...- chiese il suo signore. La storia stava prendendo una piega inaspettata ma, a quanto pareva, cominciava ad eccitarlo di nuovo.

-Fu un colpo secco e profondo- riprese inespressivo il cavaliere -e il dolore fu superiore alla vergogna. Ripensai agli stupri dei prigionieri sotto le tende dell’esercito e capii che stavolta toccava a me. Alzando la testa, vidi gli altri popputi che si tenevano il cazzo in mano e ci giocavano in attesa del proprio turno. Uno ridendo me lo sbatté in faccia, gli altri lo imitarono. Volsi la testa disgustato da quei membri selvatici e sconvolto dal dolore al retto. Non riuscii più a trattenermi e urlai. Loro risero. Alzando lo sguardo vidi il volto feroce e selvaggio del mio primo aggressore. La crudeltà animalesca sul suo viso, il fuoco della furia nei suoi occhi. Torreggiava sopra di me, dal basso vedevo le punte rosee di tutti i dieci capezzoli eretti sporgere dal petto e dall’addome e, sotto, il grosso membro che svettava mentre se lo menava in mano. Pensai disperato al dolore che quell’enorme protuberanza mi avrebbe inferto. Infine sentii il selvaggio dietro di me rantolare con violenza urlando e scaricarmi su per le viscere. Poi mi girarono supino. Un altro mi sollevò le gambe e prese il posto del primo. Urlai di nuovo per il dolore. Uno di loro mi schiaffeggiò con violenza la faccia. Aprii la bocca per urlare più forte e quello si prese il membro e me lo ficcò in bocca a forza. Rischiava di soffocarmi, ma incurante iniziò a violentarmi la bocca a colpi di bacino. Accanto a lui c’era quello coi dieci capezzoli, a torso nudo. L’altro selvaggio gli prese in mano un capezzolone eretto e prese a titillarlo, poi si chinò sul suo petto e lo succhiò. Quello sembrò gradire, gli prese la testa e se la strinse al petto mentre continuava con l’altra mano a menarsi l’uccello. Un altro alla sua sinistra imitò e prese a succhiargli un altra mammella più in basso, sul ventre. Frattanto quello dai dieci capezzoli strappò la veste di pelle dal petto del suo vicino gli accarezzò una poppa dal capezzolo eretto e prese a tormentarglielo tra due dita. Li guardai sconvolto e inquietato e vidi che anche gli altri, sopra di me, si univano al gioco. Si denudarono completamente e iniziarono a toccarsi e suggersi le tette gli uni gli altri mentre continuavano a sollazzarsi i membri nelle mie viscere, nella mia bocca e su tutto il mio corpo. All’improvviso quello che mi stava sodomizzando iniziò a emettere un rozzo gemito. Altri due gli stavano succhiando le sise, uno a destra, l’altro a sinistra, e mi parve che improvvisamente accelerassero il ritmo della poppata mentre quello con foga isterica continuava a gemere e se li stringeva ai seni. Infine mi sborrò nel culo con violenza. Gli altri due si staccarono dal suo petto. Alla luce che filtrava tra gli alberi sembrava che sia sul petto dell'uno, sia sulle barbe degli altri due luccicasse una strana patina bianca. Quello che mi stava penetrando uscì, ma un altro prese il suo posto rinnovando la mia agonia. Frattanto mi resi conto che dal petto di un altro stava iniziando a stillare uno strano nettare. Un suo compagno lo succhiava dal seno sinistro, ma gli altri capezzoli schizzavano liberamente un liquido bianco come se stessero eiaculando. E poi anche quello ritto sulla mia testa ebbe la stessa reazione e tutti i suoi dieci capezzoloni iniziarono a far zampillare latte come fontane. Ben tre compagni si chinarono a succhiare avidamente tutte le sue tette ma alcune gocce si riversarono sulla mia povera faccia. Contrassi il viso cercando di scansarmi, ma ero immobilizzato e sentii alcune gocce, liquide e calde scivolarmi sin sulle labbra. D’istinto le inghiottii.

Rimasi incredulo. Mi sarei aspettato che avessero un sapore selvatico e disgustoso come quei selvaggi, invece avevano un gusto dolce e intenso allo stesso tempo. Più dolci del miele e più inebrianti del vino. E d’improvviso, come uscito dal mio corpo, guardai interdetto la scena.

Alla pallida luce del calar della sera, in mezzo a una tribù di uomini nudi, ebbi un ricordo di banchetti notturni, alla luce azzurra delle lampade all’oppio, nelle sale segrete di questo Castello delle Delizie-.

Ammiccò con la testa al suo principe.      

-Eppure quelli che mi circondavano erano bruti pelosi e disgustosi, più simili a bestie che a uomini. Quello dai dieci capezzoli mi fissava. I suoi lineamenti non sarebbero stati brutti se non fossero stati deformati da quel ghigno animale. C’era forza nel suo viso, come nelle sue membra possenti. Il fuoco nei suoi occhi mi turbava, eppure non riuscivo a smettere di fissarlo. Mi chiesi ancora se mi avrebbe fatto male quando fosse toccato a lui. E, che gli dèi mi perdonino, mi chiesi se quel latte avrebbe avuto lo stesso sapore succhiato direttamente da quelle fragole succose. Lui mi appoggiò con forza il membro sulle labbra, ne sentii il gusto acre e selvatico come una scossa nelle viscere e quasi per riflesso condizionato non potei fare a meno di infilarmene in bocca quanto più me ne entrava e di succhiare voracemente giocando con labbra e lingua nel disperato tentativo di ingoiarlo tutto. Un altro selvaggio mi penetrò e iniziò a cavalcarmi con rapidi colpi di reni, ma il fondo del dolore era quasi piacevole e io assecondai la cavalcata danzando con il bacino. Rividi il volto del giovane biondo che avevo incontrato nel bosco.

“L’amore sarà con te, ti assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo!”.

Per un attimo un’amara nostalgia mi invase il petto e poi –che io sia dannato!- ci fu solo una scarica di cieco e brutale desiderio. Mi vergogno a raccontarlo, ma iniziai a succhiare e farmi sodomizzare con foga, eccitato come mai prima dallo spettacolo dei bruti che si succhiavano le poppe sopra di me, abbeverandosi l’uno del latte dell’altro. Pervaso da una foia animalesca e isterica, afferrai quanti più piselli potevo e mi alternai a masturbarli tutti. Riuscii a infilarmene in bocca due e a lavorarli con la lingua sotto i loro occhi esterrefatti, mentre segavo a turno gli altri e lasciavo che uno ad uno regalassero piacere alle profondità dei miei visceri per poi inondarne di lava bollente il segreto. Sborrarono tutti. Di alcuni degustai il seme caldo e dal sapore selvaggio, lasciai che quello di altri impregnasse il mio corpo e che altri ancora si liberassero dentro di me. Infine fu quello dai dieci capezzoli a incularmi supino. Aveva mostrato una sorprendente resistenza. Le sue mammelle continuavano a stillare di latte. E, con mia somma vergogna... bastarono pochi colpi perché fossi io a sentire il piacere riecheggiare nelle mie viscere e raggiungere la punta del mio cazzo che eiaculò con serrati colpi liberatori. Con un moto istintivo e isterico gli afferrai i due capezzoli più grossi, sui pettorali, e li strattonai. Il bruto sussultò, subito dopo mi schiaffeggiò in faccia. Evidentemente non gradiva che fossi io a toccargli le tette, ma immediatamente iniziò a prorompere in grida selvagge e lo sentii eruttare a fiotti nel mio retto-.

Mentre narrava, il bel viso del cavaliere s'era fatto rosso, per l'imbarazzo forse, sebbene dal fervore con cui riportava i dettagli si sarebbe detto che a quei ricordi una foga tutt'altro che spiacevole ancora lo pervadesse.

-Quando uscì da me, mi sentii improvvisamente esausto, svuotato e squarciato dal dolore. Ripensai a ciò che avevo fatto, guardai i selvaggi ignudi che mi fissavano con aria di scherno e d’un tratto mi sentii annichilire per la vergogna.

Chiusi gli occhi, ma sentii uno di loro che si avvicinava. Era quello dai dieci capezzoli, lo riconobbi dall’afrore della sua carne, muschiato e intenso. Mi sollevò e mi caricò in spalla come un peso morto. Non avevo più la forza di reagire. Mezzi nudi come erano, i bruti si incamminarono nel bosco assieme alla loro preda e io mi lasciai trasportare, in bilico tra la vita e la morte. La testa mi pulsava con violenza, le mie membra erano duramente provate dalla battaglia e da quanto era seguito. Persino l’immagine del tuo viso, mio Signore, s’andava via via sfocando nella tenebra che mi calava sulle palpebre.

Sentivo solo la forza brutale di quel corpaccione che mi stringeva e l’odore selvatico dell’uomo e del bosco che parevano una cosa sola. Non mi resi ben conto della strada che avevamo seguito. Il sole era calato e a un tratto avvertii la luce di un grande fuoco che illuminava la strada. Udii altre voci che si levavano unendosi a quelle dei miei assalitori. Somigliavano a voci umane ma il tono, come i suoni che articolavano, ricordavano più i ruggiti di fiere selvagge. Fui gettato a terra. Alzai la testa e mi resi conto di essere giunto a destinazione.

Gli alberi si diradavano. Eravamo in una radura a cielo aperto adesso, nell'ora del crepuscolo. C'era un grande falò e attorno centinaia di selvaggi simili a quelli che mi avevano catturato. Alcuni se ne stavano in piedi, altri assisi su tronchi di legno. Avevano tutti corpi robusti e muscolosi, più o meno villosi, capelli e barbe più o meno lunghi. Indossavano rozze pelli di animali non conciate. Alcuni erano a torso nudo, altri avevano la veste allacciata su una spalla sola, che lasciava scoperta metà del torace. E non potei fare a meno di notare che sul petto avevano tutti grosse paia di capezzoli. Alcuni ne avevano solo due più o meno al centro dei monumentali pettorali, altri ne ostentavano altre coppie più basse lungo il torace e l’addome, si arrivavano a contarne quattro, sei o otto, ma nessuno ne aveva tanti quanti quello che mi aveva catturato e... fatto godere. Al pensiero avvampai di nuovo e desiderai discendere sottoterra. Alcuni uomini stringevano al petto dei bimbi piccoli o li tenevano appesi al collo in guaine di pelle, li tenevano in braccio e li cullavano con affetto quasi materno. Notai che non c’era neppure una donna.

Frattanto alcuni di quelli che mi avevano catturato nel bosco mi afferrarono per i capelli e, strattonandomi brutalmente, mi trascinarono attraverso la radura, oltre il falò, verso un alto scranno di tronchi d’albero su cui sedeva un selvaggio imponente. Si gingillava spaparanzato in una postura rilassata, ma il suo volto aveva un’aria feroce e severa. Immaginai si trattasse del capo della tribù. Aveva la barba e lunghe cQuestihiome scure tendenti al grigio, cingeva sulle spalle una pelle d’orso, la testa dell’animale gli sormontava il capo conferendogli un’aria grottesca e autorevole al tempo stesso. Mi sembrò di notare in lui una vaga somiglianza con il giovane che mi stava trascinando. I tratti feroci e fieri erano vagamente simili, sebbene il corpo possente e robusto del capotribù paresse più appesantito dall’età. Sotto la veste parevano intravedersi svariati rigonfiamenti che lasciavano pensare a numerose paia di mammelle, ma non riuscivo a contarle tutte.

Uno dei miei aguzzini, dietro di me, mi afferrò trascinandomi in piedi, rantolò qualche suono cavernoso. Poi mi afferrò i capezzoli da dietro e li pizzicò di nuovo strattonandoli con forza brutale. Scoppiò in uno scroscio di ansiti che pareva simile a una risata e l’intera tribù lo imitò. Io mi sentii avvampare di vergogna. Poi mi gettarono di nuovo a terra. Il capo con voce profonda e stentorea rispose qualcosa. Poi mi guardò e mi rivolse la parola. Ovviamente non capii nulla. Il capo, irritato, ripeté a voce più alta, ma io non comprendevo il senso di quella sequenza di grugniti e avevo la testa talmente in fiamme che difficilmente avrei compreso anche la mia lingua. I selvaggi parvero infuriarsi.

Con un improvviso impeto di coraggio venutomi non so da dove, mi alzai in piedi, nudo e malconcio com’ero, reggendomi a fatica sulle ginocchia, e cercai di parlare all’uomo sul trono:

<<Salve, tu sei il capo della tribù? Io vengo in pace. C’è qualcuno che parla la mia lingua?>>

Sentii un accavallarsi di voci dietro di me che si alternavano nel loro strano idioma gutturale. Ma istantaneamente uno dei miei aguzzini dietro di me mi afferrò per i capelli e mi scosse, forse irritato dal mio intervento. Frattanto un altro selvaggio si avvicinò al trono del capo. Sembrava un uomo di mezza età, non troppo alto, aveva barba corta, capelli rasati corti e solo due capezzoli sui grandi seni villosi e nudi. Fuori di là lo si sarebbe scambiato per un uomo normale, benché piuttosto peloso e dal petto un po’ prominente. Disse qualcosa al capotribù. Quello replicò nella loro stessa lingua confusa. Poi l’uomo ai piedi del trono mi apostrofò:

<<Uomo dai seni piccoli, perché tu, estraneo, in nostra terra?>>

<<Io... >> mi arrangiai confuso vedendo una fiera ostilità sul suo come su tutti gli altri volti <<.. vengo in pace! Desidero conoscere la vostra tribù in amicizia. Credo che avremmo molto da imparare gli uni dagli altri!>> mentre mi guardavo attorno sentii l'uomo che ripeteva qualcosa agli altri, traducendo in quella loro strana lingua. Vidi il colosso dai dieci capezzoli dietro di me e vidi un guizzo di curiosità nel suo sguardo, i suoi occhi si abbassarono su di me e improvvisamente ebbi un fremito ricordandomi di essere nudo. Con uno sforzo cercai di rivolgergli un’espressione amichevole, chiedendomi cosa davvero quella bestia sarebbe stata curiosa di imparare da me.

Il capo replicò qualcosa con viso ostile. Il selvaggio che parlava la nostra lingua si rivolse a me:

<<Questa, terra di Figli di Zizzon da secoli!>> sentenziò indicando orgoglioso il proprio capo <<No stranieri qui!>> concluse.

<<Vengo in amicizia!>> replicai

<<Menzogna!>> mi zittì brutalmente l'interprete.

Il capo sentenziò a voce grossa qualcos’altro.

<<Oracolo avvertito noi!>> ripeté compito il selvaggio ai suoi piedi <<Uomo dai seni piccoli venire da dove nascere Sole, armato di grande spada infilzare più e più volte ultimo capo figlio di Zizzon e... estinguere seme di sua stirpe! E tribù senza capo!>>

Io li guardai attonito e perplesso, un brivido mi corse lungo la schiena.

<<No stranieri! E no loro armi in nostra terra!>>

<<Non ho armi!>> sentenziai, sollevando le mani e lasciando momentaneamente scoperte le pudenda <<Vengo in pace, disarmato! Avevo solo i miei vestiti ma mi avete tolto anche quelli!>> accennai alla mia imbarazzante nudità.

L'interprete ripeté qualcosa al capo. Dietro di me un altro selvaggio, innervosito, brontolò a voce grossa.

<<Arma!>> replicò l’interprete con un cenno. Mi voltai e vidi uno di quelli che mi trattenevano brandire in mano la mia arpa d’oro.

<<No! Non è un’arma!>> replicai di getto <<Quella crea musica!>>. Feci un cenno per mostrare come le mani avrebbero dovuto flettersi sulle corde. Poi d’istinto mi alzai e feci per prendere lo strumento dalle mani di quell'aguzzino. Ma quello reagì infuriato colpendomi in faccia e scaraventandomi a terra. Provò a sfiorare le corde, ma le sue rozze dita non cavarono alcun suono. Rantolò qualche cosa.

<<No musica!>> fece l’interprete perplesso

<<Posso mostrarvi come si fa...>> proposi preoccupato.

L’interprete mi guardò storto e tradusse qualcosa con disapprovazione. Un coro generale di protesta si sollevò. <<Tu ingannare noi!>> sentenziò l’interprete. Il giovane popputo con dieci capezzoli disse qualcosa, strappò lo strumento dalle mani del compagno e toccò le corde con appena un tocco di delicatezza in più. Effettivamente ne uscì qualche suono. Tutti ammutolirono. Era strano vedere quell’essere dal volto tanto rude e crudele suonare uno strumento a corde. Ma poi il selvaggio si confuse, le dita scivolarono e fissò lo strumento perplesso. Disse qualcosa. Gli altri selvaggi scoppiarono a ridere. Poi lui afferrò l’arpa con sguardo feroce e la sbatté con veemenza su una pietra. Le corde si spezzarono, il fragile strumento si piegò.

<<Nooooo!>> strillai disperato. Ma un selvaggio mi colpì con violenza in testa. Gli altri dettero segni di approvazione soddisfatti. Il capo levò la testa, richiamò l’attenzione con un grido gutturale e tutti zittirono e si volsero verso di lui. Quello sentenziò qualcosa. Gli altri chinarono il capo. L’interprete alzò la testa e mi guardò, nudo e malconcio a terra. <<Uomo dai seni piccoli>> sentenziò <<tua gente no pace. Io in vostra terra, voi crudeli! Pestare e incatenare me! Gente crudele. Ora... tu morire!>> sentenziò.

