Fotografie

 

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Uno. Primo piano su Davide.

 

Samuel e David si tengono per mano mentre camminano lenti lungo il viale che fiancheggia il parco; raggiunta una panchina all’ombra dei salici, si siedono vicini: mano nella mano, occhi negli occhi.

Le labbra si sfiorano, le lingue si cercano in un lungo bacio avvolgente, la mano di David scivola sotto la maglietta e segue i solchi delle vertebre, lungo la schiena di Samuel. Le dita di Samuel s’insinuano dentro ai jeans e, attraverso gli slip, accarezzano il membro teso del compagno che lo guarda e sospira, sorridendo malizioso. Un cenno d’intesa ed entrambi si alzano per proseguire il cammino, una breve passeggiata che li porta all’ingresso di un appartamento.

All’interno una chaise-longue occupa lo spazio sotto la finestra aperta, la tenda bianca è mossa da un flebile vento caldo e i raggi del sole che penetrano all’interno inondano di luce il tappeto color avorio, disteso a ricoprire il pavimento per metà della stanza.

I due uomini si sorridono con gli occhi, scambiandosi ancora baci appassionati e carezze. Stringendosi uno all’altro, mimano un balletto a tempo della musica che riempie la stanza, Samuel inclina la testa di lato, sulla spalla, e David lecca e succhia il suo collo, con ardore, una mano a strizzare una natica mentre l’attenzione di entrambi si sposta sul davanti, sui rigonfiamenti che pulsano attraverso la stoffa dei pantaloni.

La maglietta di Samuel è la prima ad essere sfilata, goccioline di sudore imperlano il petto villoso. I capezzoli turgidi richiamano le labbra e i denti di David che trattengono e mordono, mentre le dita sicure slacciano la cintura dei pantaloni. Quando anche l’intimo di cotone scivola via lungo le gambe, un cazzo di formidabile fattezza si erge gonfio e teso.

Nudo e sinuoso Samuel si distende sulla poltrona. David, dopo essersi liberato lentamente dei vestiti, gli s’inginocchia davanti, fra le gambe, e si abbassa per accogliere in bocca il membro pieno di vita. Samuel gode e mugugna estasiato mentre con la mano accarezza la testa di David, guidando movimenti all’inizio lenti, poi più frenetici.

Prima di raggiungere l’estasi Samuel allontana da sé l’uomo che deve abbandonare quel gustoso bocconcino, si volta sorridendogli da sopra la spalla e, appoggiando le braccia sul cuscino, si solleva sulle ginocchia porgendo un culo sodo, ombreggiato da una leggera peluria e deliziosamente invitante. David afferra e separa quei muscoli tesi e con un filo di saliva inumidisce l’orifizio che, pregustando l’attacco, si sottomette allentando la stretta.

L’atmosfera è carica d’eros: David conosce bene il corpo di Samuel e ci si dedica con abilità, facendo gemere di piacere il compagno. Dopo aver indossato il preservativo David avvicina il cazzo rigido dalla cappella gonfia e rosea. I muscoli fremono e dai primi attacchi Samuel inizia a godere di quella piacevole presenza, accompagnando con i propri lombi il ritmo dell’amplesso. La pressione sale e i due uomini vengono travolti dall’intensità di quelle sensazioni, quando il culmine sta per raggiungere entrambi nella coscienza di David scatta un’urgenza tale da far subire all’amico una serie di affondi che, violenti e inaspettati, lo costringono a sibilare tra i denti un vacci piano cazzo, ignorato dall’uomo, e quel dentro e fuori prosegue furioso fino all’ultima spinta liberatoria, decisa e profonda.

Samuel fa scivolare la mano sulla propria asta ad una velocità e ad un ritmo crescente, quindi anche lui si abbandona in un’esplosione di liquido caldo e appiccicoso.

Pochi attimi per rendere il respiro regolare e subito dopo David si scosta dal corpo di Samuel, avvolge i fianchi in un morbido asciugamano bianco e lascia la stanza.

 

Mister Snow, seduto su di una comoda poltrona, tiene tra le dita tozze un sigaro spento: ha il viso paonazzo e sudaticcio. La testa calva è lucida, i suoi occhi sono piccoli e cisposi, affetti da una congiuntivite cronica, le labbra sono troppo rosse e con un taglio che gli dà l’impronta di un sorriso perenne, anche quando le  intenzioni sono tutt’altro che benevole.

A fatica l’uomo solleva il corpo flaccido, dalla carnagione bianchissima e, tenendo il sigaro stretto tra i denti, si sbraccia in un applauso esagerato quanto osceno, se abbinato all’espressione del volto.

- Bene così ragazzi, questo è quello che volevo vedere: uomini dagli occhi dolci e tutte le altre stronzate che tanto piacciono a chi si vuole menare il cazzo davanti a un po’ di sano romanticismo. Troie uguali, ahahahaha, ma piene d’amore ahahahah! Ehi Samuel, che ne dici del finale “bruciante”? AHAHAHAH! 

- Fanculo Snow!

- Sì, certo, certo. Voi due state pronti, la prossima si registra in piscina e mi raccomando: amore, voglio amore! AHAHAHAH.

Samuel, ancora nudo, attraversa la stanza e si dirige alle docce. L’atmosfera ha perso tutto il suo finto calore.

La stanza successiva è occupata da un letto, sopra di esso tre individui sono intrecciati tra loro; tutt’intorno telecamere, luci e addetti che lavorano in un mondo fatto di poche parole ma pregno di odori e di suoni gutturali.

L’uomo passa davanti alla porta senza rivolgere lo sguardo all’interno, raggiunge un locale di servizio, varcandolo un attimo dopo aver preso al volo da uno scaffale, un telo di spugna che riesce a malapena a contenere le sue natiche marmoree.

Quattro ragazzi, di un’età che non supera i 25 anni, vestiti di tutto punto con giacche e cravatte, chiacchierano e ridono, concedendosi una pausa prima di raggiungere il set: palcoscenico delle loro performance.

Samuel mostra tutte le attrattive che, agli occhi del gruppetto, caratterizzano i  porno attori più “anziani”: disinibito e carico di fascino maschile, quell’uomo suscita grande interesse e una buona dose d’invidia tra le fila dei nuovi arrivati che si voltano ad osservarlo incuriositi.  

Samuel ha la faccia torva quando raggiunge il frigorifero e s’immobilizza davanti allo sportello aperto, senza decidersi a prendere qualcosa di liquido che gli levi dalla bocca l’arsura che rende la lingua secca e ruvida.

Un vero peccato quella smorfia per un viso così bello, dai tratti duri ma solitamente pronti a disegnare un reticolo di rughe intorno agli occhi scuri, quando le labbra si aprono in uno splendido sorriso. I quattro giovani mantengono un rispettoso silenzio, intuendo la rabbia del loro collega, trattenuta fra i denti che rischiano di spezzarsi, per quanto sono serrati.

Lo sportello del frigo che sbatte mette fine alla sospensione del tempo, e tutti i presenti hanno un sussulto, Samuel passa fra loro senza averne minimamente percepito la presenza e si dirige a passo deciso verso gli spogliatoi e quindi alle docce. Al momento l’unico getto d’acqua che rilascia una nuvola di vapore è quello sotto cui David continua a sciacquarsi e a sfregarsi con gesti nervosi. La prestazione che poco prima ha impegnato il suo corpo non ha lasciato segni nel suo cuore: nessun appagamento per quel muscolo. Alla fine, quando tutto il suo essere si è ribellato all’ennesima farsa, il suo amico Samuel ne ha subito lo sfogo e la rabbia. “Mi dispiace Sam”.

Il pugno allo stomaco gli arriva improvviso e carico di tutta la forza che i muscoli del braccio di Samuel possono scaricare. David tossisce e si piega su se stesso mentre l’acqua continua a scorrergli sulla nuca e sulla schiena, ma non accenna  nessun tentativo di difesa, sa bene che servirebbe solo ad innescare una lotta che non ha nessuna voglia di assecondare.

- Brutto figlio di puttana, si può sapere che cazzo t'ha preso?

- Voglio andarmene Sam…

Le parole di David, quelle tre parole sputate insieme con l’acqua dentro il piatto della doccia, rilassano il braccio di Samuel e non solo quei muscoli tesi, resi umidi dal vapore che avvolge entrambi, anche i tratti del viso si sono rilassati  imprimendo all’espressione un’aria interrogativa. Incapace di parlare, davanti all’evidente frustrazione di un uomo con il quale negli anni ha condiviso lavoro e vita privata, sesso ma anche sbronze colossali, party noiosissimi dagli epiloghi sempre uguali e fughe improvvise alla faccia di Mister Snow, Samuel si limita ad osservarlo in silenzio. David ha dato voce ad un pensiero che da qualche tempo gli toglie il sonno, non basta più un giorno libero, atteso fra settimane di lavoro intenso. Non basta una bevuta o un viaggio in treno a raggiungere la costa e il mare e tuffarsi tra onde gelide da togliere il respiro. Il viaggio di David dovrà essere più lungo perché lunga è stata l’attesa e non c’è più tempo, bisogna decidere di cambiare vita adesso, perché a più di quarant’anni deve scegliere se vivere o morire.

La storia di Davide Samuel la conosce bene.

David è il nome che gli ha imposto quella città. E’ diventato David per le persone che lo salutano all’interno di stanze anonime e spoglie, per chi lo guarda in filmati dai titoli accattivanti che stimolano la fantasia, per chi vedrà materializzarsi in David e Samuel e in tanti altri attori come loro, i propri desideri e potrà ansimare e godere, immaginandosi fra le loro braccia. 

David è nato subito dopo aver sputato per terra il primo fiotto di sperma, in un vicolo buio e maleodorante, pochi metri di distanza dal bar ritrovo, in un sobborgo di Londra, dove aveva preso casa: un appartamento diviso con altri due individui. Ragazzi del mestiere che una volta instradato il loro compagno, avevano pensato bene di festeggiare iniettandosi entrambi una dose, rivelatasi letale, d’eroina tagliata con veleno per topi.

Lo spettacolo sconvolgente di quelle morti orribili davanti ai suoi occhi aveva convinto David a farsi una promessa che non è mai stata infranta: mai droghe nel proprio corpo, nessun tipo di droga a calmare l’ansia o il forte senso di colpa che, prima Davide e in seguito David, da sempre si portano dentro.                                              

- Ehi amico, che cosa ti succede? Dove vorresti andare?

- Te l’ ho detto Sam, voglio andar via, non posso continuare con questa vita.

 Gesù, guardati intorno, siamo circondati da ragazzini, quanto tempo pensi ci voglia prima di arrivare ad essere liquidati? Non vedi come ci tratta Snow?

- Snow è un fottuto pezzo di merda, lo conosci. Noi siamo i migliori.

- Ma che migliori del cazzo, apri gli occhi Sam, ci sta togliendo dal giro, lui e tutto il suo codazzo di troie. Dimmi Sam da quanto tempo non ricevi un invito ad una festa o una richiesta per fare un servizio fotografico?

Samuel che ha sentito salire il livello d’imbarazzo ad ogni parola, non riesce ad evitare di trasalire alla domanda di David e questi, accortosi del cambiamento di espressione dell’amico, ha un sussulto.

Un brivido di freddo lo allontana dalla doccia, da qualche minuto con il flusso interrotto, per indossare un accappatoio.

- Dio santo! Che coglione sono, quanti anni hai Sam? Almeno cinque meno di me, credo. Ma di cosa sto parlando… Non c’è più un noi, esatto? C’è solo una persona qui che deve togliere il disturbo. Beh amico, come vedi il mio tempismo è perfetto, precedo di poco ciò che è comunque inevitabile. Andiamo Sam: non facciamoli aspettare!

- Aspetta David! Cazzo! Hai appena detto che vuoi andartene via, cos’è allora questa sceneggiata? E poi nessuno ti ha dato l’ultimatum, potresti lavorare ancora per anni, tranquillamente. Snow sa bene che sino a quando il prodotto funziona e fa guadagnare moneta, va sfruttato.

- Il punto è che sono stufo Sam, non voglio aspettare di essere sbattuto fuori e magari tornare a fare marchette, voglio cambiare vita e lo voglio fare ora, devo lasciarmi tutto questo alle spalle, anche se non ho idea di come sarà il mio futuro. Non so cosa troverò qualora decidessi di tornare alle mie origini, di sicuro so solo che adesso saprei difendere me stesso, cosa che a diciannove anni non sono stato capace di fare. Andiamo Sam, non so come la prenderà Snow ma la prossima sarà la nostra ultima scopata insieme!    

Samuel, che ha preso il posto di David sotto la doccia, per un attimo, sotto il getto dell’acqua, rimane fermo a riflettere sulle parole dell’amico.

“Al diavolo, potevo dirgli dell’ultima conversazione avuta con Snow, quella sera a casa sua quando gliel'ho preso in bocca facendolo gemere come un suino, in cambio di una dose di coca.

Mi dispiace David, Mister Snow ti romperà i coglioni, ma ha già deciso da un po’ la tua uscita di scena. Sei un caro ragazzo e insieme ce la siamo spassata, ma in questo lavoro ci si deve saper divertire e tu ti sei portato dietro, negli anni, troppa angoscia e sensi di colpa: cercavi un mondo che ti rendesse insensibile al dolore che ti ha portato a Londra, ma non lo hai trovato, e quel dolore è sempre rimasto con te. 

C’è aria di cambiamenti: tanto di guadagnato per te, per essertene accorto prima!”

Samuel solleva le spalle e con aria annoiata scaccia via il pensiero di quella persona che per anni è stato il suo compagno. “Di lavoro, certo…ma sì, anche un  amico, adesso chi se ne frega, che vada a farsi fottere….Già!”                      

 

David accende la luce dell’abat-jour posta sul comodino di fianco al letto. La camera è arredata con gusto, come anche il resto della casa. I soldi guadagnati li ha saputi investire bene: oltre all’acquisto dell’appartamento e all’arredamento, pochi oggetti. Tutto molto sobrio, come richiede il suo carattere, ma eleganti.

A nessuno però è stato mai permesso di conoscere appieno tutti i lati del suo carattere, né di entrare nella sua vita privata, raccolta fra le pareti di quel piccolo mondo.

Le storie di una notte sono state tante e diverse, impersonali e senza amore, comunque mai in quella casa.

Il lavoro, quello di porno attore, lo ha impegnato negli ultimi dieci anni.

Gli inizi, in quella città sconosciuta, vorrebbe dimenticarli e anche del resto non va fiero, ma la cosa più difficile è stata quella di curare il corpo, modellarlo, sottoponendolo a ore di duro esercizio, in palestra, per renderlo quasi perfetto, usarlo come oggetto di piacere e poi scegliere di vivere al di fuori di esso: una testa e un corpo sempre ai due opposti.

Mister Snow ha sempre avuto da ridire sulla sua scarsa predisposizione alla socializzazione e quando ha cercato di spiegargli che per diventare ricco e famoso non bastavano i film porno o pochi fotografi bramosi d’averlo nel proprio studio, ma che doveva frequentare le persone giuste, quelle che lo avrebbero introdotto nei circuiti che contano dove sesso e denaro vanno a braccetto, David gli aveva risposto che non era interessato e non avrebbe mai accettato di aggiungere altra merda allo squallore che, per sua scelta, si era mangiato più della metà della sua vita.

Dentro un quaderno poggiato sul lenzuolo, accanto alla sua mano, una fotografia e una busta da lettere ingrossano le pagine intatte. Il quaderno è un regalo di suo zio, fratello di sua madre, fattogli prima che lasciasse la famiglia e il paese per arrivare a Londra, con le lacrime agli occhi e il cuore precocemente indurito da troppe assurde violenze psicologiche e, spesso, anche fisiche. 

La fotografia in bianco e nero ritrae un uomo elegante, dal portamento fiero e serio. Strette di fianco a lui due giovani donne sorridono felici al fotografo. Dietro alla foto una data: 1957.

Quel quaderno e quella foto, chiusi dentro una valigia, sono stati i soli oggetti che, lasciando la sua terra, aveva scelto di portare con sé, oltre agli indumenti. E anche quelle poche cose erano pateticamente fuori luogo in una città umida e fredda, come d’altronde patetico s’era sentito lui stesso.

 Londra non era stata un’idea sua, aveva semplicemente scelto di seguire una ragazza, lasciando due genitori a disperarsi per le sorti di quell’unico figlio nato dopo anni di matrimonio, quando la natura stava per porre fine alle speranze della donna, definitivamente.

Le intense e accorate preghiere avevano sì portato la gioia in quella casa di persone semplici e avanti negli anni, facendogli dono di un bambino dolcissimo e, crescendo, di un ragazzo intelligente e studioso, amante della natura e della salsedine che seccava la pelle abbronzata, ma ad un certo punto, quelle preghiere dovevano aver preso, inaspettatamente, una strada sbagliata, perché lo stesso ragazzo, tanto desiderato e amato, faceva vivere i poveri genitori con la tristezza nel cuore.

Tutti in paese erano pronti a compatire quella famiglia, sfortunata per aver messo al mondo un figlio troppo bello e delicato. Troppo sensibile e solitario.

Dalle movenze troppo dolci e accattivanti.

Quel ragazzo era troppo di tutto e no, decisamente non era come gli altri.

Da lì ad essere bollato come “femminuccia” passò pochissimo tempo.

Rosa e Beppe non si davano pace. Davide era sempre stato uno studente modello e amava i suoi di un amore incondizionato, evidentemente non era stato sufficiente, rimaneva solo evidente il fatto che non fosse normale.

Dopo aver ottenuto il diploma aveva deciso di seguire Beatrice, non un’amica, ma una compaesana che disprezzava quel luogo e le persone che soffocavano il suo naturale bisogno di vivere fuori degli schemi e dalle convenzioni, ribelle ad ogni regola, i suoi genitori avevano fatto un ultimo tentativo: lo avrebbero aiutato a “guarire” e nessuno lo avrebbe più additato.

Davide s'era sentito sprofondare davanti a quell’ultima espressione di un amore che non era riuscito a vincere i pregiudizi e l’ignoranza. Aveva baciato le rughe sul viso della madre e abbracciato forte il padre stringendo quelle ossa fragili. Non aveva resistito oltre ed era scappato via tra lacrime e sensi di colpa, per il dispiacere incolmabile che infliggeva ai suoi genitori e odiandosi per essere nato in quel modo. 

Lo zio Eugenio gli aveva stretto la mano e con un sorriso aveva espresso tutta la sua comprensione. Porgendogli un quaderno dalla copertina ruvida, nera e dalle pagine a righe, lo aveva accarezzato con lo sguardo e Davide aveva sentito tutto il calore sincero di quella persona che, quando andava a trovarli, era stata per lui un porto sicuro dove rifugiarsi, nei momenti in cui tutto attorno gli remava contro. Le storie narrate e i libri letti ad alta voce seduti su poltrone di pelle, nel salotto buono che sua nonna teneva sempre in ordine e accogliente, gli avevano fatto amare donne e uomini, discriminati per la loro natura, ma capaci di riscattarsi e trovare il proprio posto nel mondo.

Quei racconti non hanno mai lasciato il cuore di Davide, anche se lui non ha mai avuto il coraggio di accettarli come una possibilità per se stesso. Per questo motivo il quaderno è sempre rimasto intatto, le sue pagine lasciate ad ingiallire: non c’è stato nulla che meritasse d'essere scritto su quelle righe. 

