Il silenzio delle campane

 

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Il cielo rosato del tramonto si riflette sulle ampie pozzanghere del  quartiere del Tempio, a Parigi. È l'ora in cui Also e Gerard, obbedendo alla ferrea disciplina imposta ai novizi, ritornano alla loro casa. Nonostante la giovane età, sono stati assegnati al servizio nella Tesoreria del Tempio. Sono svegli, intelligenti, imparano in fretta e obbediscono senza fiatare. L'obbedienza e il silenzio sono tra i primi insegnamenti che vengono impartiti a chi entra nell'Ordine. Gli altri sono la castità, la povertà, la preghiera e la devozione. Sono state le loro nobili famiglie a scegliere per Also e Gerard un futuro da monaci guerrieri, ma nessuno ha chiesto il loro parere.

Eppure, nei loro cuori c'è il desiderio che presto venga il giorno in cui pronunceranno il giuramento. L'hanno sentito molte volte declamare con voce stentorea e appassionata, oppure umile e quasi timida. Hanno visto cavalieri commuoversi davanti al giuramento dei loro compagni, altri mantenere la testa bassa nel momento solenne. Spesso si domandano come sarà la loro voce in quel frangente, come affronteranno quell'evento basilare della loro vita.

 

“Cavalieri, scudieri, servitori, che la pace del Signore, promessa agli uomini di buona volontà, sia con noi. In questo luogo angusto e santo, in suo nome, noi vedremo pronunciare, da labbra pure e con umile fierezza, il Giuramento del Templare che i Poveri Cavalieri di Cristo fecero nel momento più sacro della vita Templare. Signore che spieghi i cieli come una tenda di luce, Signore che fai dei fulmini i messaggeri della tua maestà, davanti il tuo sacro altare, dove s'adempì la sublime immolazione, noi leviamo alta la spada della luce, per depositarla ai piedi dell'altare come testimonianza del nostro giuramento. Signore Dio delle armi, noi lo giuriamo per il Cristo, giammai contro il Cristo, per la difesa del Vangelo, per la guardia dei pozzi, per la verità, per la giustizia. Contro gli oppressori, contro i mietitori di scandali ed i corruttori dell'innocenza, contro la menzogna liberata, contro i traditori delle fazioni e dei partiti: noi lo giuriamo di impegnare la doppia spada: quella d'acciaio levigato e quella della parola splendente e fulminante. Giammai noi attaccheremo per primi. Giammai noi provocheremo per primi. Tre volte noi sopporteremo l'ingiuria. Tre volte noi ignoreremo il disprezzo e la menzogna. Ma quando la spada brillerà nel sole come un colpo di chiarore, tuonerà la parola. Allora poi non indietreggeremo di un solo passo, non taceremo che dopo il silenzio dell'avversario. Davanti ai ranghi angelicati, nostri compagni d'armi, noi lo giuriamo al Cristo, Re della gloria. Chiunque rinnegherà questo giuramento, sarà per noi e per gli angeli, rinnegato. Niente per noi, Signore, niente per noi, ma per la sola gloria del Tuo nome.

Amen"

 

A cena, seduti l'uno di fronte all'altro, Also e Gerard mantengono il silenzio di rito, mentre uno dei fratelli legge un passo del Vangelo. Ma intanto pensano ai racconti edificanti dei cavalieri del passato, alle battaglie, alle navi che solcano i mari, alle vittorie e alle sconfitte, desiderando che presto il Papa e il Re si decidano a indire una nuova crociata per liberare Gerusalemme. Non vedono l'ora di partecipare alle gloriose imprese e alle gesta eroiche.

Nel silenzio della notte, proprio quando sono nel bel mezzo del sonno, Also e Gerard vengono svegliati dal galoppo di un cavallo. Si tratta di un'infrazione alla regola, che stupisce e incuriosisce i ragazzi. Si parlano sottovoce, perché nessuno li senta.

– Chi sarà quel pazzo? Domani assisteremo a una punizione esemplare.

– Nessuno farebbe una cosa del genere se non ce ne fosse la necessità assoluta. Forse è scoppiata una guerra – risponde Also.

– Allora presto sentiremo le campane.

– E se fosse un messo che è venuto ad annunciare la morte del Re?

– Ma dai! L'abbiamo visto la settimana scorsa, e mi sembrava in ottima salute.

– E allora che cosa sarà successo?

– Come vuoi che lo sappia?

– Forse dovremmo andare a vedere – suggerisce Also.

– Sei impazzito? Se scendiamo ce la prenderemo noi la punizione esemplare – risponde Gerard.

– Basterà che non ci facciamo vedere.

– E se invece ci vedono?

– Hai paura?

– Io? Lo sai che non ho paura di niente. Tu, forse.

– Stai scherzando?

– Allora andiamo – decide Gerard.

Also sorride, sornione.

Quindi scendono dabbasso, nonostante il rischio di venire puniti. Ma quello che li aspetta non è una punizione, bensì un'imprevista fuga al seguito di una ventina di cavalieri che hanno deciso di sottrarsi a un vile tradimento. Il Re di Francia ha infatti emanato l'ordine che tutti i Templari presenti nel regno vengano arrestati simultaneamente. Tuttavia, a Parigi, il segreto che doveva coprire l'operazione dei balivi e dei siniscalchi è stato violato da qualcuno, cosicché, coloro che hanno voluto si sono allontanati dal Tempio, sfuggendo alla cattura. Si dirigono verso nord, pur non avendo ancora ben chiara la situazione. Solo dopo qualche giorno vengono raggiunti dalla notizia che 546 cavalieri dell'Ordine sono stati imprigionati, primi tra tutti il Gran Maestro Jacques de Molay e il Tesoriere Hugues de Pairaud.

Per precauzione, i cavalieri si disperdono, nascondendosi sotto falso nome,

mentre un cappellano, Fra Galimberto, decide di accompagnare i ragazzi a Gand, dal padre di Gerard,  il conte di Wenemar.

– Le notizie sono molto confuse, ma avete fatto bene a riportarlo a casa – riconosce il conte.

– Se avessi potuto, avrei riportato a casa anche Also, ma la Boemia è troppo lontana. Scriverò una lettera a suo padre per tranquillizzarlo sulla sua sorte.

Also può rimanere qui, naturalmente, finché non sapremo qualcosa di più sicuro. E anche voi. Potreste continuare a occuparvi di loro. Non vorrei che smarrissero la disciplina acquisita al Tempio.

– Per questo potete senz'altro contare su di me.

Seguono mesi angoscianti, durante i quali giungono notizie discordanti, sia sulle decisioni e intenzioni del Re, che su quelle del Papa, alle cui dirette dipendenze è nato l'Ordine. Also e Gerard trascorrono tutto il tempo libero con Fra Galimberto.

Infine giunge anche la sera del giovedì santo.

Un certo imbarazzo cala tra i ragazzi e Fra Galimberto. Gerard, alla fine, non riesce a stare zitto.

– Non potresti celebrarla tu la commemorazione dell'Ultima Cena?

Fra Galimberto sussulta.

– Come ti viene in mente di parlarne? Non ricordi che hai giurato il segreto?

– Siamo tra noi. E poi, a chi vuoi che importi? Possiamo chiuderci in una delle camere della torre. Non ci vedrà nessuno.

– Non è possibile. Finché l'Ordine non sarà definitivamente scagionato e non si rinnoverà la legittimazione da parte del Papa, dimenticatevi di quella cerimonia.

Also sospira. Gerard mette il broncio.

– Se scopro che si tratta di una scusa per bere del vino, vi faccio dire cento Padre Nostro al giorno, per una settimana.

– Credete che l'Ordine sarà mai riabilitato? – chiede Gerard, dopo un sospiro nostalgico e un lungo momento di silenzio.

– Il Papa è malato. Temo che non abbia più la forza per opporsi al Re, che ci vuole cancellare a tutti costi dalla faccia della terra. Ma perché tanto accanimento, mi domando.

– Perché vuole appropriarsi dei beni dell'Ordine, senza doverli restituire, questa volta – risponde Also, deciso.

– Come se qualche volta li avesse restituiti! Ma non può essere solo questo. Per mostrare tanta ostilità ci dev'essere dell'altro – aggiunge Gerard. – Forse il Re è convinto che l'Ordine si sia conquistato troppo potere, mentre la sua massima aspirazione è quella di accentrare tutto il potere su di sé, ormai è chiaro.

– Possibile che non ci sia niente da fare? – si domanda Also.

– Qualcosa da fare c'è: preghiamo – li esorta il cappellano.

Also e Gerard s'inginocchiano accanto a Fra Galimberto, ma i loro cuori si ribellano di fronte alla terribile ingiustizia. Sentono che tutte le preghiere del mondo non basteranno di fronte alla cupidigia del Re di Francia.

 

Le notizie che giungono a Gand sono sempre più terribili. Il Re ha osato mettere al rogo una settantina di cavalieri.

– Quel vile li ha fatti torturare per estorcere false confessioni – accusa Gerard – e poi li ha condannati al rogo.

– È ignobile, è vergognoso, non è degno di un Re – commenta Also.

– Figlioli, mi stupisco di voi! Abbiate rispetto per le autorità. Il Re è il Re e noi tutti dobbiamo deferenza e obbedienza a chi ci è superiore.

– Forse tu gliele devi, ma io non posso concedergliele – ribatte Also.

– Dirai cinquanta Padre Nostro prima di sera. E se non avrai finito per cena, la salterai – gli ordina Fra Galimberto.

– Come puoi sopportarlo? – gli chiede Gerard.

– Le decisioni non sono nelle nostre mani. Noi dobbiamo solo obbedire e pregare. Ricordatelo.

– Ma possibile che non ci sia proprio nient'altro che possiamo fare?

– Certo, trovare la coppa di Cristo – risponde Fra Galimberto, con l'espressione ironica di chi sta pronunciando una corbelleria.

Also e Gerard si guardano l'un l'altro, poi si voltano incuriositi a scrutare il volto di Fra Galimberto.

– Quella che manca per rendere perfetta la commemorazione dell'Ultima Cena?

Fra Galimberto sospira.

– Se l'avessimo trovata, oggi il potere del Papa sarebbe così grande che il Re di Francia non potrebbe opporsi alle sue decisioni. Tutta la cristianità ne avrebbe guadagnato in rispetto e autorevolezza. La fede di molti si sarebbe elevata a vette mai raggiunte. L'intero mondo sarebbe diverso. Il potere della coppa supera qualunque altro potere sia mai esistito. Ma noi non siamo riusciti a trovarla.

– Ti sbagli – sussurra Gerard.

– Che vuoi dire?

– Ho sentito una conversazione, una volta...

– Hai spiato dei cavalieri? Come hai osato? – lo interrompe il cappellano.

– Non ho spiato proprio nessuno. Ero lì. Non è colpa mia se loro non mi hanno visto.

– Va bene, va bene, ma cosa si sono detti? – lo incita Also, incuriosito.

– Beh, non ho sentito bene tutto, perché non ero molto vicino, ma dicevano che la coppa era stata trovata e immediatamente portata via per proteggerla da mani eretiche.

– Sciocchezze. La coppa si difende da sola – lo contraddice Fra Galimberto.

– Come lo sai?

– Il suo potere è immenso.

– Belle parole. Ma non ne hai le prove.

– Misericordia! La tua fede si sta raffreddando come un minestrone esposto ai quattro venti. Anche tu dirai cinquanta Padre Nostro prima di cena, e se non avrai finito, la salterai. Raccomando a entrambi una notte di meditazione. State diventando proprio due selvaggi. E forse la responsabilità è mia, perché vi lascio parlare. Manterrete il silenzio per il resto della settimana.

– Ma oggi è lunedì! – si ribella Gerard.

– Per l'appunto.

Se c'è un modo sicuro per rendere due adolescenti dei veri chiacchieroni, è sufficiente il divieto di parlare.

Also e Gerard restano svegli per quasi tutta la notte, ma le meditazioni suggerite dal cappellano vengono sostituite da una fitta conversazione, a voce così bassa che a un certo punto entrambi hanno male alla gola.

– La troverò – conclude Also.

– No, la troverò io.

– Chi la trova non ha importanza. Quel che conta è consegnarla al Papa, il più presto possibile. Solo allora si deciderà a riabilitare l'Ordine.

– Questo Papa sarà già morto, quando arriverà quel giorno.

– Ma un Papa ci sarà sempre, fino alla fine dei tempi. Quindi non importa quando, non importa come, ma noi la troveremo.

Promesse di ragazzi che vivono ancora nel mondo delle pie illusioni, che non si sono ancora scontrati davvero con la vita, che sa essere dura e brutale, quando ci si mette.

 

Come Gerard ha facilmente previsto, il Papa lascia questa terra, ma non prima d'aver sospeso l'Ordine, sebbene con una disposizione non definitiva. Poco più di un mese prima, sono stati condannati al rogo il Gran Maestro Jacques de Molay e il Tesoriere Hugues de Pairaud, dopo aver ritrattato le false confessioni estorte loro con la tortura. Anzi, de Molay ha fatto di più: ha inneggiato alla purezza di tutte le azioni dei cavalieri Templari, accusando poi di corruzione il Regno di Francia, firmando così la sua condanna a morte. Notre Dame ha visto il rogo dei due cavalieri che, pur avvolti dalle fiamme, levavano le mani in preghiera.