Cercai di replicare qualcosa in segno di comprensione, ma all’improvviso uno di quelli che mi avevano catturato si fece avanti e sollevando i pugni al cielo urlò qualcosa. Il capo rispose nella loro strana lingua. Poi un altro dei compagni di caccia avanzò e urlò qualcos’altro che sembrò irritare il primo. Quello rispose con un grido ancor più forte, i due sembravano disputare tra loro, emettendo ruggiti sempre più veementi, mentre gli altri si facevano da parte e restavano a guardare la scena. Ne sembravano quasi eccitati. I due bestioni presero a battersi selvaggiamente dando uno spettacolo animalesco, terrificante a vedersi e conturbante al tempo stesso. Io rimasi a terra, improvvisamente dimenticato da tutti. L’interprete mi guardò e sogghignò:

<<Fortunato! No morire. Loro catturato te, ora appartenere! Loro combattere!>> sentenziò divertito. Lo guardai intontito senza capire. <<...Per te!>> soggiunse. Ebbi un improvvisa fitta di terrore allo stomaco. Mi voltai a guardare la tribù che cominciava ad acclamare infervorata, arringando il combattimento. Al pensiero di ciò che mi aspettava mi sentii morire, ma sono un combattente e non mi arrendo mai. Ero arrivato dove volevo e sapevo cosa dovevo fare. E poi vidi dietro di me il popputo dai dieci capezzoli, quello che rassomigliava al capo, che guardava la scena in silenzio, con aria quasi perplessa. Quando mi vide voltarmi abbassò gli occhi su di me. Lessi una strana curiosità su quel viso che mi scrutava spietato e imperioso e avvertii un improvviso guizzo selvaggio nel petto. Lo fissai, era ancora a torso nudo. Le mie labbra si mossero appena in un sorrisetto mentre il mio sguardo discendeva a contemplare la duplice schiera di capezzoloni eretti e vogliosi in mezzo al pelo. Mi posai sul ragguardevole rigonfiamento nascosto sotto la pelle d'orso che gli cingeva i fianchi. Poi risollevai lo sguardo, fissandolo sfrontato negli occhi e ripercorsi con il ricordo il piacere selvaggio che inaspettatamente ci eravamo regalati l’un l’altro.

D’un tratto il selvaggio emise un grido più stentoreo e profondo di tutti gli altri e avanzò al centro della radura, in quella che era divenuta la loro arena. Gli altri, pur sembrando intimoriti, lo affrontarono e iniziò uno scontro senza quartiere. I corpaccioni sudati e seminudi si afferravano, i grossi muscoli bronzei si contraevano, i petti possenti si fronteggiavano tanto vicini che il vello nero dell’uno si confondeva con quello dell’altro, le gole profonde risuonavano di urla cavernose e selvagge. Uno cadde stremato arrendendosi. Gli altri due continuarono a battersi senza posa. Guardai il viso di quello dai dieci capezzoli, paonazzo e contratto dalla strenua furia della lotta. Non così dissimile da come lo avevo visto poco prima, nella foia del godimento. Mi sentii di nuovo annichilire a quel ricordo. Qualcosa di strano e inusitato contrasse le mie viscere, fissai quel viso e dentro di me seppi che avrebbe vinto. Era un pensiero terrificante: essere alla mercé di quell’animale, carne da macello nelle sue mani. Sfinito, vidi il baratro che mi attendeva e mi arresi, non potendo far altro che annegare in quella tenebra senza uscita. La stessa tenebra che regnava in quegli occhi neri e colmi di furia mentre afferrava l’avversario e lo scaraventava a terra con rabbia animalesca, mentre esultava guardando il vecchio capo che gli sorrideva orgoglioso, mentre avanzava verso di me, la sua umile preda, mi sollevava di peso e mi portava via, all’interno di una caverna buia. Mi sbatteva prono su una pelle malconcia distesa sulla roccia e, senza attendere ancora, mi afferrava per i fianchi e mi inculava a colpo secco, ancora e ancora e ancora. Stavolta non fu piacevole. Sopraffatto dallo sfinimento e dalla sofferenza, desiderai solo morire. Ma sopportai il dolore con la strenua disciplina di un soldato e lasciai che sfogasse al meglio tutto il desiderio che aveva in corpo. Infine si liberò rantolando e, ormai svuotato, si abbandonò sopra di me a peso morto e prese placidamente a ronfare.

Io restai immobile, esanime, ormai incapace di dire o fare alcunché, mentre un vortice di sensazioni violente e contrastanti mi fluttuava nello stomaco. Ero arrivato dove desideravo. Ma probabilmente quella ricerca mi aveva condotto in una trappola senza uscita, in un baratro senza fondo, mentre, incapace di pensare, mi sentivo oppresso da quel corpo mastodontico che mi schiacciava. Infine la stanchezza ebbe la meglio su ogni altro pensiero e mi addormentai.

Sognai di te, mio Signore, la ragione per cui ero finito là, ai confini del mondo e della natura umana. Nel sogno continuavo a giurarti che sarei riuscito a portare a termine la mia impresa e che ti avrei consegnato ciò che desideravi. Ma poi mi resi conto che non eri tu quello con cui parlavo. Era il misterioso giovane biondo che avevo incontrato nel bosco. “L’amore sarà con te” mi ripeteva lui “Ti assisterà e ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo!”. E sentii un fremito galvanizzante che mi colmava le membra.

Quando mi svegliai ebbi la sensazione che fosse già mattino. Una luce sottile rischiarava l’ombra della caverna, la luce dell’alba che filtrava da una fessura nella roccia. I primi raggi del sole disegnavano i contorni dell’enorme corpo muscoloso che giaceva scomposto e nudo accanto a me, indoravano la superficie della prateria che ne ammantava il petto come muschio nel seno della solida roccia e danzavano tra le ombre delle sue chiome fluenti. Ora che dormiva placidamente il suo volto non appariva più crudele, i suoi tratti alla luce dell’aurora erano regolari e quasi nobili e la sua espressione placida era quella di un bambino addormentato sul viso di un uomo barbuto e fiero. Per un attimo mi fece quasi tenerezza. Il contatto dell’enorme mole del suo corpo mi turbava ancora mentre giaceva disteso, in parte sopra di me. Sentivo il suo calore, la forza bestiale, la carezza del vello virile e in mezzo a quello percepii delle sottili protuberanze che mi solleticavano e mi resi conto che erano capezzoli eretti. Un fremito improvviso e involontario mi fece battere il cuore e scese a infiammarmi il ventre. Come travolto da un moto incontrollato allungai la mano a sfiorarlo e sentii quelle tenere protuberanze coriacee che mi solleticavano il palmo, salii, toccai le due montagne morbide, sode e villose che si alzavano e abbassavano nel respiro regolare del sonno e si gonfiavano, leggermente pendule mentre era sdraiato sul fianco. Cercai di assaporare il contatto dei due capezzoli più grossi ritti come due piccoli spunzoni di roccia che parevano supplicare di essere afferrati e assaggiati. Il bestione fece un improvviso grugnito e mi strinse a sé e sentii un’altra enorme protuberanza dura contro il basso ventre. A quanto pare anche quelle bestie godono dell’erezione mattutina. Mi accorsi di averlo anch'io completamente eretto. Il selvaggio grugnì di nuovo e aprì un occhio, in un attimo si rivoltò spingendomi supino e rotolando sopra di me. Restai immobile, colto da una voragine di emozioni contrastanti. Mi si accostò a una guancia e la leccò, sussurrò qualcosa che non capii. Poi discese con la mano a stringermi il membro e io sussultai, quello rise e infilò l’altra mano sotto di me a serrarmi una natica. La sensazione di quella montagna di muscoli pelosi che si muoveva sopra di me schiacciandomi con tutto il suo peso mi confondeva, sentii tutti quei capezzoli eretti e duri contro il mio petto e il mio ventre, quei peli che mi accarezzavano, i pettorali che danzavano morbidi appoggiandosi su di me. Con un balzo istintivo afferrai quelle sise ballonzolanti e le strinsi tra le mani come due frutti succosi. Non avevo mai visto, o palpato, un uomo con sizze simili. Il selvaggio alzò il busto di scatto. Ora mi ondeggiavano dinanzi alla faccia con quei capezzoloni eretti che parevano ammiccarmi. Li afferrai e li titillai. Lui grugnì. Feci istintivamente per sporgere la bocca verso uno di essi, ma il selvaggio mi schiaffeggiò in pieno viso, si staccò le mie mani dal petto e mi colpì ancora, ruttando una serie di improperi che ovviamente non capii. Evidentemente non gradiva essere toccato là, o meglio non gradiva che io gliele toccassi. Quindi, afferratomi per i fianchi, mi rivoltò prono e con un colpo secco mi infilò tutto il membro eretto su per il culo. Guaii per il folle dolore, il selvaggio per tutta risposta mi schiaffeggiò le natiche. Quindi ricominciò a scoparmi con spinte secche di bacino abbattendosi a peso morto su di me. Sentivo i suoi colpi come lacerazioni nelle interiora, mentre quel petto villoso mi grattava la schiena e quelle dieci protuberanze erette la solleticavano. Dopo che si fu sollazzato un po’ dentro di me, emise un grugnito e si lasciò andare riempiendomi le viscere. Mi sentii svuotato. Il gigante senza scomporsi uscì da me, ruggì qualcosa, quindi, lasciandomi esanime sul pavimento, afferrò una pelle d'orso stesa a terra, se la cinse addosso, ancora sporco di seme com'era, e si diresse all’uscita della caverna. Spostò il mastodontico macigno che la occludeva, uscì e fece rirotolare la pietra al suo posto, rinchiudendomi in quell’ombra senza uscita.

Restai interdetto, ma capii che avrei dovuto pazientare. La stessa storia si ripeté per svariate notti. A sera il bestione tornava, si prendeva tutto il suo piacere e poi si addormentava su di me esausto. Al mattino si svegliava di nuovo voglioso e mi sodomizzava sino a mandarmi a fuoco il retto per poi lasciarmi esanime nella grotta e andarsene. La tortura non finiva mai, ogni giorno attendevo nell’oscurità, fremendo ogni volta che mi pareva di sentir quei passi ritornare.

Sinché una sera non capii che era giunto il momento di essere uomo e rischiare il tutto per tutto. Resistendo ai tentativi del selvaggio di gettarmi prono sul giaciglio e ricominciare la solita routine, restai fermo e ben piantato in ginocchio, gli presi il membro in mano, lo strinsi voglioso e me lo portai alle labbra. Il selvaggio emise un grugnito, ma, come incapace di ribellarsi, mi fissò e all’improvviso vidi guizzare nei suoi occhi una curiosità differente. Ingoiai quel pezzo di carne caldo e pulsante in un sol boccone. Ripensai a tutto ciò che avevo imparato tra i soldati, agli anni passati nell’esercito, e poi al tuo servizio, mio Signore. Lasciai che il bestione si eccitasse, solo per poi rigettarlo fuori e farlo brancolare in preda al desiderio. Percorsi tutto il pisellone con labbra e lingua accendendone il desiderio, lavorai lo scroto e tornai di nuovo sull’asta, mi dedicai a tutto con la massima perizia di cui sia capace. Il selvaggio era in brodo di giuggiole. Aveva il viso arrossato, i capezzoloni eretti verso il cielo, a un tratto prese a toccarseli e io improvvisamente mi eccitai. Lui mi guardò con un sorriso. Discese con le mani sui miei piccoli capezzoli e li strinse tra le dita. Sarà stata la perizia con cui imparavano a farlo tra loro nella tribù, ma giuro che sentii una vibrazione di piacere mai provata invadermi il petto e un violento fremito contrarmi il ventre. Mi sentii vulnerabile e in sua balia e la cosa inaspettatamente mi eccitò. Sollevai gli occhi a fissarlo, accentuando il lavoro di labbra e lingua con tutta la passione di cui ero capace. Infine lo sentii perdere il controllo e godere nella mia bocca. Per un attimo mi sovvenne il ricordo del delizioso nettare che era schizzato dai suoi capezzoli, trattenni quell'immagine e mi sforzai di accogliere ogni ondata del suo piacere ardente e saporito. Quando ebbi finito, il bestione mi accarezzò le chiome, si stese accanto a me e mi sorrise. C’era qualcosa di diverso nel suo sguardo, qualcosa di invisibile, oltre a ciò che era fin troppo visibile, e gustabile, era fluttuato tra noi. Così ci addormentammo entrambi.

 

Da quel giorno qualcosa cambiò. Il selvaggio era diverso, iniziò a sorridermi in modo diverso, a guardarmi, a toccarmi, a scoparmi in modo diverso. Dal canto mio iniziai a prodigarmi in tutte le numerose arti amatorie che conoscevo per sollazzare le sue voglie e il bestione ne parve sempre più compiaciuto.

Da aguzzino e prigioniero che eravamo, sembrava che lui fosse divenuto l’allievo e io il maestro. Dapprima bastarono i gesti per insegnargli le arti del piacere, ma poi, nel corso degli amplessi, il popputo iniziò a sbraitare, poi a sussurrare sempre più di frequente fiumi di parole nella sua lingua. E a forza di condividere la sua compagnia iniziai a comprendere alcune espressioni di quell’idioma primitivo. Lo iniziai ai piaceri delle posizioni più svariate, a godere come bestie ma anche come uomini, guardandoci negli occhi. Gli piaceva molto penetrarmi tenendomi supino a gambe all’aria, lasciandomi sentire i capezzoli eretti sotto le cosce. E mentre lo fissavo, negli attimi di estasi, vedevo nel suo sguardo la furia selvaggia spegnersi, lasciando il posto alla tenera innocenza di un giovanetto felice, travolto dai piaceri dell’amore in cui si avventura per la prima volta. Dopo il godimento mi attirava a sé, diceva di voler che restassi a scaldargli il giaciglio, ma prima di addormentarsi mi parlava, e sembrava felice quando vedeva che lo comprendevo.

<<Dove imparato uomini dai seni piccoli scopare così?>> parve domandare un giorno nella sua lingua. Per la prima volta dopo mesi scoppiai a ridere.

<<Attività più antica e naturale del mondo!>> cercai di rispondere colle parole che avevo appreso <<Ma.... vero... noi imparato migliorare nei secoli. In Oriente... terre lontane, lontane... dove nasce Sole... uomini saggi scritto libri. E da noi persone fare questo per mestiere... >>

<<Mestiere?>>

<<Come per voi... capo, cacciatore o raccoglitore di frutta... questo è “mestiere”...>>

<<E da voi... scopare, mestiere? ...tu scopatore per mestiere?>>. Mi venne di nuovo da ridere.

<<No! Io no! Ma uomini... e persone...-non conoscevo la parola che in quella lingua definiva le donne- ..di mestiere insegnatomi bene.>>

<<E da voi tutti bravi come te?>>

<<Io davvero esperto! Ma anche altri molto molto bravi!>>. Anche il bestione scoppiò a ridere.

 

In seguito il selvaggio si decise a lasciarmi uscire e a permettermi di accompagnarlo a cacciare nel bosco. I bruti uccidevano gli animali a mani nude o talvolta usavano fionde e bastoni. All’inizio mi faceva uno strano effetto indossare quelle rozze pelli animali non conciate e girare nel bosco mezzo nudo, ma presto iniziai a farci l'abitudine e persino ad apprezzare la sensazione che si prova a mimetizzarsi nella natura selvaggia, sentendosi quasi parte integrante con essa. Quegli uomini vivevano liberi, senza remore e senza pensieri.

Convinsi il mio padrone a lasciarsi insegnare come sgrossare e acuire la punta del suo bastone da caccia con una lama di pietra per farne una lancia e come scagliarla per colpire la preda a distanza. E in seguito a fabbricare una corda dai peli degli animali e a piegare un ramo di legno per ricavarne un arco. Mi accorsi, così, di essermi guadagnato non solo il suo rispetto, ma anche quello degli altri cacciatori cui talvolta ci accompagnavamo.

Alcuni di loro mi guardavano con palese curiosità. Fissavano i capelli fini e serici, il volto dai tratti armoniosi tipici della nostra razza, il mio fisico longilineo e glabro, che di certo era una vista insolita per un popolo come il loro, che per di più non conosceva le donne. Una volta, mentre, dopo la caccia, mi stavo denudando per lavarmi in una sorgente, un popputo mi si avvicinò sorridendo e allungò una mano a sfiorarmi il petto. Palpeggiò incuriosito il torace glabro, poi mi afferrò un capezzolo e lo strinse sorridendo.

<<Seni piccoli!>> sembrò dire nella sua lingua con un sorriso. Non posso dire che il suo tocco mi infastidisse, ma improvvisamente giunse il mio popputo, che lo aggredì brutalmente e lo scacciò gridandogli che l’uomo dai seni piccoli era soltanto suo. Tutti gli altri sembrarono intimoriti dalla sua autorità e non osarono contraddirlo. Da allora nessun altro osò più toccarmi, benché non smettessero di fissarmi.

A volte, nel mezzo del bosco, accanto al fuoco, dopo le lunghe cacce, il mio padrone mi conduceva tra i cespugli e là, da soli nel segreto della foresta, voleva che gli insegnassi qualcosa di nuovo per poi restare a dormire assieme, liberi in mezzo all’erba.

Un giorno catturai una tartaruga e chiesi al mio Padrone il permesso di costruirvi uno strumento per creare musica, come quello che lui mi aveva distrutto. Parve perplesso ma non era in grado di dire di no ad alcuna richiesta che il suo schiavo gli rivolgesse mentre gli teneva il pisello in mano, e con un cenno della testa assentì. Intrecciai delle corde sottilissime con crini di cervo e le ancorai al bordo del guscio, le tesi sinché non ottenni il suono che desideravo e, quando lo strumento fu pronto, chiesi al Popputo se voleva che lo suonassi per lui.

Eravamo soli, sdraiati in una radura dopo la serotina lezione d'arte erotica, gli alberi si diradavano sopra di noi lasciando libero il cielo, la luna scintillava sui muscoli sudati. Incuriosito il bruto assentì. Mi alzai a sedere e iniziai a pizzicare le corde e a intonare un canto dolce che mi sgorgava spontaneamente dalle labbra. Quelle note pervasero il silenzio della foresta e ripensai all’ultima volta che avevo suonato qui in patria, per te, mio Signore, alla tristezza riflessa nei tuoi occhi, alla gioia che li aveva rischiarati alla mia promessa, pensai al tempo trascorso lontano, agli immensi spazi che ci separavano, mentre la mia voce si spegneva sulle ultime strofe e i miei occhi si perdevano nella dolcezza di quelli dell’uomo che li fissava.

<<Perché piangere?>> mi chiese lui con voce innocente. Mi accorsi delle lacrime che mi rigavano le guance, vidi il bruto sdraiato accanto a me sotto la luna, la luce argentea riflessa sul membro ancora luccicante di seme, sulla peluria del petto, sulle spalle possenti e negli occhi, in cui uno sguardo profondo e umano sembrava aver preso il posto di quello della bestia.