L’arrivo a Londra con Beatrice che scalpitava per ogni cosa rappresentasse una novità, i primi tempi lo aveva distratto da sé, e cercare di controllare l’impazienza e la stupidità che quella ragazza spesso dimostrava, lo metteva nella posizione di fratello maggiore. Lui però non aveva voglia di badare ad una ragazzina che, quando abitavano nello stesso paese, avrà avvicinato al massimo due volte. La prima alla festa del diploma, dalla quale si era allontanato quasi subito per la noia che lo stava uccidendo.

Con Beatrice si erano incontrati sulla spiaggia, due ragazzi soli e indesiderati e anche lei faceva fatica a respirare, in quell’ambiente chiuso e discriminante.

Quella prima volta avevano accennato a qualcosa che poteva essere un’idea di viaggio e di distanze, di cambiamenti e opportunità, ma erano discorsi confusi e biascicati tra il fumo e le sorsate dalla bottiglia del vino che si passavano da uno all'altra. La seconda volta si erano trovati, per caso, al porto.

Davide lavorava per un parente del padre, pescatore e possessore di un barcone. Portava i turisti in giro per le isole e Beatrice, una torrida mattina d’agosto, era salita sul barcone con la famiglia e con una faccia talmente triste da intenerire il cuore di Davide. Quando erano approdati sul primo isolotto i passeggeri erano scesi per un’escursione e Beatrice, su invito di Davide, era rimasta a fargli compagnia. Mentre mangiavano un panino, seduti su una panca di legno, avevano snocciolato come un rosario tutte le loro angosce e inquietudini e la possibilità di una vita diversa era nata e si era sviluppata in sole due ore: era deciso, sarebbero partiti a Settembre, destinazione Londra.  

 Per l’ingenua Beatrice e per il tormentato Davide si era aperto un mondo che non aspettava altro che di fagocitarli nelle sue fauci. Per il ragazzo quella fuga che aveva spezzato i legami con la famiglia, aveva portato con sé sensi di colpa immani.

Inizialmente era stato difficile comunicare con i suoi: tenere in piedi la falsa vita da studente modello e anche lavoratore in un famoso albergo, gli costava troppa fatica, ma col tempo si era abituato anche a quello.

Che cosa poteva dire a quelle persone che dopo ogni telefonata correvano al negozietto di generi alimentari e intrattenendosi sulla porta, con una busta di pane e una bottiglia di latte fresco in mano, raccontavano alla padrona e agli altri clienti, quanto fosse stato fortunato il figlio a trovare un lavoro così importante e di come all’università degli inglesi fosse il migliore del suo corso.

Che tristezza per Davide quell’ingenuo tentativo di barattare l’intolleranza e la cattiveria scambiandole con l’invidia.

Prima di perdersi per le strade di Londra o chissà dove nel mondo, Beatrice aveva voluto fare un regalo a Davide.

- Non puoi continuare a succhiare cazzi nei cessi dei bar. Sei troppo bello, tu devi fare il modello e io so dove devi andare.

David si era lasciato guidare, senza nessuna esaltazione, sapendo bene quanto quel mondo patinato, sorprendente per la totale mancanza di barriere, non offrisse nessuna garanzia di felicità. La sua vita era diventata più comoda e agiata ma niente poteva alleggerirlo dal peso della lontananza e dalla menzogna. Continuava a non concedersi nulla, proprio come da ragazzino, per vergogna o per pudore, rimproverando se stesso di fare solo cose sbagliate, deludendo ancora i suoi cari.

Fino a dieci anni prima quando la notizia della morte del padre prima e della madre un mese dopo, lo aveva precipitato in un baratro di disperazione dal quale non si sarebbe più risollevato.

Samuel aveva bevuto assieme con lui una notte intera e quando, al mattino, si era svegliato abbracciato stretto a quel corpo, come ad un’ancora di salvezza, si era lasciato issare a bordo senza opporre resistenze.

Da solo sarebbe andato alla deriva, invece andò dritto nelle braccia di Mister Snow pronto ad accoglierlo con il sorriso dell’avvoltoio quando assapora la sua preda.

 

Dopo tutti questi anni Davide è pronto a tornare a casa. La lettera ricevuta mesi prima, oltre ad addolorarlo per il contenuto, ha aperto una breccia nel suo cuore, e in quel cuore, troppo a lungo ignorato, si è palesata una possibilità di riscatto.

 

“Tuo zio Eugenio è mancato, e io non ho più tanto da vivere. Qui c’è la tua casa e gli oggetti che ti appartengono. Sono anni che sei via, lascia che ti riveda prima che l’uomo da me tanto amato, mi chiami a sé.

Ti voglio bene.

Zia Paolina.”

    

La valigia è cambiata, non è più la stessa di quand’era un ragazzo. Il contenuto anche  è cambiato e lui ora è un uomo maturo. Un uomo pronto a lasciare una città umida e fredda che lo aveva fatto sentire patetico, vestito con abiti inadeguati. 

Stringere quella foto che ormai ha assunto le grigie ombreggiature di un lontano passato, gli trasmette la consapevolezza di una realtà che per un attimo gli provoca una vertigine: quelle tre persone trattenute per sempre in una posa un po’ rigida, un tempo avevano fatto parte della sua vita, e a quel tempo lui credeva di conoscerle.

Guarda sua madre: sembrava felice mentre sorrideva appoggiandosi al braccio d’Eugenio. Stretta a lui, dall’altra parte, zia Paolina ostentava un’espressione più decisa dell’altra donna, il suo sorriso era quasi una sfida, come se volesse trasmettere alla persona dall’altra parte della macchina fotografica, che l’uomo accanto a lei le apparteneva, e nessuno glielo avrebbe portato via.

Due di quelle tre persone non lo attendono più e chissà come avrebbe trovato lo stato mentale e di salute della zia; seduto sul letto nello sforzo di trattenere le lacrime, Davide si domanda chi e che cosa alimenti quella forte attrattiva che lo sta riconducendo a casa e se il suo giudizio non lo stia rendendo precipitoso e imprudente, scegliendo di tornare fra le persone che lo rifiutarono.

Gli tornano in mente le parole di zio Eugenio, il giorno degli addii:

   

- Davide, so che quest’addio, molto simile ad una fuga, ti sembra duro e ingiusto e so che il futuro ti spaventa, ma il coraggio che stai dimostrando ti rende un ragazzo forte. Ammiro questa forza. Non pensare alla partenza come ad una fuga ma come ad una possibilità: avrai tanto da imparare e Londra è un luogo di infinite opportunità. Impara a conoscere te stesso e vivi appieno la tua esistenza. In bocca al lupo ragazzo mio.

 

Aveva imparato a conoscere se stesso? Non ci aveva pensato molto in quegli ultimi anni e in quanto al vivere…beh, era stata un’esistenza piena, non poteva lamentarsi per questo. Suo zio avrebbe compreso e approvato?

Davide si era allontanato da una comunità bigotta che non accettava la sua natura, ma non ha mai tratto nessun giovamento dalla lontananza, se non vivere anni d’angoscia a struggersi per ciò che non meritava di avere: un amore. Perché a quel punto di che cosa doveva bearsi se non di possedere liberamente gli uomini che desiderava? Chiedere di più gli era sempre sembrato un affronto, un fare torto ai genitori che lo avevano tanto desiderato e amato, colmandolo di tristezza quella volta in cui gli domandarono se esistesse un modo per farlo guarire.

Samuel lo prendeva in giro per il lato sentimentale che Davide teneva nascosto ma che ogni tanto, fidandosi dell’unica persona con la quale si apriva un po’, veniva fuori, e il consiglio è sempre stato di liberarsi dai sensi di colpa.

I suoi non c’erano più ormai e la vita è troppo breve. I genitori gli avevano donato la vita e il fascino della bellezza: era suo dovere goderseli entrambi.

Ma Davide non ha mai ragionato in questi termini e ciò che ha fatto dai diciannove anni in poi è stata più un’espiazione per una colpa che con la bellezza non c’entrava niente, anche se sua madre avrebbe di certo voluto estirparla dal suo corpo prima che nascesse, se avesse potuto.  

Suo zio Eugenio si era rammaricato di non essere riuscito a dire di più a quel ragazzo, ma vedeva Davide troppo insicuro e spaventato: doveva lasciarlo andare e sperare che riuscisse ad eliminare dal sangue le tossine che in diciannove anni sua madre e suo padre e tutta la comunità di quel paese gli avevano trasfuso.

Ci sperava poco, ma se un giorno quel ragazzo fosse tornato nei luoghi della sua infanzia sarebbe successo per due motivi: perché era riuscito a sopravvivere, oppure perché qualcuno glielo avrebbe spedito dentro una bara ben chiusa.

Lui voleva un mare di bene a quel ragazzo e ha sempre vissuto nella speranza di non vederlo ritornare, non prima di aver trovato la piena consapevolezza di sé. Aveva scritto molto per lui e se fosse diventato l’uomo che avrebbe tanto desiderato, allora sarebbe stato pronto a leggere quello che la sua stessa curiosità gli avrebbe permesso di trovare. In caso contrario se per mancata curiosità o totale cecità o forse anche per stupidità, la storia d’Eugenio fosse rimasta racchiusa nelle pagine dei quaderni, ignorata da occhi umani, in quel caso si sarebbe persa nell’oblio e amen, come se non fosse mai esistito!

                                          

Due. Primo piano su Eugenio.

 

Eugenio stava disteso sotto l’albero delle mele cotogne, tra i denti un filo d’erba. Le foglie dell’albero a proteggerlo dai raggi del sole che lui cercava di catturare e racchiudere dentro l’azzurro degli occhi; quando all’improvviso un lampo di luce feriva quegli occhi, Eugenio strizzava forte le palpebre delicate, facendo esplodere all’interno una miriade di stelline: le sue guance erano umide di lacrime.

Di fianco a lui sua sorella Rosa giocava con un cucciolo di cane. Intorno a loro un silenzio quasi irreale.

Pochi minuti prima una conversazione tra fratelli, appena sussurrata, per non disturbare quella pace e soprattutto per non farsi sentire dalla mamma che riposava dentro casa, poco distante.

Rosa era spaventata, i rumori della notte precedente l’avevano costretta a coprirsi la testa con la coperta e le congetture tra la mamma e la zia avevano peggiorato le cose. Al pensiero delle tenebre che tra qualche ora avrebbero spento quel sole così caldo e rassicurante, Rosa era scoppiata in lacrime e il fratello aveva dovuto consolarla, facendo uno sforzo non da poco, dato che lui stesso aveva dovuto trovare dentro di sé gli argomenti più convincenti che conosceva, per superare la paura. Quello che la notte succedeva sopra le loro teste era di sicuro opera di fantasmi che, appena accesa la luce, interrompevano le loro scorribande, forse non avevano intenzione di far loro del male, ma sul tetto della casa qualcosa accadeva, questo era certo.

Era stato difficile trovare le parole che potevano farle superare le sue stesse paure, ma alla fine Rosa si era calmata, la voce bassa di Eugenio l’aveva trasportata in un mondo fantastico dove entrambi si rifugiavano, quando la realtà li sgomentava lasciandoli scoperti e indifesi. E la realtà a quell’epoca distribuiva la sua buona dose di paura, che poi ci si mettessero anche i grandi con i loro racconti, era un altro discorso, come si poteva non credere alle persone che dovevano amarti e proteggerti? Se la mamma diceva che esistevano gli spiriti, ebbene di questo non si doveva dubitare, che poi i ragazzi li dipingessero di colori vivaci questo dipendeva da loro, restava il fatto che al buio i colori non si vedevano e bastava un semplice scricchiolio per far sentire i battiti del cuore nella gola. Solo più tardi avevano compreso che i racconti servivano, agli adulti per demonizzare la paura e ai ragazzi per essere tenuti più facilmente sotto controllo. 

Qualche volta ci si metteva d’impegno anche uno zio, fratello delle due donne e unico uomo presente in casa, in quel periodo di lontananza forzata, quando, avevano deciso di allontanarsi dalla città per paura dei bombardamenti.

Prima di quella recente sistemazione avevano vissuto, per un breve periodo, in un'altra casa, dalla quale però la sua mamma era voluta andar via, lei diceva perché infestata da spiriti che di notte al buio accendevano improvvisamente la luce. Spiriti che esistevano veramente, glielo aveva assicurato un’anziana donna che tutte le mattine portava loro il latte appena munto per ricevere in cambio qualche uovo fresco: erano i fantasmi di un’intera famiglia che proprio in quella casa si era ammalata ed era morta di tisi.

Era bastato quello per fare accettare alla donna l’invito a cambiare posto e a trasferirsi con i figli e la sorella, nella proprietà di un lontano cugino.

Alla vigna si stava bene, Alberto, il padre d’Eugenio, non poteva andare spesso a trovarli, come i ragazzini avrebbero desiderato, ma costui dopo aver allontanato  la famiglia, era dovuto rientrare in città, richiamato dall’esercito.

Finito il suo turno di guardia Alberto si recava a lavorare al pastificio che già prima della guerra garantiva sostentamento ai suoi cari; quando la sirena dava il segnale si ritrovavano nel rifugio e lì aspettavano che gli aerei passassero, pregando di ritrovare la propria abitazione una volta fuori. I ragazzi vivevano allora respirando la tensione degli adulti, il sudore e l’odore della paura venivano assorbiti dalla loro stessa pelle, sino a che Alberto non s'era deciso a trasferirli alla vigna. Lì Eugenio si sentiva al sicuro, gli aerei li sentiva passare sopra la sua testa e quel rombo non lo ha mai più dimenticato, ma in quel piccolo quadrato di vigna, nell’orticello con la sorgente d’acqua fresca, dentro quella bassa casa con uno stanzone unico che la mamma aveva diviso con delle pesanti tende e, soprattutto, sotto quel grosso albero di mele cotogne, Eugenio si sentiva protetto. Poteva sognare sdraiato lì sotto e scrivere su un quadernetto malconcio tutto ciò che colpiva la sua immaginazione.

Naturalmente la loro non era l’unica famiglia a vivere in quella zona, sia a destra che a sinistra, separati da confini di vegetazione, Eugenio e Rosa avevano fatto conoscenza e amicizia con altri ragazzini più o meno coetanei e anche loro, insieme ai parenti, vivevano da sfollati. Passavano le giornate a sbrigare piccole incombenze, in casa o nell’orto ma Eugenio, quando poteva, amava starsene un po’ defilato, il suo carattere serio e pensieroso lo portava spesso ad isolarsi e a perdersi nei suoi pensieri. Gli altri ragazzi lo rispettavano, sarà stata l’aria decisa e sicura di sé, quel suo passeggiare con il quaderno in mano per poi fermarsi e, seduto per terra, disegnare una farfalla o un uccellino sul ramo, una coccinella posata sul suo ginocchio o un fiore appena sbocciato.

Per scrivere, il posto migliore era sotto l’albero che fin dal primo momento lo aveva affascinato: grande, ombroso e rassicurante come un abbraccio.

Quello, per un adolescente, rappresentava il posto più bello del mondo e lì sotto nacquero le prime poesie e i primi brevi racconti che Eugenio con grafia piccola e fitta, per risparmiare gli spazi, scriveva con animo agitato e il cuore che pompava forte nel petto.

Accanto a lui una ragazzina non lo abbandonava un attimo. Paolina pendeva dalle  sue labbra ogni volta che Eugenio si sedeva in cerchio, con intorno l’esiguo gruppetto di ascoltatori che sonnecchiavano all’ombra dell’albero del fico o delle mele, quelle dai frutti piccoli e dolcissimi. Non perdeva una parola dei racconti che il ragazzo sapeva inventare, ogni volta diversi. Più giovane di pochi mesi  quella piccola donna vedeva già parte del suo futuro e in quella breve e fugace immagine si vedeva abbracciata ad Eugenio, di più non si aspettava, solo toccarlo e abbracciarlo ed era quello che faceva in continuazione.

Eugenio non si sentiva infastidito da quel contatto, anche se qualche volta l’invadenza di Paolina lo faceva correre fino alla fonte, dove la mamma lavava i panni, per nascondersi dietro agli arbusti e trascorrere lì anche ore intere, sino a quando non veniva chiamato per mangiare o perché quasi buio.

Sopportava la pressione di Paolina forse più per quel piacere sottile che gli dava saperla così attratta da lui, che non per un reale interesse nei suoi confronti.

Nell'intimità della solitudine le poesie sgorgavano spontaneamente dal cuore e il calore gli solleticava la pelle; non esisteva ancora un volto da immaginare, nemmeno un corpo, soltanto qualcosa di piacevole che gli premeva contro facendolo sudare, senza un nome da potergli sussurrare.

Proprio di fronte al loro cancello, dall’altra parte della strada si estendeva un bellissimo bosco di castagni e noccioli. All’interno del bosco, lontani dalla strada e dalla visuale, i soldati tedeschi avevano piantato le loro tende, occupando quel terreno per diversi ettari. I militari erano giovani e gentili, spesso si avvicinavano al cancello per un saluto o per chiedere se avessero bisogno di qualcosa, assicuravano che la guerra presto sarebbe finita e loro sarebbero potuti tornare dalle famiglie.

Eugenio era affascinato da quegli uomini con la divisa e il caschetto sempre in testa, dotato di una retina che tutte le sere, all’imbrunire, abbassavano sul volto, per proteggersi dalle zanzare.

Uno in particolare gli provocava una sensazione nuova sino a quei momenti sconosciuta. Una sensazione che gli azzannava lo stomaco, tanto violenta che quando lo vedeva arrivare era preso da crampi tali da dover correre dietro la casa per liberare l’intestino.

Anche Paolina era attratta dallo stesso soldato, era quello che entrava nella vigna più spesso degli altri, quello che la prendeva in braccio, lei così minuta e delicata e la faceva volteggiare e le parlava dei luoghi nei quali era nato, molto simili ai loro, confessando il desiderio di volerci tornare al più presto.

Le diceva, nel modo quasi incomprensibile di tradurre dalla sua lingua, che aveva una fidanzata in Germania e, al suo ritorno, l’avrebbe sposata.

Paolina si scioglieva tra le braccia del soldato e immaginava quei muscoli e quei peli morbidi e biondi nelle braccia d'Eugenio quando da grandi sarebbero diventati marito e moglie. Anche Eugenio, tra una fuga e l’altra aveva le sue fantasie e le braccia che iniziò a sognare stranamente erano le stesse immaginate da lei, con gli stessi peli biondi da accarezzare; ma ancora non era tutto così ben definito o meglio, per Paolina lo era, per Eugenio no e si sorprese quel pomeriggio in cui il tedesco l’aveva chiamato per regalargli un quaderno dalla copertina ruvida e nera, aggiungendoci una penna ed esortandolo a scrivere e a raccontare di quegli anni. Eugenio, osservando il volto serio e sincero del soldato, aveva sentito muoversi qualcosa e non era solo riconoscenza.

Venne il giorno in cui ci fu l’armistizio e le truppe tedesche furono costrette alla ritirata. Da lì si sarebbero dirette al porto, già base militare, per imbarcarsi e partire, Eugenio e Paolina videro per l’ultima volta il loro amico e lo salutarono con le lacrime agli occhi.

Chissà se quell’uomo fu protetto da un destino che si prese la vita di tanti giovani militari, quando gli americani sorvolarono la zona scaricando le loro bombe prima su un deposito di carburante, provocando un incendio spaventoso e, subito dopo sulle navi, con a bordo i soldati pronti a salpare.