– Odio questo Re – confessa Also a Gerard, sottovoce.

– Se ti sentisse il cappellano!

– Come può difenderlo ancora?

– Non è il Re che difende, ma la gerarchia. Ricordati, rispetto e obbedienza. Dobbiamo imparare a non giudicare, perché non sappiamo. Lo dice sempre.

– Tutte queste cose andavano bene all'interno del Tempio, ma ora non ci servono più a niente.

– Non farti sentire. Fra Galimberto potrebbe metterti in punizione per i prossimi dieci anni.

– Chissà dove saremo tra dieci anni!

 

Also de Zajic è a Marsiglia. In dieci anni ne ha fatta di strada. È entrato nel commercio quasi per gioco, ma ha subito capito che le nozioni apprese al Tempio lo avvantaggiavano enormemente rispetto agli altri concorrenti. Grazie alla capacità, alla serietà e fors'anche alla bonarietà che lo contraddistinguono, si è guadagnato il rispetto e l'amicizia di molti; in modo particolare quella di Erasmo Traverso, un giovane comandante della flotta genovese, che frequenta spesso il porto di Marsiglia. La loro amicizia e la loro intesa li hanno spinti a creare un sodalizio che, se non è una vera e propria società, in quanto Erasmo non potrebbe aderirvi, è sicuramente un patto di mutuo soccorso.

Gerard di Wenemar invece, negli ultimi dieci anni, non si è allontanato da Gand, eccetto per brevi periodi durante i quali ha partecipato alla grande fiera di Bruges. Il commercio dei filati di lana è un grosso affare per Gand, che si sviluppa di anno in anno, sempre più prospero. Purtroppo, però, non gli è dato di vivere in pace. Le continue dispute scaturite per gli interessi commerciali lo vedono spesso invischiato in battaglie e scaramucce, fino a ritrovarsi davvero nei guai. Ricercato, deve scegliere l'esilio per sottrarsi ai segugi del Re di Francia; un altro Re, in quanto Filippo è morto pochi mesi dopo il rogo di de Molay e de Pairaud, con gran soddisfazione di Gerard e di Also. Comunque Gerard è ormai giunto alla conclusione che dei Re di Francia ne ha abbastanza. A nulla valgono le preghiere del suo fedele amico Gilbert Van Der Meer, che l'ha tenuto nascosto a rischio della vita. Gerard è dunque deciso ad andarsene dalle Fiandre, dalla Francia e forse persino dal continente, ma non prima di aver incontrato almeno una volta il suo amico Also.

 

Di quando in quando Also e Gerard si sono scritti, naturalmente, ma non si è mai data l'occasione di rivedersi. Dopo un'intera serata di fitta conversazione, si rendono conto di quanto poco abbiano messo nero su bianco durante i lunghi anni della loro separazione.

– Hai più saputo nulla di Fra Galimberto?

– No, Also. Dopo aver fallito con noi, sarà andato a rinchiudersi in un eremo.

– Non ha fallito con noi. Siamo noi che abbiamo fallito con lui.

Gerard scoppia a ridere.

– Se ci sentisse!

– Riderebbe anche lui.

– L'hai più cercata?

Pur senza nominarla, Also sa perfettamente a cosa l'amico si riferisca.

– Non ho mai dimenticato la nostra promessa. L'ho cercata dopo aver sentito alcune voci, ma mi sono convinto che la coppa non si trovi in Francia. Ne ho parlato con alcuni amici che viaggiano molto, in modo che mi mettano subito al corrente di voci che dovessero cogliere in proposito. Prima o poi la troveremo.

– Vediamo chi di noi due sarà più fortunato.

– Pensi che, se gliela consegnassimo, il Papa potrebbe davvero riabilitare l'Ordine?

– E tu ne vorresti ancora far parte?

– Non lo so più. A dire il vero, oggi la povertà non è tra le mie più grandi aspirazioni.

– E la castità?

– Ah, quella la sopporto benissimo. Non ho alcuna intenzione di prender moglie.

– Sai che è uno dei motivi che mi hanno spinto a lasciare Gand? Sembra che se non ti sposi la tua vita possa diventare un inferno. Invece aveva ragione Fra Galimberto: tenersi lontani dalle donne è il primo passo per guadagnarsi il paradiso. Io mi sono sposato, ma non me n'è venuto nulla di buono.

– Ma come, ti sei sposato e non mi hai fatto sapere niente?

– Te lo confesso, mi hanno costretto con la forza e con il ricatto.

– E tua moglie sa che non tornerai tanto presto a Gand?

– No di certo. Nessuno lo sa, tranne Gilbert e te. E, anzi, ti chiedo di essere discreto. Se a qualcuno venisse in mente di chiederti di me, tu di' che non mi hai visto.

– Ci puoi contare, tanto più che sei ricercato dal Re. Potrei trovarmi anch'io nei guai, no?

– Probabile. Ma non preoccuparti, da questo momento cambierò tutto. Sarò il conte Filippo di Nevers e mi dedicherò a qualcosa di completamente diverso, anche se non so ancora a che cosa. Ti scriverò per tenerti al corrente.

– Ma dove andrai?

– Non so. Prenderò la prima nave che parte e poi mi guiderà il destino.

– Sai, conte Filippo, non ho mai capito se il destino esiste davvero.

– Ciò che, immagino, non ti toglie il sonno.

– Immagini bene. Anzi, a questo proposito, dal momento che tra poco sorgerà l'alba, proporrei di andarcene a dormire.

– Fra Galimberto ci avrebbe assegnato una bella punizione.

– Ma solo se ci avesse scoperti, cosa che non gli è mai riuscita.

Per molto tempo, Also non riceve più notizie del suo vecchio amico dal nome nuovo, finché non giunge al porto di Marsiglia la nave di Erasmo Traverso.

– Ho un messaggio per te – gli annuncia sorridendo sotto i baffi.

Also osserva per la prima volta il sigillo che presto gli sarà familiare. Poi apre il plico e lo legge.

– Come gli è venuto in mente di andarsene proprio a Costantinopoli? E di aprire una locanda, poi.

– Chiediglielo. Io posso recapitargli il tuo messaggio, se vuoi.

– E per quale caso del destino vi siete conosciuti, se è lecito.

– Filippo era al porto in cerca di una nave che facesse rotta per Marsiglia e l'ha trovata, come vedi.

– Sono felice che i miei migliori amici si siano conosciuti. Ma adesso siediti e dimmi di te, mentre ti verso un buon vino della Champagne.

 

Caffa, la Regina del Mar Grande, è sotto assedio. Il Khān dell'Orda d'Oro, Ganī Bek, ha deciso che vuole disfarsi dei genovesi una volta per tutte. Trova inconcepibile che un porto tanto florido sia in mano agli stranieri. Quella terra deve tornare sua, e non gl'importa niente dei patti che altri hanno stretto prima di lui. Ci ha già provato pochi anni fa, ma quella volta si era reso conto che la fortezza dei cafioti era davvero resistente e i suoi uomini troppo pochi. Questa volta non ha intenzione di fallire. Se lo sente: questa sarà la sua più grande conquista. L'Orda d'Oro sarà ricordata nei secoli e lui, Ganī Bek, fonderà un impero che non avrà rivali. Quando avrà finalmente scacciato gli stranieri dalla sua amata terra, penserà ai suoi fratelli. Li sconfiggerà uno alla volta, riunificando i quattro angoli del mondo. In groppa al suo cavallo dai paramenti d'oro, assapora lentamente la sua gloria, come se quel futuro costruito nella mente fosse già presente.

 

Arman Azad segue l'uomo che ha visto più volte aggirarsi intorno a vecchie rovine e fermare gli anziani in cerca di strane informazioni. L'ha visto per caso uscire di notte, armato di lanterna. Porta un mantello nero, lungo, con il cappuccio calato sulla testa. Cammina con passo spedito per le strette vie di Costantinopoli, in direzione di Santa Sofia. Bussa alla porta di una casupola di legno uguale a tante altre e quando questa si apre sparisce all'interno. Arman Azad è un nizarita, un assassino, uno dei pochi rimasti del suo gruppo; da quando la setta è stata costretta a disperdersi, i suoi membri vivono nell'anonimato. Ha i capelli corvini, con una piccola ciocca bianca sulla fronte, il volto triangolare, leggermente scavato, il naso lungo e appuntito, folte sopracciglia nerissime, la pelle pallida e tirata. La sua altezza è di poco superiore alla media, ma la sua eccessiva magrezza lo fa sembrare più alto. Pazienza e perseveranza sono parte del suo addestramento, così come saper tacere e sapersi mimetizzare con l'ambiente. Perciò stasera Arman Azad aspetta, appoggiato all'angolo di una casetta di legno marcio. Il suo respiro sembrerebbe quello calmo e profondo di chi sta per addormentarsi, mentre, al contrario, le sue percezioni sono al massimo dell'acutezza e i suoi muscoli sono pronti a scattare. Gli occhi allungati e socchiusi racchiudono uno sguardo vigile e penetrante di opale nera. Aspetta a lungo, pronto a nascondersi dietro l'angolo quando l'uomo che ha seguito ritorna sulla strada. Il conte di Nevers ha il volto soddisfatto di chi ha trovato quello che cercava. Il nizarita riprende a seguirlo fino al suo rifugio. La locanda è ancora aperta. Arman Azad vi entra dopo pochi istanti, sedendosi a un tavolo vuoto. Osserva con la coda dell'occhio il conte estrarre da una sacca qualcosa che sembra una coppa di vetro opaco. Il conte l'avvolge immediatamente in un panno rosso e poi sparisce nel retro.

 

Ganī Bek è nervoso e preoccupato. Dopo mesi di assedio, è di nuovo alle prese con ostacoli e imprevisti. Qualcosa non funziona. I suoi uomini si ammalano e muoiono. La sua armata è ormai decimata. In un ultimo disperato tentativo di piegare la resistenza dei cafioti, il Khān impartisce alcuni comandi completamente fuor dell'ordinario, tanto che i suoi uomini, in un primo momento, faticano a comprenderli e, dopo averli ben vagliati, li considerano assurdi. Ma a nessuno viene in mente di opporsi: ci tengono a mantenere la testa ben fissata al collo.

Dalla merlatura della fortezza di Caffa la squadra di guardia osserva i movimenti dell'esercito assediante.

– Stanno di nuovo approntando le catapulte, bastardi maledetti.

– Le mura resisteranno, come hanno sempre fatto.

Todero ne è sicuro. Lancia uno sguardo beffardo sull'opera instancabile dei tartari.

– Sì, tutta fatica inutile – commenta Gregorio, sostenendo l'ottimismo di Todero.

Carlo li guarda, prima l'uno e poi l'altro, poi scuote leggermente la testa. Non condivide le certezze dei compagni.

– Ho un brutto presentimento – mormora.

– Se osi dirlo a qualcun altro, te la vedrai con me. Bisogna tenere alto il morale. Se non sei capace di aver fede, almeno taci.

Carlo scuote di nuovo la testa, poi raddrizza il camaglio, prima di allontanarsi dai compagni, cui è venuto a dare il cambio.

Il cerusico della compagnia, che è anche astronomo, gli ha detto una cosa inquietante, qualche giorno fa, una cosa che non è più riuscito a togliersi dalla testa. Gli ha rivelato che è imminente una congiunzione di Marte, Giove e Saturno, che è da sempre considerata nefasta. Al di là delle robuste mura, i tartari continuano a preparare le catapulte. Nel silenzio della notte che cala, un vento leggero che arriva dal mare porta l'abbaiare dei cani e il ragliare di un asino. Anche loro sono irrequieti. C'è qualcosa nell'aria. Carlo stringe forte l'elsa della spada per raccogliere tutto il suo coraggio.

Gregorio e Todero non sono ancora tornati di guardia quando, all'alba, le catapulte si mettono all'opera. Carlo resta di sasso. A volare non sono palle di pietra, ma mucchi di stracci colorati. Gli insensati dardi vengono lanciati con una parabola che li fa atterrare oltre le mura. Carlo lascia i compagni, precipitandosi giù per le scale, producendo un rumore di ferraglia. In molti si sono già raccolti intorno a ciò che è caduto dal cielo. Stupiti, i genovesi assediati si guardano l'un l'altro. Gli stracci sono abiti, e dentro gli abiti ci sono uomini; cadaveri tartari, orrendamente sfigurati dal morbo che li sta decimando al di là delle mura di Caffa.

 

Il console di Caffa, Galdino Ferrando, getta indietro il cappuccio del mantello, lasciando che la lieve brezza marina gli spazzi il viso e i brutti pensieri dalla mente. Il suo sguardo acuto viaggia tra le galee pronte a salpare, in attesa dei suoi ordini. Il console ha fatto caricare tutte le merci rimaste al fondaco. Anche se i vascelli non viaggeranno a pieno carico, è inutile aspettare. Caffa è isolata per via di terra da quasi un anno. Nessuna carovana riuscirà a raggiungerli. Ma quel che è peggio, ora che la peste ha colpito i cafioti, i comandanti delle navi, anziché offrire il loro aiuto, fremono di rimettersi in mare. In fondo, è nel loro diritto. Non può fare altro che concedere il suo salvacondotto.