<<Niente. Questa canzone ricordare qualcuno che non vedere più da tanto tempo>.>

<<Qualcuno bravo a... scopare?>> chiese il selvaggio serio. Mi chiesi se nella loro lingua non ci fosse un termine più appropriato. Risi.

<<Sì!>> risposi <<Anche in quello!>>

<<Non piangere! Tua musica.... bellissima!>> replicò.

Lo ringraziai.

<<Suonare ancora?>>

<<Sì, certo!>> risposi e obbedii a quella che in realtà era stata solo una cortese richiesta.

Aveva ragione: non dovevo piangere. Ero là per una ragione. E io non mi arrendo mai. Fissai quel bell’omone. Non vi era niente che non avessimo condiviso, niente che non gli avessi dato e di cui lui non avesse goduto, tranne una cosa. Mi chinai su di lui, gli appoggiai una mano sul ventre, assaporai il contatto dei muscoli duri sotto la carne morbida e la soffice peluria. Gli avevo mostrato mille modi di ottenere piacere, ma lo sguardo mi ricadde sull’immensa foresta inesplorata del suo petto, le file di capezzoloni eretti che svettavano come i cappellini di tanti gnomi in marcia nel folto del bosco, quei tesori che tante volte mi avevano fatto agognare. ma che mai ancora mi erano stati concessi. Il selvaggio sembrava eccitarsi mentre le mie carezze si avvicinavano al petto, ma sentii la pesante manona calare sulla mia e scansarla. Come ogni volta, allorché puntavo a quelle deliziose tettine mi vedevo sempre respinto, ancora con decisa fermezza. Impudente lo fissai e sorrisi.

<<Ti prego!>> bisbigliai d’istinto come posseduto.

<<No!>> rispose lui secco.

<<Perché no? Solo assaggiare!>> Soggiunsi socchiudendo la bocca.

<<No! Proibito!>> rispose e si portò le mani al petto a difendere i seni. <<Zizze>> soggiunse <<solo per fratelli di tribù! Allattare altre genti proibito. Se uomo dai seni piccoli assaggiare latte di fratello, poi dover morire!>>

Mi fermai. Di scatto ripensai alla nostra prima volta, il giorno in cui mi avevano catturato. Ma se un fremito di paura contrasse il mio stomaco a quel ricordo, il mio membro non poté fare a meno di continuare ad ergersi come uno stendardo svettante. Il selvaggio mi guardò fermo negli occhi, mi sforzai di non abbassare lo sguardo. Non vi era espressione su quel viso: né sorriso, né rimprovero, né ira. Eppure guardandolo capii inequivocabilmente che lui sapeva.

<<Tranquillo!>> rispose secco e inespressivo <<Non dire a nessuno! Nostro segreto!>> Lo guardai impietrito e non risposi. Ma una parte del mio animo trasse un sospiro di sollievo.

<<Fare... altro?>> soggiunse intanto il popputo ammiccando.

<<E che vorresti fare?>> risposi, ancora perplesso.

<<Cosa nuova? Tu sempre insegnare cosa nuova!>> rispose lui con una curiosità infantile negli occhi.

<<Ormai insegnato proprio tutto>> risposi <<A parte...>> feci appena un cenno ai capezzoli. Il Popputo sospirò e cambiò discorso.

<<Tutto tutto?>> chiese. Mi venne da sorridere. Mi faceva quasi tenerezza. Lo guardai negli occhi e con un improvviso moto spontaneo mi sporsi verso il suo viso. Lo presi per una guancia con una mano a coppa e posai le labbra sulle sue. Aspirai quella bocca carnosa, assaporai il calore, la carezza ruvida della barba, e poi gli cercai la lingua con la lingua, sentendola rispondere prontamente a quella danza appassionata e mi abbandonai nel sapore intenso di quel bacio.

<<Oooooh!>> sospirò lui ancora attonito quando si staccò. <<Cosa più bella! Tu... ultima?>> rise guardandomi negli occhi.

<<Per molti di noi prima cosa.- gli dissi -Ma non sempre noi fare, quando solo insegnare...>>

<<E tu... me solo insegnare?>> rispose lui guardandomi di sottecchi. Parve arrossire. Capii che dovevo cogliere l’attimo e con un malizioso sorriso feci per buttarmi di nuovo sui capezzoli ma mi vidi di nuovo fermato dalla manona che mi afferrò il viso. Stavolta si gettò lui sulla mia bocca divorandola con una foga forse un po’ troppo febbrile ma tutt’altro che spiacevole.

<<Io volere allattare te>> mi sussurrò con sguardo colmo di desiderio <<ma leggi di tribù proibire!>>

<<Un giorno tu capo, non potere cambiare leggi?>> gli chiesi io curioso.

<<Leggi sacre! Da tempi di Grande Zizzon. Anche se capo morire e altro seguire... >>

<<Tu un giorno... capo?>>

<<Io segno di stirpe di Zizzon!>> fece lui indicandosi il petto <<Unico in tribù dieci zizze, come Grande Capo, ma combattere per essere capo.>>

<<Desiderare... essere capo?>> chiesi io.

<<Desiderare?>> fece lui con sguardo confuso <<Per me destino! Destino già detto!>> sentenziò <<Segno di stirpe di Zizzon! Per questo capo paura per me, accanto a uomo dai seni piccoli... forse ammazzare me! Ma io sapere che tu non fare male...>> sussurrò carezzandomi il viso e baciandomi di nuovo con occhi languidi. Sprofondai in quel gioco di lingue chiedendomi quanto la mia missione sarebbe stata difficile. A quanto pareva l'intera tribù nutriva aspettative su di lui.

<<Capo preoccupato per te?>> feci io curioso <<...tuo padre?>>

<<Padre?>>

<<Sì, beh...>> cercai le parole per spiegargli cosa intendessi.

<<Zizzon Grande Padre. Noi tutti figli Grande Tribù! Cresciuti da latte fratelli più vecchi!>>

Lo guardai curioso e perplesso.

<<Come nascere figli di tribù?>>

<<Ssssss!>> fece lui veemente portandomi una mano alla bocca <<Discorso proibito a stranieri!>>

<<E... >> feci io dopo una pausa <<nessuno straniero diventare... figlio di Grande Tribù?>>

Lui mi guardò e sorrise: <<Una sola volta, capo dopo Grande Zizzon debito di vita e sangue con uomo dai seni piccoli. Salvato in guerra. Allora fatto fratello e allattato.>> Un guizzo improvviso illuminò il mio cervello.

<<Ma poi mai più!>> soggiunse lui <<Proibito!>>

<<Tante, tante cose proibite!>> feci io con un sorriso malizioso sfiorandogli di nuovo il torace con la mano. Lui repentino mi prese e mi rivoltò supino.

<<Forse fare io cosa per te!>> replicò ricambiando il sorriso.

Lo guardai confuso. Lui si chinò a baciarmi il collo, poi discese in mezzo ai muscoli del petto. Leccava con avidità, ma c’era della dolcezza in quell’ardore infantile e quando risalì sul pettorale sinistro avvicinandomisi al capezzolo, non riuscii a trattenere un gemito. Infine raggiunse la mammella e la divorò sollazzandola con la lingua e suggendo con appetito febbrile. Non so descrivere ciò che provai. Come un lampo di puro fuoco saettò dalla punta del capezzolo per vibrare sino al mio cuore, tutto il mio corpo fu percorso da un brivido. Udii il mondo esultare in un canto di piacere e mi resi conto che era la mia bocca che non riusciva a smettere di gemere. Mentre succhiava, il selvaggio prese l’altro capezzolo tra due dita e lo titillò con dolcezza ma con stuzzicante fermezza sinché la punta non fu dura ed eretta, poi scivolò con labbra e lingua sul petto, succhiando qua e là con una maggiore veemenza che lasciava il segno e si attaccò all’altro piccolo capezzolo turgido. Suggeva con l’a foga di un infante al seno della madre, continuava ad alternare labbra e lingua, a solleticare coi denti sino a farmi urlare, rilasciando solo un attimo prima che il piacere divenisse dolore. Mi strinsi la sua testa al petto e mi abbandonai in quel mare di dolce agonia cantando tutto il mio godimento. Avevo il membro tesissimo, dolorante e pronto a esplodere. I capezzoli strillavano e ogni qualvolta uno dei due veniva abbandonato si tendeva ritto e agognante al cielo smanioso di essere ancora assaggiato. Nessuno me li aveva mai succhiati così. Mi sembrò di provare qualcosa di simile all’estasi che avevo visto soltanto dipinta sul volto delle dame quando ero io a onorare i loro seni. Ma questo era forse ancor più veemente. Mi sentii posseduto, in balia del grosso energumeno che mi dominava. Pervaso da una violenta smania in tutto il corpo sollevai le gambe, e non potei fare a meno di afferrare il membro del bestione e supplicarlo di penetrarmi subito. Quello sorridendo mi lasciò tribolare ancora un po’, infine mi sodomizzò con un colpo secco mentre io urlavo di gioia. Continuò a sbattermi con foga, chinandosi frattanto a suggere prima l’una poi l’altra tetta. Mi sentii pervaso da un fuoco rosso. Non vidi più nulla, solo fiamme e urla di gioia, la lava saliva e infine esplodeva come un vulcano eruttando ancora, ancora e ancora e avvertii il godimento dei miei capezzoli e del mio membro come fosse diventato una cosa sola. Infine sentii anche lui staccarsi dal mio petto e urlare tutta la sua gioia esplodendo in un fiume di fuoco liquido dentro di me. Poi si abbandonò su di me a peso morto. Mi strinsi con foga febbrile la sua testa contro il petto e giacemmo così, stretti, in silenzio.

«Incredibile» ansimai infine riprendendomi «Anche tu molto da insegnare me!>>

«Questo insegnare in nostra tribù!» fece lui sollevando la testa e guardandomi con un sorriso. Forse avrei dovuto chiedergli di ricambiare? Ma sapevo quale sarebbe stata la risposta. Un passo alla volta.

<<Così tuo destino essere capo!>> gli dissi prendendo il suo faccione tra le mani. Lui annuì grave.

<<Destino già detto!>> replicò.

<<Ma se potessi... decidere, tu cosa desiderare?>>

Il ragazzone mi guardò confuso concentrandosi:

<<Scopare tutto il giorno>> replicò poi con un sorrisone <<con uno bravo! E poi... correre insieme, liberi... come vento, verso... lontano!>>

<<E vivere per sempre felici e contenti?>> sospirai io ironico nella mia lingua.

<<Sì!>> annuì lui serio. Non so come, ma aveva compreso.

Mi venne da ridere. Iniziava a piacermi quell'energumeno.

<<Ma destino... già detto!>> sentenziò lui.

<<Già dimenticavo!>> replicai tra me.

Per tutta risposta lui chinò la bocca a baciarmi ancora un capezzolo, facendomi fremere.

«Zizze piccole ma vogliose!» obiettò con un sorriso malizioso, prendendone una tra due dita e pizzicandola. Erano arrossate e doloranti, ancora erette dopo l’amore.

«Ah! Basta! ti supplico!» mi schermii. Non mi ero mai sentito tanto vulnerabile. Lui sorrise e mi si accasciò sul petto. Dovevo avere ancora pazienza, mi dissi. E sentii il suo respiro farsi regolare contro il mio petto e scivolare nel sonno, mentre io restavo ancora sveglio a fissare il cielo, aspettando che i postumi di quel fuoco violento defluissero dalle mie membra.

 

      Poi un giorno si recò a caccia d'orsi senza di me. Quando calò la sera non lo vidi tornare. Uscii dalla caverna -donde ormai m'era consentito entrare e uscire liberamente- ma quando mi recai nella radura dove si riunivano i popputi, li vidi tutti raccolti a terra che gridavano infuriati, mentre il capo, disperato, si batteva il petto. Mi avvicinai. Chiesi a uno di loro cosa succedesse. Lui mi guardò turbato, in silenzio, infine blaterò nella sua lingua:

      <<Grande Zizzon riprendere lui con sé!>>

      Mi avvicinai preoccupato e vidi l'intera tribù raccolta attorno a un uomo riverso a terra. Dalle proporzioni colossali non faticai a riconoscerlo, mi precipitai verso di lui, ma gli altri mi osteggiarono, erano i suoi fratelli e io solo uno schiavo straniero. Era ancora vivo, constatai con sollievo. Ma giaceva riverso a terra, aveva gli occhi stravolti dal dolore e il suo basso ventre, poco sotto l'ombelico e sopra l'inguine era squarciato da ampie ferite roride di sangue. Lo guardai e quando mi vide ebbi la netta sensazione che il suo volto si rischiarasse e che i suoi occhi cercassero i miei. Chiesi come fosse successo.

      <<Orso infuriato!>> fece lugubre il popputo con cui parlavo.

      <<E lui...>>

      <<Potente guerriero, ma suo bastone perso tua punta e rotto da orso, lui caduto tra radici. Noi ammazzato orso ma... troppo tardi! Destino è detto!>>

      <<No!>> risposi io secco.

      Fissai da lontano la ferita, sembrava profonda ma non mortale. Nell’esercito avevo assistito alla cura di soldati feriti ben più gravemente. Mi feci strada a forza tra quei selvaggi infuriati. Gridai, tentando di spiegare nella loro lingua che non era troppo tardi, che potevo salvarlo.

      <<Noooo! Via!>> gridò nella sua lingua il capo infuriato. <<Tu male, portato rovina su Figlio di Zizzon e su tribù!>>

      Tentai di replicare, mentre altri popputi si gettavano su di me pronti a trascinarmi via. Ma poi vidi che lui farfugliava qualcosa, il capo si chinò col volto disperato, lui gli sussurrò all’orecchio. Il capo lo guardò con occhi colmi di tenerezza e di lacrime. In qualunque modo si riproducessero quelle strane creature, tra quei due c'era un forte legame e il capo non avrebbe saputo negargli un ultimo desiderio. Si alzò, chinò la testa e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi inginocchiai accanto a lui, l’omone mi prese la mano e lo vidi chiaramente sorridere. Ricambiai il sorriso passandogli un palmo sulla fronte. Esaminai la ferita, non era ancora infetta. Mi feci portare dell'acqua e la lavai. Non c'erano armi di metallo tra loro, ma ordinai che accendessero un fuoco e scaldassero una pietra. Poi cercai di spiegare a due di loro di quali erbe avessi bisogno e li mandai a coglierle.

      <<Tu vivrai!>> gli dissi perentorio guardandolo negli occhi. Ricambiò lo sguardo incredulo, ma poi vidi la speranza riaccendersi sul suo viso. Quando la pietra fu calda, la presi, aiutandomi con un bastone. L'intera tribù prese a strillare contrariata.

      <<Vivrà!>> feci secco nella loro lingua. Lui guardò il capo e quello ordinò agli altri di lasciarmi fare. Gli detti qualcosa da stringere tra i denti. Poi mi chinai al suo orecchio:

      <<Quando tu scopare me, fare male>> gli sussurrai <<ma io sopportare e alla fine godere! Così ora fare male, sopporta da guerriero e fare bene!>>

      Lui mi sorrise e annuì. Cauterizzai la ferita con la pietra ardente. Lui deformò il volto in una smorfia contratta, ma resistette con fierezza senza emettere neppure un gemito. Quando fui certo che l’escoriazione non fosse più infetta, mollai. Non appena mi portarono le erbe, ordinai che le mettessero in acqua e le bollissero sul fuoco in una pietra cava. Infine versai il decotto sulla ferita, strappai un largo lembo dalla mia veste di pelle e lo fasciai. Aveva la febbre alta, il suo corpo scottava. Ma sapevo quanto fosse forte. Restai accanto a lui.

Calò la sera, la luna si levò alta in cielo, i bruti si ritirarono nelle rispettive caverne ma io restai a vegliare accanto a lui, lo sentii delirare, ma gli tenni stretta la mano.

      <<Resta vivo, bel Capezzolone! resta con me!>> gli sussurrai. Lo sentii calmarsi e vidi la serenità tornare sul suo volto.

      La bruma notturna si levò, avvolgendo la foresta poco prima dell'alba.

Lui aprì gli occhi e si alzò in piedi.

      <<Devo andare!>> mi disse. Io continuavo a stringergli la mano, incapace di lasciarla. Vidi un'ombra delinearsi nella nebbia, sospingeva una barca e vidi la luna inargentare le onde del grande fiume che scorreva nell’oscurità.

      <<Grande Zizzon chiamato a sé!>> fece lui serio <<Destino è detto!>>

      Scorsi altri selvaggi simili a lui sull'altra riva che lo chiamavano, giganti barbuti dalle generose poppe su quel fiume simile a latte.

      <<No!>> replicai io, secco, fissandolo negli occhi <<Tu vivrai!>>

      Le sagome dei Popputi scomparvero nella nebbia, solo l'ombra sul fiume si fece avanti. Ma non era più il barcaiolo esiziale. Prendendo corpo alla luce della luna, rivelò l'aspetto del bel giovane biondo che ormai mi era familiare.

<<L’amore ti darà la forza di affrontare ogni ostacolo!>> sentenziò fissando il bruto negli occhi. Poi guardò me <<Ma ricorda!>> soggiunse <<L’amore è imprevedibile. Nessun mortale può governarlo davvero! E potrebbe condurre il tuo cammino a mete del tutto diverse da quelle che ti aspetti!>>

Mi svegliai di colpo, ancora seduto accanto al mio popputo, con l'inconfondibile calore della sua manona nella mia. Era sorto il sole. Lui non scottava più, la febbre era passata, e la ferita pareva in netta via di guarigione. Aprì gli occhi ai raggi dell'aurora e mi sorrise:

<<Io vivrò!>> mi fece sorridendo <<Tu salvato!>> Sollevò la mano a carezzarmi la guancia <<Debito di vita e di sangue!>> un sorriso smagliante inondò il suo volto. E un grido di trionfo esultò in un recesso della mia mente. Avevo vinto.

     

      Col tempo guarì, credo che ciò che avevo fatto per lui non solo lo abbia reso riconoscente ma abbia anche rafforzato quello strano legame che sentiva nei miei confronti.-

      -Strano legame?- osservò il principe laconico, sospirando a quella storia incredibile - Non essere modesto! Tu sei davvero un diabolico seduttore, amico mio!-

      Il cavaliere non poté trattenere un sonoro ghigno di compiacimento.