Nessuno degli adulti lo disse loro, lo seppero a distanza di mesi, insieme a molto altro ancora, quando la storia di quello che era ormai diventato un triste passato, iniziava a fluire nelle strade, la sera, narrata da uomini e donne seduti sulle soglie delle case.

 

Il giorno della laurea a casa d’Eugenio erano presenti tutti i parenti. Eugenio in quell’occasione si lasciò abbracciare e baciare, brindò e non trascurò nessuna delle persone che si complimentava con lui.  

Ancora un cambiamento, ancora una svolta, anche se a quel punto si ragionava diversamente: quei volti con i sorrisi carichi di aspettative, attendevano risposte. Da quel momento iniziava il cammino verso il futuro: futuro lavoro, futura famiglia, futuri impegni sociali.

Eugenio aveva un grosso peso sul cuore, aveva atteso con ansia quel momento, sperando nello stesso tempo che qualcosa accadesse, che il mondo si fermasse e ogni cosa rimanesse ferma così come lui la desiderava. Questo non poteva succedere e il peso dell’ineluttabilità delle cose stava per precipitarlo nella disperazione, rischiando di fargli buttare al vento anni di studio e sacrifici.

Non passò troppo tempo e i timori di Eugenio svanirono in un lampo: la sua città era un’altra ormai e fu lì, nell’Università dove aveva appena finito la sua carriera di studente, che fu richiamato per intraprendere quella brillante di insegnante e tutto trovò la giusta dimensione, almeno per lui e per chi era rimasto ad attenderlo.

Fin dai primi anni del liceo Eugenio aveva capito di che pasta era fatto, non era stato difficile scoprire la natura dei suoi più intimi desideri. Il disagio che lo accompagnava in quel periodo era soprattutto legato al terrore di scoprirsi, ma aveva imparato a godere di quel caldo desiderio, accarezzandolo nell’intimità delle lenzuola o arroventando le pagine dei suoi quaderni, fino ad esplodere con un getto di seme o di parole, a seconda dell’urgenza: spesso entrambi nello spazio di poche ore.

Fin tanto che la scuola e l’età lo avevano obbligato a studiare e a vivere con la famiglia, attorniato dalle persone che lo conoscevano da bambino, Eugenio aveva indirizzato tutto il suo fermento interiore verso lo studio e la conoscenza. Avere Paolina sempre vicina appagava il bisogno che i sentimenti in quel momento gli richiedevano: l’affetto che provava per lei negli anni cresceva e diventava sempre più importante.

Ciò che il corpo desiderava era tutt’altro ma questo, per il momento, lo teneva per sé. In seguito, terminate le scuole superiori, la parola Università riempiva talmente tanto la bocca dei famigliari che quando, a sorpresa, Eugenio disse loro di volersi trasferire nella capitale, tessendo le lodi della prestigiosa Facoltà di lettere e filosofia, nessuno riuscì a trovare gli argomenti adeguati per opporsi, e i genitori dovettero prendere atto del fatto che il loro figlio avrebbe vissuto da solo, lontano da casa.

Paolina sapeva da tempo quali erano i progetti di Eugenio. Avrebbe voluto seguirlo ma il diploma d’infermiera che desiderava conseguire, le avrebbe permesso di entrare a lavorare subito in ospedale e non poteva rinunciarvi.

Avrebbe aspettato ancora. Eugenio sarebbe tornato da lei, perché lei lo amava. Avrebbe voluto dichiararsi e sentirsi rassicurare che anche per lui era lo stesso, che lo era sempre stato fin da ragazzini. Lo conosceva bene però, lui aveva i suoi tempi, e lei non intendeva mettergli fretta.

Eugenio aveva sempre rispettato quell’amore che non poteva ricambiare e, al di là dell’amicizia che lo legava a Paolina, ogni altra dimostrazione d’affetto l’avrebbe fatto sentire come l’usurpatore di un posto che non gli spettava.

 Solo tra le braccia di un altro uomo avrebbe potuto appagare il desiderio segreto che infiammava le sue notti e presto i suoi sogni si sarebbero avverati.

La nuova città che lo accolse divenne un forziere di tesori da scoprire e fare propri, seguire i corsi non era un problema per una mente aperta e allenata allo studio. Frequentando i centri culturali o i club privati Eugenio ebbe modo di entrare a far parte di un mondo maschile giovane e fremente che, come lui, sentiva il bisogno di vivere la propria sessualità, assaporando l’eccitazione che scaturiva negli sguardi di reciproci riconoscimenti e gustando, fino a raggiungere l’estasi, ogni carezza, ogni bacio, ogni penetrazione nei corpi che conobbe, amò e poi abbandonò con rispetto reciproco.

Si scoprì amante delicato, generoso e passionale e quando conobbe e s’innamorò di Pierre, finalmente la poesia che, da adolescente ancora inconsapevole ma fortemente sensibile a tutte le espressioni dell’amore, era sgorgata dal suo cuore, trovò un volto ed un corpo, ogni centimetro del quale rispondeva perfettamente alle sue rime: insieme a Pierre ogni desiderio trovava la giusta corrispondenza. Entrambi studenti dello stesso corso di studi, da amanti condivisero subito l’appartamento d’Eugenio. Frequentando i colleghi, iniziarono a trascorrere interminabili serate e spesso lunghe notti, fra accesi dibattiti politici ed esistenziali, bagnati da bevute devastanti che, una volta tornati a casa, cercavano di smaltire immergendosi nella vasca colma d’acqua e facendo l’amore ogni volta in modo più selvaggio e disperato, man mano che quel periodo di completa libertà e indipendenza si avvicinava alla fine, quando ancora “futuro” era un tunnel buio che spaventava Eugenio avendo, in quei momenti, come unica certezza il ritorno nella propria città.

 

Tre. Foto di famiglia.

 

Paolina in quegli anni di studi universitari faceva di tutto per affrontare il lungo ed estenuante viaggio che la portava a trascorrere qualche giorno in compagnia di Eugenio e del suo amico Pierre: persona questa dai modi affabili e gentili a cui lei aveva imparato a voler bene, soprattutto per l’affetto sincero che mostrava nei confronti d’Eugenio.

Il lavoro d’infermiera all’ospedale e il contatto quotidiano con la sofferenza avevano reso più forte il suo carattere, imprimendogli una determinazione e un fascino che non mancava di colpire le persone che avvicinava. La spontaneità e la naturale propensione al sorriso rendevano gradevole la sua presenza, togliendo il sonno a diversi uomini che, cercando uno scambio di sguardi, tentavano di farle la corte. Paolina trascorreva il suo tempo libero con le amiche più care e, per ciò che riguardava gli uomini, uno solo, da dieci anni, faceva battere il suo cuore: conclusi gli studi Eugenio sarebbe ritornato a casa, avrebbe insegnato nella facoltà della sua città e presto si sarebbero sposati. Di questo n’era certa.

Non c’era stata nessuna promessa, Eugenio aveva scelto di percorrere una strada che li aveva allontanati ma, quando la sua vita da studente fosse giunta al termine, tutto avrebbe seguito il corso naturale delle cose: il lavoro, la casa, la loro vita insieme.

Rosa, sorella d’Eugenio, tenuta sempre sotto la stretta della mamma e dei parenti, aveva poche occasioni per distrarsi. Finita la scuola aveva iniziato a frequentare un istituto di suore e imparava l’arte del ricamo e del cucito. Era molto brava e, d’animo mite e tranquillo, aveva subito il fascino di quelle stanze dal forte odore di legno, nonché delle donne vestite di nero che bisbigliavano fra loro alzando la voce solo per rimbrottare le ragazze, ad ogni distrazione dal lavoro. Per un periodo il cuore di Rosa sembrò battere per qualcosa di misterioso e potente che assorbiva completamente i suoi pensieri. Pregava molto in quegli anni, tentando di far luce sul mistero di una fede che le letture dei racconti sulle vite dei santi, nonostante tutto, non l’aiutavano a risolvere e decidendo perciò di lasciarsi guidare dagli insegnamenti del catechismo, impartitele dal sacerdote della sua parrocchia.

Frequentatrice assidua spesso usciva con le pie donne, benefattrici dei compaesani più sfortunati, quando però la sera rientrava a casa, sentiva di aver fatto troppo poco per gli altri e, ancora meno, per se stessa.

Le persone bisognose non sempre erano contente di avere tra i piedi quelle donne eleganti con i lunghi cappotti di lana e i cappellini in testa, con le mani protette da guanti di camoscio, pronte con le sporte d’aiuti materiali ma dalle labbra troppo strette, senza l’ombra di un sorriso o un accenno di compassione.    

Qualcuno gli inveiva contro, mandandole al diavolo e allora Rosa scappava via, terrorizzata dalle reazioni di uomini e donne dall’aspetto trasandato e dal corpo non troppo pulito, così diversi da quelle belle foto dei santi, sulle quali aveva idealizzato il suo concetto di cristianità, quelle persone erano talmente…reali, da spaventarla a morte con i loro modi rozzi.        

Il periodo mistico di Rosa all’inizio pieno di calore, andò via via raffreddandosi, lasciandola alquanto delusa e spaesata. Così quando Paolina la invitava a fare il viaggio in treno insieme, per andare a trovare suo fratello, coglieva l’occasione per passare qualche giorno lontana dalla famiglia, sperando anche che in quei viaggi potesse accaderle qualcosa di emozionante.

Non riusciva ad immaginare bene che cosa, ma aveva bisogno di provare emozioni forti, una scossa che la facesse emergere da quel senso di vuoto impadronitosi di lei. Il viaggio in sé non le procurò mai nulla se non dolori alla schiena e tanta stanchezza, sia all’andata sia al ritorno, un giorno però, alla stazione, mentre scendevano dal treno che le aveva riportate a casa, destino volle che Rosa facesse la conoscenza di Giuseppe. 

Giuseppe era stato ricoverato per pochi giorni all'ospedale, per un banale intervento chirurgico, Paolina si era presa cura di lui durante la degenza e, quando entrava nella sua stanza, non poteva fare a meno d’intrattenersi, scambiandoci qualche parola. Vederla arrivare con la siringa in mano riempiva il giovane di vergogna oltre che di terrore, facendolo arrossire fino alla radice dei capelli, lei lo tranquillizzava e con voce calma cercava di distrarlo, parlandogli del più e del meno. Tra i due s’era instaurato un rapporto amichevole e vedendolo lì alla stazione, seduto su un sedile di pietra, con la valigia fra le gambe, gli occhi bassi a fissare le scarpe, non riuscì a trattenersi dal fermarsi di fronte per salutarlo. Giuseppe trasalì per la sorpresa di quell’incontro e subito si alzò in piedi. Paolina gli presentò Rosa e tra i due iniziò uno scambio di sguardi difficile da seguire: il ragazzo parlava con Paolina guardandola negli occhi, nel frattempo Rosa ne seguiva il profilo dal quale spiccava un naso che definì subito “importante”; quando poi lui si voltava per osservarla bene e imprimere nella mente i particolari del suo viso, lei abbassava lo sguardo e pregava di sparire da quel marciapiede, da sotto la pensilina, dalla stazione, dalla città e anche dal mondo. Nello stesso tempo si augurava di poter rimanere lì per sempre.

Il colpo di fulmine c’era stato, tutti ne avevano preso atto, bisognava solo attenersi alle regole e superare i vari passaggi obbligatori. Una volta scambiate le visite di rito, ai ragazzi fu permesso di vedersi le domeniche a casa di Rosa, se volevano uscire a passeggiare o andare al cinema, la mamma o un altro parente doveva stare con loro.

I ragazzi si adeguarono e così trascorsero un anno, poi s’iniziò a parlare di matrimonio e anche lì i diretti interessati poterono ben poco, se non acconsentire a tutto ciò che le famiglie decidevano.

Il matrimonio fu organizzato con cura e attenzione dei particolari, sebbene semplice e senza sprechi; la notte stessa i due sposi poterono prendere possesso della loro casa, per la prima volta insieme, da soli.

Rosa era innamorata di quell’uomo dal carattere timido e riservato. Beppe era molto dolce e comprensivo ma, soprattutto i primi tempi, faticò non poco

prima di levare dalla testa della moglie le paure respirate fin da bambina, all’interno della sua famiglia. La giovane donna, da parte sua, aveva una forza che la rendeva superiore al marito, almeno all’interno della loro casa. Nel suo ambiente non accettava consigli o intromissioni di sorta e Beppe non si sognava minimamente di prendere una qualsiasi iniziativa in quel museo di ordine e pulizia maniacale che presto diventò la loro casa.

Nel paesino dove avevano scelto di vivere, i due sposi furono accolti bene, sin dall’inizio. La famiglia di Beppe aveva ottime garanzie: tutte rispettabili persone che già prima degli anni della guerra, possedevano e dirigevano una fabbrica di sughero. Beppe lavorava anche lui alla fabbrica ed essendo molto innamorato della moglie, appena terminato il suo turno rientrava subito a casa, destando l’ilarità dei parenti e dei colleghi, suoi amici, che, al contrario, preferivano fare una capatina al bar del centro, per raggiungere le famiglie solo sul tardi, quasi sempre all’ora di cena.

I due vissero anni felici, imparando a conoscersi e a capire le esigenze reciproche. Rivolgere le preghiere alla Madonna fu un passo naturale e dettato dall’esigenza di inserire un potere divino laddove evidentemente da soli fallivano. 

Dopo diversi anni di matrimonio, infatti, i mormorii, inizialmente sommessi, poi più sfacciati, iniziarono a scivolare per le strade, a raggiungere l’interno delle case, dei negozi e i banchi della chiesa: Rosa non poteva generare figli.

Qualcuno aveva azzardato un possibile problema legato all’uomo, anziché alla signora che vista così sembrava sana e fisicamente pronta a concepire e mettere al mondo un bambino, ma la famiglia di Beppe non volle nemmeno sentir parlare di una cosa simile: il loro figlio e nipote e cugino era a posto, non arrivava di certo da quella famiglia il problema, che si guardasse dall’altra parte. La famiglia della donna insisteva per dare ancora tempo alla coppia, nel frattempo tutti li esortavano alla preghiera. 

Gli anni passavano, Rosa e Beppe non si stancavano di pregare e di sperare per l’arrivo di un figlio portatore d’allegria e freschezza.

Chissà se per un intervento divino o per un ripensamento del destino dei due, quasi al limite del tempo consentito a Rosa, alla fine la pancia crebbe e anche per lei arrivò il momento di urlare tutto il dolore e la gioia nel dare alla luce un nuovo essere.

 

Eugenio si era commosso fino alle lacrime alla vista di quel fagottino rugoso e dai folti capelli nerissimi che stavano su belli diritti e lo amò da subito. Il piccolo Davide non piangeva tanto, come aveva immaginato facesse un neonato, se ne stava tranquillo nella culla ad ascoltare i suoni attorno a lui. Solo al momento della poppata faceva sentire la sua voce: Rosa era subito pronta ad attaccarselo al seno e lui succhiava soddisfatto.

Paolina osservava quel miracolo con curiosità ma senza provare l’impeto

d’affetto che spingeva chiunque a prendere in braccio il bambino per stringerselo al petto e vezzeggiarlo. Non era scattato in lei quel desiderio di maternità che invece aveva segnato la vita di Rosa. Paolina aveva ancora troppe cose da sistemare nella sua esistenza e un figlio era l’ultimo dei suoi pensieri, prima avrebbe desiderato un marito.

Il suo rapporto con Eugenio non era cambiato di molto; lui aveva accettato la proposta di insegnare nella stessa Università che l’aveva visto crescere e maturare. Era stato la perla degli insegnanti, era diventato l’assistente del più influente tra loro e tutto aveva seguito un filo prevedibile, sarebbe rimasto in quella città a fare ciò che amava di più al mondo: continuare a studiare e approfondire le sue conoscenze, nello stesso tempo insegnare e trasmettere ai giovani tutto il suo sapere.

Paolina, non perdeva la speranza, continuava a fare la spola tra la sua città e la casa di un uomo che si manteneva sempre uguale a se stesso.

Gli anni passavano anche per loro, tra i capelli fili grigi segnavano lo scorrere del tempo e nonostante tutto Eugenio continuava a possedere un fascino, una vitalità e un entusiasmo che colpivano la donna. Non che le dispiacesse ascoltarlo raccontare dei suoi ragazzi, dei fermenti lungo le strade e le piazze, dell’energia  respirata tra la popolazione, diventata ormai più familiare di quella abbandonata da anni. Non aveva perso quelle attrattive che, ancora ragazzina, l’avevano ammaliata, facendo giurare al suo cuore di non accontentarsi mai di qualcuno che non fosse il suo Eugenio. Aspettava, aspettava ancora senza chiedere nulla.

Pierre era una presenza costante tra loro: poche erano le volte che non lo trovava a casa a studiare o ad organizzare incontri con altri colleghi. Era convinta che quell’uomo vivesse in quella casa più a lungo di quanto lei immaginasse. Glielo provavano le pantofole dentro la scarpiera o la vestaglia dietro la porta del bagno, il cappello dimenticato nell’appendiabiti, ma anche lo spazzolino da denti nel bicchiere, sul lavandino del bagno.

Paolina amava Eugenio e per quanto riguardava Pierre l'affetto iniziale si trasformava pian pianino in sopportazione. Quando stava con loro si sentiva protetta e amata, insieme la coccolavano e la riempivano di regali, la portavano a teatro e poi al ristorante, la ubriacavano e stordivano con gentilezze e abbracci e lei si confondeva e ogni volta al ritorno, durante il viaggio in treno, ripercorreva ogni singolo momento di quelle attenzioni e ogni volta ne era estasiata, ma anche si chiedeva quando sarebbe finito quello strano rapporto a tre, quando Eugenio si fosse deciso a chiederle di rimanere sola con lui.

Il rientro a casa, i primi giorni, era sempre tormentato e l’infelicità di Paolina condizionava il lavoro e la sua vita di donna sola e frustrata. Poi le cose piano, piano tornavano alla normalità e per un po’ si lasciava alle spalle i dubbi e le incertezze che l’inesauribile attrazione verso Eugenio, immancabilmente, le facevano sorgere. Non poteva più staccarsi da lui, così ogni volta si replicava lo stesso teatrino e lei lo accettava, anche se sentiva sempre più forte il bisogno di scuotere quell’uomo, metterlo davanti ai fatti e costringerlo ad accettarla come la sua donna. Doveva smettere d’avere paura e comportarsi da uomo.

Eugenio viveva in un'altra dimensione e non si curava per niente dei sentimenti della sua più cara amica. Questo solo era per lui, da lungo tempo ormai non si poneva più domande e quando percepiva la debolezza della donna automaticamente se ne staccava, rendendosi odioso e inavvicinabile.

Le cose stavano così: Paolina da una parte a sperare che Eugenio si decidesse, una volta per tutte, ad affrontare la realtà.

Eugenio dall’altra parte a vivere la sua intensa storia d’amore con Pierre, abbracciando al contempo ogni novità offertagli dai cambiamenti del mondo intorno a lui.

La presenza di Paolina lo costringeva ad allontanare Pierre da casa, almeno la notte: nessuno era a conoscenza della loro storia, questa era stata una decisione obbligatoria. Il loro rapporto d’amore esisteva e veniva riconosciuto solo tra le pareti dell’abitazione e anche lì dovevano essere il più possibile discreti. Con i dovuti accorgimenti per anni era andato tutto liscio.