– Ritenete che l'Orda del Khān si ritirerà presto?

Immerso nei propri pensieri, il console non ha udito i passi del comandante Erasmo Traverso.

– No, comandante, sono cocciuti. Direi tanto quanto i genovesi.

– Lasciate almeno che ce ne andiamo noi. Salviamo il salvabile. Passando da Pera chiederemo che vi mandino aiuti.

– Ero venuto a dirvi proprio questo e anche che potete salpare. Venite a ritirare i salvacondotti e andate con Dio.

– Grazie, Eccellenza. Lo comunicherò agli altri comandanti.

– Gli uomini stanno tutti bene?

– Sì, tranne i due che non sono tornati a bordo, e che sono morti due giorni fa.

– Prima di salpare, accertatevi che nessun altro si sia ammalato.

– Stiamo all'erta, come potete ben immaginare. Gli uomini si controllano l'un l'altro tutti i giorni. E nessuno è più sceso a terra da due settimane. È difficile tenerli a bada in queste condizioni. Hanno saputo che a Tana si sono salvati in pochi. Non vogliono fare la stessa fine. Restare qui è come sfidare la buona sorte.

– Non vi ho chiesto di farlo, Erasmo. Andate ad avvertire i vostri compagni che si preparino alla partenza e, una volta a Pera, cercate di convincere il console a mandarci aiuti.

 

C'è un vicolo molto stretto, a Caffa, che si deve attraversare quasi ponendosi di fianco, per non urtare con le spalle contro i muri delle case.

Todero questa mattina aveva un forte mal di testa. Nella speranza di farlo passare, ha trascorso alcune delle ore libere dalla guardia in un bordello del quartiere del porto e ora sta tornando in caserma, per dormire un poco. Non si è mai sentito tanto stanco in vita sua. Quella puttana l'ha spremuto come un limone. Per un attimo vacilla. Camminare di traverso gli ha fatto perdere l'equilibrio. Per fortuna può appoggiare la schiena al muro e tenersi a quello di fronte con le mani. Sta sudando copiosamente. Gli manca l'aria. Deve uscire da quel budello, al più presto.

È Carlo a vederlo per primo, mentre si spoglia, prima di buttarsi sul pagliericcio. La camicia di tela sotto il camaglio porta le tracce della ruggine e puzza di metallo. Todero se la sfila, buttandola sulla panca. I bubboni neri che sono apparsi sotto le sue ascelle sembrano a Carlo uno scherzo delle ombre che incombono sulla camerata. Ma lui vuole vederci chiaro, afferra una candela e si avvicina con circospezione al commilitone.

– Carlo, qualunque cosa hai da dirmi, rimandala a più tardi. Adesso sono troppo stanco per starti a sentire.

– Alza le braccia.

– Ma che ti prende? Lasciami in pace.

– Per tutti i santi, Todero, sei appestato! Vattene subito da qui.

– Non dire idiozie.

– Allarmi! – urla Carlo, svegliando i pochi compagni che ancora dormono.

Per convincere Todero a raggiungere l'ospedale di Santo Spirito, ci vogliono le preghiere insistenti di Fra Galimberto e le spade puntate dei suoi commilitoni. E sebbene faccia fatica a camminare, nessuno osa avvicinarsi a lui per sostenerlo. A Caffa gli appestati ormai non si contano più. Per fare spazio, i moribondi vengono ammucchiati l'uno accanto all'altro senza soluzione di continuità e i morti vengono gettati direttamente in mare, attraverso una larga feritoia inclinata della robusta costruzione.

Non passano tre giorni che anche Todero fa il suo ultimo bagno nel mare ancora limpido di Caffa. Ci penseranno le correnti a trasportarlo lontano.

 

Costantinopoli è il luogo di convegno di tutta l'umanità. Per questo s'incontra gente d'ogni tipo. Arman Azad sta seguendo una conversazione che a tratti gli appare allarmante, a tratti assurda, ma sicuramente assai curiosa. Sta molto attento, per discuterne poi con il Custode, anche lui presente.

In mezzo al piccolo assembramento, Barlaam di Seminara, con le sue ricche vesti, più alto di tutti, sembra dominare gli astanti. Non c'è un'ombra di modestia in lui, neppure nella punta opaca delle scarpe, che danno l'impressione di chiedere scusa per essere costrette a poggiare sulla nuda polvere. 

– Io vi dico che l'unità delle Chiese d'Oriente e d'Occidente è vicina. Quando sarà ritrovato il vero calice di Cristo, il suo potere divino compirà il miracolo. E i tempi sono maturi.

Il Custode rimane in silenzio, defilato rispetto agli altri, ma sta ascoltando con la massima attenzione.

– Da cosa lo deduci? – chiede un altro dei presenti.

– Ci sono i segni in cielo e in terra, così com'è stato profetizzato. Perciò siate vigili, fratelli.

– Mostraci i segni, Barlaam.

Arman Azad sente di trovarsi di fronte a una rivelazione fondamentale. Lui non ha mai sentito parlare di questa profezia. Osserva il volto del Custode, fermo a pochi metri da lui, incresparsi in un lieve sorriso enigmatico.

 

Il faro di Costantinopoli lampeggia nello specchio di mare antistante il Palazzo dei Cesari, che si leva più alto delle mura, intento a mostrare una potenza che forse non possiede più. Erasmo c'è stato molte volte e ha visto i magnifici palazzi e le cupole delle chiese levarsi come isole splendenti in un mare di miserie, rovine e sozzura.

Le dodici galee navigano vicine, in formazione compatta. Portano nomi che ne ricordano la provenienza: la Superba, la Lanterna, San Giorgio, San Lorenzo, la Coronata...

L'arrivo a Pera è sempre ordinato, pur nel caos degli ordini urlati dai sottocomiti e i canti della ciurma che gioisce per il breve riposo che l'aspetta. All'incirca come un agnello si dirige al macello, Erasmo si prepara a incontrare il balivo della Superba, come richiesto dal console di Caffa. Il problema è che Nicolò Pastorino non gli è mai piaciuto.

 

Mentre si caricano altre merci sulle galee, Erasmo discute con il balivo di Pera la disperata situazione di Caffa.

– Ho inviato a Caffa tutti gli uomini che potevo. Non posso davvero fare di più.

Con gesto lezioso, Nicolò Pastorino porta il fazzoletto alla bocca, dopo aver bevuto un sorso di vino.

– Capisco.

Erasmo capisce. Capisce soprattutto che non c'è tornaconto per il balivo, né per la stessa Genova. Le merci più ambite stanno giungendo per altre vie, aggirando la costa, a dorso di robusti dromedari.

– Se la caveranno. In passato, la fortezza ha sempre resistito a tutti gli attacchi. E poi mi è giunta notizia che gli uomini del Khān stanno morendo come mosche. Presto toglieranno l'assedio e se ne torneranno da dove sono venuti.

– Sì, in effetti lo penso anch'io. Ma molti moriranno anche a Caffa.

–­ Alle pestilenze ci siamo abituati. Qui saltano fuori ogni momento, come rane dallo stagno. Prima che me ne dimentichi, ho un messaggio per voi.

Pastorino cambia argomento con estrema naturalezza. Apre una cassetta di legno nell'angolo del grande tavolo posto sotto la finestra e ne estrae un piccolo plico sigillato. Lo porge a Erasmo con un sorriso affettato.

– Immagino che abbiate molto da fare, comandante.

Erasmo si congeda con un sospiro di sollievo. Davvero Pastorino non gli è mai piaciuto.

Una volta lontano dal palazzo, apre il plico. Ha riconosciuto l'impronta sul sigillo. Si tratta di un cerchio affiancato da un ramo con foglie. Solo un pazzo come il conte di Nevers poteva inventarsi qualcosa di simile. Fare del simbolo di una locanda il proprio sigillo. Come poi si fosse deciso a lasciare Gand e ad aprire una locanda proprio a Costantinopoli, quella era una storia che ancora non conosceva per intero.

Erasmo legge il messaggio sibillino: "Ho trovato quella cosa che il nostro amico di Marsiglia e io stiamo cercando da tutta la vita."

Un lungo brivido gli corre lungo la schiena. Dunque esiste davvero, si dice, mentre ripiega il plico, stupito e quasi stordito. O forse si tratta di qualcos'altro. È lui che ha capito male.

 

La locanda mostra sull'insegna un cerchio e un ramo di frasche, come tutte le locande sparse in Occidente. Ma è l'unica a sfoggiarlo a Costantinopoli, dove non sanno nemmeno perché il conte l'abbia scelta, sempre che qualcuno se lo sia mai chiesto.

Filippo lo accoglie con un abbraccio, senza tanti complimenti.

– Sono felice di rivederti, Erasmo. Hai ricevuto il mio messaggio?

– Sì, amico mio. Ma di che si tratta?

Il conte si guarda intorno. I suoi clienti sembrano distratti, ma preferisce mantenere la massima cautela, in quel covo di spie che è diventata la città. Quindi lo spinge verso la scala nel retro e lo conduce al piano superiore, lontano da orecchie indiscrete. Tanto più che è lì che conserva il prezioso tesoro.

Arman Azad li segue con lo sguardo, mantenendo la testa immobile, chinata sul piatto, dove smuove il cibo da un lato all'altro, evitando con cura i piccoli tocchi di carne. Lui odia la carne. Si domanda chi sia il nuovo arrivato. Dal colorito scuro e dai capelli stinti dal sole si direbbe un marinaio. Glielo fa pensare anche il passo incerto, tipico degli uomini che vivono a lungo in mare e hanno bisogno di tempo per abituarsi alla terraferma.

Erasmo conosce la strada. È stato altre volte nelle stanze private di Filippo. Qualche volta ci ha anche dormito, nello stesso letto, sfinito da piacevoli e soddisfacenti corpo a corpo.

– Che hai in quell'involto? – chiede Filippo, vedendo solo in quel momento il pacco che Erasmo tiene sotto il braccio.

– Ho una cosa per te.

– Fammi vedere!

Dall'involto Erasmo estrae un sontuoso mantello di seta pesante.

– Proviene dalla Cina. Non appena l'ho avuto sotto gli occhi, ho pensato a te. È proprio il tuo genere.

Filippo se ne avvolge con un gesto elegante.

– Grazie, Erasmo, è magnifico, quasi regale, direi.

– In effetti era destinato al Re di Francia. Che ne dici? Ho fatto bene a fargli smarrire la strada?

– Benissimo. Sei impagabile, Erasmo – risponde, ridendo.

– E adesso mi fai vedere cosa hai trovato?

– Ma certo.

Erasmo osserva il conte svolgere un panno rosso, fino a scoprire un oggetto, che gli mostra, trionfante.

– Dunque è questa, la coppa! Ma come fai a dire che si tratti proprio di quella autentica?

– Guarda cosa c'è scritto sul fondo.

Erasmo si china a guardare.

Dia Chrestou Ogoistais?

– Esatto. La ‘magia del Cristo’. Sono fermamente convinto che si tratti del vero calice dell'Ultima Cena. Vorrei che la facessi pervenire ad Also, perché la valuti. Ormai è lui l'esperto. Fai attenzione, durante il viaggio: si tratta della reliquia più preziosa del mondo.

– Dove l'hai trovata?

– Nella basilica cisterna. Ti avevo detto che una vecchia leggenda parlava di questo posto, dove alcuni crociati di ritorno da Gerusalemme avevano nascosto un tesoro. Nessuno sa che il sotterraneo esiste davvero, ma io l'ho trovato. Di quando in quando ci vado in esplorazione. Del tesoro, però, ancora nessun segno, tranne questa coppa.

Filippo la solleva, lasciandola attraversare da un raggio di sole. Una cascata di luce si spande intorno a ventaglio, come una pioggia di arcobaleni dorati. Erasmo resta a bocca aperta. Filippo gli è sembrato l'officiante di un ignoto rito sacro, richiamato dalla notte dei tempi, mentre il soprannaturale scintillio del manto ha accentuato la sua impressione. L'uomo e la coppa sembrano fatti per restare uniti in un eterno vincolo.

– Perché non gliela porti tu? Poi insieme potreste andare dal Papa.

– Per essere sincero, non credo che il Papa si farebbe convincere a riabilitare l'Ordine, solo perché due ex novizi gli consegnano la coppa dell'Ultima Cena. Ormai è passato troppo tempo, i beni e le proprietà del Tempio sono stati affidati agli Ospitalieri e le calunnie divulgate all'epoca si sono radicate nella mente di tutti, come se fossero oro colato. Di tutto il bene compiuto nessuno fa parola, si ricordano soltanto delle oscene menzogne.

– Forse sarebbe l'occasione giusta per fare chiarezza. Presentare insieme la coppa di Cristo e la verità sui suoi monaci guerrieri sarebbe un bel trionfo.

– Vedremo. Ma intanto vorrei che fossi tu a consegnarla ad Also. Una volta che l'avrà valutata, discuteremo cosa farne, da bravi ex novizi.

Also ne sarà felice. È tutta la vita che la cerca. Quando gli ho parlato di quella conservata nel tempio di San Lorenzo, a Genova, è voluto venire a vederla, e appena gli ha lanciato sopra un'occhiata, ha decretato immediatamente che si tratta di un pessimo falso.

– Come faceva a dirlo?

– Non lo so. È un pazzo come te. Ha le sue idee.