      -Un giorno quando s'era ormai del tutto ripreso, dopo una lunghissima discussione con il Grande Capo, venne da me con un sorrisone che gli illuminava il viso.

      <<Grande Capo riconosciuto me. Ora tu diventare mio... -pronunciò una parola che nella loro lingua doveva significare qualcosa come ‘adepto’ o ‘pupillo’- Quando natura rinascere, adepti, ragazzi, condotti a morire per rinascere uomini. Tu con loro, Figlio della Tribù! Finalmente io allattare te, darti tutto! Tutto quanto!>> fece titillandosi i capezzoli con un sorrisone malizioso a cui non sapevo resistere. La sua cicatrice si stava rimarginando. La carne all'interno era ancora rosea e tenera, dello stesso colore dei capezzoli in mezzo alla pelle scura e villosa, pareva quasi chiuderne la schiera verso il centro dell'inguine. Presto, grazie al mio solerte lavoro, si sarebbe rimarginata senza lasciare il segno. Mi sarebbe quasi mancata. Per fortuna l’orso non aveva intaccato nulla che potesse far venir meno il mio piacere.

Infine, con l’avvento della primavera, giunse il fatidico giorno e il ragazzone mi condusse tra le montagne, in una stretta forra rocciosa tra le pendici dei Mammel. Altri bruti vestiti di pelli attendevano là. Erano tutti in coppia, uno già adulto dalla folta barba ne conduceva un altro che sembrava più giovane. I ragazzi erano pronti a entrare nella tribù e a divenire uomini. Fummo fatti entrare all’interno di una fenditura nella roccia. Alcuni adulti tenevano dei rami accesi come fiaccole e ci guidarono giù per un cunicolo roccioso nelle profondità della montagna. Si udiva un lontano scorrere d’acqua e un altro strano mormorio sommesso. Fummo condotti sino a un pertugio di pietra simile a una porta. Quando lo attraversammo, i nostri occhi furono abbacinati. Eravamo in una grande caverna dalle pareti di roccia bianca, che scintillavano riflettendo la luce delle fiaccole nelle loro nervature cristalline. Il mormorio si fece più forte e, quando gli occhi si furono riabituati alla luce, distinsi numerose file di bruti schierati nella penombra che intonavano uno strano canto gutturale al rullo di tamburi di pelle che alcuni di loro percuotevano, seduti a terra. Su una roccia scavata, forse dalle forze della terra, nella forma di un seggio, sedeva il capo nella sua pelle d’orso e al centro della caverna vi era una grossa polla anch’essa scintillante di bianco. Di certo si trattava dei residui delle rocce bianche disciolti in una sorgente sotterranea ma alla luce delle fiaccole pareva che del latte fosse sgorgato direttamente dalla terra.

Strane immagini fluttuavano sulle pareti alla luce delle torce. Aguzzando lo sguardo si distingueva un ciclo di disegni, graffiti e decorati con pigmenti naturali, una serie di quadri impressi sulla roccia in forme elementari, i contorni geometrici e stilizzati tracciati da una mano primitiva, ma chiaramente comprensibili e pulsanti di colori vividi e accesi.

Figure di uomini e donne si aggiravano tutti nudi su una terra primitiva. Dapprima danzavano assieme in un mitico giardino lussureggiante, tra alberi verdi dagli sfavillanti frutti rossi e gialli. Poi invece arrancavano in un deserto desolato. Le donne giacevano a terra mentre gli uomini avanzavano. Uno di loro, dalla pelle ambrata, stringeva una donna dal colorito più chiaro accasciata sulle sue ginocchia mentre un frutto rosso le rotolava dalla mano aperta. Una figura più piccola, forse un bambino si stringeva accanto al suo corpo esanime, un altro si tendeva verso il petto dell’uomo, che se ne stava in ginocchio, a capo chino. Altrove vi era ancora una figura possente, pareva un uomo barbuto ma sul petto aveva due seni da donna con grossi capezzoli colorati di rosso. Stringeva tra le braccia due infanti, dai seni gli zampillavano getti bianchi che cadevano ai suoi piedi in un grande lago, simile alla polla che era al centro di quella grotta, e attorno ad esso la natura era di nuovo rigogliosa d’alberi, fiori e frutti. Un altro cerchio bianco si levava in cielo, come una luna piena e altre figure danzavano allacciate nel candido lago levando le braccia. Un paradiso delle delizie simile a quello della prima immagine, ma stavolta vi erano soltanto maschi. Poi vi erano molti uomini con seni di donne allineati e di fronte a loro di nuovo figure di donne, ma armate di lance come uomini. Infine vi erano ancora quei popputi, stavolta da soli, tenevano in braccio degli infanti e alcuni se li stringevano ai seni.

Finalmente il canto dei popputi abbigliati di pelli tacque. Il cavaliere, sospinto dal suo selvaggio, avanzò e vide che gli altri giovani facevano altrettanto. Si disposero in cerchio attorno alla polla d’acqua. Poi il capo-tribù levò il braccio e parlò.

<<Benvenuti giovani figli di Zizzon! Dato prova voi pronti diventare uomini! Stanotte condotti quaggiù a Sorgente Galattos, fonte di latte che tempo, ritorno di soli e di lune, nascosto sotto terra. Voi diventare fratelli di Grande Tribù! Trenta re nati e morti da che Grande Zizzon donato noi questa terra benedetta!>>.

Così dicendo tese la mano in alto. Tra le rocce, sopra la fonte argentea, scorsi una strana ombra. Sembrava viva ma non era che una grande statua, un idolo scolpito nella pietra. Un grosso satiro barbuto, ignudo, dai muscoli monumentali e dall’ampio torace che stringeva tra le braccia due bambini, uno a destra, l’altro a sinistra, allattandoli ai seni villosi. Il suo viso mi fece fremere, tanto elementare eppure così vivo, pareva guardarti sin dentro al cuore, forte e autorevole eppure così colmo d'amore, paterno e materno assieme.

<<E noi ancora qui, grazie suoi doni e segreti, tramandati ancora. Rivelati solo a fratelli, e stanotte voi diventare fratelli. Solo una volta prima, uomo dai seni piccoli rinato come figlio di Grande Tribù. Ma tu...>> soggiunse guardandomi <<Figlio prediletto di Zizzon scelto te e tu sarai nostro fratello. Debito di vita e sangue reso con latte!>>

Il mio cuore sobbalzò a quelle parole. Poi il capo tacque e si appoggiò al suo seggio. I popputi ricominciarono a suonare i tamburi. Gli accompagnatori dei neofiti avanzarono. Ciascuno giunse alle spalle del proprio pupillo. Avvertii la presenza del mio popputo alle mie spalle, il suo corpo massiccio, il suo calore, il suo odore ormai familiare. Gli ierofanti posero le mani sulle spalle degli iniziandi, afferrarono le estremità delle pelli allacciate che ci ricoprivano e le sciolsero, denudandoci. La tribù ricominciò a intonare una litania ritmica e cadenzata al suono dei tamburi, mentre ci guardavano. Sentii sguardi curiosi indugiare sul mio corpo che pareva esile e diafano accanto ai fisici grandi e muscolosi degli altri iniziandi. Alcuni erano ancora giovani e glabri, altri già coperti di peluria sul petto e sulle cosce, tutti però avevano già grossi membri penduli e sui prominenti pettorali generose paia di capezzoli rosei dalle larghe areole e dalle punte prominenti, alcuni ne avevano altre coppie, allineate in fila sul petto e sul ventre, se ne arrivavano a contare quattro, sei o addirittura otto.

Ogni compagno prese da dietro i seni del proprio iniziando e gli strinse i capezzoli tra le dita-.

-E tu...?- chiese il principe ardendo di curiosità.

-Beh, io sentii una fitta al basso ventre mentre i miei piccoli capezzolini scattavano sull’attenti torti e roteati con tanta maestria. E debbo confessare che, vedendo gli altri compagni nudi che venivano titillati allo stesso modo, non furono solo i miei capezzoli ad andare in erezione. Ebbi un'istintiva ondata di imbarazzo, ma poi mi accorsi che anche gli altri erano eccitati.

Poi gli iniziatori si staccarono. Il capo ordinò a noi giovani adepti di entrare nella sorgente. Obbedimmo. Entrammo, immersi sin sopra le ginocchia in quel liquido. Non era freddo come mi aspettavo, aveva una temperatura mite e una consistenza corposa e carezzevole, differente da quella dell’acqua. Il capo ci ordinò di bere, noi raccogliemmo un po’ di liquido nelle mani a coppa ed eseguimmo. Incredibile. Aveva davvero un sapore simile a latte, ma ancor più dolce sulla lingua, un gusto che riconobbi con un’istantanea fitta ai lombi, che mi fece nuovamente indurire i capezzoli e il membro. A un cenno del capo gli iniziandi avanzarono nella sorgente sino alla vita e uno alla volta si immersero completamente nel latte. Quando giunse il mio turno li imitai. Trattenendo il respiro mi lasciai andare in quell’onda bianca di caldo liquido primordiale. È impossibile descrivere ciò che provai. Per un attimo fu come se fossi ritornato al sicuro nell’amnios del ventre di mia madre. A occhi chiusi, rividi immagini simili alle pitture sulle pareti e agli occhi vivi della statua di quel dio primevo, il cui sguardo sembrava avvolgermi in un abbraccio in cui avrei potuto perdermi, un abbraccio simile a quello del mio ierofante. Riemersi di scatto assaporando l’aria a pieni polmoni, mentre quel liquido mi scorreva addosso, grondando in rivoli candidi sulla pelle.

Il calore delle torce, odoroso di resina, danzava sui corpi nudi. Il Capo levò di nuovo la mano evocando il silenzio.

<<Ora voi pronti conoscere segreto di Grande Tribù!>> annunciò in tono grave.

Un Popputo dalla barba grigia avanzò tra le file degli astanti. Sembrava un confratello autorevole, vestiva una pelle d’orso allacciata su una spalla sola, lasciando in bella vista dall’altro lato un pettorale villoso e prominente con un capezzolo a punta rivolto in su e un altro più piccolo sul torace sotto di esso. Almeno un'altra fila si intravedeva eretta sotto la veste. Doveva essere il cantore della tribù. Al suono dei tamburi iniziò a recitare a ritmo cadenzato un racconto nella loro lingua.

Narrò come all’inizio dei tempi, gli antenati della tribù, sopravvissuti al Grande Diluvio che aveva decimato popoli e razze, allorché le acque si ritirarono, avevano vagabondato sul ventre desolato della terra bruna assieme alle loro donne e ai loro figli. Un giorno, vagando nel deserto senza nome, privi di cibo e di acqua, giunsero in una terra verde, ricca e generosa, un’oasi felice dove le genti si nutrivano dei frutti che il suolo donava spontaneamente levando canti all’amore e alla gioia della vita. Il capo della tribù si recò al cospetto della bella regina di quella terra, che aveva fama di essere una saggia e potente incantatrice, si inginocchiò dinanzi al suo trono e le chiese ospitalità per sé e per il suo popolo. Il capo era uomo forte, valoroso e di bell’aspetto e la regina lo ricoprì di ricchi doni e fu ben felice di accoglierlo. Quella sera lo invitò a banchetto. Quando si furono saziati del cibo, della musica e del succo fermentato della vite e del melograno, allorché le stelle furono alte in cielo e i commensali si ritirarono, la bella signora porse la mano al suo ospite e lo invitò a seguirla nel proprio talamo. L’uomo era retto e d’animo puro e amava profondamente la propria sposa, che era in procinto di partorirgli un pargolo. Aborrì a quell’idea. Ringraziò ma rispose che non poteva accettare. La maliarda allora si infuriò e gli scagliò contro le sue maledizioni: per avere insultato la sua tavola ospitale e dileggiato il suo amore, lui e tutti i suoi uomini avrebbero vagato nella desolazione, non avrebbero mai più conosciuto l’amore di una donna e mai più un seno di donna avrebbe nutrito i loro infanti. L’indomani si risvegliarono tutti nella desolazione del deserto: la terra dell’abbondanza si era dissolta nel nulla. Il capo esortò i suoi uomini ad allontanarsi in tutta fretta da quel luogo maledetto. Più tardi ritrovò, tra i pochi averi che portava con sé, un cesto di frutta donatogli dalla strega, ma, memore delle parole minacciose di lei, lo nascose e non ne fece parola ad anima viva.

Pochi giorni dopo la sposa del capo fu colta dalle doglie e diede alla luce due gemelli. Qualcuno disse che era segno infausto, ma il condottiero non volle ascoltare e si rallegrò della nascita. Tuttavia, quando una notte, nel suo giaciglio, si accostò di nuovo alla sua donna, si accorse con orrore che i propri lombi erano inariditi e che, pur volendolo, non era in grado di amarla. E non fu l’unico tra gli uomini della tribù. Frattanto ripresero a vagare in terre bruciate da un vento di fuoco, senz’alberi e senza cibo. Seguirono il cammino del sole e avanzando verso il crepuscolo giunsero ove il dorso ossuto della terra si inarca in montagne alte e scoscese e si inerpicarono su quei nudi pendii nella vana speranza di trovarvi luoghi più generosi. Un giorno, mentre gli uomini erano alla ricerca di cibo, le donne, sole attorno al fuoco, forse sofferenti a causa di voglie insoddisfatte, furono colte da una fame improvvisa e irrefrenabile. La povera sposa del capo, sopraffatta dal languore, svelò alle altre un cesto di frutta che aveva trovato nascosto nella bisaccia del marito. Segretamente si recarono ad aprirlo, constatarono con meraviglia che i frutti erano ancora buoni, dolci e succosi e se ne saziarono avidamente.

L’indomani ripresero il cammino, ma un male improvviso colse le donne della tribù, che cominciarono a deperire e a perdere le forze, i loro seni si disseccarono e non ebbero più latte per nutrire gli infanti. I loro sposi le caricarono in spalla e continuarono ad arrancare su quei pendii, offrendo loro la forza delle braccia, là dove non avevano più potuto offrir loro la forza dei lombi. Ma lentamente le donne agonizzarono e, una dopo l’altra, caddero rantolando nella polvere. I loro sposi, piangendo, le seppellirono tra le rocce di quelle montagne perdute. Infine anche la sposa del capo si accasciò sulle ginocchia di suo marito, gli chiese perdono, sussurrandogli che era colpa sua. Lui le rispose che l’aveva capito, ma che la perdonava, che era stato lui ad attirare quella maledizione sulla tribù e la supplicò di restare in vita per i loro figli appena nati. Ma ella spirò, abbandonandosi tra le sue braccia. Lui pianse, anche i due gemelli piansero. Il padre li strinse a sé, uno di loro cercò al suo capezzolo il latte che lo nutrisse, ma quell’ampio petto era solo una sterminata pianura deserta, come quella che si apriva innanzi a loro, in mezzo alle montagne.

Avanzarono in quella terra di morte. Una larga gora si apriva al di là delle creste montane ma in essa vi era solo nuda roccia, le ossa della terra. I bimbi privi delle madri e del latte giacevano ormai inermi, non più capaci neppure di piangere. Gli uomini si accasciarono stremati. Il capo guardò la sua tribù maledetta, giunta in quella terra senza nome alla fine del mondo. Alzò gli occhi al cielo ove lo spirito della sua sposa vagava chissà dove e pregò. Si strinse i figli al petto e all’improvviso avvenne il miracolo. Lo spirito della sposa fu su di lui e dentro di lui, uno dei piccoli cercò il suo capezzolo, le sue sizze si inturgidirono e da esse zampillò il latte. Il piccolo si attaccò a destra e all’altro gemello il padre porse la sinistra. I due si nutrirono e nei loro corpicini rifiorì la vita. Una volta saziati, cullati dal padre, si addormentarono. Allora il capo guardò i propri uomini. Un tempo forti e ardenti guerrieri, ora erano stremati dalla fame e dal dolore. Lo guardarono supplichevoli cercando in lui una guida e una speranza. Non sapendo cos'altro fare, egli strinse a sé i due compagni che gli erano più vicini e porse loro i propri seni ancora umidi di latte. Quelli affamati e stravolti si attaccarono e iniziarono a suggere, il loro signore provò un inaspettato godimento e dalle poppe riprese a zampillare generosamente il latte, infinitamente più dolce del succo dell’uva e del melograno. A quella vista anche gli altri uomini si protesero, affamati e disperati, verso il possente torace del capo e per miracolo altre quattro coppie di capezzoli sorsero turrite dal suo petto e dal suo ventre sì che altri uomini potessero trovar sollievo all’agonia. Ma anche quando, tutti satolli, si staccarono, il capo continuava ad essere pervaso dal piacere e i suoi capezzoli non smettevano di secernere quel dolce nettare. I suoi uomini si protesero ad assaggiare e furono cosparsi dalla pioggia di dolce manna.

Il forte condottiero si accasciò tra le rocce gemendo, dalle sue sizze nacquero dieci fiumi di latte, scorrendo senza posa per tre giorni e tre notti, e la terra sassosa e arida, fecondata dal generoso nettare di vita germogliò all’improvviso d’erba verde e rigogliosa. Dalla manna miracolosa nacque la sorgente di Galatto. Estasiati gli uomini si gettarono come pesci nella fonte e, quando ebbero bevuto a sazietà, si accorsero che anche le loro sizze s’erano inturgidite e i capezzoli eretti. Si protesero verso i propri infanti agonizzanti e videro che appena se li portavano alla poppa anche loro iniziavano a secernere latte. E a quelli che stringevano a sé più di due pargoli, come per incanto, sorsero sul petto e sul ventre altri capezzoli perché potessero nutrirli tutti assieme. Quando i piccoli stettero bene, gli uomini si guardarono gli uni gli altri ed, estasiati da quel generoso banchetto, deposero gli infanti, si strinsero tra loro, presero a nutrirsi gli uni gli altri e, colti dall’estasi, sotto la luna, nella sorgente bianca, impararono a regalarsi l’un con l’altro la gioia che con le defunte donne avevano perduto. Così, vinta la maledizione della strega malvagia, trovarono pace in questa terra divenuta generosa e ricopertasi di rigogliosi alberi da frutto. Da allora grande venerazione fu tributata Grande Zizzon che li aveva salvati con quel miracolo.