Purtroppo però non sempre siamo noi gli artefici del nostro destino, alle volte agiscono per noi o contro di noi influssi talmente forti e determinanti da far cambiare il corso delle cose, e quella che fino al giorno prima, alla notte prima, era un’esistenza tranquilla, costruita tra le mura di una casa, il giorno dopo diventa un inferno e quelle mura cadono a terra e si frantumano in mille pezzi, come quel quadro che per anni è rimasto affisso al muro e poi d’improvviso cade a terra. Senza nessuna evidente causa.

 

Quattro. Ombre.

 

La prima crepa iniziò ad intaccare i muri quando in Pierre si fece strada il desiderio di tornare nella sua patria. Dopo anni di lontananza, il richiamo della sua terra stava condizionando troppo l’umore e non volerlo ascoltare significava ignorare una parte di sé.

Autore di saggi e di testi accademici il suo lavoro poteva svolgerlo dove meglio credeva e, una volta presa la decisione, ad Eugenio non rimase che rispettare i desideri del compagno, accettando questo nuovo cambiamento.

Era la prima volta che si separavano per quello che si prospettava come un lungo periodo e la disperazione lo afferrò alle viscere immediatamente. Ancor prima di rendersi conto del profondo mutamento verso il quale andava incontro, si ammalò di solitudine: non aveva prodotto anticorpi verso quel genere di dolore e, senza difese, si lasciò aggredire dalla malattia.

Paolina si precipitò da lui per consolarlo, colpita per l’intensità di quella sofferenza, ma determinata a non fare domande. Stringeva a sé quel dolore, lo cullava, imbastiva per lui parole di seta che accarezzavano quel corpo inerme, scosso dal pianto.   

Chissà se Paolina riconosceva nei battiti del cuore di Eugenio gli stessi suoi battiti, quelli che solo l’amore sa scandire. Si prendeva cura di quel cuore spezzato come fosse il suo, impegnando tutto il suo essere al solo scopo di salvare quell’anima benedetta debole e vulnerabile. I primi mesi era pronta a scattare, partiva appena il lavoro glielo permetteva e trascorreva qualche giorno in quella casa che stava assumendo sempre più l’aspetto del suo proprietario: disordinata e sporca.

Da parte del Rettore era già arrivato il primo ammonimento, i colleghi cercavano di farlo sfogare, Eugenio giorno dopo giorno perdeva la linfa vitale e il non poter urlare tutto il dolore che sentiva dentro lo stava facendo impazzire.      

Passarono sei mesi e la crepa si allargò, provocando la caduta e la conseguente rottura del quadro. Eugenio ricevette la telefonata che lo fece crollare del tutto: Pierre era stato contattato da una casa editrice francese e aveva deciso di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Aveva preso possesso di una vecchia cascina e la stava facendo ristrutturare. Il posto era incantevole e aveva deciso di rimanerci. Certo che gli mancava, proprio questo era lo scopo della telefonata, lo invitava a lasciare la cattedra e a raggiungerlo, avrebbe potuto insegnare anche lì, non sarebbe stato un problema.

Le pareti crollarono e con loro tutta la casa, lasciando Eugenio sotto le macerie a respirare fumo e polvere.

Non ascoltò l’invito di Pierre, sarebbe stato tutto inutile, lui aveva fatto una scelta e per Eugenio il futuro non contemplava più una vita felice insieme.

Si adattò alla sopravvivenza perché ogni cosa intorno aveva perso colore, si portò al naso e alla bocca le foto in bianco e nero, respirandone i ricordi e le emozioni, poi le racchiuse dentro una vecchia valigia di cartone, insieme ai quaderni e ai libri: era tutta la sua vita, fino a quel momento.

Lasciò l’Università, lasciò quella città divenuta ormai troppo rumorosa e affollata. Camminare per le vie, trattenersi nelle piazze, entrare nei locali, il senso di quelle abitudini era legato alla persona diventata, negli anni, la sua stessa ombra. Senza quella al suo fianco il sole avrebbe anche potuto spegnersi.

Tornò nella casa dei genitori ormai morti da tempo, portando con sé tutto ciò che rappresentava il suo tesoro. Si liberò degli oggetti che lo opprimevano e riempì librerie e scaffali di libri e stampe iniziando a catalogare e datare, dando così l’avvio a quella che diventò una modesta biblioteca privata ricca di volumi preziosi.

Spesso si recava alla vigna che, dopo la guerra, i cugini della madre avevano venduto, per poche lire, alla zia, l’unica della famiglia veramente affezionata a quel posto che amò e curò fino all’ultimo, fino a quando non fu trovata dai vicini, seduta immobile e fredda sulla sedia posta nell’angolo preferito, quello che aveva davanti la vista della montagna. Un sorriso sulle labbra era stato il suo ultimo saluto e per Eugenio sedere su quella stessa sedia, davanti allo stesso panorama, era come stare seduto sulle sue gambe ad ascoltare le leggende legate a quella montagna e alle fate che l’abitavano.              

L’albero delle mele cotogne si trovava sempre lì, al suo posto, era cresciuto tanto e sdraiarsi sotto i suoi rami la prima volta, dopo quella che sembrò essere un’eternità, ridestò il lui emozioni così violente da farlo ridere e piangere allo stesso tempo.

Cominciò così un periodo di calma interiore nel quale Eugenio decise di riportare sulla carta ricordi e avvenimenti che, stimolati dalla mente, riaffioravano spontaneamente. La vigna, primo teatro che aveva visto il debutto della sua creatività era il luogo ideale per iniziare. Da lì il succedersi degli eventi, personali e famigliari riempirono pagine e pagine di quaderni e ad ognuno di questi, nella prima pagina bianca, veniva tracciata, in bella grafia, una dedica, sempre la stessa:

A Davide, con affetto

Eugenio.

 

Cinque. Camera oscura e sviluppo.

 

Paolina, seduta sulla sedia osservava Davide, dall’altra parte del tavolo. Vederselo davanti, sulla porta di casa, qualche ora prima, l’aveva fatta piangere d’emozione. Dopo averlo riconosciuto naturalmente. L’ultima volta che lo aveva visto era un ragazzo timido e spaventato e di certo non aveva la barba.

Una barba non troppo folta, dai riflessi ramati, che Davide aveva deciso di far crescere, prima di rimettere piede in paese. Per nascondersi ancora una volta, senza pensare che gli adulti, lasciati anni prima, non potevano riconoscerlo, molti erano già scomparsi, i superstiti troppo anziani per preoccuparsi di lui. I coetanei, quelli che erano rimasti, dovevano avere una famiglia, un lavoro, anche per loro l’arrivo di un compaesano non faceva molta impressione.

Così Davide si ritrovò a passeggiare per le stradine di un tempo facendo un su e giù tra passato, il centro storico, e il presente, la modernità. Non mancava niente: negozi, saloni di bellezza, palestre, cinema, ristoranti, pizzerie. Lo intristirono le nuove colate di cemento: mostri costruiti a pochi metri dal mare. Agglomerati di case, lussuosi residence al posto dei terreni e degli spazi verdi, inghiottiti per sempre.

Le ragazze giravano vestite con abiti alla moda, i loro capelli erano ordinati e dai tagli freschi. I ragazzi, se è possibile, mostravano ancora più cura, sia della persona sia nell’abbigliamento.

Il bar si accorse essere ancora il luogo più frequentato dai gruppi di maschi impegnati nel tentativo di catturare l’attenzione delle ragazze, facenti gruppi a sè. L’unica differenza consisteva nelle macchine sportive parcheggiate lungo il marciapiede, proprio davanti ai loro sguardi, che avevano preso il posto delle bici o dei motorini scassati.

Attraversare la storia di una popolazione, immaginarla crescere, da discreto osservatore, non provocava in Davide il rimpianto tanto temuto, la perdita di qualcosa che gli era appartenuto e che, nonostante tutto, era andato avanti, senza di lui. Osservava i visi e le espressioni di quei ragazzi a pochi metri da lui. Ridevano e scherzavano, sembravano accettarsi completamente e per un momento ne fu contento, forse le cose erano cambiate e nessuno si sarebbe più trovato nella condizione di scappare per vivere appieno la propria esistenza. Sapeva di sbagliarsi, voleva vedere la superficie, certo, se avesse preso quelle persone una per una, si sarebbe reso conto che certi pregiudizi sono duri a morire e forse stava rischiando di ricaderci dentro un'altra volta, ma in quel preciso momento non voleva pensare a cose spiacevoli. Di fronte a sé aveva i portici, sotto di essi due portoni, gli stessi, con l’identica maniglia di ferro. Di fianco, nella via principale, due finestre basse ad un metro dal marciapiede.

Era la sua vecchia casa, uguale a come l’aveva lasciata. La poteva guardare indisturbato, seduto sulla panchina, una delle tante sparse nella piazzetta e prima di decidersi a lasciare quel tranquillo punto d’osservazione, si guardò ancora una volta intorno, stupendosi della grandezza dei diversi alberi uniti, con le loro fronde, a creare un’unica ombra. 

Inutile indugiare ancora davanti ad una casa vuota, raggiungere l’abitazione di zia Paolina richiedeva pochi minuti e Davide si convinse di togliersi subito il pensiero e affrontare quell’incontro imbarazzante.

Non ricordava, Davide, di essere mai entrato in quella casa. Sapeva che zia Paolina e zio Eugenio si conoscevano da quando erano ragazzini e che in famiglia erano presentati come gli eterni fidanzati. Il problema, per quanto ne sapeva, era il lavoro dello zio: la lontananza non lo faceva mai decidere a chiedere la mano di Paolina. Così il tempo era trascorso e lì finivano le conoscenze di Davide, per il quale quella parente poteva benissimo aver acquisito il titolo di zia senza che fosse mai stato ufficializzato da alcunché, se non per lo sfinimento dell’attesa, ma non erano domande da fare e già mantenere la posizione su quella sedia che dopo quindici minuti stava iniziando a scottare, gli costava fatica, voleva andar via al più presto: gli mancava l’aria.

Zia Paolina gli parve come una donna decisa e resa determinata, di certo, dal tipo di esperienze che avevano segnato la sua vita.

Lei, davanti a quell’uomo, immediatamente riconobbe i tratti e addirittura la postura un po’ rigida e severa d’Eugenio e, percependone l’imbarazzo, si sforzò di metterlo a proprio agio; che cosa poteva dirgli, se non parlargli dell’uomo da lei tanto amato?

-       Parlava spesso di te. Chiedeva sempre notizie alla sorella, tua madre, per essere aggiornato sulla vita a Londra. Ne era orgoglioso e ha sempre creduto nelle tue potenzialità. Quando Beppe è deceduto, dopo la lunga malattia, Rosa si è spenta a poco a poco e dopo un mese se n’è andata pure lei. Da allora le tue telefonate si sono interrotte e il silenzio che gli hai imposto lo ha ferito molto. Aveva il timore di non poterti aiutare se avessi avuto bisogno, e questa paura gli è tornata, più viva che mai in questi ultimi anni, quando, lasciato il lavoro e la città dove viveva, è tornato nel suo paese. Ma tu sei pallido, forse vuoi riposare un po’, sarai stanco!

- Sì, forse sono solo un po’ stanco, ti dispiace se entro un attimo al bagno per rinfrescarmi il viso?

- Vieni con me, t’accompagno!

Una volta chiuso dentro al bagno Davide si lasciò andare ad una crisi di pianto, difficile da tenere chiusa tra il petto e la gola. I singulti si sentivano da fuori, ma non gli importava, avrebbe urlato, se fosse servito a qualcosa. Aveva tradito tutti, oltre i genitori anche suo zio, lo aveva preso in giro, proprio lui che forse, parlandoci, sarebbe stato in grado di capirlo.

No, tornare a casa non era stata una buona idea, d’improvviso si sentì osservato da centinaia d’occhi arrabbiati, pronti a giudicarlo e, per l’ennesima volta, sentirsi nel posto sbagliato fece crescere il lui la voglia di scappare.

Uscendo dal bagno Davide trovò Paolina ad aspettarlo sulla porta d’ingresso.

- Andiamo!

Davide era costretto a stare vicino alla donna che, per sentirsi più sicura, camminando sull’acciottolato, lo prese sottobraccio.

Quel gesto così intimo, irrigidì i muscoli già tesi delle braccia, ma dopo qualche passo, il calore della vicinanza di un corpo esile e provato dall’età, lo intenerirono facendogli provare il desiderio di stringersi un po’ di più.

Capì che il percorso di Paolina era lo stesso di quello fatto qualche ora prima da solo e man mano che si avvicinavano alla casa dei suoi genitori, i battiti del cuore aumentarono e la curiosità di rivederne l’interno all’improvviso diventò irresistibile.

Si ricordava l’ingresso e, come prima stanza, il soggiorno, ma appena messo piede all’interno vacillò un attimo. Lo scontro con il passato era troppo forte, tutto era rimasto com’era nei suoi ricordi: il tavolo con le sedie al centro, in fondo la credenza con i vetri smerigliati gli fece tornare alla mente la brocca sempre colma d’acqua, posta sul marmo bianco. Un divanetto di velluto verde scuro, un mobile lungo e basso un tempo usato come base per il televisore, sopra cui il centrino di cotone bianco non mancava mai di fare bella figura.

L’odore della muffa trasudante da quelle mura antiche, scarsamente riscaldate dal sole, provocò un senso di nausea e di vertigine, ad una persona che, come Davide, aveva perso da lungo tempo il contatto con quel genere d’emozione. La prima sedia alla sua portata si fece carico di un corpo stanco che si guardava intorno pensieroso.

Non si accorse Davide di essere rimasto solo: Paolina aveva lasciato la casa.

Di fianco a lei Eugenio camminava sorridendole.

- Brava, hai fatto la cosa giusta!

Paolina gli sorrise a sua volta immaginando quegli occhi azzurri sempre acuti, anche alla fine, quando fissavano il viso della donna senza realmente vederlo, persi nelle stanze del passato.

Sarà quello l’ultimo gesto d’amore verso l’uomo da lei sempre amato. Aveva riportato Davide a casa, l’aveva riportato a lui, da quel momento Paolina poteva vivere tranquilla il resto dei suoi giorni: era arrivato il tempo del riposo.

L’uomo appena lasciato aveva bisogno di solitudine, com’era stato per Eugenio, e nessuno meglio di lei conosceva il significato della parola “attesa”.

Davide riuscì ad imporsi uno sforzo esagerato per staccarsi dagli oggetti intorno a lui così carichi di fascino e allo stesso tempo eccessivamente dolorosi.

Attraversata la stanza ripercorse lo stretto cucinino e, proseguendo oltre, si ritrovò nella prima stanza da letto, quella dei genitori. In fondo una porta si apriva sulla seconda stanza, protezione e gabbia allo stesso tempo per lunghi anni. Sdraiandosi sul letto e chiudendo gli occhi l’uomo tornò indietro nel tempo e quello che vide fu un ragazzo spaventato e offeso sdraiato su quello stesso letto, con gli occhi sbarrati, concentrato su pensieri di morte.

La stanchezza ebbe il sopravvento ed un sonno agitato, pieno di sogni incomprensibili lo precipitò in un mondo irreale dal quale fece fatica a riprendersi. Svegliandosi di soprassalto si sentì più stanco di prima ma il bisogno del bagno lo costrinse a muoversi. Nella penombra la casa gli mostrò i suoi lati più suggestivi; ombre e giochi di luce riflessa dai lampioni della strada, attraverso i vetri delle finestre, gli provocarono un fastidioso solletico dietro la nuca e sulla testa. Appena accesa la luce però, gli oggetti ripresero le giuste proporzioni e chiudersi alle spalle la porta del bagno gli restituì l’antico sollievo trasmessogli da quel piccolo ambiente.

La mattina successiva Davide si svegliò di buon’ora. Un po’ per l’urgenza di rivedere la zia e poter visitare la casa dove aveva abitato Eugenio fino a pochi mesi prima e, ancor di più, per il languore allo stomaco, a digiuno dal pranzo del giorno precedente.

Paolina constatò che le borse sotto gli occhi e l’inevitabile gonfiore delle palpebre non scalfivano affatto i tratti di quel bel viso e fu molto contenta di rivederlo. Dopo averlo rimpinzato di latte e pane caldo, acquistato alla panetteria proprio all’angolo di casa, si dichiarò disponibile ad accompagnarlo, dopo aver sistemato i capelli, aver indossato un leggero capotto e preso dall’armadio la borsetta di camoscio chiara, quella preferita, in tinta con le scarpe.

Il clima in quel periodo di primavera avanzata era dolce e tiepido e a Davide attraversare le vie della cittadina, di fianco alla donna, presa da un irrefrenabile bisogno di renderlo partecipe degli accadimenti e delle trasformazioni succedutesi negli anni, procurava una sensazione di leggerezza, forse mai provata prima o comunque troppo remota.

Riusciva a sentire il suo cuore battere, i piedi toccare l’asfalto, vedeva le proprie dita allontanare delicatamente un ciuffo di capelli che un alito di vento faceva rimbalzare sugli occhi di Paolina mentre questa, presa dalla chiacchiera, nemmeno sentiva. Era pronto a sorreggerla, quando i bassi tacchi o l’emozione la facevano tentennare.

Godeva anche del rossore alle guance, incontrollabile nel momento in cui l’orgogliosa donna lo presentava alle conoscenze che via via tagliavano loro la strada, incuriosite dalla presenza di uno straniero.       

Sentire il calore dell’imbarazzo strappava a Davide un sorriso e dato che niente di più disarmante e affascinante aveva colpito gli occhi dei paesani, pronti addirittura a precipitarsi sul marciapiede all’uscita da un negozio, o fuori della porta di casa propria, insieme con un volto sorridente, per conoscere la provenienza di tanto splendore, il tratto di strada, normalmente percorribile in venti minuti richiese buona parte della mattinata. Le presentazioni subito seguite dalla sorpresa e dallo stupore, richiamavano i ricordi e in quei ricordi, come Davide notò, si accennava alla povera mamma, il povero babbo, si nominavano i defunti e si girava intorno alla partenza di quel ragazzo che tanto preoccupò i genitori ma, vigliaccamente, nessuno prendeva in considerazione le cause di quella lontananza. Niente faceva supporre che quelle brave persone, o i loro famigliari, un tempo avessero determinato una decisione obbligatoria e forzata. Apparivano, agli occhi di Davide, ignari di essersi macchiati la coscienza adottando comportamenti intolleranti e si rivolgevano a lui come se nulla fosse successo.

 Semplicemente, per loro, quello era il momento di apprendere notizie il più dettagliate possibile: dove aveva vissuto sino ad allora, anche se lo sapevano tutti, quali fossero le sue occupazioni. Curiosità che facevano fremere d’impazienza gli interlocutori, facendoli godere in anticipo, pregustando il piacere dei resoconti riportati, in seguito, dentro le case; come per un fotografo dentro la camera oscura, è l’attesa il momento più emozionante.

Nell’intimità delle mura domestiche, gli scatti sarebbero stati selezionati e osservati uno ad uno e solo lì si sarebbe potuto commentare, apprezzare o anche distruggere, qualora fosse stato necessario.

Nell’arco di poche ore il corpo dell’uomo era stato fotografato in tutte le sue parti e i modi di fare registrati e passati sotto l’attento giudizio dei più anziani, ritenuti gli esperti sulle cose del mondo: intenditori per quel che riguardava vizi e devianze. Si arrivò così ad una conclusione unanime: si sarebbe atteso e al primo sgarro avrebbero fatto in modo di farlo tornare da dov’era arrivato.