– Una mi sta venendo in mente proprio adesso.

Filippo riavvolge nel panno la coppa e la ripone con cura, poi si volta verso Erasmo con un sorriso irresistibile e comincia a spogliarsi.

In effetti Erasmo condivide le idee folli. È uno che si lascia convincere facilmente.

I due si battono ad armi pari. Il bello dei loro sporadici incontri è che nessuno dei due prevale sull'altro. Entrambi prendono e danno senza risparmiarsi, con vigore e sano appetito.

Quando Erasmo ritorna nella sala, Arman Azad lo segue con lo sguardo. E poco dopo che è uscito, se ne va anche lui.

 

Il conte di Nevers ha combattuto a Gand troppe infide battaglie per non riconoscere una spia quando ce l'ha sotto il naso. E quel tipo, che nessuno sa chi sia, si aggira intorno alla sua locanda troppo spesso. Beve solo acqua e non mangia, neppure quando si mette a un tavolo e ordina la cena. Senza darlo a vedere, Filippo ha cominciato a tenerlo d'occhio. Per seguirlo, ha ingaggiato tre ragazzini con la furbizia di piccole bestiole selvatiche e la prudenza dettata dalla paura di essere scoperti. Così ha saputo dove si rifugiava la notte, in un caravanserraglio ai limiti della città, oltre la Porta Aurea. È sicuro che sia stato proprio lui a introdursi nella sua locanda di notte e a mettere confusione nel suo studio, senza produrre alcun rumore e senza portar via nulla. Da allora, infatti, non si è più fatto vivo. In compenso uno dei ragazzini l'ha visto imbarcarsi lo stesso giorno che le navi di Genova hanno ripreso il mare. Forse sono tutte fantasie, forse si tratta di un caso. Ma Filippo ha imparato molto bene a far di conto e per lui uno più uno fa due, anche in questo caso. Si è pentito di aver consegnato la coppa al suo amico con tanta leggerezza. Avrebbe dovuto fargli altre raccomandazioni, che sul momento gli sono sfuggite. Perciò ha preso la sua decisione. Quello che Erasmo porta con sé non ha prezzo, non gli si può attribuire un valore, è semplicemente la reliquia più preziosa del mondo. E bisogna difenderla. Eppure sa che dietro la sua decisione impulsiva non c'è solo questo. Anche Erasmo gli è prezioso. Sapere che sta correndo un rischio non lo lascerebbe tranquillo.

 

Due tizzoni gialli, nel nero fitto del buio, si accendono a osservare l'immensa nave attraccata al molo. La grossa cima che la tiene legata agli anelli si tende scricchiolando. Sul ponte e sui banchi la maggior parte degli uomini dorme, abbandonando momentaneamente la preoccupazione per un futuro incerto. Gli stracci ammucchiati vicino a un boccaporto prendono vita, come attraversati dai sussulti di un fantasma. Subito dopo, agli occhi gialli del gatto non sfugge il movimento delle ombre nere che percorrono veloci la cima, fino al molo. Le sue vibrisse fremono alla vista delle prede. Questa notte potrà finalmente nutrirsi, lontano dagli sguardi malevoli degli uomini che lo perseguitano, carichi di odio. Mangerà uno di quei grossi ratti e poi tornerà a nascondersi. Il cielo è un muro compatto di pece, da cui non filtra nemmeno lo scintillio di una stella. Ma al gatto nero questo non importa. È già partito alla caccia della sua preda più ambita. La fuga dell'ultimo ratto dura pochi istanti. Quella degli altri si allarga velocemente a raggiera. Entreranno nelle cantine, nei solai, nei fienili. Invisibili e furbi, si muoveranno in fretta nel buio, in cerca di cibo, poi si sposteranno saltando lungo i canali di scolo invasi di rifiuti maleodoranti e putrefatti, torneranno a infilarsi in ogni buco e spargeranno al loro passaggio il carico di morte che si portano addosso.

All'improvviso passi echeggianti attraversano la piazza, mentre il gatto nero torna a nascondersi, trasportando tra le fauci la sua preda ormai esanime. Un numeroso drappello raggiunge il Ponte del Pedaggio. Tra i presenti ci sono i gabellieri, il magistrato, quattro balestrieri e persino l'osservatore che per primo ha avvistato le galee dalla Loggetta dei Greci. Il gabelliere che ha parlato con il comito è quello che si mantiene più indietro di tutti, come se gli uomini schierati davanti a lui gli possano fare da scudo contro la tremenda calamità che sente prossima ad abbattersi sull'intera Genova.

La sentenza è stata emanata in tutta fretta. Le galee devono andarsene.

Gano, il comito, si affaccia alla murata, osservando quelle facce appena illuminate dalla luce gialla delle lanterne.

Gli uomini della ciurma vengono svegliati dai marinai già pronti all'azione, mentre Erasmo osserva tutto, celato dal buio.

Comito, è stato deliberato che ve ne dovete andare.

– Siamo genovesi come voi.

– Non fate storie. Sappiamo da dove venite e quello che portate. Messina e Pisa, che vi hanno concesso asilo, le avete ripagate con la peste. Noi non vi vogliamo. Dovete andarvene.

Il magistrato fa un gesto eloquente verso due degli uomini, i quali vanno a slegare le cime che mantengono la galea legata al ponte di legno.

Il comito sta per ribattere, sdegnato, quando Erasmo si volta prontamente verso i suoi uomini, urlando ordini che nessuno avrebbe voluto sentire.

Di nuovo in viaggio, dunque. È un segno del destino, si dice il comandante. Ma intanto è consapevole che per le altre navi diventa sempre più difficile manovrare, con meno uomini validi e più malcontento che serpeggia tra i banchi.

– Marsiglia! Andremo a Marsiglia! – ordina perentorio.

E intanto pensa al suo amico Also. Sarà contento di ottenere tanta incredibile merce senza intermediari. I tempi difficili lo impongono. A ben pensarci, riflette, ci saranno più guadagni per Also e un posto sicuro per me, dove trovare qualche mese di riposo in buona compagnia. E poi c'è la reliquia che ha trovato Filippo. Quando Also la vedrà, di tutto il resto non gli importerà più niente. Questa storia della peste ha reso Erasmo insofferente. Tutti si comportano come se la peste facesse parte del carico di quelle galee e non si rendono conto che viaggia via terra più velocemente e facilmente di quanto non faccia via mare.

La galea si riunisce alle altre in attesa a poca distanza dalla costa, portando la notizia che la loro patria li respinge. Dopo i primi momenti di rabbia e delusione, i comandanti si radunano, discutendo per ore su quale rotta seguire, ma nessun accordo sembra prevalere. E dunque, è giunto il momento di separarsi. All'alba ciascuno è libero di andare dove vuole. Si salvi chi può.

Le dodici galee si disperdono. Due riusciranno a raggiungere Marsiglia, una Barcellona, una Livorno, e le altre prenderanno rotte che resteranno sospese, in balia delle onde, trasformandole in navi fantasma, gusci di legno che cullano la morte, finché una burrasca non le colerà a picco.

 

La luce del giorno e i rumori del mercato di Gand hanno già raggiunto da tempo l'abbaino dove Gilbert Van Der Meer ha stabilito il suo studio privato. Ha finalmente terminato di aggiornare i conti sul suo registro, in fitte file di numeri incolonnati alla perfezione. Spegne la candela, stira la schiena e va ad aprire la finestra. Mentre il suo sguardo si perde sui tetti blu, gli torna in mente la missiva del suo amico Also de Zajic. Per l'ennesima volta la va a prendere, se la rigira tra le mani e infine la rilegge.

"Oggi il fondaco è deserto. Una volta finito di scrivere questa lettera, partirò per tornare a casa. I nostri affari sono fermi da giorni. La situazione non è mai stata tanto incerta. Le notizie che sto per comunicarti ti spiegheranno i motivi che mi spingono a lasciare Marsiglia.

Dal porto sono giunte notizie inquietanti. Nelle terre d'Oriente sono accaduti fatti straordinari, direi incredibili. Pare che forti terremoti abbiano devastato villaggi e campagne, aprendo voragini dalle quali si sono innalzati fumi pestilenziali, che hanno provocato la morte di chiunque li abbia respirati. Nel medesimo tempo, è caduta dal cielo una pioggia di fuoco, portando con sé serpenti velenosi e rospi putridi che hanno attaccato le genti di quei luoghi lontani. A completare il castigo di Dio, tuoni, fulmini e grandine hanno devastato ciò che restava. Si dice che da laggiù una pestilenza violentissima si sia spinta verso l'Occidente. Vascelli genovesi hanno preso il mare fuggendo da Caffa, portando il grande male fino a noi. Giungono orrende notizie dalla penisola italica e dalle terre di Spagna. So per certo che la pestilenza è giunta oltre il Rodano e fino a Tolosa, e che avanza inesorabile in Borgogna e Normandia. Una di quelle galee è giunta qui a Marsiglia giorni orsono, portando anche a noi la peste. Questo ti scrivo, quale avvertimento, prima di mettermi in viaggio, poiché ho il presagio che questo orribile male avanzerà fino alla fine delle terre, distruggendo il mondo. Perciò, amico mio, mi permetto di consigliarti di fuggire anche tu, finché sei in tempo. Io mi rifugerò, se mi sarà possibile, nel mio castello in Boemia, dove la pestilenza non è ancora giunta. Questi sono i rimedi che i nostri medici hanno imposto a coloro che non hanno ancora contratto il terribile morbo: mangiare e bere con misura, evitare ogni eccesso, difendersi dal freddo, limitare al massimo i contatti umani.

Spero che questa mia ti trovi in buona salute. E spero che in futuro ci sia possibile fare di nuovo buoni affari insieme. Se così non fosse, che ci rimanga almeno la buona amicizia che ci lega e a cui, come sai, tengo moltissimo. Ma ancora di più sarei felice se la tua innata pigrizia ti permettesse di raggiungermi. Lo so, per uno che è nato e vissuto a Gand senza mai lasciare le sue mura, cosa che a me pare impossibile per un commerciante, mettersi in viaggio è una decisione ardua. Ma a me è sempre piaciuto sperare l'insperato e cercare l'impossibile."

Ogni volta che la rilegge, pensa a quanto gli farebbe bene uscire da Gand. Fare come ha fatto il suo amico, che ora si fa chiamare conte di Nevers. Di recente gli ha scritto una lettera in cui gli chiede quando pensa di tornare. Gli piacerebbe molto riaverlo a Gand.

Mentre qui un cieco guida gli altri, il mondo va in rovina, pensa Gilbert, scuotendo la testa.

 

Rallentata da una burrasca inattesa, la galea giunge finalmente al porto di Marsiglia. Erasmo non si stupisce della pessima accoglienza. Non c'è nessuno che si avvicini alla nave. Manda il comito a trattare con i gabellieri, che, tenendolo a debita distanza, vogliono assicurazioni sulla salute dei suoi marinai e della ciurma. Non c'è nessun malato a bordo. Hanno seguito le prescrizioni di un medico di Pera: – Lavatevi il viso e le mani con aceto. Di quando in quando usatelo anche per sciacquarvi la bocca.

I suoi uomini, per precauzione, hanno esteso il lavaggio a tutto il corpo.

Gano, il comito, ritorna a bordo con l'espressione di un cane bastonato.

– Siamo in quarantena. Nessuno può scendere o salire finché non è dimostrato che non portiamo l'epidemia. Purtroppo, la Lanterna è arrivata prima di noi.

– E dov'è? Non la vedo – ribatte Erasmo.

– Perché l'hanno affondata.

– Come sarebbe a dire?

– A bordo della galea c'erano dei malati. Hanno diffuso il contagio nella città. Così, per riparare ai danni, l'hanno portata al largo e le hanno dato fuoco, con tutti i malati che erano a bordo – racconta Gano.

Erasmo contrae il volto in una smorfia d'ira. Il comito continua come se nulla fosse:

– Forse è a noi che conviene la quarantena. Rischiamo di essere arrivati sani e salvi fin qui, per ammalarci appena scesi a terra.

– Devo contattare Also de Zajic. Assolutamente. Gli manderò un messaggio.

– Vedrò di trovare qualcuno che glielo faccia pervenire.

 

Il giovane chierico riceve le missive che il corriere ha portato da Firenze. Se l'è fatte lasciare sulla porta, senza avvicinarsi. Non è il caso di rischiare. Chi vuole sopravvivere deve tenersi a debita distanza dagli altri. Chi può dire cosa cova sotto l'aspetto sano di un corriere? Tutti sembrano perfettamente in salute un momento prima di cadere in deliquio. La morte ha l'aspetto infido di un roseo fanciullo.

Tuccio risale in groppa al suo cavallo, accarezza l'impugnatura della balestra appesa ai finimenti, osserva il chierico chinarsi a raccogliere le missive e poi rientrare velocemente, serrandosi la porta alle spalle. Non si è offeso. Capisce perfettamente la paura. Di tutti i sentimenti che ha provato e che sa riconoscere, la paura è l'unico rimasto alla gente. L'ha riconosciuta ovunque sia passato, in ogni locanda, villaggio o città.