In seguito i figli di Zizzon vennero alle mani con un feroce popolo che viveva in quelle montagne: donne guerriere forti come uomini, che avevano ucciso tutti i loro maschi dopo che questi avevano tentato di sottometterle e brutalizzarle. Giunsero armate d’archi e aste e dichiararono che mai più si sarebbero sottomesse a un uomo. I figli del Grande Zizzon le rassicurarono, spiegando che in seguito a una maledizione non desideravano più la compagnia delle donne. Le donne si guardarono e, ammirando la forza e la dolcezza di quel popolo di valorosi, proposero un accordo perché entrambe le tribù sopravvivessero in quei luoghi nel tempo. Gli uomini ripeterono che a causa della maledizione da cui erano stati colpiti non desideravano più la compagnia delle donne. Ma quelle donne selvagge convennero che c’era una soluzione. Da allora, al sorgere di ogni primavera le due tribù si incontrano al confine tra i loro territori e si appartano tra le grotte, ogni donna in compagnia di due uomini. Dopo che i due maschi si sono condotti all’apice del piacere l’un l’altro, fecondano entrambi la donna con il proprio seme. Nove mesi dopo le donne lasciano loro nella più grande di quelle stesse grotte i figli maschi partoriti, tenendo per sé le femmine. I piccoli sono allevati dalla tribù e allattati dagli uomini. Crescendo anch’essi diventano capaci di generare latte e ad alcuni spuntano sul petto altri capezzoli. Nessuno conosce la propria paternità ma è noto che solo i discendenti diretti del Grande Zizzon hanno dieci capezzoli e per questo, alla morte di un capo, il giovane della tribù dotato di più capezzoli è destinato a succedergli.

 

Calò di nuovo il silenzio. Le immagini di quel racconto del tempo che fu svanirono nella luce delle torce e tornarono ad essere semplici graffiti policromi sulle pareti della caverna. Gli sguardi di tutti tornarono a posarsi sul capo. Frattanto egli si era sciolto la pelle che lo rivestiva restando a torso nudo. Colsi ancora, ammirato, la somiglianza con il mio popputo, che già si notava vedendoli vestiti. Il corpo possente e robusto del Capo-tribù pareva più appesantito dall’età. Aveva anch’egli possenti muscoli, ma i due grossi seni pelosi erano sporgenti e rotondeggianti, sormontati da monumentali capezzoli dalle grosse punte tonde e rivolte all'insù, e anche il ventre tendeva alla rotondità. Tuttavia su di esso si susseguivano ben altre quattro coppie di grossi capezzoli. Se ne contavano dieci in tutto, quanti quelli del giovane ch'era in piedi dietro di me. Le nenie e il suono dei tamburi riattaccarono. Il capo fece un gesto di invito e i Popputi che assistevano noi neofiti si staccarono dal bordo della sorgente per avanzare verso di lui. I primi due si accostarono ai lati del suo trono. Fecero un rispettoso inchino con la testa, il loro signore pose loro una mano carezzevole sul capo, li attirò a sé e quelli con spontaneità infantile gli si attaccarono alle sizze cercando il capezzolo con la bocca. Succhiarono avidamente. Il capo li strinse a sé con sguardo amorevole e quelli iniziarono a succhiare con avidità febbrile. Era uno spettacolo inusitato: l’ampio torace villoso arrossato, quella leggera estasi sul viso del signore, il desiderio nei corpi dei due che leccavano e ciucciavano con foga. Poi ebbi l’impressione che il capo gemesse, dai capezzoli eretti sul suo ventre iniziarono a danzare getti bianchi e i due, attaccati ai seni villosi, sembrarono accelerare il ritmo della poppata. Il capo fece cenno agli altri e alcuni si avvicinarono attaccandosi ad altri capezzoli sul petto e sul ventre. Poi si staccarono e se ne avvicinarono altri ancora, continuando a far gioire il loro signore. Infine, per ultimo, fu il turno del mio iniziatore. Si inginocchiò di fronte al suo signore, questi gli passò la mano sulla testa cingendogli il collo. Lessi l'inconfondibile sguardo d’orgoglio e di tenero amore con cui lo fissava e la fiera devozione negli occhi dell’altro. Ricordi ormai sepolti riemersero nella mia memoria. Ripensai a quand’ero bambino, a mio padre che mi cullava stringendomi al petto, al sicuro, prima di partire per la guerra da cui non avrebbe mai più fatto ritorno. Poi il capo strinse il suo pupillo e quello si attaccò alla poppa e si nutrì del caldo latte paterno, baciò e leccò le generose poppe e la distesa villosa tra esse come un cucciolo affettuoso per poi passare ad assaporare l’altra tetta e l’estasi si dipinse sul volto del suo signore. Discese a onorare tutte le altre sorgenti e il capo si deliziò.

Infine gli iniziatori si rialzarono. Il capo levò le mani, fece cenno con la testa verso la statua e li benedisse:

<<Abbeveràti a latte che per secoli da seni di Grande Zizzon saziato figli e figli di figli, ora voi rendere loro fratelli!>>

Gli ierofanti avanzarono, si disposero di nuovo in cerchio attorno alla sorgente. Entrarono anch’essi nel liquido sino alle ginocchia avanzando ciascuno alle spalle del proprio adepto. Quindi si sciolsero le vesti dalle spalle mostrando i petti villosi e robusti, rimanendo con solo un succinto cingilombi indosso. Non vedevo il mio Popputo ma avvertii la vicinanza del suo corpo nudo e caldo dietro di me. Tutti presero di nuovo i capezzoli dei rispettivi adepti e iniziarono a titillarli. Poi il primo ierofante strinse le mani sulle spalle del proprio adepto e lo condusse al centro della polla di latte, si volsero l’uno di fronte all’altro. Lo ierofante si chinò a baciargli il petto, dette piacere con labbra e lingua a tutti i quattro capezzoli, mentre quello se lo stringeva al petto non trattenendo gemiti di gioia. Quindi, dopo che gli ebbe mostrato come fare, se lo attirò al seno e gli porse la sisa invitandolo a fare altrettanto, quello non si fece pregare, si attaccò e quando dai capezzoli dell’iniziatore iniziò a colare il latte, leccò avidamente su tutto il torace per evitare che anche una sola goccia ne andasse sprecata. Quando ebbero finito, uscirono dalla sorgente e restarono a guardare mentre gli altri adepti erano condotti, uno ad uno, al centro della sorgente per ricevere il battesimo del latte. Per ultimo anch'io, di fronte agli occhi silenti dell’intera tribù, fui accompagnato nella sorgente sino ai lombi dal mio ierofante. Il popputo mi prese per le spalle e mi fece voltare. Quel viso amorevole che mi fissava, quel corpo forte e immenso facevano accelerare il battito del mio cuore, come la vista di quei vasti, ballanti pettorali, di quelle schiere di capezzoli rosei e il pensiero che stavano per essere miei. Con un sorriso mi strinse le mani e se le posò sul torace, io strinsi quei seni maschi, assaporando i muscoli duri sotto la carne morbida che danzava e si gonfiava nelle mie mani, i miei pollici affondavano nella pelle tenera dei capezzoli ancora lisci, gustando ogni attimo di ciò che mi era finalmente concesso. Lasciai che il maschione si chinasse a dare piacere alle mie minuscole tettine, lo strinsi voglioso, mentre percorrevo ancora con le carezze quel corpaccione e quell’immenso torace, pregustando la scorpacciata che mi attendeva. E finalmente il popputo si raddrizzò, mi posò una mano sulla testa e mi baciò teneramente la fronte. Non resistendo affondai le labbra nel suo collo taurino, percorsi la linea della spalla, tastai coi denti la possanza dell’omero, discesi quindi lungo la sporgenza del petto in mezzo alla selva di peluria sino a farmi strada con la lingua verso il primo grosso lago roseo. Percorsi i contorni dell’areola, lavai la superficie tenera sinché non si fece coriacea e la punta turrita non sorse a duellare con la mia lingua, titillai, baciai, strinsi i denti sinché con un gemito non giunse il primo schizzo di nettare bianco, caldo e infinitamente dolce sulle mie labbra. Allora mi attaccai e poppai lasciando che la sisa si gonfiasse e defluisse nella stretta della mia bocca. Discesi poi lungo la china montuosa, infilando la lingua nella scanalatura sotto il pettorale, risalendo e mordendo per lasciare il segno sulla pelle bronzea, discesi nella valle boscosa tra le montagne e la percorsi su e giù. Feci poi argine ad un rivolo di latte che colava giù e lo dragai risalendo il pendio dell’altra montagna sino alla sorgente, all’erta torre coloritasi di rosso acceso. Strinsi in mano la tetta e me la infilai in bocca carezzandola coi denti, stringendo sempre più, scorrendo dalla vasta area di pelle attorno all’areola sino a serrare la punta del capezzolo. Il popputo gemeva, il latte sprizzava in getti talmente forti da inondare tutto il mio corpo stretto a lui. Quindi scesi lungo il torace cercando tutti gli altri capezzoli per deliziarli con labbra, lingua e denti e ingozzarmi di tutto il bianco latte che riuscivo a ingurgitare. Il ritmo dei tamburi si era fatto concitato. La tribù acclamava alla poppata in un canto selvaggio. E il nettare di quelle sizze era la bevanda più deliziosa ch'io avessi mai assaggiato, dolce come il latte e caldo come il vino, mi pervadeva di un’ebbrezza febbrile, di un fuoco incontrollato che mi montava alla testa. Non sentivo più niente, avevo l’impressione che il mio corpo fremesse a tal punto da perdere del tutto il senso di sé e del mondo. Il selvaggio che mi sollevava di peso e mi deponeva su una roccia piatta, ancora semi-immersi nel latte. Le mie mani infoiate che strappavano il cingilombi da quelle natiche marmoree, quel membro tesissimo, caldo e pulsante nel mio pugno. Tutto si confondeva in un vortice delirante disciolto nell’onda incandescente di quel liquido paradisiaco. La voce cavernosa, supplichevole che mi tratteneva:

<<Non farmi sborrare latte dal pisello prima che finito con zizze!>>.

Io, a cavalcioni in braccio all'omone mentre, incurante degli sguardi di tutti, mi impalavo sul membro infuocato e i getti di latte danzanti dai capezzoloni isterici che giocavano a centrare la mia bocca spalancata per i gemiti. Le altre coppie di iniziati e iniziatori che si allattavano reciprocamente attorno alla sorgente e facevano con foga l’amore nelle acque sacre. Non sentivo più il retto dolorante, non sentivo più niente in assoluto e poi il piacere più intenso mai provato che scuoteva le mie viscere, infuocato come l’inferno, talmente forte che non riuscivo neppure a sentirlo se non nella vaga lontana sensazione del liquido caldo che zampillava agognante dal mio membro, e un rossore abbacinante che affluiva al mio viso dopo di esso, sotto tutti quegli occhi che ci fissavano. E poi anche gli altri membri della tribù prendevano a denudarsi e a sollazzarsi tra loro, ad abbeverarsi gli uni gli altri del reciproco latte zuccherato. E io ero di nuovo pronto e voglioso. E il bestione infoiato mi sbatteva supino sulla roccia, a gambe larghe e mi inculava ancora. E quei seni immensi, villosi e umidi ballavano sulla mia faccia, nella mia bocca, tra i miei denti. E sopra la spalla possente del selvaggio, il Grande Zizzon, immobile nella roccia, ci fissava tutti e sorrideva su quell’orgia benedetta, compiaciuto della gioia che i suoi figli sapevano donarsi gli uni gli altri.

E, quando infine il bruto si era liberato, gemendo dentro di me, mi afferrava di peso e mi portava nel segreto della nostra caverna, mi porgeva di nuovo i seni appetitosi e ricominciava la danza dell’amore. Sapeva dannatamente bene come tenere occupati tutti i miei orifizi e stremare tutte le mie erezioni. Infine, i capezzoloni scarlatti e martoriati, pervaso dall’estasi che faceva strillare quella voce profonda e maschia con isteria da femmina, mi supplicava che stavolta fossi io a scopare lui. E io obbedivo, affondavo la mia grande spada nell’orifizio caldo assaporandone la stretta bramosa e umida, lo violavo, lo deliziavo e lo benedicevo più e più volte mentre continuavo a stringere tutti quei seni ballonzolanti da dietro e ad assaporarli dal davanti. E gioivo del donargli la gioia. E infine l’estasi cedeva al sonno mentre la luna piena salutava l’arrivo dell’alba.

Il sole era già alto in cielo quando mi svegliai, la testa appoggiata in mezzo a quelle calde, belle tette. Mi strinsi ancora a quell'enorme corpaccione, in preda all'estasi. Non resistetti alla tentazione di scalare di nuovo le montagne con la lingua e a solleticare la grossa ciliegiona rosea ed eretta sulla cima. Il bruto si mosse emettendo un dolce, adorabile suono, che era un misto tra un gemito e un grugnito. Aprì gli occhi e il faccione barbuto sorrise.

<<Ehi, Capezzolone!>> lo salutai ammiccando.

<<Terribile svegliare me così!>> farfugliò lui <<Ora di nuovo voglia!>> Tutti i capezzoli erano già eretti e il membro barzotto.

<<Tu sempre voglia!>> sorrisi malizioso. L'omone scosse il capo e si levò a sedere mentre io rotolavo sdraiato accanto a lui.

<<Tu maestro!>> soggiunse scuotendo la testa, guardando dinanzi a sé <<Fare impazzire me! Io dovere insegnare te ciucciare zizze, ma tu già bravissimo anche in questo!>>

Mi levai a sedere dietro di lui. Gli passai le mani lungo la schiena, attorno alle spalle e mentre gli baciavo il collo gli afferrai i pettorali e li strinsi, pieni e forti, nelle mie mani. Sentii i capezzoli indurirsi sotto i miei palmi, ne presi uno e lo torsi: <<Anche mio popolo imparare bene quest'arte, Capezzolone!>> gli sussurrai nell'orecchio.

<<Ahh!>> gemette lui <<Cosa essere... ca-pe-tso-lo-ne!>>

<<Grossa zizza, nella mia lingua. Non vuoi che ti chiami così?>>

<<Tu chiamare me come vuoi!>> rispose lui voltando la testa verso di me con un sorriso adorante.

<<Se tuo permesso...>> replicai stringendo quelle poppe divine, mentre chinavo la testa con deferenza e mi accostavo al volto barbuto che ora appariva così dolce.

<<No! Ora tu uno di noi! Uomo libero!>> sentenziò il bruto scuotendo la testa e avvicinando la bocca alla mia.

<<Libero.... >> sospirai tra me e mi alzai in piedi, staccandomi e lasciandolo là da solo. Nudo com'ero mi diressi verso l'apertura della caverna, ove filtrava la luce del giorno. Ora il selvaggio si fidava ciecamente di me, al punto da non ostruire più la porta. Ce l'avevo fatta, mancava solo un'ultima carta da giocare. Presi a raccogliere le mie cose, infilandole nel sacco di pelle conciata che usavo come bisaccia. Mi affrettai a far sparire nel fondo il miele con cui lo avevo convinto a giocare il mattino del giorno in cui era stato ferito. Divino sul suo cazzo e preda davvero succulenta per gli orsi affamati. Assieme nascosi la punta staccatasi dalla sua lancia proprio quello stesso mattino, subito prima che il bastone casualmente si spezzasse, e una corda che tesa tra le radici di un albero avrebbe facilmente fatto inciampare un uomo in fuga di fronte a una fiera. Era stata una vera fortuna che ci fossi stato là io pronto a curarlo. Un servigio che avrebbe consolidato niente di meno che un debito di vita e di sangue.

Capezzolone preoccupato, si alzò prontamente e avanzò verso di me. L'avevo in pugno adesso.

<<Che fai?>> mi chiese.

<<Io confessare te... una cosa.>> risposi serio, senza guardarlo, fissando il vuoto, verso l'orizzonte. <<Io in mia terra servire grande... capo.>>

<<Lui... più bravo a scopare?>> chiese Capezzolone sorridendo. Scoppiai a ridere.

<<Beh, sì... quasi! Eccezionale!! E io venuto qui perché promesso di portare lui un...>> la mia voce si incrinò <<uno di voi!>> Mi voltai e vidi lo sguardo confuso sul suo volto.

<<Perché?>> chiese sbigottito

<<Voi... bellissimi!>> replicai levando di scatto lo sguardo a fissarlo in viso <<Avere...>> soggiunsi incerto dandogli una pacca sul petto e sfiorando un capezzolo per poi prendere la punta e iniziare a titillarla <<...zizze bellissime! E lui volere uno di voi! Ma... io fallito, tu catturato me! Ma poi così buono con me, liberato e dato me... cose bellissime! Ora però, se io davvero libero, tornare a casa. A mani vuote, fallito, ma devo andare!>> Gli voltai di nuovo le spalle, guardando il nulla.

<<No, non potere andare!>> esclamò il bestione saltandomi addosso e abbracciandomi con veemenza.

<<Non libero dunque?>> chiesi io voltandomi a fissarlo corrucciato. Quell'enorme bambinone indietreggiò, abbassò gli occhi, pareva in imbarazzo.

<<Sì, potere... se volere, ma... ti prego... io non volere! Resta scopare con me!>> Sorrisi fissandolo di sottecchi.

<<Bello anche per me! Ma non potere. Casa mia, mia... tribù... là!>>

<<Io non volere tu andare via!>> ripeté Capezzolone imbronciato, incrociando le braccia sul petto monumentale.

<<Vorrei portare te con me!>> risposi facendo spallucce <<Ma poi mio... capo, altri uomini volere te e, dopo che tu... buono con me, io mai dare te... come giocattolo!>>. Capezzolone si soffermò a pensare.

<<... forse divertirmi anche io!>> esclamò all'improvviso <<Uomini in tua terra tutti belli e... bravi scopare come te?>>

<<Oh... sì! Anche di più!>> replicai io allontanandomi verso l'interno della grotta <<Ma anche crudeli e tu... forse diventare schiavo... Come io qui!>>.

<<Io tuo... schiavo.>> replicò lui secco <<Credere io uomo libero? Tu salvato me, donato a mio... corpo... piacere più grande e ora, anche se io non volere, appartenere a te. Mio corpo felice solo con te... Porta me... io fare tutto quello che vorrai!>> Quel discorso, pur lasciandomi quasi interdetto, troncava ogni possibile replica. Mi lasciai nuovamente cadere seduto sulla pelliccia che ci faceva da giaciglio.