Ancora una volta! Davide sembrava leggere negli sguardi e nei segnali inviatigli dai corpi intorno a lui, rimandandolo a recite già viste. Con quel tocco di sarcasmo, imparato negli anni per salvarsi la vita, riuscì a districarsi bene dalla rete nella quale cercavano di farlo impigliare, lasciando ad ognuno il piacere morboso di giudicarlo come meglio credeva.

Finalmente Paolina raggiunse la casa d’Eugenio, quella lasciatagli dai genitori e, da lui trasformata in una bizzarra biblioteca, facendo piazza pulita di tutto il superfluo. Davide restò affascinato dalla ricchezza esistente attorno a sé. Era tutto uno straripare di libri, enciclopedie, cartelle piene zeppe di fogli e il colpo d’occhio fu facilitato dalla disposizione dell’appartamento che gli permise di avere subito una panoramica completa. Una volta entrato si ritrovò in un salone immenso, ottenuto, per volontà dello zio, dall’abbattimento dei muri, lasciando intatti solo le stanze da letto ed il bagno. La cucina vasta ma senza pretese, doveva servire a nutrirlo quando il corpo lo richiedeva e questo accadeva nei momenti più impensati della giornata, quando lo vedeva lì: possedeva il necessario, ogni oggetto in più era inutile averlo.

Lo stupore e il fascino del luogo fecero dimenticare a Davide ogni cosa e anche quella volta, com’era successo il giorno prima a casa sua, Paolina volle lasciarlo da solo, non prima di avergli fatto avere del pane e del formaggio e altri generi indispensabili nel caso in cui avesse deciso di trattenersi a lungo.  

Doveva solo recuperare le sue cose, una valigia l’aveva tenuta con sé, l’altra l’aveva lasciata alla stazione, si era imposto una possibilità di fuga, se le cose si fossero messe male sin dall’inizio, quella valigia sarebbe stata pronta per altri percorsi e altre lontananze. Il primo impatto era stato superato abbastanza positivamente per i suoi canoni di socializzazione e rapporti interpersonali; aveva superato il primo controllo e non aveva voglia, né intenzione di attendere per conoscere gli esiti dell’esame. In quel momento, fra quelle mura, quelle risparmiate dallo zio, si sentiva a casa, per la prima volta, e niente lo avrebbe potuto allontanare da quel mondo di carta e pelle pregiata.

Eugenio ne sarebbe stato contento: il ragazzo era cresciuto, aveva percorso la sua strada. Non un percorso indolore, certo, tutto però era servito per arrivare al presente ed era bello e commovente vederlo seduto sulla sua poltrona preferita, quella nera, a sfogliare le pagine di romanzi, lasciati lì perché lui se ne nutrisse. Molti romanzi Davide li conosceva, li avevano letti insieme e allora l’emozione diventava, se possibile, ancora più forte. Ad ogni pagina egli  s’illuminava, percependo la profondità di quelle parole.

Eugenio a suo tempo aveva riconosciuto lo stato d’animo del giovane: un muro tirato su per proteggersi, la mancata accettazione. Allora non aveva potuto sostituirsi a lui, poteva consolarlo e aiutarlo a rafforzare il carattere, spingerlo a credere nelle qualità che possedeva, il resto doveva farlo da solo.

C’era voluto del tempo e quando, con mano tremante, Davide sfogliò le prime pagine di un libro, particolare sia per la copertina che per l’odore, così penetrante da risultare impossibile non avvicinarlo al naso per aspirarne l’essenza, così carico di fascino e di mistero, proprio in quell’istante Eugenio, guardando con i suoi luminosi occhi azzurri l’espressione incredula e confusa di Davide, avrebbe riso, avrebbe riso talmente forte e di cuore da provocarsi la tosse: il mio ragazzo ce l’ha fatta!

 

Ad Eugenio, con infinito amore. Pierre.

 

La lettura occupò la mente di Davide per giorni: tutto ciò che era stato scritto dallo zio lo affascinava. Persino la tesi universitaria o un semplice commento sulle vicende accadutegli da studente. Piccoli racconti di vita lasciati lì sul tavolo o sulla scrivania, dentro raccoglitori di cartone, in attesa di essere letti.

 Ogni tanto s’imponeva una pausa e usciva di casa. Per respirare aria nuova, per salutare Paolina, per scambiare due parole con chi lo fermava per strada, apparentemente interessato agli impegni che lo trattenevano in paese, più malignamente, curioso di sapere cosa ci facesse chiuso in quella casa che aveva già visto un altro pazzo isolarsi dentro e morirci pure.

Lui dava sempre risposte vaghe, di quelle che non dicevano nulla d’esaustivo alle orecchie di chi si aspettava scandali e colpi di scena da un giorno all’altro.

Non aveva intenzione di fomentare pettegolezzi, ma una forma perversa di provocazione in fondo esisteva anche dentro di lui e la espresse quando decise di riprendere a fare un po’ d’attività fisica. Più che altro sentiva il bisogno di stancare il proprio corpo, lo riteneva indispensabile, in quel momento più che mai.               

Tutti i giorni, al mattino presto, indossava pantaloncini e canottiera e iniziava la sua ora di corsa, seguito dallo sguardo sprezzante degli uomini che a quell’ora si recavano al lavoro, da quello seminascosto e malizioso delle donne, impazienti di veder passare, proprio davanti alle loro finestre spalancate, quel bel pezzo d’uomo: slanciato, gambe e braccia muscolose, sempre disponibile a salutarle tutte con lo stesso sorriso divertito. Da quello scandalizzato degli anziani che non si capacitavano di tanta sconcezza.

In realtà la sua mente seguiva un solo pensiero: chi era Pierre e, cosa più importante, chi era stato zio Eugenio.

Le sue ricerche si fecero più mirate, a quel punto aveva uno scopo in più e ogni lettera, ogni parola scritta, assumeva un nuovo significato. Trovò raccolte di poesie, lesse racconti, ma in nessun altro testo trovò quella dedica. Forse sarebbe rimasta unica o forse lo zio aveva voluto lasciargli una traccia, voleva metterlo alla prova, se si fosse incuriosito avrebbe cercato ancora. Sarebbe stato capace di risolvere quel mistero che lo spingeva a raccogliere dati per arrivare a conoscere lui e un po’ anche se stesso.

Il primo pensiero andò a Paolina, altro che eterni fidanzati, cosa sapeva quella donna della vita d’Eugenio?

Avrebbe voluto domandarglielo ma prima doveva andare più a fondo e quando si stancò di cercare fra volumi e appunti e relazioni e tesi varie, una traccia che lo portasse a conoscere il vero uomo, costruttore di una bella facciata, decise di staccarsi da quell’ossessione e trascorrere qualche ora lontano da lì.

Prese un’auto a noleggio e, dopo aver fatto salire in macchina Paolina, sempre più stupita di come Davide stesse seguendo lo stesso percorso del suo Eugenio, si recò nel luogo magico e drammatico allo stesso tempo, conosciuto dai racconti dello zio, durante i loro sporadici incontri, rimproverandosi di non averci pensato subito. Avrebbe dovuto farlo appena arrivato, sapeva bene quanto quel posto fosse importante per lui.

Sua mamma Rosa non lo aveva ritenuto tale quanto il fratello, in fondo che ricordi aveva lei? Era libera di muoversi, a differenza della città dove vivevano prima della guerra e del paese dove si erano trasferiti una volta terminata. C’erano pochi controlli, la vigna era piccola e a parte il divieto di non avvicinarsi al cancello, tanto meno d’uscire, non esistevano rimproveri di sorta, anche i soldati tedeschi l’avevano lasciata indifferente, pur conservandone il ricordo a lungo lei, al contrario di Paolina e del fratello Eugenio, contento di ricevere quaderni e penne in regalo, preferiva sedere da sola all’ombra a giocare con una bambola fatta dalla zia, utilizzando stracci vecchi.

Tutto quello che Davide aveva appreso di quei tempi era merito dello zio e nel momento in cui, dopo aver varcato il cancello e iniziato a percorrere il vialetto, si trovò a passare sotto l’albero delle mele cotogne, non riuscì a controllarsi. Come successe ad Eugenio anni prima, anche lui sfogò nelle lacrime e nel riso tutta l’emozione vissuta nei racconti ascoltati e immaginati.

Paolina lo attese, precedendolo all’interno della casa rimasta uguale a come l’aveva conosciuta da bambina e, da allora mai più rivista, neanche quegli ultimi anni, perché Eugenio preferiva restare da solo. Sulla sinistra incombeva un camino enorme, di fianco una nicchia scavata nel muro con qualche mensola di legno serviva da scaffale per le provviste, nella parete di fronte un letto, più moderno delle brande usate in passato e, di fianco, una bassa cassettiera. 

In alto a destra una finestrella, piena di ragnatele e al centro un tavolo di legno grezzo con intorno qualche sedia con la seduta di paglia intrecciata.

Davide si guardava intorno e Paolina lo osservava. L’emozione gli si leggeva in faccia, capiva quanto fosse importante per lui conoscere il passato della sua famiglia, anche se le pareva un po’ eccessiva quella concentrazione, ai suoi occhi troppo intensa ed esagerata: cosa mai si aspettava di trovare tra quelle mura di pietra? I ricordi erano proprietà di chi ci aveva vissuto, Davide era come un estraneo e per lui non si sollevavano voci o richiami da un passato che invece per altri avevano significato tanto.

Quella prima visita lasciò Davide con l’amaro in bocca, anche se non la vedeva come una totale sconfitta. La vigna era stata troppo importante per Eugenio, doveva per forza esistere una traccia da seguire che lo avrebbe portato a lui.

Se suo zio aveva tenuto ben nascosta una parte di sé, non poteva di certo pretendere di riportarla alla luce semplicemente entrando dentro una vecchia casa e aspettandosi di trovare un baule pieno di tesori, alla portata di chiunque. Doveva avere pazienza.

Riaccompagnata Paolina, Davide si diresse direttamente a casa d’Eugenio e, una volta chiuso il mondo fuori, continuò nella ricerca. Per due giorni ancora respirò quell’aria viziata e quando l’odore di chiuso e la polvere iniziarono a rendergli difficile la respirazione, si convinse ad uscire e a lasciare la casa, stavolta per un tempo più lungo.

La vigna non aveva mai smesso di richiamare la sua attenzione, sapeva di doverci tornare e dopo aver caricato la macchina di qualche provvista e di coperte, e dopo aver fatto scorta di candele, percorse i pochi chilometri, si fermò davanti al cancello, lo aprì ed entrò. Con due viaggi scaricò l’auto e prese possesso della casa. L’interno lo conosceva già, decise di fare una passeggiate nel piccolo podere. Dopo aver lasciato le file ordinate dei tralci delle viti, s’incamminò seguendo quello che un tempo doveva essere stato uno stretto sentiero in leggera pendenza che conduceva all’orto e quindi alla sorgente.

L’acqua era fresca e lui bevve avidamente, con soddisfazione, usando le mani a mo’ di coppa. La terra era fangosa e scivolosa, in poco tempo i suoi pantaloni si riempirono di chiazze da ammirare con orgoglio. Ebbe la tentazione di saltare sulle pozze d’acqua e imbrattarsi le scarpe e i piedi, ma farlo lo avrebbe fatto sentire uno stupido e si trattenne. Diede ancora un’occhiata in giro poi tornò indietro ed avendo esaurito il terreno a sua disposizione, decise di aprire il cancello e uscire. Davanti a sé aveva la strada, oltre si estendeva il bosco, di lato si stagliavano gli ingressi dei vicini, varcati i quali si accedeva ad altre vigne e a case più o meno ristrutturate.

Decise di seguire la strada nella direzione opposta al paese, prestando attenzione alle macchine che gli arrivavano di fronte. Il primo cancello a pochi metri da lui era aperto e passandoci davanti buttò un’occhiata all’interno.

Il solito vialetto, a destra i filari delle viti, a sinistra la recinzione con la siepe alta, in fondo la facciata della costruzione. Una vera e propria villetta a dire il vero: due piani e una mansarda. Tettoia di legno e pergolato, ottimo d’estate per l’ombra e la frescura.

Davide si distraeva, perdendosi fra quei pensieri e, quando arrivò a mettere a fuoco la zona sotto il pergolato, si accorse di una presenza immobile e attenta che a distanza lo osservava a sua volta.

Stava per proseguire, imbarazzato per essere stato sorpreso a curiosare, quando vide un braccio muoversi e una mano fargli cenno di avvicinarsi.

Lentamente e visibilmente impacciato raggiunse l’uomo che, ora lo vedeva bene, stava seduto su una sedia a rotelle.

-       Chi sei?

Il dialetto della zona, un tempo parlato e capito alla perfezione, gli causò un’ondata d’emozione e senza pensarci rispose a tono.

-       Davide Canu. Mio zio, Eugenio Carta ha vissuto nella casa di fianco, durante la guerra. Lo conoscevate?

-       Vieni, avvicinati, voglio guardarti bene. Eugenio il figlio di Annina? Certo che lo conosco, dov’è, lui veniva sempre a trovarmi.

-       È morto, da diversi mesi ormai. Nessuno glielo ha detto?

-       Morto? Poverino…ma tu chi sei?

Davide, rendendosi conto dell’età avanzata dell’uomo si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che, sperava, si prendesse cura di lui. Non vedendo nessuno nei paraggi chiese all’uomo il suo nome e gli si sedette vicino, su una sedia di plastica, lasciata vicino alla porta d’ingresso della casa.

Dopo aver domandato, per altre tre volte, chi sei? L’anziano uomo si appisolò e lui rimase a guardarlo ripensando a suo padre che non era arrivato a quell’età e a suo zio che, se fosse stato ancora in vita, l’avrebbe presto raggiunta.

Nel momento in cui Davide si alzava piano dalla sedia per andar via, si accorse di un'altra persona, quasi di fianco a lui intenta a fissarlo con curiosità. Era stato colto in fallo, non aveva nessun diritto di trovarsi in quel posto, l’uomo poteva pensare qualunque cosa e gli occhi ancora umidi non lo rendevano di certo un tipo spavaldo e sicuro di sé, pronto a difendere le sue buone intenzioni.

-       Buon giorno, scusi l’invasione nella sua proprietà. Mi chiamo…

-       Davide, se non ho capito male! Buon giorno a lei, piacere di conoscerla.

Io sono Angelo. Ha conosciuto mio padre e le assicuro che solo qualche mese fa, a quest’ora, si sarebbe pentito di aver varcato quel cancello.

Vedendo l’espressione colpita di Davide, Angelo si affrettò a continuare:

-       No, non si spaventi. Lui avrebbe gradito la compagnia e le nuove

 conoscenze da queste parti si bagnano con un buon bicchiere di vino, stia certo che non si sarebbe fatto scappare l’occasione, invitandola dentro casa.

Ecco, in questo momento mi merito una sfuriata per non saper trattare un ospite. Mi scuso tanto, posso offrirle qualcosa da bere?

Davide al colmo dell’imbarazzo avrebbe volentieri riavvolto il nastro per tornare da dov’era arrivato, ma l’ospitalità non si rifiuta mai e poi l’uomo meritava attenzione, per il suo modo di fare, così sicuro di sé: tutto di lui esprimeva forza e virilità, difficile resistergli. Si ritrovò dentro la casa a prima vista ordinata, non troppo affollata di mobili e quelli presenti di un bel legno scuro e caldo. Bevvero del vino e, per conservarsi un po’ di forze da permettergli di alzarsi dalle sedie, lo accompagnarono con fette di pane e qualche fetta di salame. Davide riconobbe gli antichi sapori e l’aria che respirava, unita alla gradazione del vino, gli diedero subito alla testa, infiammandogli il viso.

Angelo lo notò e smise di riempirgli il bicchiere.

-       Così lei è il nipote d’Eugenio?

-       Sì. Vi conoscevate bene?

-       Abbastanza, anzi a dire la verità devo confessarle che conosco bene anche

lei. Eugenio non si stancava mai di tessere le sue lodi. Era sempre molto in pena, soprattutto da quando non aveva più sue notizie. Veniva spesso qui, nella sua amata vigna, poi improvvisamente iniziò a stare male e la malattia non gli permise più di camminare, fino ad impedirgli di alzarsi dal letto. Mi è dispiaciuto molto apprendere la notizia della sua morte. Mio padre non voleva crederci e forse esagero dicendo che da quel momento l’aggravarsi delle sue condizioni è stato repentino. Si conoscevano da bambini, dai tempi della guerra e io so che Eugenio gli ha affidato molti dei suoi segreti.

A quelle parole la mente di Davide iniziò a vorticare impazzita. L’uomo seduto là fuori era in possesso delle memorie di suo zio. Immediatamente però, lo sconforto prese il posto dell’euforia, se non ricordava le cose a distanza di pochi minuti, come poteva…

-       So a cosa sta pensando. Ma se avrà piacere di parlare con lei, lo farà, non  si preoccupi. Ci sono giorni in cui la memoria gli dà tregua e c’illudiamo che possa tornare ad essere l’uomo di prima. Non dura a lungo, ma succederà ancora. Lei si tratterrà qui, in campagna?

-       E’ quello che voglio sì, se non disturbo verrei volentieri a trovarvi, anche domani, se non ha niente in contrario.

-       Perché aspettare domani, che ne dice di farci compagnia per cena? Mia madre adesso non c’è, è andata in paese, con mia sorella, ma saranno felici di conoscere il nipote di Eugenio. Sa, lui non si faceva convincere, era di buona compagnia, nonostante quell’aria un po’ burbera e a volte pensierosa e lontana, se non era dell’umore adatto allora non si avvicinava nemmeno e i miei genitori rispettavano quei momenti.

Davide accettò l’invito e dopo aver salutato zio Piero e Angelo ritornò alla vigna. Seduto sull’erba, sotto l’albero delle mele, di fianco alla casa, poteva vedere la parte alta della villetta, la mansarda, forse l’ambiente dove Angelo viveva, ma poi chissà, magari non abitava con i genitori, aveva circa la sua età, poteva benissimo vivere per conto proprio o magari avere una famiglia che lo aspettava in paese. Un po’ per colpa del vino, un po’ per la leggera brezza che gli metteva in disordine i capelli, da settimane ormai trascurati e lasciati liberi di formare ciocche ribelli sulla fronte e sulle orecchie, Davide cedette alla stanchezza e si addormentò, sdraiato sull’erba.

A svegliarlo fu il fresco della sera che lo costrinse ad entrare in casa per indossare una maglia. L’avvicinarsi del buio gli ricordò l’assenza della corrente elettrica. Posizionò diverse candele su di un piatto poggiato sopra il caminetto, vicino ai fiammiferi e dopo essersi accertato che al rientro dalla cena avrebbe trovato tutto al giusto posto, prese la torcia e, chiusa la porta di casa, percorse il breve vialetto, uscì dal cancello e, tenendosi sulla cunetta - macchine non ne passavano, ma meglio essere prudenti - percorse i pochi metri che lo separavano dal successivo ingresso e si ritrovò di nuovo nella proprietà dei vicini.

A quel punto spense la torcia perché il vialetto era illuminato da una fila di bassi lampioni che segnavano la strada sino alla casa. I proprietari si muovevano all’interno e per Davide vedere le sagome di quelle persone sconosciute passare davanti alle finestre chiuse, con le tende tirate, a proprio agio tra gli oggetti a loro cari, fu come tornare indietro: al “prima”. Prima della partenza, prima dei vicoli bui, prima degli studi fotografici, prima del lavoro di porno attore.