Del resto ormai anche lui ha paura. Quello che ha visto gli pesa dentro come un macigno. Ha già deciso che non tornerà a Firenze. Il commerciante che lo usa come corriere dovrà fare a meno di lui. E del resto, non è così importante, se ha affidato una copia delle stesse missive ad altri tre corrieri, per sicurezza. Li conosce, li ha incontrati più volte, lungo la strada. Al massimo avrà nostalgia del suo cavallo.

Gli hanno detto che a est, in Boemia, la peste nera non arriverà. È lì che è diretto. Se il buon Dio vorrà, lo aiuterà a raggiungere quei luoghi forse meritevoli di scampare al castigo del cielo. Ma intanto si pone mille domande. Per esempio, vorrebbe sapere a causa di quali peccati i bambini stanno morendo, in numero più elevato di quello degli uomini e delle donne. Si chiede perché le madri abbandonino i figli ammalati rinchiudendoli in casa e fuggendo lontano. Si chiede perché le campane abbiano smesso di suonare, e non solo a Firenze. Sono forse morti tutti i campanari? Nel silenzio spettrale della città, Tuccio si rimette in viaggio, portando con sé la balestra, alcuni viveri e i suoi pochi averi. Il ritmico battere degli zoccoli del suo cavallo sul selciato è l'unico rumore che l'accompagna per le strade. Tuttavia, prima di uscire dalla città, Tuccio si spinge fino al porto. Il mare l'ha sempre attirato, ma non ha mai pensato di imbarcarsi, perché non sa nuotare. Ammira la galea che sosta a poca distanza, sul lato estremo del porto. Ha issato una bandiera gialla. Gli hanno detto che è il simbolo della quarantena. Anche Marsiglia è stata colpita dall'epidemia, ma Tuccio l'ha scoperto solo dopo esserci entrato. Dalla nave gli fanno segno di avvicinarsi. Tuccio indugia. Non sarà pericoloso? Poi scrolla la testa. Il pericolo è in ogni respiro e in ogni luogo. Scuote le redini con un'improvvisa decisione, avvicinandosi alla galea. Solleva la testa per osservare il marinaio che gli ha fatto cenno.

– Figliolo, mi faresti un servizio, dietro ricompensa? – gli chiede Gano.

– Di che servizio si tratta?

– Devo far giungere un messaggio a un commerciante di nome Also de Zajic, al fondaco di Boemia.

Tuccio ride. – Ho forse l'aspetto del corriere?

– Come io ho l'aspetto di un uomo fortunato.

– Allora sappi che lo sei davvero, perché io sono un corriere. Non che si debba esserlo per forza, per portare un messaggio da qui a lì, ma comunque è il mio mestiere. Dov'è il plico?

Gano non crede alle proprie orecchie, anche se la risposta di quel ragazzaccio l'ha un poco frastornato.

– Aspetta un momento. Vado a prenderlo.

L'uomo sparisce alla vista, per riapparire con un cesto legato a una corda, che cala lestamente fino a raggiungere l'altezza della testa del cavallo. Tuccio afferra il cestino e ne preleva il contenuto.

– Ripetimi il nome del commerciante.

Also de Zajic, al fondaco di Boemia.

– Devo aspettare la risposta?

– Te ne sarei grato, anche se è vero che abbiamo tutto il tempo per aspettarla con calma, bloccati come siamo.

– Tornerò in ogni caso, dunque. Tieni pronta la ricompensa.

Ben presto Tuccio si addentra nel quartiere dei fondaci che circondano il porto. C'è ancora qualcuno cui chiedere indicazioni, anche se le espressioni degli uomini riflettono diffidenza. Tuccio si mantiene a distanza. Infine trova il magazzino: sull'insegna scolpita nella pietra si può leggere Boemia, ma ha le porte sbarrate.

– Sei arrivato tardi. È chiuso. Se ne sono andati tutti. L'ultimo è partito poche ore fa.

L'uomo che l'ha informato si mantiene all'ombra di un portone.

– Cercavo Also de Zajic.

– È proprio lui l'ultimo che se n'è andato.

– Grazie per l'informazione – risponde Tuccio.

Scambia qualche altra frase con lui, poi lo ringrazia e torna indietro, un po' deluso. Gli dispiace di non essere riuscito a compiere la sua missione e di dover portare questa brutta notizia al marinaio della galea. Spera che ciò non influenzi l'entità del compenso.

Erasmo ha raggiunto Gano, appoggiato alla battagliola. In attesa del corriere che un colpo di fortuna ha condotto fino a loro, osservano la luce affievolirsi, nel cammino del tramonto che diventa sera. Poi sentono il rumore degli zoccoli prima ancora di vedere il cavaliere.

– Ha fatto troppo in fretta – mormora Erasmo, con disappunto.

– Sicuramente de Zajic manderà una risposta con comodo. Avrà già saputo che abbiamo tutto il tempo di aspettarla.

Ma le brutte notizie viaggiano sempre al galoppo. La partenza del suo amico è un brutto colpo per Erasmo. E averlo mancato per un soffio gli sembra una beffa del destino.

– Hai per caso saputo dov'è diretto, ragazzo?

– Mi hanno detto che è tornato a casa sua, in Boemia, nel castello di Strazny.

– Pensa forse che là non arrivi la peste? – si domanda Erasmo a bassa voce.

Nonostante la distanza che li separa, Tuccio lo sente.

– Dicono che a est la pestilenza non arriverà. In effetti anch'io sto andando proprio in quella direzione.

– Allora ti farà comodo una buona coperta. Dagliela, Gano.

Il comito si china dietro la murata, per riapparire con un rotolo di panno di lana, del colore dell'argilla delle sue parti.

– Siete molto generosi, – commenta Tuccio, mentre l'afferra al volo – in fondo non ho fatto molto per voi.

– Chissà che un giorno tu non possa fare di più – si augura Erasmo.

– In attesa di quel giorno, vi saluto, miei signori. Buona fortuna.

– Anche a te, figliolo. Che la fortuna renda il tuo viaggio privo di pericoli.

Tuccio si allontana dalla nave e dal porto, con il pensiero che un giorno potrebbe decidere di attraversare il mare, anche se non sa nuotare.

 

Qualche giorno più tardi, Erasmo ha nuovi motivi per dispiacersi. A sua insaputa, l'armatore ha venduto la galea e le merci che contiene, estromettendolo di fatto dal comando. La sua presenza è divenuta inutile, per non dire imbarazzante. Molto presto saranno tutti congedati.  Per il momento, solo Gano conosce la verità. A lui potrebbe rivelare le sue intenzioni, ma non lo fa. Non gli piacciono gli addii. E poi Gano è un uomo saggio. Avrebbe mille argomentazioni da proporgli per dissuaderlo. Discuterebbero a lungo, e infine, poiché la sua decisione è irrevocabile, arriverebbe il momento di dirsi addio. Gano è il suo comito da sempre. Gli dispiace doversi separare da lui, ma in questo momento raggiungere Also è la cosa più importante. Ha perduto fin troppo tempo. Quindi lascia a Gano una lettera di spiegazioni, poi approfitta delle poche ore in cui il comito sta dormendo, per entrare nella piccola camera del tesoro, appropriarsi di una parte dell'oro, poco più di quello che gli spetta, e sbarcare dalla galea nascosto dal buio fitto. Nei giorni passati ha avuto tutto l'agio di studiare bene la conformazione del porto e dei suoi dintorni. Porta con sé una lanterna cieca e una sacca con il necessario. Infilate alla cintura, una lunga daga, una borsa per trasportare la coppa e la scarsella.  Si avvia verso est, in direzione della scogliera, allontanandosi dal porto e dal quartiere commerciale, per raggiungere un villaggio di pescatori.

Si rammarica di non averlo fatto subito, quel giorno stesso in cui il corriere gli portò la notizia che Also era appena partito. Allora avrebbe potuto raggiungerlo facilmente. Ma ora?

 

Abbondantemente cullato dal rollio della nave, al conte di Nevers non è mancato il tempo per le meditazioni e per i ricordi. Ha lasciato la locanda in buone mani. Sa che dovrà restare lontano per molti mesi. Deve ammettere di non essere mai stato un sedentario. Questo viaggio gli rimette in circolo quella frenesia della ricerca e della scoperta che in fondo ha sempre avuto nel sangue. Ha portato con sé poche cose: la lettera di Gilbert cui deve ancora rispondere, l'occorrente per il viaggio e tutto l'oro che è riuscito a racimolare. Si è accertato che il filo di cuoio che porta al collo fosse ancora robusto; vi tiene appeso il suo sigillo, da cui non si separa mai. Al suo interno è nascosta una miniatura che ritrae sua madre, ed è l'unica cosa che gli rimane di lei.

L'arrivo a Genova interrompe la sua forzata inattività. Non gli resta che cercare la Coronata e il suo amico Erasmo.

Ben presto si rende conto che far parlare un genovese non è cosa facile. Erasmo dev'essere una vera eccezione. Ha impiegato due giorni per scoprire che alla Coronata era stato rifiutato asilo e un altro giorno per trovare qualcuno che sapesse dove si era diretta.  Finalmente un guardiano della Loggetta dei Greci gli ha raccontato di aver sentito il comandante urlare ai suoi uomini che avrebbero fatto rotta per Marsiglia. Vista la situazione, certo Erasmo avrà deciso di raggiungere subito Also.

Di solito Filippo non si arrende davanti a nulla, ma trovare Marsiglia nel caos, il fondaco di Boemia chiuso, Also sparito, e nessuna traccia di Erasmo, è ben altra cosa.

Ostinato, il conte di Nevers comincia a bussare a tutte le porte del quartiere commerciale. Ci sarà pure qualcuno che possa dargli informazioni. Non può arrendersi, quant'è vero Dio.

Come d'incanto, un uomo s'affaccia a una finestra.

– Che vai cercando?

– Per favore, mi sai dire perché il fondaco di Boemia è chiuso?

– Anche tu cerchi Also? È tornato a casa.

– Perché dici anche tu? Qualcun altro l'ha cercato?

– Proprio ieri, un tizio magro che sembrava far fatica a stare in piedi.

– Scuro di capelli con un ciuffo bianco sulla fronte e con il volto triangolare?

– Sì, era proprio come dici.

– E non ricordi se Also è partito con qualcuno? Un marinaio chiaro di capelli, con la barba quasi bionda?

– Da qui è partito da solo, sono sicuro, perché ci siamo salutati. Ma poco dopo l'hanno cercato dal porto.

– Ti ringrazio. Mi sei stato molto utile.

Il conte di Nevers prova una certa soddisfazione nel costatare che la spia non ha un gran vantaggio su di lui. Probabilmente neppure a quell'uomo è riuscito di trovare notizie di Erasmo. A questo punto non gli importa più di ritrovarlo. Seguirà invece la strada più breve per la Boemia, anche se gli sembra difficile raggiungere Also. Eppure, avanzando a tappe forzate, potrebbe non essere impossibile, soprattutto se sta viaggiando con calma. Inoltre, anche senza avere notizie sicure di Erasmo, può supporre, con una buona dose di probabilità, che anche lui si sia lanciato all'inseguimento di Also. Quindi, è inutile altro indugio, la sua meta è Strazny.

 

La quadrella sibila per un istante; rumore di foglie spezzate; il lieve tonfo di qualcosa che cade dall'alto di un ramo, spettinando le felci. Tuccio scende da cavallo legando le briglie a un albero, poi si avvicina al ciuffo di felci dove ha visto cadere lo scoiattolo. Afferra l'asta della quadrella impossessandosi della sua preda. Pulisce con una grossa foglia la punta della freccia che ha costruito apposta per cacciare piccoli animali. Per nutrirsi non gli serve molta carne. Non saprebbe che farsene di un cinghiale o di un cervo.

– Bel colpo!

Tuccio si volta di scatto. L'uomo che lo sta osservando è per metà nascosto dietro un albero. Sembra pronto a difendersi se lui dovesse rivelarsi un pericolo.

– Grazie. Se vuoi mangiare anche tu, però, ne devo prendere un altro.

– Mi farebbe piacere, ragazzo. Io ho una pessima mira. So usare solo la spada.

– Con quella è difficile catturare uno scoiattolo.

– Infatti, preferisco procurarmi il cibo di locanda in locanda.

– Allora ti sei perso. Nel bosco non ci sono locande. E mi hanno detto che il villaggio più vicino è a un paio di giorni da qui.

– Lo so. Ho cibo a sufficienza per qualche giorno. Se vuoi approfittare del mio pane lo divido con te volentieri.

Tuccio ha caricato la balestra, ma rassicurato sulle intenzioni pacifiche dell'uomo, ripone la quadrella nella faretra, poi si fa avanti e si presenta.

– E io sono Also de Zajic.

– Il mercante di Boemia!

Il volto tondo e ancora fanciullesco di Tuccio riflette ampiamente tutto il suo stupore.

– Mi conosci?

– Un marinaio a Marsiglia mi aveva mandato a consegnarti un messaggio, ma tu eri appena partito.

– Chi era?

– Non lo so, ma ricordo che la nave si chiamava La Coronata, ed era in quarantena.

– E il messaggio che diceva?

– Purtroppo non me l'hanno detto, però, adesso che ci penso, ce l'ho ancora. Mi sono dimenticato di restituirlo.

– Bene, adesso hai l'occasione di portare a termine il tuo compito. Forza, ragazzo, vallo a prendere.