<<Se è quello che vuoi... Ma tuo... capo e tuoi fratelli lasciar andare futuro re?>>. Quel pensiero se ne portò dietro un altro: l'oracolo di cui parlavano, il tragico destino della stirpe dai dieci capezzoli... Ma Capezzolone mi guardava sornione.

<<Tu tranquillo!>> rispose con un improvviso sorriso <<Di questo parlare dopo...>>

<<Dopo cosa?>>

Capezzolone ammiccò con le sopracciglia e per tutta risposta prese a contrarre alternativamente i pettorali facendoli ballare mentre tutte le sue grosse mammelle parevano salutarmi con un sorriso. Contro ogni sforzo di volontà, sentii il desiderio infuocarmi.

<<Ma no, io...>> vaneggiai. Per tutta risposta si sedette a cavalcioni sulle mie ginocchia, mi passò le mani tra i capelli e mi attirò la faccia i  mezzo al suo petto. Quel bastardone stava imparando fin troppo bene a usare le mie stesse arti per zittirmi. Lasciai che mi affondasse la testa in mezzo a quella morbida selva, che mi intrappolasse in mezzo alle montagne. Poi mi voltai con foga febbrile attaccandomi alla prima tetta che trovai e mi persi in quel forte abbraccio che mi trascinava sul giaciglio.

 

C'era una cosa che ero curioso di provare. Rimasi in piedi mentre lui era seduto. Mi presi in mano il membro già umido per l'eccitazione e glielo appoggiai sul petto lasciando che quella peluria mi solleticasse il glande.

<<Metti in mezzo alle zizze!>> gli dissi.

Con un sorriso compiaciuto obbedì.

Gli presi le poppe soppesandole tra le mani, gli solleticai i capezzoli. Presi a stringermele una contro l'altra attorno al pisello. Lui compiaciuto si chinò a benedire il mio scettro con la sua saliva. Poi si prese le generose mele e cominciò a sollazzarmici lui stesso. Strette, carnose, piene, calde avvolgevano il mio membro solleticato da quella foresta di peli. Lo strofinai su tutto il suo petto assaporando il contatto dei pieni e dei vuoti sulla mia carne più sensibile, lasciando che l’erezione del mio membro sfidasse quelle dei suoi capezzoli irti le cui punte lanceolate lo facevano fremere. Il mio corsiero bagnato iniziò ad accelerare la corsa, a perdersi cavalcando in quella prateria sconfinata, per poi sprofondare nel solco boscoso tra le montagne, le mie palle a sbattere sotto le zizze, la punta a svettarne fuori come una lancia. Avvolgendole con le mani accelerai il ritmo. Sentii il fuoco invadere i miei lombi e salirmi alla testa, afferrai i capezzoli tra le dita e continuai a stringerli e martoriarli. Anche lui era eccitato, prese ad ansimare, a colorirsi in viso, aveva la bava alla bocca mentre la sua lingua giocava a misurarsi in velocità con il mio destriero, a vedere se era abbastanza svelta da raggiungerlo con una frustata ogni volta che saltava su. Infine gemette, le sizze cominciarono ad espellere latte, la pioggia a colare sulla foresta accelerando la velocità della mia corsa. Finché non mi sentii mancare e stavolta fu il mio latte virile a zampillare agognante sul suo petto e sin sul suo viso e continuai a gridare con possenti spinte liberatorie sborrando la mia anima in mezzo a quelle poppe tanto agognate, lasciando che il suo latte e il mio seme si mescolassero in una sola torrenziale pioggia a imbiancare quella pianura boscosa.

Quando anche lui fu pago ed esausto, giacemmo assieme, i corpi madidi e incollati l'uno all'altro. Stingendomi ancora al seno, lui mi sorrise.

<<Allora venire con te!>>

<<Tua tribù lasciare te?>>

<<Sì, certo, se sapere che mio destino e in questo modo io sano e salvo!>>

<<Ma come? Tuo destino... il problema! Tu marchio di stirpe di Zizzon!>> balbettai sfiorando prima una, poi l'altra schiera di capezzoli che discendeva lungo il torace <<Per loro uomo dai seni piccoli uccidere te!>>

Lui scoppiò in una fragorosa risata: <<Tranquillo, io pensare loro!>>.

 

Il giorno seguente si recò con me alla presenza della tribù per annunciare la sua dipartita. Loro increduli lo guardarono preoccupati. Alcuni levarono imprecazioni contro di me accusandomi di averlo stregato. Il capo lo guardò disperato dal suo trono sentenziando tristemente che non poteva permettergli di andare a morire tra gli uomini dai seni piccoli.

<<Mio destino!>> sentenziò Capezzolone <<Destino è detto! E io vivrò!>>

<<Ma cosa, figlio mio, io...>> esitò il capo fissandolo sconvolto.

Lui si voltò verso di me e mi fece cenno di avvicinarmi. Perplesso obbedii.

<<Lui quell' uomo dai seni piccoli!>> sentenziò lui impassibile. Un brusio si levò nella tribù. Io lo fissai incredulo, temendo per un attimo il linciaggio collettivo cui mi avrebbe esposto. Per tutta risposta mi strappò la veste di dosso lasciandomi ancora una volta ignudo dinanzi alla tribù. Istintivamente mi portai le mani a coprire le pudenda. Ma lui mi fece cenno di sollevarle. Io, non sapendo che accidenti fare, obbedii. La sua mano mi scivolò all'inguine e senza preamboli mi afferrò il membro, pendulo in mezzo alle cosce. Bastò quel contatto a risvegliare l'animale a riposo, ma non capivo cosa volesse fare là di fronte a una tribù di uomini inferociti.

<<Sua... grande spada...>> sentenziò lui. E all'improvviso vidi lo stupore attonito sui volti della tribù e udii un coro di approvazione.

<<Oh sì!>>

<<Davvero grande!>>

In effetti, scattata sull'attenti nella sua mano esperta, svettava quasi al meglio delle sue potenzialità.

<<..già infilzato me più di una volta!>> sentenziò Capezzolone <<E io... consumato tutto seme per gioia! Così continuerà sinché, vecchio, non più seme! E io vivrò. Non continuare stirpe se mio destino lontano da qui. Ma questa volontà di oracolo. Nessuno fermare!>>.

E l'intera tribù cadde in ginocchio fissando il mio membro in modo a dire il vero un po' imbarazzante.

<<Oh straniero dalla grande spada>> sentenziò il Capo <<Tu mandato da destino. Noi non poter opporci. Contento se tua arma gioia e non morte per figlio prediletto di Zizzon. Tu mai lui del male!>>. Non so se fosse una preghiera, una minaccia o una predizione. Ma fu così che ci lasciarono andare. Partimmo. Trovai ancora nella foresta la mia... l’altra mia spada e soprattutto il mio fedele destriero che mi aspettava, montammo in sella e cavalcai giorno e notte per giungere in tempo alle tue nozze, mio Signore.

Il resto lo sai già!-

 

Il principe continuava a ridere, non riuscendo a trattenersi.

-Era questo che intendeva il selvaggio? Li hai incantati tutti con la tua grande spada?- fece indicandogli tra le risa il membro a riposo sotto l'acqua.

-Beh!- replicò il cavaliere impettito -Hanno riconosciuto in me la volontà del destino. E, peraltro, non sono certo stati i primi né gli ultimi a inginocchiarsi davanti... a cotanta spada con cotanta ammirazione!-.

Sghignazzò anche lui unendosi al divertimento del suo Signore.

-Scusa, amico mio, non rido di te!- si schermì il principe -Anzi non posso che essere fiero del mio Primo cavaliere! E complimentarmi se le tue doti amatorie sono state tanto eccelse da piegare la forza bruta di un selvaggio dall'aria tanto minacciosa! Ora il popputo fa davvero tutto ciò che gli ordini?-.

-Oh sì! È stato disposto a farsi incatenare e condurre al guinzaglio, si è inginocchiato ai tuoi piedi solo perché gliel'ho chiesto io! Puoi farlo condurre qui e goderne ancora, se lo desideri-.

-Perché no! Un godimento che spero vorrai condividere con me- replicò il sovrano appoggiando il proprio calice sul bordo della vasca.

-Sarà un immenso piacere, se è ciò che vuoi!-

      Il principe batté le mani. Dei servitori entrarono prontamente.

      -Conducete il popputo qui da me!- sentenziò il signore. Poi un’idea divertita balenò nella sua mente -Prima però voglio che sia lavato e profumato, tosategli capelli e barba come quelli di un uomo e abbigliatelo come un principe!-. I servi lo guardarono intimoriti. -Smettete di tremare come femminucce!- soggiunse divertito -Ditegli che è il Cavaliere dell’Arpa d’Oro che lo ordina per conto del suo Sommo Signore e vedrete che obbedirà senza la minima resistenza. Ora andate!- Gli attendenti si inchinarono e uscirono obbedienti.

      -Sono curioso di vedere come sarà, travestito da vero uomo!- rise divertito. Il cavaliere lo guardò di sottecchi senza replicare. -Quanto apparirà ridicolo?-

      Quando la luna da argentea divenne d’oro bussarono nuovamente alla porta. Entrarono e condussero con loro... una creatura straordinaria a vedersi. Le chiome erano state tagliate corte sul capo e la barba nera accuratamente rasata era ben disegnata a incorniciare le guance, il mento e le labbra rosee e carnose. Due spille d’argento gli trattenevano sulle spalle la tunica di seta bianca dai ricami scintillanti che cadeva elegantemente sul corpo ritto, possente e ben modellato.

      -È incredibile!- esclamò il principe emergendo in piedi dall’acqua e avanzando a rimirarlo verso il bordo della vasca, incurante della propria nudità.

      -Ti piace la nuova veste, Capezzolone?- chiese compiaciuto.

      -A Sua Maestà piace?- replicò l’omone con deferenza -Ora io divertire Voi?-

      Il principe non rispose, con gli occhi ancora sgranati.

      -Non fai affatto ridere- replicò il Cavaliere dell’Arpa d’Oro emergendo anche lui dall’acqua -Anzi...-

      -Sei tra gli uomini più belli che io abbia mai visto!- sospirò il principe, sollevando una mano a carezzare quella barba ben rasata. Il viso di Capezzolone divenne completamente rosso mentre allungava al cavaliere uno sguardo imbarazzato. Pareva un prodigio, così abbigliato sembrava un vero uomo, immenso, forte e incredibilmente bello.

      -Non ti sei visto?- chiese il principe divertito. -Portate qui uno specchio!- sentenziò.

I servi obbedirono. Il selvaggio si guardò e restò a bocca spalancata.

      -Lui essere... me?- chiese incredulo, quasi non riconoscendo l’immagine che vedeva riflessa in quel vetro, in mezzo ai putti alati che si rincorrevano sulla cornice d’oro. Il principe scoppiò a ridere.

      L'omone lo guardò non sapendo se ridere anche lui o chiedere spiegazioni.

      -Ti sei divertito con i miei uomini?- chiese il sovrano compiaciuto.

      -Sì!- rispose l'altro sorridendo a sua volta.

      -Ne ero certo!- soggiunse il cavaliere, in disparte, strizzandogli l'occhio.

      -Cavaliere dire me vostra terra piena di uomini belli e bravi a scopare...- il principe non poté trattenere una nuova risata -..ma qui... uuuuuuuh! Nessuno mai mangiato cena da mio petto e io mai ciucciato tante sise e piselli uno dopo altro, mai avuto tanti uomini tutti per me, o preso tanti piselli in mano, in bocca, in mezzo mie zizze, in tutte mie parti mentre altri uomini impalati su di me e io schizzato tante volte da pisello in culo e da zizze in dieci bocche assieme!-

      -Ehi!- fece il principe appoggiandogli due dita sulle labbra -Ora che sei un vero signore non sta bene che tu dica certe sconcezze davanti al tuo futuro re!-

      -Oh! Perdonate!- fece di riflesso l'omone confuso -Voi non piacere queste cose?- abbassò lo sguardo e il principe, nudo com'era, non poté proprio nascondere quanto invece gli piacessero e gli piacesse sentirle raccontare.

      -A ogni uomo piacciono!- rispose il sovrano tornando di nuovo serio, fissandolo impassibile con i suoi occhi di ghiaccio -Come piacciono a te!-. Abbassò lo sguardo sui capezzoli eretti le cui capocchie facevano chiaramente capolino sotto la seta, sotto i due seni anche gli altri otto svettavano dietro la stoffa, risvegliati dall'intensità dei ricordi. Il principe gli prese in mano una poppa, la strinse. Afferrò la punta tra due dita e torse sinché il dolore non deformò il viso dell'omone. Accostò la bocca al suo orecchio lasciando che i lunghi e setosi capelli d'oro gli sfiorassero il collo e il viso e soffiando appena sussurrò:

      -Fa’ divertire me, adesso!-. Discese a baciare quel collo taurino, assaporando la pelle lavata e profumata, che non aveva perso però il suo gusto salato. Discese sul petto muscoloso, le areole rosate sembravano guardarlo e sorridere come tanti occhi attraverso la seta, resa semitrasparente dal contatto con il corpo ancora bagnato del principe. Discese sul primo, a destra, e lo assaporò con la lingua attraverso la stoffa, lavò fin quasi a voler svellere i fili di tessitura, poi affondò i denti con tutta la forza che aveva facendo gemere il bestione e frattanto prese tra pollice e indice la coppia di capezzoli sottostante, alla base dei pettorali e cominciò a rotearli e a torcerli all'improvviso. Il viso paonazzo e deformato, Capezzolone iniziò a emettere gridolini rochi mentre il principe seguitava a succhiare e mordere ora un capezzolo ora l'altro sinché non sentì le punte dure fremere e la bianca seta bagnarsi di latte. Assaporò la stoffa madida e infine strappò via la tunica denudandolo. Il suo corpo era uno spettacolo ora che i peli sul suo petto erano stati rasati, accorciati, e resi più “umani”, un'enorme colosso dai muscoli bronzei, le due schiere di capezzoloni rosei contro la pelle soda e abbronzata, stillanti di latte. Il principe lo strinse a sé per sentire tutte quelle piccole lance erette trafiggere il suo petto e quel nettare delizioso impregnare anche il suo corpo. Il selvaggio, estasiato e in brodo di giuggiole, afferrò il grosso fallo eretto del giovin signore.

      -Dissetami ancora!- imperò il principe riempiendosi le mani di quel corpaccione mastodontico.

      -Mie zizze tutte per voi!- sentenziò il selvaggio tirando il petto in fuori. Il principe come impazzito ne afferrò una e se la infilò in bocca. Il selvaggio strinse a sé quei capelli d'oro e quel corpo glabro, liscio e scultoreo, imperlato di rivoli d'acqua. Levò lo sguardo al bel cavaliere, ritto in piedi nella vasca e questi gli sorrise e annuì col capo in segno di compiacimento. E quando il suo signore, volgendosi a guardarlo con la bocca ancora piena, gli tese la mano non esitò ad andare a unirsi alla poppata. E tutta la notte esplorarono quel corpo immenso per godere ogni sua secrezione, dettero piacere a quei capezzoli mentre i loro ne ricevevano da lui, consumarono ogni goccia del latte di quel petto possente per poi inondarlo nell'apice del piacere con quello dei propri lombi e in mille altri giochi si intrattennero ancora sinché non caddero esausti, tutti e tre assieme, nel grande talamo regale.

 

      Ormai tutto era pronto per le nozze regali. La nobiltà di tutto il regno era stata invitata ed era prontamente accorsa per assistere. L'intera capitale era parata a festa. Le strade e i luoghi sacri erano addobbati dei fiori più belli. Le cucine regali erano in fermento e già tutto era stato predisposto per il banchetto di nozze nel castello e per quelli da offrire al popolo nelle strade. La gente aveva acclamato l'arrivo in città della futura regina, che però, pudica e virtuosa quale era, si era ritirata nel segreto degli appartamenti riservatile nel palazzo reale per non mostrarsi ad anima viva sinché non fosse uscita ammantata dei candidi veli nuziali. Tutto era pronto e già i nobili, come il popolo, s'apprestavano a festeggiare la vigilia delle nozze. Solo un ultimo dettaglio mancava all'appello: lo sposo. La regina angosciata vagava avanti e indietro per la sala del trono chiedendosi che fine avesse fatto suo figlio, perché ancora non si fosse presentato a palazzo. Il re la esortò a tranquillizzarsi: il principe voleva concedersi un ultimo festeggiamento con i suoi compagni, forse avevano un po' esagerato, come è normale che facciano i giovani a quell’età, e ora stava riprendendo le forze prima di rientrare a casa. Ma poiché la sua sposa non si calmava e lui stesso iniziava a chiedersi cosa, davvero, fosse accaduto a suo figlio, la rassicurò: lui stesso sarebbe partito in segreto seduta stante a cercarlo con una scorta. Baciatala sulla bocca con lo stesso tenero amore del loro primo giorno di matrimonio, si accomiatò e, convocati i suoi veterani più fidati, partì al galoppo. Ripensando alla sua ultima notte da scapolo di ormai tanti anni prima, non ebbe alcun dubbio a dirigersi diritto al Castello delle Delizie.

      Erano passati ventuno anni da quando era giunto in groppa al suo destriero al palazzo reale per ricevere l'annuncio della nascita del suo erede. Ed ora correva al galoppo da lui per condurlo alle nozze con la migliore delle spose. Anche se ora la sua barba era divenuta grigia, era ancora un guerriero forte e fiero, eretto nell'armatura sul suo corsiero, e già aveva uno splendido erede pronto a reggere il suo regno e a continuare la sua stirpe. Era davvero un uomo fortunato. Allora perché uno strano presentimento offuscava il cielo azzurro e terso di quella giornata di festa?

      Quando giunse al Castello tra i monti, il silenzio regnava ovunque. Il sole era già alto, ma il portiere, svegliato di soprassalto, si scusò dicendo che il principe stava ancora riposando. Il re, sforzandosi di portare pazienza, entrò senza fare troppo chiasso. La Sala delle feste era ancora sottosopra, i resti di un sontuoso banchetto, avanzi di vino e succulente prelibatezze, erano sparsi qua e là sulla tavola, tovaglie e broccati cremisi sgualciti e gettati ovunque in disordine, i bracieri delle lampade d'oro consumati, persino le vesti erano state strappate e gettate qua e là nella foga dei bagordi. Al re sovvennero ricordi di follie della sua ormai lontana gioventù. Tutti gli ospiti si erano ritirati nelle camere da letto e la porta d'oro massiccio degli appartamenti del principe era chiusa.