Il suo prima era stato simile a questo: aveva avuto una famiglia e diversi parenti. 

Fu quello che, crescendo, andava scoprendo di sé che lo mise a disagio e la sensazione di paura era aumentata in proporzione alle offese ricevute. Era sconcertante come ogni suo movimento, ogni sguardo sollevato da terra avesse firmato la sua condanna a morte. Più si sforzava di non pensarci, più cercava d’essere “normale” e più si sentiva trafitto da spade affilate e taglienti.

Il suo prima era lontano, ma ci sono ferite che neanche il passare degli anni riescono a rimarginare del tutto: basta poco per tornare a sanguinare copiosamente. Ad un tratto l’immagine d’Eugenio si presentò a Davide con una chiarezza tale da spaventarlo, tanto sembrava reale. Si fermò sulla porta e prima di bussare ripensò a lui, lo zio che non aveva avuto modo di conoscere a fondo e che in quell’istante, in quello che sentiva di dover battezzare come il vero inizio del suo “dopo”, rivide seduto sulla poltrona di pelle della nonna a leggere e a raccontare. Come aveva fatto a nascondere la sua vera natura? Com’era stato vivere una storia d’amore, ai suoi tempi? Perché ora lo sapeva, Eugenio aveva amato un altro uomo. In quell’istante un pensiero forte attraversò la sua mente e si posò leggero sulle labbra: “Fatti trovare!”

 

Sei. Luce.

 

Durante la cena Davide, come aveva facilmente intuito, si ritrovò a rispondere ad una raffica di domande; quando si sentiva messo alle strette glissava, portando la conversazione su altri argomenti. Angelo lo osservava, non faceva domande, preferiva studiare i suoi gesti, sorridendo e ammirandolo fra sé per l’abilità che mostrava nel tirarsi indietro, rientrando prontamente nel suo guscio.

Osservava l’espressione dei parenti: sua madre intenta a riempirgli il piatto di cibo, suo cognato vantare la vendemmia dell’anno precedente, nello stesso momento pronto a riempirgli il bicchiere. Sua sorella, incuriosita dagli anni vissuti a Londra, era quella che, se fosse stato possibile, lo avrebbe trattenuto tutta la notte. Non si stancava di sentirlo parlare di una città che lei adorava, e che lui, nonostante tutto, aveva imparato ad amare. Se ci si avvicinava pericolosamente al limite del personale Davide, per prendere tempo, sorseggiava un po’ del suo vino, si guardava intorno e una volta per un complimento alla padrona di casa, un’altra per informarsi sulla salute dell’anziano uomo, a fine pasto addormentato sulla sua sedia, la conversazione proseguiva oltre.

Il primo tentativo di alzarsi dalla sedia fallì miseramente e fu Angelo con gesto naturale a porgergli la mano per poi guidarlo sul divano. Le due donne rimasero sedute a chiacchierare tra loro, Enzo, il cognato, uscì e si sedette su un sedile in granito, di fianco alla porta, a fumare una sigaretta.

Davide e Angelo, nel frattempo passati a darsi del tu, erano riusciti a scambiarsi qualche informazione personale. Per quel poco che si dissero, uno aveva studiato ed era diventato agronomo, spesso si assentava per lavoro, seguiva le coltivazioni degli agricoltori della zona, non mancava di dare una mano ai genitori, viveva, felicemente, ancora in quella casa, aveva pochissimo tempo per sé.

L’altro aveva vissuto per diciannove anni in paese, aveva studiato e poi si era trasferito all’estero, lì aveva vissuto diversi anni, fino a decidere di tornare a casa; anche in quella conversazione non ci furono domande indiscrete, ognuno disse ciò che si sentiva e questo fu apprezzato da entrambi.

Davide rifletteva sul fatto che fosse ora di andare via ma aveva il timore di fare brutte figure, il suo stomaco accusava una pericolosa forma di ribellione e muoversi poteva causare l’irreparabile. Si vide costretto a confessarlo e Angelo cercò di metterlo a proprio agio.

-       Non ti devi preoccupare di nulla. Per stanotte puoi benissimo stare qui, nella stanza degli ospiti. Devi solo…forza..ecco fatto…farti guidare.     

Davide stava peggio di quanto temesse, riuscì comunque a raccogliere gran parte della sua dignità, raggiungere la camera, con il bagno indipendente, grazie al cielo e, una volta rimasto solo, dire addio a tutte le etichette del bon-ton, smettere di opporre resistenza e finalmente, liberarsi del peso.

Durante la nottata riuscì a riposare, si svegliò in ogni caso presto e con la testa dentro ad un pallone, quando uscì dalla stanza, in silenzio per non disturbare i padroni di casa, si ritrovò invece in pieno svolgimento di giornata. L’anziana donna era appena rientrata dall’orto e si accingeva a preparare le verdure per un ricco minestrone. Una signora, assente il giorno precedente, si occupava di zio Piero. Mentre lo aiutava a fare colazione a Davide fu offerto il caffè, quindi si sedette anche lui a tavola, cercando Angelo con lo sguardo, e scambiando qualche parola con l’uomo, apparentemente più lucido. Si ricordava di lui, si ricordava, cosa più importante, d’Eugenio, ma non disse nulla riguardo ad un ipotetico segreto custodito chissà dove. Non gli sembrava troppo realistico, a quel punto delle sue ricerche, fare affidamento sulla memoria labile di un uomo anziano e quella mattina la realtà gli si mostrava in tutta la sua chiarezza. Il giorno prima di certo aveva prevalso l’istinto: la speranza e l’euforia gli avevano giocato un brutto scherzo.

Non voleva neanche concentrarsi troppo sul ricordo della sera precedente, quando aveva sentito lo sguardo di Angelo trafiggerlo, senza lasciarlo un attimo.   

Finita la colazione zio Piero fu lasciato da solo e Davide si trattenne ancora un po’ con lui. Ascoltò i ricordi confusi, incoerenti, e quando vide la stanchezza appesantirgli le parole e gli occhi, lo salutò con una carezza e andò via. La moglie, ancora dinamica e piena di vita, si scusò per lui e lo invitò a ritornare. C’erano momenti in cui quell’uomo stupiva tutti, riprendendo piena coscienza di sé, raccontando episodi passati che nessuno più ricordava, tranne la sua memoria. La sua lucidità in quei momenti era incredibile.

-       Torni a trovarci, sono sicura che la prossima volta si ricorderà di suo zio.

-       Certo, tornerò volentieri. Buona giornata e grazie di tutto.

-       Oh, è stato un piacere averla con noi. Ah, dimenticavo: Angelo ha dovuto partire molto presto, ma mi ha raccomandato di dirle che spera di rivederla.

-       Starò qui qualche giorno, sarà facile rincontrarsi, lo spero anch’io. Suo figlio è una persona in gamba, deve esserne orgogliosa.

-       Certo che lo sono, anche se mi fa ancora disperare. Lui si arrabbia quando ne parlo, ma non posso trattenermi; che cosa avete voi giovani contro le donne e il matrimonio? Sempre da solo: lavora tanto, esce qualche volta con i colleghi, cenano insieme alle loro mogli e lui? Niente, possibile che non ci sia una donna che gli piaccia? Dice di no, e poi mi rimprovera quando gli faccio delle domande. Mah, morirò senza la consolazione di un nipote; perché poi c’è anche quella testarda di sua sorella. Lei si è sposata, ma ancora i figli devono aspettare: prima deve pensare a se stessa. Sa dove vuole andare? Indovini? Esatto, a Londra, ma cosa ci sarà mai in quella città ad attrarvi tanto?

Mi scusi, se mi sono sfogata con lei, se lo viene a sapere Angelo è capace di non parlarmi per una settimana: certi argomenti sono vietati in questa casa.

-       Non si preoccupi, non dirò niente, però stia tranquilla, anche Angelo, come me, forse vuole aspettare d’innamorarsi. Non gli interessa avere una storia qualsiasi, aspetta di trovare la persona giusta. Deve avere pazienza e non s’arrabbi.

-       No, e chi s’arrabbia più! Ora devo andare, a presto allora.

Davide s’allontanò scuotendo la testa e sorridendo tra sé stupito per la recente conversazione. Di certo scendendo dall’aereo, solo poche settimane prima, si era verificato uno scambio: un altro doveva aver occupato il suo posto, come spiegare altrimenti un comportamento simile? Samuel ascoltandolo lo avrebbe preso per il culo a vita: - Che cazzo dici, ti sei rincoglionito? 

Chiaramente, non poteva spiegare a quella simpatica donna che il principe azzurro a volte, per chi ha fortuna, arriva sul suo cavallo bianco e, ignorando la bella addormentata nel bosco, si fionda sul guardiacaccia. Non ci pensava minimamente a traumatizzarla, però quell’aria da idiotabravoragazzo un po’ lo faceva sentire ridicolo. Ci aveva messo una vita a costruirsi la sua bella corazza, ed erano bastati pochi giorni per alleggerirsi ed esporsi al rischio di un coinvolgimento sentimentale. Voleva psicanalizzarsi? Era facile: quella famiglia poteva essere la sua famiglia. Non sapeva più da tanto tempo che cosa si provasse a vivere una situazione come quella avuta nelle ultime ore, il termine stesso di famiglia per lui aveva perso di significato, però doveva ammettere che la sensazione non gli era dispiaciuta affatto.     

I giorni seguenti le cose con zio Piero non cambiarono. La mente di Davide costruiva castelli, continuava ad immaginare storie con Eugenio protagonista.

Allo stesso tempo la mancanza di comodità in quel luogo lo riportava alla realtà, obbligandolo ad ingegnarsi per far fronte alle diverse esigenze. Per i pasti non era un problema, c’era una piccola cucina da campo fornita di bombola a gas, poteva cucinare, se lo voleva. Non esisteva però, un impianto idraulico, quindi mancava l’acqua corrente; per lavare le posate o il tegamino che utilizzava, doveva scendere nell’orto; anche per la cura personale, stessa cosa, l’unica fonte sorgeva lontana dalla casa e lì si doveva recare per le abluzioni mattutine. Le prime volte si era accontentato di denudare la parte superiore del corpo, aveva riempito un secchio di plastica e, usando una saponetta, era riuscito ad uscirne abbastanza soddisfatto. La parte inferiore però, reclamava la sua attenzione e anche quella, in qualche modo, fu accontentata. Al terzo giorno s’era voluto spingere oltre. Bisognava solo prendere confidenza con il posto, una volta superato l’imbarazzante sguardo fisso degli uccelli che si posavano sulla vegetazione accanto a lui, incuriositi dall’insolito spettacolo, decise di accontentarli. Attese l’ora più calda, verso mezzogiorno prese un telo di spugna, il cambio dei vestiti e raggiunse la sorgente. I raggi del sole in quel punto alto sopra di lui, riuscivano a penetrare l’interno della vegetazione, creando una zona di luce calda. Si spogliò completamente e, dopo aver riempito il secchio, si preparò all’impatto. Versò l’acqua dalla testa urlando per lo shock, afferrò la saponetta e sfregò, prima i capelli, poi il resto del corpo, immergendola diverse volte e riempiendosi di schiuma. Al momento del risciacquo, con gli occhi pieni di sapone, si accorse di quanto persistente fosse quel senso di viscido, anche dopo altre due bacinelle di liquido. Il freddo era diventato insopportabile e stava per mandare tutto al diavolo maledicendo se stesso per l’insana idea, quando la voce di Angelo alle sue spalle, gli fece spalancare gli occhi: rossi e irritati dal sapone.

-       Sta’ fermo, che ti aiuto. T’invidio sai? E’ un esercizio rigenerante che amo  fare anch’io…ma preferisco aspettare l’estate…più adatto sarebbe il mese d’agosto…accidenti che coraggio, non mi sognerei mai di provarci in questo periodo.

Angelo parlava e intanto gli versava sul corpo acqua gelida come se stesse spegnendo un incendio. Davide non aveva nemmeno la forza di rispondere, già respirare era quasi impossibile e quando il sadico si ritenne soddisfatto mise fine al supplizio, porgendogli il telo di spugna. Avvolto nel telo, Davide iniziò a tamponare la pelle, nel tentativo di riscaldarsi, nel frattempo cercando di allontanare l’immagine di sé, del suo corpo nudo, della presenza di un altro uomo, piuttosto attraente, dotato di due mani forti e decise, impazienti di massaggiare la sua schiena attraversata dai brividi. Non si sentiva in imbarazzo anzi, era tutto molto eccitante e se Angelo era presente e non solo, se continuava a stargli così vicino, concentrato sulla sua pelle, ancora umida in quelle zone ricoperte da una leggera peluria, a lui andava benissimo e si poteva notare.

-       Ero venuto a cercarti per dirti che mio padre vuole parlare con te. Se qui hai finito ti consiglio di andare subito da lui. Non so quanto a lungo possa mantenersi così lucido.

Senza guardarlo in faccia Angelo era come ipnotizzato da quel corpo che non aveva smesso di accarezzare, segnando con le dita le linee del petto, dell’addome segnato da muscoli perfetti, fino a sfiorare il membro completamente eretto, pronto a farsi racchiudere da quella mano calda.

-       È meglio andare, allora.

-       Sì, credo di sì. Ti aspetto a casa.

“Ti aspetto a casa! Cazzo, cosa stava accadendo? Quello non era il set di un film e Angelo non era il suo partner. A voler giocare così si finisce col farsi del male. Merda”

Rivestendosi in fretta con ancora la sensazione ardente delle mani di Angelo sul suo corpo e con l’ansia di ricevere notizie su Eugenio e sui segreti affidati a quel buon uomo, Davide percorse il sentiero inciampando e scivolando, mentre s’inerpicava nella leggera salita e poi correndo, una volta raggiunta la stradina polverosa. Oltre i due cancelli non restava che attraversare il vialetto e già lo vedeva in fondo, seduto sulla sua sedia.

Angelo era sparito, ma non pensava più a lui. Si sedette nella solita sedia di plastica, afferrò le mani di Piero e, dopo un lungo sospiro, aspettò di sentirlo parlare. Egli non parlò, non subito almeno; lo fece alzare e gli indicò i manici della sedia, puntando poi un dito verso l’angolo della casa, oltre il quale si arrivava a raggiungere una costruzione bassa, una sorta di garage. Per entrarci Davide dovette sollevare una pesante porta basculante di legno. La luce del sole, entrando all’interno, illuminò oggetti di vario tipo: dalle biciclette, alla pressa per l’uva, dai svariati attrezzi da giardino, alle cassette piene di bottiglie di vetro, per le conserve. Dalle scatole sigillate dal nastro adesivo, agli scaffali contenenti tutto ciò che in casa era diventato inutile.

Piero in mezzo al caos individuò un punto esatto e su quel punto invitò Davide ad abbassarsi, quando questi toccò una vecchia valigia di cartone marrone, con diversi punti di rattoppo, si sentì venir meno. L’uomo si era perso nel suo mondo, a cosa gli sarebbe servito quel pezzo d’antiquariato?

Il sorriso sdentato che aveva di fronte a sé sembrava smentirlo e, suo malgrado, si convinse a tirare su, di peso, quella valigia dal manico rotto che, n’era quasi certo, conteneva chili di piombo.

-       Quella è per te. Eugenio mi ha fatto promettere di bruciarla se entro un anno tu non fossi venuto a cercarla. Credo ne siano trascorsi di più e di questo devi ringraziare la mia scarsa memoria. Adesso questa valigia di ricordi è tua, va’ dunque, non sei curioso di sapere cosa contiene?

Davide, con lo sguardo fisso non riusciva a decidersi, gli sembrava assurdo: una valigia! Eugenio aveva protetto i suoi segreti dentro una valigia di cartone, ma cosa gli diceva la testa? Che cosa mai avrebbe trovato lì dentro?

-       Sì, vado, vado. Grazie.

Trascinò quel peso oltre la soglia del magazzino, rientrò dentro, portò fuori anche Piero e, dopo averlo lasciato alle cure della moglie, tornò indietro; mentre pensava di andare a prendere la macchina, Angelo gli si materializzò accanto offrendogli un passaggio con la sua fino alla casetta.

Non si dissero niente e al momento di salutarsi bastò uno sguardo, poi ognuno andò per la propria strada.

Davide trascorse il resto del pomeriggio in uno stato di frenesia, cercava di calmarsi e intanto, quasi per gioco, girava la punta di un coltellino nelle serrature arrugginite. L'ultimo scatto lo immobilizzò, poi dolcemente sollevò il coperchio e osservò l’interno. Seduto per terra con le gambe incrociate non si decideva a prendere in mano nemmeno uno delle centinaia di quaderni che riempivano quello spazio. Vide anche una scatola bassa e iniziò da quell’oggetto in apparenza meno carico d’ aspettative. Le fotografie contenute vennero fuori non appena spostò il coperchio, alcune caddero per terra, le altre rimasero incollate le une alle altre, sul fondo del contenitore di cartone. Cercando di separarle con delicatezza, iniziò ad osservarle, all’inizio con scarso interesse, poi sempre più affascinato. Riconobbe Eugenio, in quasi tutte e solo in alcune lo vide in compagnia di uomini e donne, a lui sconosciuti, però lo riconobbe mentre sorrideva, immortalato in pose sciocche, innocenti e amichevoli vicino a…Davide sentì l’emozione accelerargli i battiti sì, quello era Pierre e gli piacque subito.

Prese le fotografie una per una, mettendo da parte quelle della coppia. Dietro ad ognuna spiccava una frase d’amore, una dedica, una breve poesia. Il luogo e la data. In quegli scatti, per chi li osservava col cuore, si apriva un mondo fatto d’amore.   

Dopo le fotografie si decise a prendere in mano il primo quaderno, quello in cima a tanti altri, uguali per colore e forma. Eugenio aveva scelto sempre lo stesso genere, in ricordo del primo regalo ricevuto da un soldato, diventato suo amico. Davide conosceva la storia ma a leggerla sulle pagine, arricchita da un torrente di parole d’affetto nei confronti di quella persona, si sentì trascinare all’interno d’emozioni, più forti e dolci della semplice gratitudine.

Non potendo soddisfare la curiosità tutta nello stesso momento, in quel primo contatto s’accontentò di sfogliare le pagine a caso, con la massima cura, prestando attenzione, nel riporli, di rispettare lo stesso ordine.        

Arrivò, per caso, a voltare la copertina del primo quaderno poggiato in cima ad una serie evidentemente più recente rispetto ai precedenti.

Sulla prima pagina, scritta con l’inchiostro nero, una dedica campeggiava orgogliosa e carica di tutta la speranza che Eugenio, se avesse potuto vedere le lacrime sulle guance del nipote, avrebbe ritenuto ben riposta.

Le ombre della sera stavano oscurando gli oggetti intorno a lui e, per sfruttare ancora un po’ di luce, Davide trascinò la valigia fin quasi sull’uscio. Voleva leggere ancora quella dedica, imprimersi nella mente la sensazione di gioia mista ai singhiozzi. Il buio continuava a scendere, implacabile e insensibile al suo stato d’animo, le parole non si distinguevano più, ma ormai si erano fissate negli occhi:

A Davide, con affetto. Eugenio.

“Ti ho trovato. Mi hai trovato.” 

Quella dedica divenne la sua luce!