Tuccio non si fa pregare. Also, non più nascosto a metà dall'albero, si presenta come un uomo possente. Ha gli occhi di ghiaccio, ma il suo sguardo sembra ironico e benevolo. Il suo sorriso che fa capolino tra barba e baffi biondi è molto rassicurante. Tuccio scava nella bisaccia alla ricerca della piccola pergamena, che è finita in fondo, del tutto dimenticata.

– Trovato. Ecco qua.

Also osserva il sigillo.

– Erasmo! Oh, diavolo! E hai detto che io ero appena partito?

– Esatto. Così mi ha detto un uomo che era vicino al fondaco di Boemia.

– Che il diavolo mi porti! 

Also apre in fretta il sigillo e legge il messaggio.

– Ah, questa poi! Proprio adesso doveva capitare! Devo tornare subito a Marsiglia.

– A far che? La quarantena è finita da un pezzo e il marinaio se ne sarà andato per la sua strada. E poi non temi la peste?

– Erasmo doveva consegnarmi un oggetto che sto cercando da tutta la vita. Devo ritrovarlo.

– Gli ho detto dov'eri diretto. Può darsi che lui ritrovi te.

– Davvero? Allora cambia tutto. Probabile che mi abbia mandato un messaggio al castello, oppure, come spero, che stia tentando di raggiungermi.

Tuccio s'immobilizza per un attimo, poi con un unico fluido movimento, afferra la quadrella e la sistema sulla piccola balestra, puntandola su di lui. Also non ha neppure il tempo di stupirsi e di cercare riparo, che già il fischio della freccia gli sfiora un orecchio. Con un tonfo secco si pianta nel tronco alle sue spalle.

– Adesso abbiamo la cena – annuncia Tuccio, soddisfatto.

Also osserva lo scoiattolo inchiodato all'albero e, dopo un sospiro di sollievo, ghigna.

– Per un attimo ho creduto che ce l'avessi con me. Sei veloce, ragazzo.

 

Gano sa come ubriacarsi a dovere. È diventato uno specialista. Si è prima di tutto assicurato che la bettola dove ha messo radici fosse ben rifornita di botti, e poi, con metodo e dedizione, si è messo all'opera. Non ha digerito molte delle disavventure vissute nell'ultimo anno, ma la peggiore di tutte è stata la fuga di Erasmo. Mai nella vita si sarebbe aspettato un tradimento simile. Era convinto che fossero amici. Ma la vita è fatta così. Bisogna solo accettarla. Capirla è un'altra cosa. Per capirla bisogna essere filosofi e per essere filosofi bisogna essere un po' brilli. Gano ce la sta mettendo tutta. Peccato che quando gli sembra d'aver trovato un ragionamento che fila, di colpo si addormenti; per lo più sul tavolo: se è fortunato, con il cuscino delle braccia su cui appoggiare la testa, altre volte, più spesso, con l'unico cuscino della sua lunga barba.

Stasera gli è capitato un vicino che non apprezza il vino della casa. Ne ha un boccale davanti, ma si guarda bene dal berlo. Poi, non sa come, inizia a parlargli di Erasmo. Forse perché lo sguardo dello straniero sembra quello di un uomo pio, gli è venuta voglia di confessarsi. Più beve e più parla. Più parla e più si sente leggero. La confessione è davvero un sacramento benefico per l'anima.

Superato il primo momento di sorpresa, il Custode ringrazia Allah di averlo guidato accanto all'uomo con cui sta conversando, un uomo che a prima vista sembra tanto anonimo e privo di qualità, che nessuno si volterebbe a guardare una seconda volta; sarà per via della barba che gli ricopre il viso, impedendo di distinguerne i lineamenti, o per il colore neutro dei capelli arruffati, né chiari, né scuri; sarà per via della sua voce piatta che raccontando la sua storia non s'innalza né si abbassa per porre in evidenza i fatti salienti, ma prosegue monocorde come una litania imparata a memoria; un uomo, in definitiva, scialbo, mediocre, noioso e decisamente infelice.

Mai si sarebbe sognato di trovare tanto in fretta, grazie a un simile incontro, la conferma che cercava.

Dopo aver ascoltato i profetici discorsi di Barlaam di Seminara, ha trovato per caso un vecchio che blaterava a vanvera, nel cadente quartiere intorno a Santa Sofia. Dai suoi sproloqui insensati rivolti a un cane cieco che gli faceva compagnia, il Custode ha tratto l'impressione che nella sua catapecchia ci fosse un pozzo in cui un gentiluomo fiammingo amava spesso immergersi. Il vecchio gli dava del folle, aspettando l'assenso del cane, mentre quello, senza vedere nulla, ogni tanto guaiva. Non gli c'era voluto molto per scoprire quello che era accaduto davvero e che il povero rincitrullito aveva travisato a modo suo. Aveva effettuato ulteriori indagini nella casupola, scoprendo che dal pozzo partiva una lunga scala sdrucciolevole che sprofondava fino a un'immensa cisterna. Doveva essere quella di cui parlavano le leggende, la stessa dove i crociati avevano nascosto il tesoro rubato a Gerusalemme. Quindi Barlaam, dopo tutto, aveva ragione: erano maturi i tempi perché la coppa tornasse a influenzare le sorti del mondo. Arman Azad era stato molto utile. Aveva individuato l'uomo che in effetti ne era entrato in possesso, il conte di Nevers, ma quando aveva tentato di sottrargliela, alla locanda, non era riuscito a trovarla. Arman era convinto che l'avesse consegnata al comandante della Coronata, quindi aveva deciso di seguirlo a Genova. Ma, poco dopo, anche il conte di Nevers si era allontanato per mare. Cosicché, nel dubbio che l'uomo, dopo tutto, portasse la coppa con sé, anche lui aveva lasciato Costantinopoli per seguirne le tracce.

E adesso, dopo tanti dubbi e tante incertezze, inaspettatamente e del tutto casualmente, si trova di fronte a una notizia certa. La sua ricerca cambia obiettivo. Arman Azad aveva ragione. Se vuole che il Bene Supremo raggiunga il luogo designato per restare sotto la custodia del suo Ordine, deve trovare  il comandante Erasmo Traverso.

 

Alla Locanda Fiorita Erasmo giunge quando la notte è appena calata. Il suo cavallo trova giusto uno stallo libero e un giovane stalliere pronto a occuparsene, mentre per lui c'è un posto a un tavolo già occupato, ma vicino al grande camino. L'uomo che ha di fronte lo saluta con cortesia, ma non attacca discorso, come invece gli accade di solito in questi casi. Ha un portamento elegante, da gran signore, uno sguardo limpido e un volto aperto. Più che un nobile gli sembra un mercante. Erasmo non sa spiegarsi perché lo pensi. È solo un'impressione. Ha gesti precisi ed essenziali, mani eleganti ma forti, che spezzano il pane in modo da non produrre briciole. Erasmo si accorge di colpo che lo sta fissando da quando si è seduto e non è molto cortese da parte sua. Quindi volge lo sguardo intorno, intercettando quello dell'oste che gli si fa incontro con lunghi passi decisi, mentre si asciuga le mani con un telo di stoffa.

Un boccale e una mezza pagnotta vengono sistemati di fronte a lui da un giovane di cucina, che subito ritorna a girare gli spiedi davanti a un altro camino. Erasmo cerca di distrarsi osservando l'oste sfilzare un piccione dallo spiedo più basso. Dopo un attimo se lo ritrova sotto il naso, deposto su un piatto di peltro, accompagnato da una tazza di zuppa.

Quando l'uomo termina il suo pasto masticando in modo lento e meticoloso, Erasmo è alle prese con l'ultima coscetta. Sfila la carne intorno all'osso con un unico morso e svuota il suo boccale.

L'uomo lo guarda.

– Posso offrirti da bere? Vedo che sei a secco.

– Ti ringrazio. Ho chiesto del vino, ma non intendevo un solo boccale.

– Qui usa così. Se ne vuoi una brocca, bisogna chiederla. Ed è un bene, ti assicuro, perché questo vinello, che va giù come acqua pura, nasconde un'insidia: dà subito alla testa.

– Sono di passaggio. Non conosco le usanze locali.

Mentre l'uomo gli versa il vino, si presenta.

– Sono anch'io di passaggio. Mi chiamo Gilbert Van Der Meer. Sto andando a trovare un amico in Boemia.

– E io sono Erasmo Traverso, e per coincidenza anch'io sto andando a trovare un amico in Boemia.

– Veramente non so se Also è già arrivato là.

Also? Also de Zajic?

– Non dirmi che anche tu...

Erasmo scoppia in una risata. Il vino che gli scalda le vene fa la sua parte, ma anche il fascino del sorriso di Gilbert non è ininfluente. Erasmo si sente stranamente euforico.

– Allora, se anche tu stai andando da lui, non ci resta che continuare questo viaggio insieme.

C'è un briciolo d'incoscienza nella sua proposta. Con i tempi che corrono e la peste che galoppa, unirsi a uno sconosciuto non è esattamente il comportamento più consigliabile, ma il vino gli ha già dato alla testa e il piacere che prova guardando Gilbert l'ha frastornato ulteriormente, privandolo di ogni prudenza. In un barlume di ritrovata sobrietà prevede che Gilbert non accetterà. Almeno lui, sembra un uomo assennato.

– Che fortuna esserci incontrati. Il viaggio mi sembrerà più breve e meno noioso continuandolo in tua compagnia.

Le impressioni di Erasmo non sono sempre quelle giuste.

 

Arman Azad ha esaurito le scorte. La fame lo costringe a entrare alla Locanda Fiorita, ma solo dopo essersi accertato che non ci sia più nessuno nella sala. Si ferma giusto il tempo di riempire la bisaccia e rifiutare l'offerta di un letto. Poi, con una certa fretta, si fa di nuovo inghiottire dalla vegetazione. L'oste si domanda se non sia uno di quei pazzi che per paura della peste vivono vagando per i boschi, tenendosi alla larga dal resto del genere umano. Certo, non v'è alcuna certezza che qualcuno dei suoi ospiti, prima o poi, non sia uno di quelli che se la portano addosso senza neppure saperlo. Ma per il momento sembra lontana. Se è fortunato non arriverà mai fino alla sua locanda.

Arman Azad ringrazia mentalmente l'unico Dio per avergli concesso il cibo che lo nutre. Non mangia molto, ma quel poco deve pur procurarselo. Quando ha finito, stende in terra una coperta e si mette a dormire. Ha il sonno leggero, e dormendo sa distinguere i rumori del bosco e del suo cavallo da quelli che potrebbero rivelarsi un segnale di pericolo.

All'alba sente lontane voci cantilenanti e strani rumori. C'è gente che si avvicina. Le litanie diventano sempre più intellegibili. Capisce che stanno proprio venendo verso di lui. Arman Azad raccoglie la coperta e si allontana con il suo cavallo, fino a trovare una parte di bosco più fitta. La luce si va rafforzando. L'aria è immobile. Il canto sembra seguirlo: ora lo sente vicinissimo. Sente più forte i rumori, come pietre che vengono battute tra di loro. Infine, nello spazio fra i tronchi vede passare la processione di uomini incappucciati. Alcuni di loro portano in spalla una croce di legno, all'apparenza tanto pesante che a ogni passo sono costretti ad appoggiarla in terra con forza, producendo il rumore che ha sentito. Dagli altri invece proviene il canto. Sulla tunica hanno disegnata una croce, segno che si tratta di cristiani. Arman Azad non comprende quello che sta vedendo, ma una volta ritornato indietro lo racconterà al Custode. Sono molte le cose che deve ricordare.

 

Il conte di Nevers cerca di mantenersi a una buona distanza dalla processione dei Flagellanti. Odia i loro canti, i lamenti e le litanie. In generale odia tutte le manifestazioni esagerate nate dalla paura della peste. Ma non tutte si esprimono con il pentimento e la mortificazione. Ci sono, infatti, anche coloro che al contrario si concedono a follie smodate per godere di quelli che ritengono i loro ultimi giorni, tuffandosi nei piaceri più sfrenati. Filippo li preferisce. Almeno loro si divertono e non disturbano nessuno.

Spera che i Flagellanti si fermino nel primo paese, per dare sfogo alla loro necessità di punirsi, così da lasciare libero il sentiero, permettendogli di proseguire più speditamente il viaggio. Ha provato ad aggirarli, ma si è perso, girando in tondo e ritornando in coda alla processione. Non ha molta voglia di riprovarci. Si è pentito di non essersi fermato all'ultima locanda. Adesso sarebbe più riposato e avrebbe risparmiato tutta quella strada che l'ha riportato al punto di partenza.

 

I cavalli sono stanchi di avanzare nel fango. C'è il rischio che inciampino in una radice nascosta. Due giorni di pioggia sottile ma ininterrotta hanno reso difficile proseguire. Erasmo si volta verso Gilbert, trattenendo la cavalcatura.

– Fermiamoci. Sta diventando troppo rischioso andare avanti.

Gilbert ride. Gli piace prendere in giro il suo compagno di viaggio.

– Uomo di mare, questi cavalli sono abituati. Non ti preoccupare. Il prossimo villaggio dev'essere vicino. Se ci fermiamo adesso ci toccherà un'altra notte sotto l'acqua. Ancora un poco di pazienza, comandante.