      -Sua Altezza sta riposando! Sarà da Voi più tardi!- sentenziò un nano vestito da giullare ritto davanti alla porta. Addirittura un custode: per vegliare sul suo semplice sonno? Scuotendo la testa il re decise di pazientare ancora un po' facendo una passeggiata in giardino.

Attraversando le sale del castello si dilungava a rimirare tutte le folli inezie che si era dilettato a collezionare suo figlio. I serpenti verdi, quel grosso e inquietante corno d'argento, gli enormi animali impagliati e l'ingente varietà di pennuti dai colori infuocati e improbabili che riempivano la gigantesca voliera.

-Dai! Fammi vedere le sizze!- gemette all'improvviso una voce alle sue spalle.

-Cosa?- chiese il re voltandosi di scatto. Pareva la voce di suo figlio.

-Dai! Fammi vedere le sizze!- ripeté con l'inconfondibile voce del principe un pappagallo dalle piume rosee appollaiato nella sua grande gabbia d'oro. Quei dannati pennuti! Pensò il re, riprendendosi dalla sorpresa con un profondo respiro. Sapevano imitare la voce umana in modo tanto perfetto da ingannare chiunque.

-Per gli dei! Che petto appetitoso!- strillò ancora il pennuto con la stessa voce. A quanto pareva il principe si era ben dato da fare in quell'ultima notte di gioventù, pensò suo padre con un sorrisino. Si era fatto sentire sino in quella sala? Il suo ragazzo sì che era giovane e vigoroso e sapeva come divertirsi.

-Che possanza!- fece con la stessa voce un altro pappagallo appollaiato su un trespolo in una gabbia vicina -Avrei voglia di strapparti tutti questi bei peli a morsi!-.

Il re aggrottò le ciglia confuso.

-Così fate eccitare me, mio principe!- replicò all’improvviso un pappagallo dorato con una cavernosa e profonda voce maschile. Il sorriso sul volto del re mutò.

-Lo vedo, mio caro!- rispondeva il pappagallo con la voce del principe -I tuoi capezzoloni sono già tutti duri come piccoli cazzi!-

-Li volete, mio principe?- replicò il pennuto con la voce da maschione.

-Sì! Fammi assaggiare queste fragole!- replicò con la voce del figlio del re un altro uccello ancora.

-Mie sizze sono tutte vostre!-

-Che buon sapore maschio hanno! E che muscoli incredibili!- quel concerto di botta e risposta tra pennuti risuonava in tutta la sala.

-Belli, Altezza?-

-Mai visti di così prestanti!-

-Ah, ciuccia più forte, fammi godere!- quel teatrino iniziava ad assumere toni inquietanti. Oscuri ricordi riecheggiarono nella testa del re.

-Ah sì, allattami, Capezzolone, mentre ti sego questa grossa mazza!-

-Mmmm! Sììì cosììì!-

Il volto del re sbiancò all'improvviso. Che significavano quei lazzi osceni?

-Che accidenti state dicendo?- gridò all'improvviso sconcertato.

-Dammi il latte delle tue tette maschie!- replicò un altro pappagallo. Il re non voleva riconoscere la voce di sua figlio, così deformata da quell'ansimante voluttà oscena.

-Dammi il latte delle tue tette maschie!-

-Dammi il latte delle tue tette maschie!- ripeterono in coro i pennuti facendo riecheggiare il grido da una gabbia all'altra.

-Basta! Basta! Basta!- gridò il re come impazzito portandosi le mani alle orecchie.

-Aaaaaaaaaaaaaah! Sìììììììììììììììììììììì!- gemeva un altro pennuto imitando perfettamente la voce calda dell’altro maschio nel bel mezzo di un amplesso.

-Mmmmm! Buono! Adoro il latte di maschio, è la cosa più dolce che abbia mai bevuto!-

-Ah sì, fa' godere me, cucciolo, ciuccia latte della sisa di papà!-

Il re sentì il terreno sprofondargli sotto i piedi. Cos’era? Il suo peggiore incubo che prendeva corpo? Un ricordo dimenticato, mai svelato ad anima viva. Non poteva essere! Chi accidenti aveva ammaestrato quelle bestie?

-Che significa questa farsa?- gridò, ma nessuno rispose.

-Che significa questa farsa?-

      -Che significa questa farsa?- replicarono gli uccellacci in coro imitando la sua voce alla perfezione. Avrebbe tirato loro il collo ad uno ad uno. Ma se stavano davvero ripetendo quanto udito dalla voce di suo figlio? Cosa in tutti gli Inferni stava accadendo? Come posseduto, il re si voltò sui suoi passi e attraversò la sala veloce come il vento. Vedeva solo oscurità innanzi a sé mentre arrancava disperato tra quelle sale delle meraviglie diritto verso la porta dietro cui si trovava il suo principino. Che stava facendo? Che gli avevano fatto? Terrorizzato afferrò i battenti d’oro massiccio.

-No, Maestà, Vi prego! Il principe... è ancora occupato!- gracidò il nanerottolo alla porta. Il re, infuriato lo gettò a terra con un calcio e spalancò il portone. I corridoi erano deserti ma il re udì grida soffocate simili a quelle di un innocente che veniva strangolato. Si precipitò alla camera da letto. Grossi satiri villosi danzavano affrescati sulle pareti, intenti a rincorrere in mezzo ai boschi diafani efebi nudi, pronti a predare la loro innocenza. Una danza inquietante e sinistra, come le sontuose tende rosse e dorate del baldacchino, rosse come la cascata di sangue del suo ragazzo che già vedeva sgozzato in mezzo a quel talamo, come i gemiti strozzati che sentiva risonare dietro le cortine, simili a lamenti di morte con cui la sua creatura supplicava, invocando aiuto.

Il re scostò via le cortine e lo spettacolo che gli si parò dinanzi lo paralizzò. Tre uomini nudi, inginocchiati tra i cuscini di satin, sembravano saltati fuori dalle conturbanti pitture parietali. Al centro un enorme e bel satiro barbuto dal corpo immane e possente, sul petto aveva due grossi seni villosi, larghi e muscolosi come i pettorali di un uomo ma generosi e sporgenti come le poppe di una donna. E attaccati ad essi intenti a suggere a ritmo cadenzato uno a un lato, uno all’altro, si stringevano a lui due giovani uomini dai corpi già formati e ben torniti ma ancora longilinei, lisci e glabri, le candide natiche ignude in bella mostra e le lunghe chiome, bionde dell’uno e scure dell’altro, disciolte sulle spalle, a formare una cortina sul petto dell’omone. Il bruno, dai riflessi ramati, si stava staccando dalla poppa e si chinò più in basso sul torace. Il re vide altre infiorescenze rosse, simili a grossi capezzoli che si susseguivano da entrambi i lati del petto e del ventre simili a quelle più grosse dei capezzoloni che incoronavano i seni. Il giovane si accostò a uno di essi e iniziò a slinguarlo e con orrore il re si accorse che dalla poppa, così come da tutte le altre mammelle, zampillavano rivoli candidi simili a latte. Il gigante stringeva entrambi i giovani tra le sue braccia monumentali e il biondo, seduto a cavalcioni di un suo ginocchio gli stringeva il grosso membro equino con una mano, mentre poppava intento una tetta tra le labbra. Il re era immobile, pietrificato. Alla sua età non credeva che uno spettacolo del genere gli avrebbe fatto agitare tante emozioni contrastanti nel cuore e nei visceri. Solo pochi attimi prima che, consapevoli della sua presenza, i due giovani si voltassero e che il viso del suo biondo figliolo, la bocca imberbe ancora gronda del latte di quella tetta villosa non lo colpisse come un atroce pugno allo stomaco.

-Noooooooooooooooooooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!- un grido roco e sordo gli rombò dalla gola rimbombando contro la cupola del soffitto. Paonazzo in volto, afferrò il suo marmocchio per i lunghi capelli e, strappatolo alle lenzuola, lo trascinò di peso giù dal letto, fuori dalla porta nel corridoio, per scaraventarlo per terra, le natiche contro il freddo del pavimento. Il Popputo era scattato in piedi, pronto a intervenire, se l’altro uomo non l'avesse fermato. Ma il re incurante di tutto prese a vomitare su suo figlio un fiume di improperi:

-Figlio degenere! Per tutti gli inferni, cosa accidenti hai fatto!!!??? E io che ho sprecato la mia vita a viziarti! Che avevo investito ogni mia speranza su di te! Sei uno smidollato, una bestiola perversa!!! Come hai potuto? Getterai il mio regno e la mia stirpe nel fango e nella rovina!!!!! Ci hai disonorati tutti per sempre!!!!-

Il suo moccioso si levò sconvolto, ignudo com’era, le chiome bionde strappate e scarmigliate, ripulendosi i rivoli di latte che aveva ancora ai bordi della bocca.

-Come osate? Si può sapere cosa mai avrei fatto?- strillò piagnucolando -Ho seguito il mio cuore e dovrei essere punito perché esso risiede altrove da dove Voi avreste voluto!?-

-Il tuo... cuore?- ansimò l’uomo furente.

-Mi spiace Padre!- frignò il principino viziato rizzandosi con alterigia -Ma non potete costringermi a fare ciò che non voglio! Perché volete farmi passare il resto della vita recluso accanto a una sposina virtuosa e frigida!? Forse Voi siete troppo vecchio per sapere cosa significhi ardere di passione, godere ed essere felice! Ma io no! Perché nessuno vuole lasciarmi in pace!?- Prese a strillare come un ossesso.

-Razza di imbecille!- gli gridò il padre mollandogli uno schiaffo in pieno viso con la mano guantata, tanto forte da accopparlo di nuovo a terra -Cosa credi che facessi io alla tua età? Credi che, dall'instancabile guerriero che ero, non abbia infilato il mio regale uccello in tutti i conni delle dame della corte e anche tra le natiche di buona parte dei cavalieri? E, con sommo rispetto per la tua augusta madre, credi forse che, dopo essermi sposato per dare al regno quello che credevo sarebbe stato un degno erede, qualcuno mi abbia impedito di continuare a divertirmi quando e con chi più mi piaceva? Un re fa ciò che vuole nella sua camera da letto, ma tu...

..tu sei riuscito a macchiarti dell'unica perversione contro natura che ti condurrà alla rovina!!!-

      Il principe levò gli occhi umidi e infuriati senza comprendere:

-Che accidenti state dicendo?- strillò.

Suo padre si voltò con aria disgustata e senza guardarlo si allontanò verso la parete opposta.

      -Tu non capisci!- continuò con voce grave -La notte in cui venisti al mondo, preoccupato per la tua sorte, mi recai dalla veggente più potente e temuta del regno. Ella mi disse che se mio figlio fosse stato allattato al seno di un maschio, costui poi lo avrebbe ucciso, strappandogli il cuore! Com'ero felice io pensando che il mio figliolo per leggi di natura sarebbe stato invulnerabile! E quanto sono stato sciocco!-

      Il principe lo fissò, confuso ed esterrefatto.

      -È questo che vuoi?- gridò il re voltandosi a fissarlo con feroce esasperazione -Vuoi morire? Tieni così poco al tuo miserabile cuore? Vuoi lasciare tuo padre senza un erede e la tua terra senza un re?-

      -Padre, perché?- chiese il principe confuso -Perché non me l'avete mai detto?-.

      -Avrei dovuto pensare che mio figlio fosse talmente vizioso da andare a fornicare con l'unico mostro che fosse in grado di distruggerlo!?-

      Valutata la situazione, il principe si levò in piedi, recuperando finalmente il controllo -Va bene! Non preoccupatevi, Padre. Penserò io a sbarazzarmi di lui!-

      -E come? Hai fatto entrare quella creatura demoniaca, forte quanto cento uomini, nella tua camera da letto, dove sei nudo e vulnerabile!-

      -So come tenere in pugno la sua volontà!- lo rassicurò il principe -So di avervi deluso, Padre, ma, vi prego, abbiate fiducia in me!-

      -Come potrei non preoccuparmi, sei il mio unico figlio!-

      -Lasciate che sistemi la cosa! Poi, oggi stesso, verrò con Voi! Domani sposerò la regina che Voi e mia madre desiderate e in seguito continuerò a divertirmi con chi io desidero!- concluse con espressione fiera.

      -Ti prego, sta attento!- fece il padre e, superata ogni ostilità, abbracciò suo figlio, timoroso per la sua vita.

      -State tranquillo, Padre!- lo rassicurò il principe -Fate chiamare i miei servi e scegliete pure il ragazzo o la ragazza che più vi piace per intrattenervi mentre attendete! Sarò da Voi al più presto!-

      Ciò detto, rientrò spedito nella sua stanza.

-Che succede?- chiese il Cavaliere dell’Arpa d’Oro preoccupato e perplesso.

-Nulla di grave!- lo zittì il principe. Gli passò una mano attorno al collo, tra le lunghe chiome e lo attirò a sé con gesto affettuoso accostandogli la bocca all’orecchio:       -Puoi condurre Capezzolone nella torre, mettergli dieci guardie alla porta e assicurarti che non esca?- sussurrò con voce ferma.

-Ma perché... cosa...?- il cavaliere era perplesso, ma riconobbe sul viso del suo signore l’espressione imperiosa che non ammetteva repliche

–Sarà fatto, mio Signore!- assentì, chinando il capo. Indossate le brache, condusse fuori il Popputo. Questi si lasciò guidare senza obiezioni e quando, introdottolo nella stanza più alta della torre, il cavaliere cercò di rassicurarlo, gli rispose serenamente che si fidava di lui e che avrebbe fatto quanto gli ordinava. Il cavaliere ebbe un tuffo al cuore.

-Perché?- chiese confuso rientrando negli appartamenti regali. Il principe aveva cinto la sua veste da camera di velluto cremisi orlato d’oro e sedeva allo specchio mentre dei servitori terminavano di spazzolargli le lunghe chiome. Vedendo l'immagine del cavaliere riflessa nello specchio gli sorrise.

-Tu sai quant'io tenga a te,- lo apostrofò -quanto sia felice di averti di nuovo accanto a me e quanto ti sia grato per il meraviglioso dono che mi hai fatto?-

-Sono lusingato di sentirtelo dire, mio Signore!- rispose il cavaliere con deferenza.

-Cosa faresti per me?- chiese il principe con aria noncurante.

-Qualsiasi cosa, lo sai, mio Signore!-

-Bene!- replicò alzandosi di scatto e scansando i suoi attendenti. Aprì uno scrigno e vi infilò una mano -Allora ho ancora una richiesta per te!-. Si voltò, stringendo in mano un pugnale dall’elsa d’oro decorata di un grosso rubino.

-Il tuo dono di nozze è il più bello che io abbia ricevuto! Ma, perché sia completo, voglio che tu ti rivesta, prenda questo pugnale, vada dal Popputo e lo uccida, sì che il suo corpo possa essere impagliato e perennemente esposto nella mia splendida collezione!-

Gli prese le mani tra le sue e gli lasciò scivolare l'elsa nella destra. Il cavaliere si sentì annichilire vedendo il suo incerto, oscuro presentimento prendere corpo:

-Ma... perché...?- tentennò -Non è meglio divertirsi con lui vivo?-

-L'ho fatto!- replicò il principe -Ma mi ha stancato! Va'!-

Il cavaliere strinse il pugnale, con la sensazione che glielo avessero infisso nel cuore. Di scatto cadde in ginocchio: -Ti prego, mio Signore, non chiedermi questo! Già l'ho strappato alla sua gente, l'ho circuito per condurlo qui, l'ho privato della libertà e trasformato in un giocattolo. Non posso fargli anche questo!-

-Mio prode guerriero,- il suo signore lo fissò dall’alto in basso con alterigia -il tuo cuore si è rammollito a tal punto? Non mi hai mai deluso da quando, riconoscendo il tuo valore, ti sottrassi a una milizia di furfanti e, ricordando le tue nobili origini, feci di te un cavaliere! Non deludermi adesso!-

Sentirsi ricordare il debito che lo legava al suo signore per l'eternità fu come una pugnalata nello stomaco.

-Ti supplico!- implorò -So bene di doverti tutto. Dopo che il mio nobile padre mi lasciò, cadendo da eroe, fui costretto a sopravvivere combattendo battaglie altrui, facendo l'unica cosa di cui ero capace. Ero un mercenario senza onore sinché non mi prendesti al tuo servizio. Tu mi hai restituito ogni cosa. E io farei tutto per te, ma questo... è davvero necessario?-

-D'accordo!- il principe scosse la testa -Uscite tutti!!!!- sentenziò rivolto ai servi. Quando furono soli, gli fece cenno di alzarsi, si avvicinò e gli appoggiò le mani sulle spalle, stringendolo con affetto cameratesco.

-Tu sei colui a cui tengo più di ogni altro, il mio migliore amico, il mio cuore, il mio braccio destro! Voglio che tu sia il mio testimone, che tu sia accanto a me, domani alle mie nozze e per sempre, quando sarò ammogliato e quando sarò re!-

-Mi onori davvero!- rispose il cavaliere commosso, senza capire però dove volesse andare a parare.

-Sei l'unica persona di cui mi fidi davvero! Per questo voglio svelarti un pernicioso segreto!- proseguì, staccandosi e iniziando a misurare a larghi passi la stanza.

-Quando nacqui, mio padre ricevette un oracolo!-

-Tutti sanno che sei nato sotto auspici fausti e grandiosi, mio Signore!-

-No! Tutti lo credevano! Incluso mio padre. Ma l'oracolo disse ben altro. Disse che quando fossi stato allattato al seno di un maschio, costui, e costui soltanto, mi avrebbe ucciso!-

-Per tutti gli dèi!- bisbigliò il cavaliere esterrefatto.

-Ora capisci perché quella creatura deve morire!?- replicò il principe voltandosi verso di lui, con lo sguardo iniettato di sangue.