 

Rientrare in paese, affrontare gli sguardi dei passanti, programmare le sue giornate cercando di dargli un’impronta di normalità, richiese a Davide un grande sforzo. Riprese l’abitudine ad alzarsi presto, attraversare il paese e raggiungere la passeggiata sul lungomare in una corsa solitaria, come d’altronde solitario era anche il resto della giornata. Dopo la doccia si vestiva e usciva per l’acquisto di qualche provvista, non sempre andava a trovare Paolina e quando desiderava cambiare aria noleggiava una macchina per raggiungere altre località. 

A casa d’Eugenio il tempo sembrava fermarsi. Leggendo i quaderni conobbe meglio suo zio e non solo. Gli fu più chiara anche la figura di Paolina e da ciò che leggeva gli sembrava impossibile potesse esistere una persona disposta a vivere una vita intera con il cuore appesantito da un amore totalizzante, mai ricambiato.

Un giorno le mostrò la fotografia, quella da lui conservata gelosamente, e le domandò chi l’avesse scattata nel lontano 1957.

-       Sì, mi ricordo di quella giornata. Fu Pierre, l’amico d’Eugenio a scattarla.

 Eugenio insisteva per chiedere ad un passante il favore di riprenderci tutti e quattro insieme, ma mi opposi: lui non c’entrava nulla con noi. Lui non faceva parte della nostra famiglia.        

-       Ma con lo zio non vi siete mai sposati, non avete mai vissuto insieme, neanche quando è tornato qui in paese.               

-       Cosa dici, certo che no, lui ha sempre vissuto da solo, non ho mai messo piede in questa casa, se non per assisterlo durante la malattia e stargli vicino nel momento in cui mi ha lasciata da sola. Nessuno ebbe niente da ridire allora.

No, non mi ha sposata, anche se l’ ho desiderato. Ad un certo punto però ho smesso di farlo, non m’interessava più diventare sua moglie, lui sarebbe venuto da me e io lo avrei accompagnato per il tempo che ci sarebbe stato concesso vivere. Così è stato, lui è tornato a casa e io gli sono stata vicina a curarlo e confortarlo.

-       Non ti è mancato un uomo che ti amasse, una famiglia, dei figli?

-       Io ho avuto il mio uomo, un uomo che non poteva amarmi ma al quale ho donato tutta me stessa. Non il corpo ma la parte che ho sempre reputato mille volte più importante: la mia stessa vita.

-       Zia, lo sai perché non poteva amarti, come avresti desiderato?

-       No, e non lo voglio sapere. Lui è tornato da me e da quel momento il suo passato non mi riguardava più. Doveva succedere prima o poi, Eugenio aveva scelto una strada sbagliata, con persone sbagliate, ma sentendo avvicinarsi la resa dei conti è rinsavito e io ero qui ad aspettarlo.

A quelle parole Davide sentì un brivido corrergli lungo la schiena e un presentimento bruciargli forte nel petto. Non ebbe il coraggio di indagare oltremodo, sottoponendo la donna ad un interrogatorio, ma non escludeva la possibilità di un suo intervento nell’uscita di scena di Pierre.

Eugenio aveva riversato tutta l’angoscia e disperazione nelle pagine dei suoi quaderni, aveva cercato di capire i bisogni del suo compagno, e la determinazione ad andarsene via lo avevano disorientato.

Aveva descritto serate trascorse in allegria con il suo uomo e Paolina. Ma anche giornate che spesso si concludevano con furibondi litigi, dove lei veniva incolpata di esternare un’assurda gelosia e Pierre veniva messo a tacere con l’offesa di vivere da parassita: ospite eterno alle spalle della generosità dell’amico. Suo zio si lamentava di quelle sfuriate e dopo aver riaccompagnato la donna alla stazione, rientrava a casa, impaziente di stringere tra le braccia e rassicurare l’unica persona verso la quale provava un amore incondizionato.

No, Davide non poteva credere al pentimento, quello di Eugenio e Pierre era un amore destinato a durare negli anni, a meno che qualcuno dall’esterno non avesse fatto in modo di provocarne la rottura. Non poteva esserne sicuro al cento per cento ma aveva il sospetto che Paolina c’entrasse molto più di quello che lasciava intendere.

 

Sette. Nuovi album da sfogliare.

 

Con il passare dei mesi e a causa dei nuovi impegni che lo trattenevano in paese, Davide non ebbe modo di recarsi alla vigna e salutare la famiglia di Piero. Gli capitò l’occasione giusta un’afosa mattina d’agosto. Poteva unire l’utile al dilettevole, occupandosi di due cose nella stessa mattinata. Per prima cosa l’appuntamento con dei lontani parenti della madre e della zia, proprietaria della vigna. S’erano fatti avanti i figli di quei cugini che in origine s’erano disfatti di terreno e casa. Davide non sapeva bene come comportarsi, certo gli sarebbe dispiaciuto rinunciare alla vigna ma che cosa poteva farsene? Sino ad allora c’era stata una persona pagata per occuparsene, ma a che pro continuare a farlo?

Non sarebbe stato meglio darla a qualcuno che la valorizzasse, magari vivendoci definitivamente? Non capiva molto d’eredità ed era quasi determinato a rinunciare alla sua parte pur di non essere messo in mezzo a beghe tra parenti. Non risolse niente nemmeno dopo l’incontro con la coppia presentatasi all’appuntamento. Sembravano brave persone, ma Davide disse loro di volerci vedere chiaro; voleva vedere gli atti di vendita, rendersi conto della situazione reale, non voleva prendere decisioni affrettate, perciò si misero d’accordo per un altro appuntamento. Davide si fidava dello zio, sapeva della sua attenzione ad ogni particolare e non lo riteneva capace di lasciare in sospeso una cosa così importante.

Andati via i parenti visibilmente contrariati, il piacere di rivedere zio Piero gli fece dimenticare quei grattacapi. Arrivò sotto il pergolato, dopo aver attraversato l’ormai familiare vialetto. Tra i filari sulla destra del cammino, l’uva faceva bella mostra di sé. Grossi e succosi chicchi appesantivano i grappoli anche nel pergolato davanti all’ingresso della casa: le mosche e le api ronzavano tutt’attorno. C’era silenzio e Davide non si decideva a bussare, non vide la macchina di Angelo e non volendo disturbare si voltò e tornò indietro.

Il caldo era insopportabile, davanti ai suoi occhi il paesaggio tremolava come fosse un miraggio, sudava in modo esagerato e d’improvviso gli vennero in mente le parole di Angelo, mesi prima alla sorgente: solo in agosto si poteva sopportare una doccia con quell’acqua gelida, all’aperto. Il mese era quello giusto, la necessità di alleviare il calore stava diventando urgente, la fonte era a sua disposizione, che cosa lo tratteneva dal raggiungerla?

Il pensiero dell’acqua, la sensazione di frescura, gli mise le ali ai piedi e in pochi minuti raggiunse il posto. Si spogliò in fretta e utilizzando il secchio dimenticato sopra un muretto coperto di rampicanti, per la seconda volta urlò di dolore e piacere allo stesso tempo, quando l’acqua gelida aggredì il suo corpo.

La reazione fu immediata: l’eccitazione provocata dal contrasto delle due sensazioni attirò l’attenzione verso quella parte di sé disinibita e senza pudore. Abbracciato dal silenzio e dalla pienezza del mondo attorno a lui, lasciò alla sua mano il compito di soddisfare un desiderio trascurato e in procinto di scoppiare. Il nome di Angelo venne fuori insieme all’abbondante getto che raggiunse l’erba sotto ai suoi piedi. Mentre osservava il liquido biancastro scivolare denso sulle tenere foglioline venne assalito dalla malinconia e, ripensando alla storia d’amore tra Eugenio e Pierre desiderò vivere un amore vero ed intenso. Angelo era stato la persona che dopo Londra aveva risvegliato la sua coscienza. Si era punito abbastanza, impedendo al suo cuore d’amare, era arrivato il momento di riscattarsi, pretendeva la sua parte di felicità; forse Angelo non era la persona giusta ma vicino a lui, se ne rendeva conto, quella brutta sensazione d’inadeguatezza sembrava sparire.

 

La lettura assidua portò ben presto Davide a riporre l'ultimo quaderno contenuto nella valigia. A quel punto sapeva tutto di Eugenio: la sua adolescenza, gli studi, le passioni. Conosceva la sua storia d’amore, la passione che l’aveva nutrita per anni e il dolore vissuto per la perdita. Sapeva del ritorno alla casa dei genitori e la sua esistenza solitaria. Aveva conosciuto Paolina, vista con gli occhi di un uomo che aveva accettato d’essere amato ma che non sarebbe mai stato capace di ricambiare. 

Suo zio aveva vissuto intensamente e se esisteva un messaggio in quei racconti di vita non poteva essere più palese e chiaro di come lo aveva percepito, fin dalle prime letture: c’era voluto del coraggio nell’esistenza di quegli uomini, determinati a vivere il più intensamente possibile la loro storia d’amore. Un coraggio e una forza più forti della società nella quale avevano vissuto. Davide avrebbe desiderato possedere la metà di quel coraggio che gli permettesse di togliersi di dosso, una volta per tutte, il timore di essere sé stesso, la paura di confessare un amore, di accarezzarlo alla luce del sole. Le ultime letture avevano aperto uno spiraglio, in quella porta da anni sigillata e già il desiderio di un cambiamento nel regime che s’era imposto lo faceva sentire più leggero.

Per il successivo mese di settembre, sei mesi dopo il suo arrivo in paese, si ripromise di non rinunciare a quella leggerezza e iniziò a guardarsi intorno. Osservava le persone, uomini soprattutto, chiedendosi come sarebbe stato passeggiare con uno di loro, parlarci, baciarlo, farci l’amore senza sentirsi in bocca il sapore freddo e metallico della farsa.

Aveva intensificato gli allenamenti giornalieri aggiungendo al solito percorso anche l’attraversamento di una pineta posta alle spalle della spiaggia, oltre la strada. Era un posto tranquillo e al mattino presto poteva incontrare qualche sportivo come lui, raramente del posto, anche se qualcuno iniziava a vincere le critiche di amici e parenti contrari a quel genere di passatempi, visti come forma di esibizionismo.

Fu durante l'ultimo giro, prima di imboccare la ciclabile che lo avrebbe riportato verso casa, che un uomo con il respiro pesante ma non trafelato lo affiancò.

-       Salve, vengo spesso qui e sono certo di non averti mai visto.

-       Beh no, ho aggiunto questo percorso da pochi giorni.

Davide voltò lo sguardo verso l’uomo, individuando subito il genere: fisico ben definito, senza l’ombra di un pelo, viso curato e liscio, taglio di capelli perfetto. Sembrava uscito da un centro estetico. Completino di marca…eh sì, quanti uomini aveva conosciuto simili a lui? L’odore del sesso gli arrivava al naso insieme al profumo della crema che si era spalmato sulla pelle e a quello del sudore. L’insieme era molto eccitante e il desiderio di scopare in quel momento aveva già superato i buoni propositi di ricerca del Principe Azzurro. L’amore sarebbe arrivato, forse, ma al momento l’astinenza gli premeva contro, le intenzioni del bel manzo di fianco a lui lasciavano ben poco all’immaginazione e quando, finito il giro di corsa, quello si inchinò, posando le mani sulle ginocchia per prendere respiro, il culo in bella vista, non resistette e prendendolo per un braccio lo attirò verso l’interno della pineta, augurandosi che quel cacciatore andasse in giro con un preservativo tra le mutande.

Il posto non era tra i più comodi ma per fortuna trovarono uno spiazzo sabbioso e lì Davide lo spinse a terra raggiungendolo nell’attimo stesso in cui toccava il suolo. I preliminari in certi casi sono una perdita di tempo, Davide era pronto, il compagno pure, il sudore che aveva reso la pelle come seta, servì anche da lubrificante e quando le dita toccarono il morbido ingresso del suo culo vi scivolarono dentro senza trovare resistenza alcuna. L’uomo faceva troppo rumore, per i gusti di Davide e il timore di essere scoperti lo convinse ad accelerare, intanto nella sua mano il preservativo si era materializzato, senza aver capito bene da dove l’altro l’avesse tirato fuori. Indossandolo e, senza troppe cerimonie, penetrando quella bellezza, molti ricordi gli tornarono alla mente. Le spinte furono davvero poche, venne quasi subito e l’uomo sotto di lui sembrò non gradire, continuando a gemere. Davide lo fece girare e quando l'uomo lo tirò a sè Davide accettò e si chinò a baciarlo, a leccarlo. Iniziò dalle palle e poi la lingua iniziò a lavorargli l’asta, quando raggiunse il glande, prendendolo delicatamente tra le labbra e stuzzicando la punta con la lingua, gli oooooh diventarono più rauchi e più forti. Un attimo prima di portarlo all’orgasmo si staccò da lui e osservò il seme schizzare fuori, colpendogli il ventre piatto e lucido.         

La realtà intorno ai due uomini riprese i suoi contorni, anche se Davide non aveva smesso un attimo di prestare attenzione a ciò che lo circondava. Era stato solo un esercizio fisico gradito da entrambi e dopo qualche scambio di sorrisi, mentre si scrollavano la sabbia dal corpo si diressero verso il punto in cui gli alberi si diradavano. Lasciata la pineta alle spalle ripresero la stradina asfaltata. 

Non c’era imbarazzo nel silenzio che accompagnò quel breve tragitto, Davide non poteva sapere cosa passasse per la testa dell’uomo che gli stava accanto e di sicuro non gli interessava saperlo. L’altro pensava che non sarebbe stato male ripetere lo stesso gioco anche l’indomani, anche se l’espressione del viso gli diceva chiaramente di non pensarci nemmeno.

-       Se capiti di nuovo da queste parti…

-       Perché no!

-       Allora ciao.

-       Ciao.

Davide si allontanò da quel luogo e dimenticò l’uomo. Si sentiva addosso una strana tristezza e, cacciando indietro le lacrime, prima lentamente poi via via più convinto riprese a correre per raggiungere casa quanto prima.

Casa d’Eugenio era ormai casa sua. Quella lasciatagli dai genitori, aveva deciso di venderla. Il nuovo proprietario aveva in mente di ristrutturare tutta la palazzina e ricavarne un negozio d’abbigliamento distribuito su due piani. A Davide non importava molto delle sorti di quella casa, aveva scelto di abitare il luogo che gli trasmetteva più emozioni ed era lì che voleva restare.

Settembre era stato il mese della vendemmia e lui per una settimana si trasferì nella vigna. Dopo le prime piogge la temperatura si era abbassata di qualche grado, pur essendo ancora gradevole, di fare docce all’aperto non ne aveva la minima intenzione, riuscì a tenersi pulito ma trascurò la barba che dopo qualche giorno divenne bella folta.

L’ultima sera, quando la raccolta dell’uva terminò, prima di procedere alle fasi successive, a casa di Piero fu organizzata una cena. Erano presenti gli uomini e le donne che avevano preso parte alla raccolta e l’atmosfera era animata e festosa. La mamma di Angelo era particolarmente eccitata: accanto al figlio aveva fatto sedere una giovane donna. Figlia di una coppia di vicini, era appena rientrata da Roma, fresca di laurea avrebbe intrapreso la carriera di giornalista e, prima di ripartire per il master, avrebbe trascorso qualche settimana con i suoi.        

Davide osservava Angelo scherzare con gli uomini, alzarsi in continuazione quando a tavola mancava qualcosa, ridere con la donna seduta accanto a lui per una battuta o quando i rispettivi genitori, anche Piero quella sera sembrava più presente del solito, raccontavano vecchi aneddoti.

La sua attenzione era catturata dalle mani che afferravano, stringevano o semplicemente riposavano sulla candida tovaglia di lino, quella dai fini ricami, riservata alle occasioni spaeciali. Cercava il termine giusto per definirle e gli venne in mente “intelligenti”. Chissà da dove gli arrivava quella definizione, di sicuro non era opera sua, forse l’aveva letta di recente, forse era stato Eugenio a suggerirgliela, non lo sapeva, ma era perfetta per quelle mani.

Davide, durante la cena, si rivolse ad Angelo in poche occasioni, la sua vicina lo teneva occupato e quando anche il resto della compagnia iniziò ad alzarsi per i saluti, anche lui decise che era meglio andare via. Angelo aspettò che finisse di stringere mani e baciasse le guance di sua mamma, arrossate dall’emozione della serata e dal bicchierino di vino che s’era concessa, per prenderlo sottobraccio e accompagnarlo lungo il vialetto, fino al cancello.

Dopo il giorno della doccia solo in altre due occasioni avevano avuto modo di vedersi e, in quei casi, solo per un saluto veloce.

Con ancora il braccio infilato sotto quello di Davide Angelo si fermò e, guardando in alto, fece un commento sulla luminosità delle stelle e l’assenza di nuvole.

Davide si godeva il calore di quel braccio e annuiva con la testa, quando il silenzio li avvolse si voltarono entrambi cercando nell’oscurità un contatto visivo.

-       Come stai?

La domanda gli parve strana: di preciso a cosa si riferiva?

-       Bene, credo. Ho trascorso una bella serata.

-       Mi fa piacere, ma non è a quello che mi riferivo. Hai trovato quello che cercavi nella valigia d’Eugenio? Una valigia piuttosto pesante, lo era anche il contenuto?

-       Il passato mi ha impegnato la testa per un po’, ora vorrei iniziare a guardare avanti.

-       Sono certo che farai le scelte giuste.

-       Come fai ad essere così sicuro, io non lo sono affatto.

-       Eugenio aveva molta fiducia in te e se ha voluto lasciarti i suoi quaderni l’ ha fatto perché voleva farsi conoscere, per portarti a capire le sue scelte.

-       Ma tu cosa c’entri con lui e cosa sai dei suoi quaderni?

-       So ciò che c’è da sapere. Eugenio parlava molto con mio padre, ma con me aveva trovato un interlocutore che per l’età era più vicino a suo nipote. Non sapendo che tipo di persona tu fossi diventato, io ero colui che impersonava l'idea che s'era fatto di te. Ti senti infastidito da questo?

-       No, è che non credo tu sappia tutto. Eugenio conosceva il motivo della mia  partenza dal paese, mi ha incoraggiato ad andarmene e ad accettarmi per ciò che sono. Ho letto nei suoi quaderni quanto sia stato in pena per me, ma io non credo di meritare la sua stima, se fosse stato ancora vivo forse non sarebbe così orgoglioso di me, nel conoscere il vero Davide; e poi il fatto di volermi immaginare in te…beh, il fastidio dovresti provarlo tu.

-       Dici? Eppure ora conosci tuo zio abbastanza bene da sapere quanto fosse bravo a leggere dentro l’anima delle persone. Pensi che un altro al posto mio si sarebbe emozionato nel sentirlo raccontare, con la voce rotta dal pianto, la perdita dell’amore? Lui sapeva bene chi aveva davanti e sarebbe stato felice di osservarci da lontano, in questo momento così suggestivo.                 

Potremmo continuare un altro momento questa conversazione, se ora non ti va. Immagino ti occorra un po’ di tempo per…

-       Che cosa credi avrebbe pensato nel vederci parlare insieme, al buio, sotto  questo cielo stellato?

-       Forse avrebbe fatto il tifo per me. Sapeva quante difficoltà io incontrassi nel trovare la persona giusta, quando gli parlavo delle persone che frequentavo riusciva a prevedere la durata e il termine esatto. Su quattro uomini ha indovinato tre volte.