– Sai Gilbert, alla prossima locanda, vedendoci addosso tutto questo fango, non ci faranno neanche entrare se prima non ci facciamo un bagno.

– Un altro?

Anche Erasmo ride. Ha l'impressione che accanto a Gilbert potrebbe superare qualunque impresa. Con un colpetto di redini si rimette in marcia. È proprio in quell'istante che un coltellaccio si pianta in un tronco, esattamente dove poco prima si trovava la sua testa.

Come un sol uomo, Erasmo e Gilbert si buttano giù di sella, nascondendosi dietro gli alberi.

– Sono briganti? Vedi qualcuno?

– No, Erasmo, non riesco a vedere nessuno. Stai all'erta.

Un improvviso lancio di pietre fa fuggire i cavalli, con un nitrito furioso.

Sembra che lo scroscio della pioggia sulle foglie degli alberi diventi ancor più intenso e rumoroso, mentre i due amici cercano di sentire un suono diverso, qualcosa che possa far intuire la posizione del nemico. Ma niente.

Sono spalle a spalle, con la spada sguainata, in attesa che i briganti si decidano a farsi avanti per lottare corpo a corpo. L'attesa si protrae. Per Erasmo quel contatto è fonte di nuove fantasie, che scaccia immediatamente per concentrarsi sulla loro precaria posizione.

– Perché non attaccano? Cosa aspettano? - commenta Erasmo.

– Non chiederlo a me. Non sono avvezzo alle battaglie.

– Se è per questo, neanch'io.

– Un commerciante e un marinaio, che bella accoppiata. Quelli ci accoppano in un batter d'occhio.

– Sei sempre così ottimista?

– Di solito non ne ho bisogno.

Lo schianto di un ramo spezzato giunge dalla direzione verso cui è voltato Gilbert. Il fragore li zittisce. Entrambi girano intorno al tronco in modo da metterlo tra loro e la direzione di quel rumore. Un sibilo ha accompagnato la loro mossa. Un altro coltello si è piantato nel tronco, mentre Erasmo sente una fitta alla coscia. Una scheggia di legno ha penetrato i suoi indumenti, conficcandosi nella carne. Brucia, ma è poco più di un fastidio.

– Sono stufo di giocare a nascondino – sbuffa Gilbert.

Dev'essere un brigante solitario. Se fossero almeno in due ci staremmo già battendo.

– Proviamo a muoverci. Allontaniamoci dal sentiero.

– Vai prima tu. Io ti seguo.

Gilbert lo guarda con espressione canzonatoria, sogghigna, poi salta fuori dal riparo e con due falcate raggiunge il tronco di un albero vicino. Erasmo gli fa cenno di continuare, poi esce allo scoperto anche lui. Non accade niente. Perciò continuano ad arretrare.

Il Conte di Nevers sente il suono di un galoppo e un nitrito di cavalli. Per la centesima volta si rimprovera di aver affrontato il viaggio senza scorta. Sono tempi duri. S'incontrano sbandati a ogni piè sospinto, disperati che fuggono dalle campagne, balordi, briganti. Le strade non sono sicure. Rimanere costantemente all'erta lo stanca.

Ma non tutti vanno al galoppo, considera dentro di sé, vedendo in lontananza un cavallo legato a un albero. Vicino c'è qualcuno. L'uomo si volta verso di lui solo per un attimo, ma in quell'attimo, e nonostante la distanza, Filippo riconosce la spia di Costantinopoli. Lesto, l'uomo libera le briglie, monta in sella e si allontana anche lui al galoppo.

Il conte si lancia all'inseguimento. Capire dove sta andando gli tornerebbe utile.

– A quanto pare erano in due, eppure se ne sono andati – commenta Gilbert.

– Anche i nostri cavalli se ne sono andati. E i viveri, le coperte e tutto il resto.

– Per fortuna l'oro lo tengo con me.

– E io, oltre l'oro, la coppa di Also.

– Quale coppa?

– Lo sai quale. Ritrovarla è lo scopo della sua vita.

– Ah, quella coppa. Spero quella vera, non il falso esposto in una chiesa di Genova, che lo fece infuriare. E vorresti farmi credere che ce l'hai tu?

Per un attimo Erasmo si pente d'averne fatto cenno. Forse sarebbe stato più sicuro mantenere il segreto. Ma ormai è fatta. E poi si fida di Gilbert.

– Sì, è stata ritrovata a Costantinopoli e mi è stata affidata per consegnarla a lui. Ma quel pazzo ha lasciato Marsiglia poche ore prima che io ci arrivassi, costringendomi a inseguirlo per mezza Europa.

– Ma sei proprio sicuro che sia quella? O stai scherzando?

– Ti sembra un argomento su cui scherzare?

– Niente affatto. Ma non ho mai creduto che fosse un oggetto di cui appropriarsi. Non puoi metterlo sulla mensola del camino e dire ai tuoi ospiti "sapete cos'è questa?" oppure tenerla nascosta nella stanza dei tesori.

Non è un oggetto qualsiasi, e neppure una reliquia qualunque. Also non mi ha mai detto che cosa vuole farne. E questo mi preoccupa un po', per quanto affetto gli porti.

– Se non sai nulla del suo passato non puoi capire. Ti dirò soltanto una cosa. Also vuole consegnarla al Papa, nella speranza che riabiliti l'Ordine dei Templari.

– Ma perché?

– Era al Tempio di Parigi la notte che hanno arrestato tutti. Solo per caso è riuscito a fuggire con pochi altri cavalieri.

– Adesso capisco. Era un compagno di Gerard, dunque. Strano che non me l'abbiano detto.

– Gerard?

– Adesso si fa chiamare conte di Nevers.

– Stai parlando di Filippo?

– Conosci anche lui, allora.

– Ma certo. È Filippo che ha trovato la coppa.

– E cosa gli ha impedito di consegnarla ad Also? Non dirmi che pensa di essere ancora ricercato!

– Non credo. Forse anche lui si è fatto sedentario. A una certa età succede.

– Spero tu non abbia nulla da ridire contro i sedentari. Questo è il primo viaggio che affronto nella mia vita. Fino a qualche giorno fa ero un sedentario anch'io.

– Beh, sono felice che tu abbia avuto un ripensamento. In due si viaggia meglio.

– E io sono contento di averti incontrato. Saremo in due a difendere la coppa. Adesso vediamo di arrivare al primo villaggio, ripulirci, riposarci e procurarci quello che ci serve.

– Sì, andiamo. Dicevo sul serio, ho proprio bisogno di un bagno caldo.

– Sei strano, Erasmo.

– Lo so. Ma è un piacere che mi posso concedere solo quando sono sulla terraferma.

– E lo consideri un piacere? Sei pazzo come Also. Adesso capisco come mai siete amici.

– E tu non sei suo amico?

– Io sono un'eccezione.

– Bene, signor Eccezione. Vogliamo andare?

– Dopo di te.

 

– Oltre il fiume, a due giorni da qui, c'è il mio castello. Siamo quasi arrivati. Ah, il mio paese, terra di orsi e lupi, di cervi e di cinghiali.

Also si ripara gli occhi con una mano sulla fronte, come a cercare di vedere in lontananza il castello di cui parla e che si ricorda a malapena.

Tuccio ha ormai il fango fino al mento e i suoi capelli sembrano un groviglio di serpi.  La vista del fiume lo riempie di allegria. Anche se non sa nuotare, sente davvero il bisogno di lavarsi.

– Conosci un posto dove l'acqua sia bassa e tranquilla?

– Certo. È proprio vicino al guado. Ho capito che cosa hai in mente, e hai ragione, ragazzo, è arrivato il momento di toglierci di dosso la polvere del viaggio.

– Fosse solo polvere!

In una piccola ansa le canne formano una sorta di riparo per la radura che digrada nell'acqua limpida e verde. L'erba è alta e folta.

Legano le briglie dei cavalli a un piccolo masso sulla riva, permettendo agli animali di abbeverarsi. Also e Tuccio si spogliano, lasciando le vesti sull'erba. Also si butta in acqua con foga, urlando e producendo schizzi in ogni direzione.

– Ah, non sai quanto è fredda! – rabbrividisce.

Tuccio, con molta calma, immerge i piedi, sosta un poco, poi avanza fino alle ginocchia, con cautela. Si blocca di nuovo. Also pensa di mettere fine a quel lento supplizio schizzandolo ad arte. Tuccio si volta di schiena, piegandosi, per ripararsi. Also lo afferra per la cintola e lo trascina indietro, lasciando la presa solo quando Tuccio è finalmente sott'acqua. Non si aspetta la sua reazione disordinata, gambe e braccia che annaspano disperatamente, come se non sapesse più dove si trovano l'alto e il basso. All'inizio Also ride, ma poi si rende conto che Tuccio non sta scherzando, rischia di annegare. Riacciuffarlo e rimetterlo in piedi non è impresa da poco. Mentre il ragazzo si afferra disperatamente a lui, con lo sguardo terrorizzato, Also lo rimprovera.

– Per la miseria! Potevi dirmelo che non sai nuotare, testa di rapa!

Ma intanto tutto quello strofinio del corpo del ragazzo su di lui gli provoca una reazione inaspettata. Tuccio lo sente, si scosta da ciò che preme sul suo ventre e guarda Also con espressione contrita. Questo produce nell'uomo un'irresistibile voglia di essere ricompensato per la sua eroica impresa. Volta Tuccio di schiena, lo cinge nuovamente in un ferreo abbraccio e lo infilza senza tante titubanze.

Il ragazzo si ribella, tentando di aprire con forza il cerchio delle braccia robuste del gigante, ma non ottiene nemmeno che si spostino di un millimetro. Poi, all'improvviso, si arrende e cede. Non è la prima volta. Il suo patrigno ha approfittato di lui in varie occasioni, sempre per punirlo di qualche guaio combinato pur senza intenzioni malevole. Da ragazzino gli capitava spesso di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Anche adesso, ne ha combinata una delle sue, tacendo ad Also che non sa nuotare. Fa bene il suo compagno a punirlo così.

 

Il Custode persegue con costanza la sua meta, un piccolo castello vicino a Strazny. Due settimane di viaggio lo separano dal suo scopo. È un bene che nessuno sappia nulla delle sue intenzioni. Il segreto è la più valida delle armi a sua disposizione. Intanto, sta già progettando il ritorno: s'imbarcherà a Venezia, raggiungerà Damasco e si riunirà ai suoi fratelli. Tutto sarà pronto per il momento fatidico.

 

Il pentimento dell'uomo da sobrio non può riscattare le malefatte compiute da ubriaco. Gano si è reso conto di aver fatto una stupidaggine colossale. Non doveva raccontare a uno sconosciuto tutte quelle storie su Erasmo. Ora quell'uomo che gli sembrava tanto pio sta percorrendo il sentiero d'oro, la via che porta in Boemia. Segue l'uomo da giorni, proprio per assicurarsene. E ormai è convinto che sia diretto al castello di Also. Deve andarci anche lui. Solo così potrà rimediare ai guai prodotti dalla sua lingua lunga.

 

Il conte di Nevers si ferma alla vista dell'acqua. Più avanti il sentiero si piega a gomito per seguire il corso del fiume. Fino a ora gli è capitato due volte di vedere l'uomo di Costantinopoli, ma sempre in lontananza. Sa di essergli molto vicino. Non vuole lasciarselo sfuggire. Il conte riprende la sua strada. Ogni indugio rischia di fargliene perdere le tracce. E finalmente lo vede. Sta attraversando il guado poco più a valle. Le canne e i massi gliel'avevano nascosto alla vista. Per un attimo si domanda se sia meglio restare nascosto o seguirlo apertamente. Poi decide di correre il rischio, e anche lui affronta il guado. Al suo cavallo l'acqua non piace molto, ma dopo le prime resistenze si adatta alla fredda temperatura. Giunto sull'altra sponda, continua a seguire il sentiero, mantenendo il passo. Anche qui per alcuni metri è parallelo al corso del fiume e poi curva a gomito tagliando per il bosco. All'improvviso un coltello si pianta nel collo del suo cavallo, che crolla, disarcionandolo.

Filippo fa in tempo a rimettersi in piedi e a estrarre la daga, un attimo prima che la spia di Costantinopoli gli sia addosso. Si affrontano subito con accanimento, incrociando le armi, il cui suono riecheggia rimbalzando sui massi. L'esperienza e la tecnica di Filippo riescono a compensare l'agilità del contendente, la cui velocità è impressionante. Ma la spia usa insieme una daga e un pugnale, che ben presto mettono in difficoltà Filippo, sempre più affaticato. In un ultimo tentativo di levarselo di torno, esegue una finta e un affondo che scopre la sua guardia, rendendolo purtroppo facile preda dell'avversario, che aggancia la sua daga, disarmandolo. Quindi, agganciandogli un piede, lo fa crollare a terra. Nello stesso tempo, la spia gli è addosso, puntandogli il pugnale alla gola.

– Perché mi stai seguendo?

– Non ti sto seguendo. Forse stiamo andando nella stessa direzione – risponde con il fiato corto.

– Dammi la coppa.

– Di che cosa stai parlando?

– Se non mi consegni la coppa, ti ammazzo.

– Non ho nessuna coppa.

– Davvero? E chi ce l'ha, il tuo amico genovese?