-Capisco bene, mio Signore! Ma, se mi permetti, se c'è una cosa che ho imparato è che gli oracoli sono ambigui e ingannevoli, che il loro senso è spesso diverso da quello che credono gli uomini e...-

-E nel dubbio vuoi che io rischi la mia vita? Che rischi di lasciare la mia stirpe rischi senza un erede e il mio regno senza un re?-

-No. Mai, mio Signore!- replicò il cavaliere sconfitto, il volto immobile e inespressivo.

-Allora va'! Io devo recarmi alla capitale per occuparmi della verginella da impalmare. Tu va' e strappagli il cuore, come lui avrebbe dovuto strapparlo a me, e portamelo alla capitale in questo scrigno d'oro, come ultimo dono di nozze! Consegna il suo corpo ai miei impagliatori affinché si occupino di lui, che resti tra i miei tesori a memoria della gratitudine che ti dovrò in eterno!-

-Sarà fatto, mio Signore!-

-Fa presto allora! Ti voglio accanto a me domani! E non crucciarti per l’anima di quel selvaggio, ammesso che ne abbia una. Io e te abbiamo una vita intera e un regno da condividere assieme!- lo abbracciò forte e uscì, lasciandolo solo, con il ricordo del velluto profumato e delle chiome setose bruciante sulla pelle nuda e il baratro più nero in fondo al cuore.

 

      Più tardi, senza neppure rivestirsi, con le sole brache indosso e il pugnale in mano, il cavaliere si avviò verso la torre. Al posto del cuore sentiva un macigno. Benché giovane, aveva ucciso molti uomini in guerra, con alcuni si era rotolato assieme nella polvere nella foga della lotta, aveva udito battere il loro cuore, ma a nessuno era stato davvero così vicino, nessuno gli aveva dato quanto gli aveva dato quel buon, innocente selvaggio. Ma non era questo il momento di tentennare, gli disse l'anima fiera del soldato che era in lui. Se era questo che il suo signore chiedeva, questo doveva essere fatto. La pietà è per i deboli. Aveva lottato una vita per l'affetto del suo principe, ora che finalmente lo aveva per sé, niente e nessuno glielo avrebbe tolto, non certo quell'ingenuo selvaggio, né la sua stessa debolezza o quello strano, confuso fremito che gli si agitava nel cuore. Ma per quanto tempo il suo volubile signore sarebbe stato contento? A quale altra irragionevole richiesta avrebbe dovuto obbedire la volta seguente per conservare il suo favore? Per quanto ancora sarebbe continuata così? E quando la sposa regale avesse partorito un figlio, quello non sarebbe divenuto il primo nell'affetto del proprio padre al posto suo? Vergognandosi di quei pensieri ingrati e irrispettosi li scacciò dalla propria mente mentre entrava nella cella alla sommità della torre.

      Era già il crepuscolo e il selvaggio giaceva a terra addormentato, il dorso appoggiato al muro sotto la finestra, nel riverbero degli ultimi raggi del sole. Era completamente ignudo come vi era stato portato quella mattina. Coi capelli, la barba e il petto ben rasati, pareva davvero un uomo, un gigantesco e magnifico Ercole a riposo.

      Avrebbe dovuto agire subito, pensò il cavaliere, sinché dormiva sarebbe stato più facile. Era così bello e aveva un'aria così dolce mentre riposava, col sole che indorava la peluria sui muscoli rilassati, i dieci capezzoli lisci e rosei contro il torace bronzeo e quell'espressione da bimbo immerso nei sogni sul volto da uomo. Non resistette, si chinò e lo baciò con tenerezza paterna, sulla fronte e sulle palpebre chiuse. Quello si riscosse, dischiuse gli occhi e gli sorrise. Accidenti! Perché doveva essere tanto difficile?

      -Tu tornato!- disse Capezzolone sorridente, stringendogli la mano che gli stava accarezzando i capelli -Io contento tu qui! Mancato me!-

      Il cavaliere gli strinse la mano più forte, incapace di dire o fare alcunché. Avrebbe potuto stritolargliela per la tensione, ma per quel bestione la sua stretta non era che un corroborante massaggio.

      -Tu vuoi suonare per me?- chiese l'omone.

      -Sì, Capezzolone. Ti canterò una ninnananna!- bisbigliò il cavaliere. Aveva ancora con sé la cetra che si era fabbricato nel bosco con il guscio di tartaruga, la prese e iniziò a pizzicare le corde e a intonare una melodia triste. Il selvaggio, seduto a terra, gli appoggiò la testa sulle ginocchia e si lasciò cullare da quella melodia. Il cavaliere sperava solo che si addormentasse per porre fine il più in fretta possibile a quella straziante agonia. Ma sentiva la propria voce rotta e agitata. Quando la ninnananna finì, l'omone volse la testa in su sorridendo e fissò gli occhi del suo signore, infuocati e tristi mentre fiotti di lacrime gli rigavano le belle guance.

      -Devo morire, vero?- chiese placido e sorridente il selvaggio. Il cavaliere aveva la gola troppo gonfia per rispondere.

      -Mia gente non stupida come voi credere- soggiunse -Ma io contento. Se per tua felicità morire, io felice, farlo per te!-

      -Io non vorrei, credimi!- sussurrò il cavaliere. Il bruto tese una manona ad asciugargli le lacrime.

      -Non piangere! Tu non vedere me? Tu portato me per pochi giorni in mondo bello, reso me uomo civile, reso me... bello! Io contento, morire adesso. Mia felicità schiava a te, come tua schiava a tuo principe. Per tuo volere, modo più bello di morire e io contento, tu a farlo!-

      Il cavaliere piangendo gli carezzò la testa, chiedendosi se dietro quell'ingenuità non si nascondesse davvero una grande e sorprendente saggezza.

      -Una sola cosa posso chiedere...?-

      -Cosa?- bisbigliò il cavaliere.

      -Ultima volta, fai con me... l'amore! Così voi dite?-

      Era la prima volta che pronunciava quella parola. Travolto da un istintivo moto d'affetto, il cavaliere balzò in piedi e si chinò a baciare quella bella bocca rosea. Capezzolone ricambiò il bacio. Le loro labbra si accarezzarono, si fusero, si aprirono una all'altra, le loro lingue si cercarono con ardore, pronte a darsi conforto. Le manone del selvaggio erano divenute infinitamente dolci e delicate sulle sue guance e tra i suoi capelli. Il cavaliere sollevò quel bel viso barbuto e lo strinse tra le mani a coppa, ciascuno dei due pareva volersi abbeverare all'anima dell'altro, mentre il sole scompariva all'orizzonte e il crepuscolo cremisi lasciava il posto alla sera color dell'indaco. Baci e carezze si protraevano in una dolcezza febbrile sinché le stelle non si erano già accese nel cielo. Capezzolone stringeva l’altro serrato a sé, petto contro petto, ché le loro carni nude potessero toccarsi e godere l'una del calore dell'altra, i seni villosi e appuntiti contro i muscoli glabri del cavaliere. Con una mano questi discese sul torace immenso dell’omone per stringere le poppe e sentire sotto di esse il battito del cuore. I capezzoli reagirono prontamente al calore della mano artigliandone il palmo. Poi le labbra del cavaliere discesero ancora una volta a carezzare la guancia barbuta, a infilarsi nel collo e nell'incavo del petto. Si chinò prima su una sisa, poi sull'altra e succhiò con foga facendole godere per l'ultima volta. Discese a suggere tutti i dieci meravigliosi capezzoli e infine il fallo eretto, desideroso di donare al suo amante tutta la gioia di cui era capace. Si lasciò strappare le brache con brutalità e allattare sino a saturarsi di quel nettare di felicità. Nudo, lasciò che il suo amante lo afferrasse, rotolandogli sopra e esplorando anch'egli tutto il suo corpo per cavarne ogni ansito e gemito di piacere di cui fosse capace. Infine i loro corpi divennero una cosa sola in quel tripudio di baci, carezze e morsi. Il cavaliere cavalcò impalato sul membro del suo amante e poi, sdraiatolo a gambe all'aria, affondò con tutta l'anima nelle sue viscere, contemplando ogni sussulto di piacere l'uno negli occhi dell'altro.

      Infine giacquero avvinti sul nudo pavimento, madidi di sudore, latte e seme virile sotto la luce della bianca luna. Ancora sdraiato con la testa contro quel petto immenso, forte e morbido, il cavaliere scoppiò di nuovo in singhiozzi. Maledetto il giorno in cui l'aveva incontrato, pensò. Possibile che quel selvaggio fosse divenuto talmente esperto nelle arti che lui stesso gli aveva insegnato da rendergli tanto arduo il compito da svolgere pur senza opporgli la minima resistenza?

      -Non saresti stato capace di balzare giù da quella finestra?- gli chiese all'improvviso sollevando la testa.

      -Certo!- rispose l'altro –Grande e forte, io alzarmi illeso e camminare via!-

      -E potresti anche ammazzare me e fuggire, evitandomi un compito tanto doloroso! Perché non l'hai fatto?- chiese con gli occhi colmi di lacrime.

      Il selvaggio gli prese il viso tra le mani e lo fissò dritto negli occhi:

-Tu sai perché!- rispose serio.

-Ora basta!- sentenziò poi e si staccò da lui facendolo rotolare al suo fianco. Il cavaliere si alzò a sedere. -Prendi pugnale!- ordinò Capezzolone. L'altro, come inebetito, obbedì.

      -Basta piangere! Sii uomo!- sentenziò con viso fiero.

Il cavaliere trattenendo le lacrime passò il braccio attorno alle spalle dell'omone e se lo strinse forte al petto, baciandogli ancora la fronte e il capo mentre i suoi occhi disperati fissavano il vuoto. -Vita bellissima per te con tuo principe, e spero anch'io con te in... in piccolo angolo, qui!- disse l'omone sfiorandogli il petto con la mano, all’altezza del cuore.

      -Amore!- soggiunse poi sospirando, parlando quasi con sé stesso. -Non strano? In vostra lingua parola per dire cosa che non vedere e non toccare. Ma adesso io sentire così forte, così... grande in me! Cosa è davvero Amore?-.

      -È un dio crudele!- sospirò il suo amante -L’amore è con te, ti assiste e ti dà la forza di affrontare ogni ostacolo. Ma è imprevedibile. Nessun mortale può governarlo davvero! E infine conduce il tuo cammino a mete del tutto diverse da quelle che ti aspettavi!-. Quelle parole risuonarono nella sua bocca come una cantilena imparata a memoria, ma solo ora le aveva comprese davvero.

      -Alzati!- gli intimò l'omone. Il cavaliere si asciugò le lacrime.

-Alzati!- strillò di nuovo con la voce roboante e aggressiva che lo aveva udito usare soltanto nella furia della lotta. Era un soldato, avrebbe fatto ciò che doveva. Strinse il pugnale. Capezzolone si inginocchiò ai suoi piedi e allargò le braccia, sporgendo con fierezza il petto in fuori.

      -Questo petto allattato te! Ora colpisci e prendi suo cuore, eterno dono di felicità!-

      -Sei davvero divenuto un uomo, Capezzolone!- gli disse il cavaliere fissando colmo di orgoglio quel gigante, inerme ai suoi piedi eppure così fiero -Il migliore che io conosca!-. Ciò detto sollevò il braccio, stringendo il pugnale.

      Capezzolone sorrise: -Chiedo solo: tu fa’ presto. Dà me morte da uomo, senza soffrire!-.

      Chiuse gli occhi e volse la testa, una lacrima infine gli discese lungo la guancia, ma restò immobile, ad aspettare il colpo.

 

      Il sole sorse raggiante sul giorno delle nozze regali. Tutta la capitale era in festa per le strade. Al Tempio Sacro, l'aristocrazia del regno era pronta a prender posto sulle panche rivestite di broccati. Centinaia di colombe bianche svolazzavano in enormi voliere d'oro, pronte ad essere liberate in cielo per celebrare la sacra unione. Il principe era splendido nella veste regale di velluto azzurro trapunto d'oro, le chiome scintillanti come il sole legate da un laccio di zaffiri sotto il diadema lucente. Il re lo guardava con fiero orgoglio, la regina piangeva di felicità. La carrozza d'argento della sposa già sfilava per le strade trainata da candidi destrieri. Il popolo lanciava petali di rosa al suo passaggio. Ed ella si sporgeva appena, la colomba più bella, la sua cignea leggiadria nascosta sotto i candidi veli, circondata dalle sue dame, simili a meravigliosi fiori primaverili, variopinti di sfumature tenui, e premurosamente assistita dalle suoi giovani, impettiti e prestanti soldati, fasciati nella bianca livrea di Rocca-del-Cigno .

      Solo un ultimo dettaglio mancava all'appello: il testimone dello sposo che ancora non si faceva vivo e alla cui assenza lo sposo pareva tutt'altro che indifferente. Aveva inviato tutte le sentinelle del palazzo ad avvistarne l'arrivo e quando gli riferirono che il Cavaliere dell’Arpa d’Oro (come pareva essere sua abitudine) non tornava, inviò dei messi a cercarlo al Castello delle Delizie. Immensa la sua sorpresa quando i suoi uomini lo raggiunsero al Tempio per riferirgli che là nessuno era riuscito a trovarlo. Senza por tempo in mezzo si gettò di corsa fuori dalla navata, proprio mentre, sul sagrato della piazza antistante, la sua promessa sposa si accingeva a scendere dalla carrozza. Il re lo rincorse furioso, rammentandogli la vergogna che investiva l'intero regno alla vista dello sposo che abbandonava le sue nozze.

      -Non posso sposarmi senza il mio testimone!- strillò irritato -Sospendete la cerimonia!-. Balzò in sella al suo destriero bianco e lo speronò verso la porta della città. La sposa a quella vista fu colta da un malore e svenne, sorretta dalle forti braccia delle sue guardie, ansiosi di prodigarsi per la signora in ogni devozione e servigio, con la solerzia che il suo futuro consorte pareva non riservarle. La regina scoppiò in grida isteriche, il re infuriato ordinò ai suoi uomini di inseguire il principino insolente e che a lui stesso fosse condotto il suo cavallo. Ma il principe spinto da una forza folle e inarrestabile corse al galoppo fuori dalle mura prima che le sentinelle, avvertite troppo tardi, serrassero le porte. Corse lungo il sentiero per valli e boschi sin sulle montagne, seminando suo padre e le guardie reali che gli erano alle calcagna. Giunto al Castello si precipitò dentro e, incurante delle domande dei nani e della servitù attonita, si precipitò sulla torre. Le guardie alla porta della cella, sconvolte e imbarazzate, balbettavano scuse confuse assicurando di non aver nulla visto e nulla udito e che il Cavaliere dell’Arpa d’Oro non era mai uscito di là. La porta era ancora serrata, ma quando il principe la spalancò la cella era vuota. La finestra era aperta e priva di sbarre, ma la parete della torre scendeva a picco su un dirupo e nessun uomo sarebbe riuscito a uscir vivo da là. Se non sulle spalle di un gigante. Quel pensiero fece fremere il principe all'improvviso. Sull'unico tavolo presente in quella nuda stanza vi era un foglio arrotolato, il giovane lo svolse e all'improvviso il suo volto scolorì.

      -Nooooooo!- un grido disperato lo scosse e suo padre, giunto di gran carriera dietro di lui, pronto a rimproverarlo, entrò appena in tempo per vederlo stramazzare a terra e iniziare a tremare e a strillare disperato. Cercò di calmarlo, lo sollevò tra le braccia, gli posò una mano sul viso, ma la sua fronte scottava. Ordinò che chiamassero dei medici, lo chiamò per nome, disperato, ma il principino isterico si dibatteva come in preda al delirio. Il re raccolse allora la pergamena caduta al suolo e lesse in silenzio.

 

Mio Principe,

 

perdonatemi. Non posso farlo. So di essermi rivelato per Voi un servitore indegno. Ma non temete per la vostra vita. Non vedrete mai più né lui, né me.

 

Sotto era apposto un sigillo con lo stemma dell'arpa d'oro. Il re riavvolse il rotolo e chinò il capo in silenzio. Il principe fu portato nella sua camera, ma i medici dissero che quella che l'aveva colto in modo tanto repentino era una malattia dell'anima e che nessuno di loro era in grado di curarla. Gli portarono da mangiare e da bere perché cercasse di rimettersi in forze, ma lui rifiutò qualunque cosa. Il re rimase accanto a lui giorno e notte senza darsi pace.

      -Ti prego! Mia creatura, sangue del mio sangue, mio principino viziato, ti prego, non morire! Perché disperi e non vuoi più mangiare né bere? Proprio ora che hai allontanato da te il tuo Fato? Quella bestia è andata via! Non può più farti del male! Tu... non puoi morire! Resta con me. Non lasciare la tua stirpe senza un erede, la tua terra senza un re... e tuo padre senza il suo figlio adorato!-

      Il principino viziato aprì gli occhi, schegge di cielo azzurro in quel volto ormai esangue. Un ultimo barlume di speranza si accese nel cuore del re.

      -No!- sussurrò mentre il re si chinava ad ascoltare. - Nessuno può sfuggire al suo destino! Sono stato davvero un principino viziato. Che sciocco! Tutto ciò che desideravo era accanto a me, eppure io l'ho gettato via!-

      -No, mio diletto. Niente è perduto!-

      -Ma non capite, Padre? Lui era il mio cuore e ora che quella bestia, dopo averci allattati entrambi, me l'ha strappato dal petto e se lo è portato via, io non voglio più vivere!-

      E morì, si spense tra le braccia del suo amato padre come tanti anni prima aveva predetto l'oracolo, lasciando la sua stirpe senza un erede e il suo regno senza un re.

      Quanto al Cavaliere dell’Arpa d’Oro e al suo compagno, il leggendario grande uomo dai dieci capezzoli, nessuno li rivide mai più in quel reame. Qualcuno disse di averli avvistati oltre il confine, mentre cavalcavano assieme, liberi come il vento, verso l'orizzonte lontano. Dove siano andati, in quali terre remote e meravigliose vaghino oggi, nessuno lo sa. Ma una cosa posso dirvela per certa.

Vissero per sempre felici e contenti.

 

                   La fiaba della buona notte ho narrata

                   Lunghetta, ma spero l'abbiate apprezzata

                   E adesso, ragazzi, ciascun vada a letto

                   La fiaba è finita. E ora che tutto ho detto,

                   Cosa fa sotto il lenzuolo la tua mano impertinente

                   Davvero io non voglio saperlo per niente!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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