-       E il quarto?

-       Beh, per il quarto ancora non so. Io ci ho provato a parlargli di te, ancora non ho ricevuto risposte ma spero che le sue previsioni stavolta si spingano verso un futuro piuttosto lontano.

-       Tu sei matto. E la ragazza di stasera? Che cosa mi dici di lei? E di tua madre? Non ti dispiacerebbe deludere le loro aspettative?

-       Deludere le loro aspettative? Non hai imparato niente da Eugenio? Io voglio vivere la mia vita, non quella decisa da altri. Mia madre ha sempre voluto vedere ciò che le faceva più comodo e così tutte le altre persone, convinte di conoscermi interamente. Ho lasciato che fosse così, non ho tentato di cambiare la loro visione, ma nel momento in cui un uomo entrerà a far parte della mia vita, seriamente, allora sarà arrivato il momento di pretendere di essere riconosciuto per ciò che sono, se qualcuno non sarà d’accordo saranno solo problemi suoi, genitori compresi.

Davide ascoltava rapito le parole di Angelo. C’era orgoglio in quelle parole e per la prima volta sentì nascere dentro di sé la stessa sensazione. L’avrebbe voluto abbracciare ma l’emozione era troppo forte e di certo avrebbe pianto. Da solo sarebbe successo lo stesso ma voleva godere intimamente il gusto della forza che percepiva dentro: voleva abbracciare se stesso, voleva imparare ad amarsi e per farlo doveva stare da solo.

Salutò Angelo e, dopo aver acceso la torcia, s’incamminò lungo il vialetto. Quando entrò dentro la casetta accese diverse candele e le appoggiò dentro al caminetto. Si tolse le scarpe e si distese sul letto, le braccia incrociate sotto la testa.

I rumori sul tetto iniziarono appena chiuse gli occhi. Sorrise, ripensando ai battiti accelerati di due ragazzini terrorizzati dai racconti degli adulti. Gli spiriti cercavano di spaventare anche lui, allora provò ad immaginarli e con il pensiero li descrisse a sua madre e a suo zio. Erano grossi, scuri e pelosi, dal muso allungato e dalla coda lunga. Si chiamavano topi e appena s’accorsero d’essere stati riconosciuti smisero di correre come pazzi, si fermarono e finalmente il silenzio fece addormentare tutti.

 

Trascorsa la settimana alla vigna, Davide rientrò in paese e, con l’animo desideroso di approfondire alcuni aspetti ancora avvolti nel mistero, decise di far visita a Paolina. La trovò che usciva dal portone di casa e lesse nei suoi occhi la contrarietà nel rivederlo. Non era solo l’aspetto trascurato di Davide ad offendere il suo buon gusto, da qualche tempo le domande dell’uomo la mettevano a disagio e lui sembrava non averne mai abbastanza. I rapporti amichevoli dei primi tempi si stavano raffreddando e resasi conto della prospettiva di un trasferimento in pianta stabile, il suo sesto senso non le lasciava presagire niente di buono. Lo accolse a denti stretti:

-       Ciao Davide, com’è andata la vendemmia?

-       Molto bene grazie. Ti disturbo? Vuoi che venga con te? Hai bisogno d’aiuto?

-       Con te in queste condizioni? Non vedi come ti guardano tutti?

-       Mmmmm, non m’importa granché ma se per te è un problema che ne dici di entrare dentro casa, vorrei parlarti.

Paolina s’arrese davanti alla determinazione di Davide e non oppose resistenza.

Una volta dentro casa, poggiò la borsa sul tavolo del salottino e, senza dire una parola, si sedette sulla sedia, le mani in grembo.

Davide cercò di mantenere la mente libera e di costruire le domande così come gli apparivano, se gli fosse stato possibile con la stessa chiarezza con cui ne era stato ossessionato durante la settimana.

Decise d’essere sincero:

Eugenio ha lasciato degli scritti. Ho trovato diversi quaderni lasciati affinché io li potessi leggere. Tu ne eri al corrente?

-       Sapevo che scriveva. Io non ho mai letto nessun quaderno.

-       Raccontava la sua vita, le emozioni, ha scritto anche molte poesie.

-       Sì, in passato mi fece leggere qualcuna delle sue poesie, anche qualche racconto. Era bravo, scriveva bene, lo sapevo fin da quando eravamo ragazzi. Era un uomo sensibile, osservava le persone e la natura lo colpiva in ogni sua manifestazione. Spero tu lo abbia apprezzato.

-       Ho amato ogni cosa letta e non posso fare a meno di appassionarmi, soprattutto alle sue poesie.

-       Erano poesie dedicate alla vita.

-       Erano poesie d’amore, dedicate a Pierre, l’amore della sua vita.

Lo schiaffo colpì Davide in piena guancia e subito il rossore si diffuse scaldando tutta la zona, ma continuò.

-       Non lo hai mai voluto accettare.

-       Che cosa avrei dovuto accettare? Lui amava me, quell’uomo...Pierre, me lo ha portato via. Ho aspettato, ho sperato che si stancasse di lui, ma è stato tutto inutile, lo tratteneva a sé con quel sorriso, con le mani, con il corpo. Dio, come lo odiavo, hai mai odiato una persona con tutto te stesso? Io sì e sai ad un certo punto si smette di provare un qualunque sentimento e in quel momento tutto diventa chiaro, ogni cosa va verso la strada giusta. Ed è stato allora che Eugenio ha deciso di tornare a casa.           

-       Sei stata tu ad indicare quella strada, che cosa hai detto a Pierre per  convincerlo ad andarsene?

Paolina taceva, mentre fissava Davide, senza peraltro vederlo, un luccichio attraversò i suoi occhi scuri.

-       Lo avrei denunciato. Avrei detto a tutti della sua immoralità. Avrei raccontato qualunque cosa pur di farlo andar via. Ma non fu necessario, capì subito e se ne andò senza discutere. Avevo vinto io.

-       Avevi vinto? Ti rendi conto di cosa hai fatto? Eugenio ha sofferto tantissimo e anche Pierre ha sofferto, a cosa è servito tutto quel dolore?

-       E la mia di sofferenza allora? Non avevo sofferto abbastanza anch’io?

-       So che Eugenio ha cercato di mettersi in contatto con Pierre, quando è tornato in paese gli aveva scritto, lui non ha mai risposto, forse lo voleva proteggere.

Paolina in silenzio e trascinando i piedi come se fosse invecchiata di anni, si allontanò dalla stanza per tornare subito dopo con un fascio di lettere in mano che poggiò sul tavolo.

Davide non voleva credere a ciò che vedeva e fissava la donna trattenendo la rabbia e la pena che gli sconvolgevano lo stomaco.

Prese le lettere e si diresse verso l’uscita. Alle sue spalle Paolina alzò il tono della voce.

-   Io sola ho potuto amarlo. Pierre non avrebbe mai fatto quello che ho fatto io, non ne sarebbe stato capace. Eugenio mi ringraziò prima di esalare l’ultimo respiro: mi bastò quel grazie per essere ripagata da tante parole non dette.

-       Quanto può valere un grazie in punto di morte, se paragonato ad un rifiuto durato una vita intera?

Paolina fulminò Davide e in quel momento il suo l’orgoglio sovrastò l’uomo obbligandolo a fare un passo indietro.

-       Fuori di qui!

Davide prese le lettere e pieno di rabbia e di vergogna, uscì dalla casa. Camminò a passo svelto con i pensieri che s'inseguivano veloci. Non riusciva a calmare i battiti del cuore e il disagio provato davanti a quella donna lo faceva sentire un ragazzino. Non capiva se il sentimento di disprezzo era più forte di quello della compassione. Avrebbe desiderato capire e perdonare un gesto nato dalla disperazione ma non riusciva a farlo. Chissà se Eugenio aveva capito, chissà se lui, alla fine era riuscito a perdonarla. Non ne faceva cenno, nei suoi quaderni esistevano solo delle pagine conclusive che non chiarivano i suoi dubbi, al contrario, lo gettavano ancora di più nello sconforto.

 

“Paolina sarà l'ultimo legame che ti rimarrà in questo paese, lei non è una persona malvagia, è una donna testarda che ha sofferto per non aver voluto guardare in faccia la realtà e per la sua presunzione. Vivrà a lungo, ne sono certo, ma morirà da sola, di parenti qui non gliene sono rimasti. La famiglia, dopo la guerra, emigrò in Australia e lei fece la scelta di rimanere in paese, insieme ai nonni che si occuparono di lei. L'ha fatto per me e io le sarò grato per l'eternità per tutto il bene che mi ha voluto.

Siamo arrivati alla fine caro nipote, hai potuto fare un viaggio nel tempo, hai potuto conoscere la tua famiglia, ora fermati, non andare oltre; ciò che è stato non lo potrai cambiare e non desidero lasciarti in eredità il peso di qualcosa che io stesso ho voluto mettere nelle mani del destino.

Continua a scrivere, se non hai ancora iniziato, provvedi subito!

Con affetto

Eugenio

 

 

Otto. Nuovi scatti: Davide e Angelo.

 

La sabbia ha trattenuto il tepore di una giornata autunnale assolata e ancora generosa, affondarci dentro i piedi, lasciando dietro di sé le orme del proprio passaggio, trasmette una piacevole sensazione che percorre tutto il corpo. Angelo, appena terminata la lettura, si è sollevato in piedi e ha iniziato a camminare per un lungo tratto di spiaggia, deliziato da quel contatto. Davide lo osserva e non sa se alzarsi e seguirlo o aspettarlo ancora seduto. Lo assale il sospetto che voglia andarsene ma d'improvviso quello si gira e torna indietro, per poi riprendere il posto che lo ha visto immobile, concentrato nella lettura, per più di due ore.

Le pagine lette appartengono al quaderno di Davide che sin dai primi momenti trascorsi a casa d'Eugenio, travolto dalle emozioni, aveva stretto a sé, testimone muto, fino ad allora, della sua vita a Londra.

Il bisogno di scrivere era stato forte quanto quello della lettura e dopo l'esitazione iniziale, dopo aver calmato le pulsazioni che gli facevano tremare le mani, si era lasciato andare colpito dalla facilità con cui le parole scorrevano sui fogli bianchi senza fatica alcuna e di quanto gli facesse bene da una parte entrare nella vita di Eugenio e, quasi nello stesso istante, trovare la chiave giusta per accedere nella propria.

Era stato Angelo a prendere il quaderno da sopra il tavolo della cucina, ancora aperto sull'ultima pagina su cui si potevano leggere a grandi lettere la conversazione avuta con Paolina e la rabbia che lo aveva assalito

mentre rincasava, portandosi dietro le lettere di Pierre, mai aperte dal destinatario. Era passato per salutare Davide e vederlo così stravolto lo aveva fatto preoccupare, portarlo in cucina per fargli bere un bicchiere d'acqua gli era sembrata la cosa migliore da fare, ascoltare il suo sfogo e invitarlo ad uscire, portando il quaderno con sé, aveva segnato la seconda buona azione, raggiungere la spiaggia era stata la ciliegina sulla torta.

Davide, disteso sulla sabbia aveva perso quasi subito il contatto con la realtà. Angelo, dopo averlo guardato assopirsi, si era deciso a voltare la prima pagina e come per incanto si era ritrovato a percorrere le strade di Londra.

Si era fermato nei vicoli e il tanfo pungente gli aveva attraversato le narici. Entrando negli studi fotografici aveva osservato corpi perfetti mettersi in posa davanti all'obiettivo, s'era immaginato il corpo flaccido di Mister Snow e aveva sentito l'odore del sesso. Lasciando il passato di Davide era entrato nel presente vedendo sé stesso come avrebbe desiderato esser visto.

Aveva seguito il cammino di Davide passo dopo passo, senza mai soffermarsi a giudicare ma lasciando che ogni istante vissuto gli entrasse dentro, come se facesse parte della sua stessa vita.

-       Scusa, ma avevo bisogno di sgranchirmi le gambe.

Sdraiato di lato con una mano a sorreggere la testa, Angelo osserva Davide, negli occhi una gran voglia di ridere, per scaricare la tensione e per permettergli di riprendere a respirare.

-       Potresti dirmi qualcosa, non mi piace sentirmi gli occhi puntati in questo modo.

-       Improvvisamente mi è venuta una voglia matta di iniziare a fare un po' d'attività sportiva, pensavo alla corsa, tu che ne dici? Mi dicono che si fanno incontri piacevoli, soprattutto dentro la pineta...

-       Ma che str...

-       Calma, stavo scherzando, e poi non mi ci vedrei proprio in situazioni simili.

-       Infatti, non saresti il tipo, però potresti accontentarti di correre di fianco a me, di sicuro saprei come farti eliminare quella pancetta.

Angelo con la bocca e gli occhi spalancati si finge offeso e afferrando Davide per le braccia lo spinge a terra. I volti ora sono vicini, i nasi si sfiorano e la barba solletica le lebbra di Angelo che ora ride di gusto.

-       Però una cosa mi dispiace.

-       Che cosa?

-       Non hai scritto niente riguardo al nostro primo bacio.

-       Quale primo bacio? Non c'è stato nessun primo bac...

Capite le intenzioni di Angelo Davide si solleva di scatto, provocando nell'altro una reazione esasperata.

-       Ma che fai? Ci può vedere qualcuno!

Angelo si rimette a sedere, prende una penna dal borsello poggiato sulla sabbia, apre il quaderno e nell'ultima pagina, subito sotto lo sfogo per gli eventi di quella mattina, inizia a scrivere:

 

Angelo sentì una forte attrazione per Davide, fin dal primo momento in cui lo vide, seduto sotto il pergolato, mentre in dialetto, storpiato da un forte accento inglese, si presentava a suo padre, ripetendo per ben tre volte il proprio nome e cognome. S'innamorò del suo imbarazzo, del rossore provocato dal vino, della delicatezza che riservò ai suoi genitori e del suo corpo percorso dai brividi.

S'innamorò talmente tanto da volerlo baciare lì sulla spiaggia nel primo pomeriggio trascorso insieme, ma gli fu impedito. Infatti, a distanza di...mezzo chilometro, un ragazzo o forse un uomo, ma potrebbe benissimo trattarsi di uno scimpanzè con un berrettino in testa, seduto su una seggiola pieghevole sulla riva, sta pescando e, oddio, potrebbe vederci!

-       Sei proprio spiritoso e poi guarda come scrivi, sembrano zampe di gallina, hai pasticciato tutta la pagina. Senti andiamo via.

-       Agli ordini padrone. Posso chiederti una cosa?

-       Purché sia intelligente.

-       Leggerai le lettere di Pierre?

-       No, non ne ho il diritto. Eugenio stesso non avrebbe voluto. E poi è ora di pensare al mio futuro, almeno quello più prossimo: non ho idea di cosa farò. Mio zio mi ha lasciato un'eredità che non so se sarò in grado di gestire. Tutti quei libri, sento che devo fare qualcosa, ma non so da dove iniziare.

-       Non so come aiutarti  mi dispiace, ma sono sicuro che troverai il modo di capirlo. Lascia che ti accompagni a casa adesso, hai bisogno di una doccia e di riposo.

-       Sono così malridotto?

-       Solo un po', ma ora mi occuperò io di te.

-       Mmmmh, qual'è il tuo mestiere? Potrei venire a lavorare per te, imparo in fretta sai?

-       Scordatelo!

 

Davide guarda preoccupato il giardino da dietro i vetri della porta scorrevole. La pioggia sta tormentando i teneri germogli del gelsomino, spera che siano abbastanza forti da resistere ad un clima che non ne vuole sapere, a fine aprile, di lasciare spazio alla primavera. Pensa all'inverno appena trascorso, ancora in solitudine ma con il conforto di Angelo che, discreto e paziente, sembra conoscere i tempi giusti per bussare alla sua porta e aiutarlo a superare i tanti momenti di sconforto. In certi casi l'amore ha bisogno di tempo per essere vissuto e Davide, pur riconoscendolo e desiderandolo non riesce ancora a darsi completamente. Il suo corpo smania per un contatto, ma la mente è attraversata da mille pensieri, si sente ancora come quel germoglio sferzato dal vento.

Arriverà presto il sole e per l'estate il grigliato che circonda il piccolo giardino sarà completamente abbracciato dai rami del gelsomino e dal roseto piantato dai suoi nonni. La porta della camera da letto rimarrà spalancata e la stanza sarà invasa dai profumi forti e intensi, quei profumi lo stordiranno e anche lui smetterà d'avere paura e si lascerà amare.

Il giardino, protetto da un alto muro sui tutti e tre lati, sin da ragazzo aveva attirato la sua fantasia, si sentiva a suo agio all'interno di uno spazio così limitato e sicuro. Sua nonna aveva creato una zona che d'estate, sfruttando l'ombra creata dalle piante, la vedeva seduta su una poltroncina imbottita, assorta nei suoi lavori a punto croce o all'uncinetto. Pensando a sua nonna e immaginando qualcosa di più affine alle sue passioni Davide sogna un posto dove, chi fosse entrato nella libreria, avrebbe potuto leggere, in totale tranquillità.

Perché il suo sogno è quello: un giorno avrebbe fatto il libraio. La casa sarebbe diventata un luogo di lettura, di luci soffuse, di angoli appartati dove, a colui che avrebbe occupato il comodo salottino, non sarebbe parso strano, alzando gli occhi dal libro tenuto tra le mani, vedere passeggiare un gatto diretto in giardino per sistemarsi nel suo posto preferito. La casa d'Eugenio è abbastanza grande, si sarebbe potuto allestire anche un angolo dove poter sorbire una tisana o un tè in compagnia, ascoltando un giovane scrittore o scrittrice leggere brani dal romanzo appena pubblicato.

E' solo un sogno, chissà se un giorno si sarebbe potuto realizzare, nel frattempo, per stare con i piedi per terra, Davide ha cercato di trovare punti di contatto in un paese che si sta abituando alla sua presenza e al suo carattere. L'esigenza di fare qualcosa subito gli è venuta in mente semplicemente guardandosi attorno.

I rapporti con Paolina sono rimasti tesi e piuttosto freddi, ma quando Davide le ha parlato di voler mettere a disposizione la biblioteca, dando ripetizioni ai giovani studenti, il suo entusiasmo ha finito per coinvolgere genitori spazientiti e ragazzi inizialmente diffidenti e titubanti, via via interessati e affascinati dalla competenza di Davide.

Il vento si è calmato, la pioggia ha cessato di tamburellare sulla ringhiera dello stretto ballatoio che lo divide dal cortile e un timido sole si fa largo tra le nuvole. Davide fa scorrere la porta finestra e respira i profumi che si mescolano nell'aria fresca. Tra un'ora Angelo verrà a prenderlo. Oggi è sabato e hanno deciso di mangiare fuori, non lo fanno spesso, ma avevano voglia di uscire e fare un giro in macchina. Sedere sul sedile vicino a lui, ascoltarlo raccontare del suo lavoro, dei colleghi, lo rilassa, spera sempre in un viaggio più lungo, senza fermate, ma poi la macchina si accosta al marciapiede, Angelo si volta, gli sorride e gli dice:

- Arrivati!- e allora sente che forse è arrivato davvero da qualche parte e che deve smetterla di scappare. Quando Angelo vuole strafare fa il giro della macchina e gli apre lo sportello, lo fa apposta, vuole farlo sorridere, perché le rughe sulla fronte si possano distendere e lui lo accontenta ed è tutto quello che Angelo vuole vedere. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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