– L'ho portata a Santa Sofia.

– Non ti credo. Dov'è il tuo amico? Dove sta portando la coppa?

– Del mio amico non so niente. Sarà tornato a Genova. Ma la coppa è rimasta a Costantinopoli. Perché mai avrei dovuto consegnarla a qualcun altro? È una reliquia che appartiene alla nostra Chiesa e sono stato orgoglioso e onorato di porla nelle mani di Barlaam di Seminara.

Filippo pensa che se il suo viaggio è servito almeno a depistare la spia, ha già fatto un buon lavoro. Non sa che grazie al suo sopraggiungere, Arman Azad ha dovuto desistere dall'uccidere Erasmo e il suo compagno di viaggio, cui aveva teso un'imboscata. Né loro lo sapranno mai.

Gli occhi allungati di Arman Azad si socchiudono. Sta valutando le risposte del conte di Nevers e la sua freddezza straordinaria. Se è sincero, lui ha compiuto un viaggio del tutto inutile, ma non ha modo di saperlo per certo. Discutere ancora con il conte di Nevers non gli serve a niente. Affonda la lama con un colpo deciso, seguito da uno laterale che gli stacca quasi la testa dal collo.

Arman Azad stende in terra la coperta del conte, poi fa rotolare il suo corpo all'interno, avvolgendolo stretto. Con una corda stringe i due estremi, all'altezza del collo e delle caviglie e poi vi assicura due grosse pietre. Quindi lo lascia scivolare nell'acqua, dove va presto a fondo, mentre il cavallo resta sul sentiero, perché gli è impossibile spostarlo. Si riappropria del pugnale e infine esplora il contenuto delle bisacce. Come temeva, non c'è niente d'importante. Davvero la coppa si trova ancora a Costantinopoli? Se è così, spera che il Custode l'abbia trovata. E se invece è una menzogna, quando troverà Erasmo Traverso gliela riprenderà.

 

– Avresti dovuto togliere subito la scheggia. Guarda come si è conciata quella coscia. Vado a chiedere un unguento per rimetterla in sesto.

– Non è niente, Gilbert. Non ti disturbare.

– Dammi retta. Meglio curarla subito. Ci aspetta ancora qualche giorno di  viaggio.

Erasmo non fa in tempo a ribattere che Gilbert è già uscito, richiudendo la porta. Il camerone è ancora deserto. Sono tutti giù nel salone a bere e mangiare. Soprattutto a bere. Per una stupida scheggia di legno lui invece si ritrova steso su un pagliericcio e fa perfino fatica a girarsi. Il dolore gli arriva al ginocchio. Ma non è tanto il dolore a bloccarlo, quanto il gran mal di testa e la sensazione di ondeggiare. Deve avere la febbre. Senza accorgersene si addormenta.

A scuoterlo per una spalla è lo speziale. Gli chiede come si sente.

– Intontito.

– Adesso ti spalmerò un unguento. Dovrai continuare ad applicarlo per una settimana, anche se ti sembra guarita. Hai capito?

– Non ti preoccupare, ci penso io – lo rassicura Gilbert.

– Hai la febbre. Ti preparerò un decotto miracoloso. Tra un paio di giorni sarai in grado di riprendere il viaggio.

– Sarà amaro come il fiele – si lamenta Erasmo.

– Non più della sbobba che fai mangiare alla tua ciurma. Adesso tocca a te. Non fare tante storie – commenta Gilbert.

Lo speziale sparisce per andare a preparare il decotto nell'unico camino acceso della locanda.

– Ha detto che sarai pronto a riprendere il viaggio tra un paio di giorni. Devo trovare due cavalli. Domani mattina andrò a cercarli. Mi farò indicare il villaggio più vicino.

– Aspetta che mi rimetta in piedi, e poi ci andremo insieme.

– No, facciamo come dico io, comandante. Tu pensa a guarire, e in fretta. Non sai le facce che hanno fatto di sotto quando hanno visto lo speziale. Ci scommetto che tutti hanno pensato che tu sia un appestato.

– D'accordo, allora. Prima ce ne andremo da qui e meglio sarà.

 

Manca un solo giorno di cammino al castello di Also. Lui non ha più fatto cenno a quello che è accaduto al fiume, e Tuccio, pur pensandoci a lungo e interrogandosi su quello che ha provato, è rimasto in silenzio. Ma adesso che si fermano per la notte, sente una sorta di distanza che si è creata tra loro. Prova imbarazzo e dispiacere. Also gli piace immensamente. È un uomo forte, e generoso, allegro, sanguigno, un uomo con cui gli piace stare. Vorrebbe che Also lo tenesse con sé, per sempre. Mangiano un po' di pane duro e un pezzo di formaggio. Also afferra la coperta e vi si avvolge, addormentandosi quasi subito. Tuccio vorrebbe essere quella coperta, per stringerlo e riscaldarlo. Ha un gran calore che gli sale da dentro e una gran voglia di essere preso tra quelle braccia forti. La luna piena rischiara appena la piccola radura dove si sono fermati per la notte. Le ombre nere delle chiome degli alberi si muovono, ricalcando le foglie agitate da un vento leggero. Da un pezzo si gira e si rigira nella coperta, senza riuscire a dormire, quando sente i rumori provenire dal sentiero. Potrebbe essere un orso. Prepara in silenzio la piccola balestra che tiene sempre a portata di mano. Resta in allerta, scrutando nel buio tra i rami le vaghe chiazze di chiarore. E all'improvviso l'ombra nera si staglia tra gli alberi, lo vede, l'orso, in piedi, alto, enorme, con le fauci spalancate e il dondolio strano dei suoi arti. Immagina artigli mostruosi, ne sente il passo deciso. Per un attimo a Tuccio sembra di essere come staccato dal corpo e la robusta quadrella parte di propria volontà. Un grido strozzato fa eco a quel lancio. Also si solleva a sedere, subito sveglio, cercando intorno a sé l'origine di quell'urlo.

– Che accade?

– Un orso. L'ho preso al primo colpo.

Also è subito in piedi, si guarda ancora intorno.

– Dov'è, ragazzo?

Tuccio guarda a bocca aperta la sagoma del cavallo che si sta avvicinando a loro.

– Un cavallo?

Tuccio, che ci fa un cavallo con un orso?

– Eppure, mi sembrava...

– Ho il terribile sospetto che tu abbia scambiato un cristiano per un orso. Maledizione!

Also accende la lanterna e si avvicina alla macchia scura che vede vicino a un albero.

– Bella mira. Peccato che non sia un orso.

– Mi dispiace. Mi pareva proprio...

– Taci. Aiutami a portarlo in mezzo a quei rovi. Ci penseranno gli animali a farlo sparire.

– Mi dispiace.

– Lascia stare. Gli incidenti di caccia possono sempre capitare, no?

– Di caccia?

– E sì, ragazzo, questo qui stava andando sicuramente a caccia di guai. Quanto ci scommetti che voleva derubarci?

– Dici davvero? Non ci stavo pensando. Non stavo pensando a niente. Non so come sia accaduto.

– Non importa. Adesso aiutami.

L'uomo è bruno, alto e magro e ha il volto triangolare, con gli occhi allungati e una ciocca di capelli bianchi proprio sulla fronte.

Nelle bisacce del suo cavallo Also trova il sigillo del conte di Nevers e una discreta quantità d'oro.

– Forse hai fatto bene ad ammazzarlo, ragazzo. Se è come penso, sì, hai fatto proprio bene.

– Riconosci quell'oggetto? Dici che l'ha rubato a qualcuno?

– Proprio così. Ma l'uomo a cui appartiene non si sarebbe mai separato dal suo sigillo, e nessuno avrebbe potuto rubarglielo se non dopo morto.

– Lo conoscevi molto bene?

– Sì, eravamo come fratelli, io e Filippo. Non posso crederci. Non capisco.

– Forse Filippo è stato solo derubato. Oppure il sigillo è stato dato a quest'uomo da Filippo perché lo facesse riconoscere come suo amico. Magari veniva proprio a cercare te, per portarti un suo messaggio. Insomma, Also, non è detto che sia morto.

– Lo spero davvero, ragazzo – commenta Also, mentre due grosse lacrime gli solcano il volto andandosi a nascondere tra i peli della sua barba.

Also, contrariamente a quello che ha appena affermato, sente che il suo vecchio amico non è più di questa terra. E il dolore lo soffoca.

Nonostante il buio, Tuccio comprende che è un duro momento per Also. D'impulso lo abbraccia, sperando di consolarlo.

Also non reagisce. Poi, lentamente, ritorna in sé. Ha ragione Tuccio. Non deve perdere la speranza.

 

Gilbert non è più abituato a camminare a piedi. La lunga strada che sta seguendo per arrivare al villaggio che gli hanno indicato gli sembra non finire mai. Nell'immensa distesa di campi che ha sulla destra, c'è una fattoria, accanto a un mulino. Ma nei campi non vede nessuno. Decide di fare una piccola deviazione per raggiungerla. Non si è portato né acqua, né viveri e adesso se ne pente. Spera di trovare una breve ospitalità nella fattoria. È in grado di ripagare bene il favore.

Giunto vicino al mulino, sente il canto di una donna. Chiama, per non spaventarla con la sua improvvisa presenza.

La donna si affaccia subito a una finestrella.

– Chi sei? Che vuoi?

– Cibo e acqua. Ti ripagherò per l'incomodo.

– Non ti avvicinare. Qui non ospitiamo estranei. C'è una locanda a poche ore, sia che vai a est, sia che vai a ovest.

– Lo so, vengo dalla locanda e sto andando al villaggio. Mi hanno rubato il cavallo e non ho con me né cibo, né acqua. Vuoi che ci arrivi morto?

– Non morirai per così poco. Sarai al villaggio tra non molto, sicuramente prima del tramonto. Quindi, riprendi il cammino e vai con Dio.

– Almeno un po' d'acqua, per pietà. Che cosa è accaduto a questo paese? Una volta era famoso per la sua ospitalità. Ogni pellegrino era ben accolto.

– Tu non sei un pellegrino.

– Come lo sai?

– Andiamo, smettila di prendermi in giro. Non sono un'ingenua. Tu sei un nobile signore, si capisce, ma noi preferiamo che gli estranei se ne restino alla larga. Come si fa a capire se porti con te la morte nera?

– Sono pulito come un pargoletto.

– Dimostramelo.

– Mi vorresti vedere nudo per controllarmi palmo a palmo?

– Potrebbe essere una buona idea. Anzi, è la migliore.

– Non dirai sul serio!

– Altroché. Se non ti spogli, non se ne fa niente.

– Come vuoi, strega impietosa.

Gilbert si spoglia davanti alla finestrella, poi alza le braccia e mostra le ascelle intatte.

– Visto?

– Sì, vedo, – dice fissando il membro che spicca in mezzo a un cespuglio di peli rossicci. Osserva i muscoli allungati, il corpo asciutto. La donna s'inumidisce le labbra con la lingua, poi aggiunge – ma non basta. Voglio vedere anche dietro.

Gilbert sospira, poi si volta mostrando la schiena per pochi attimi, quindi, tornando a volgerle il viso la guarda esasperato. Alla vista di quella bella schiena e del sedere compatto, la donna ha trattenuto il fiato.

– Soddisfatta?

– Non ancora, vieni dentro.

Gilbert si china per raccogliere gli abiti.

– No, quelli non entrano. Solo tu.

– Ma che diavolo ti prende, donna? Sono a posto, non ti basta?

– Non so quante pulci e quante zecche hai nei vestiti, quindi quelli è meglio che restino fuori.

Gilbert, rassegnato, entra in casa. La donna ha messo un paio di zoccoli davanti alla porta e lo invita a indossarli.

L'ambiente è molto semplice, ma ordinato e pulito. Un buon odore di minestra si spande nell'aria, giungendo dal camino sulle cui braci è appeso un paiolo di rame.

Da una giara di terracotta la donna attinge l'acqua con un mestolo, riempiendone una tazza che poi gli porge, mentre studia con ammirazione il corpo di Gilbert, soffermandosi con insistenza sul basso ventre.

Gilbert ringrazia e beve. La larghezza della tazza gl'impedisce di vedere le mosse della donna, che si avvicina a lui, afferrandogli il membro.

– Non c'è bisogno di portare la tua ospitalità fino a questo punto. Ho solo bisogno di un po' di cibo.

– Anch'io. Facciamo uno scambio alla pari. Tu mi dai quello che m’interessa e in cambio io ti una buona minestra.

– Sei davvero una donna tremenda. E se arrivasse tuo marito, all'improvviso?

– Sono sicura che piaceresti anche a lui.

Gilbert pensa che l'acqua gli sia più che sufficiente. Può benissimo arrivare a sera senza mangiare. Ma intanto la donna si è inginocchiata davanti a lui e ha preso tra le labbra l'oggetto del suo desiderio. Dopo il primo momento d'incertezza, Gilbert non può fare a meno di contemplare la sicura esperienza della fattrice e di aiutarla nella sua opera di ospitalità, con dosati movimenti del bacino. Preferirebbe che al suo posto, a leccare e ciucciare, ci fosse Erasmo, ma anche per quello c'è tempo. Il pensiero di Erasmo compie un miracolo immediato, trasformando il suo membro in una barra di ferro. La donna mugola, inorgoglita, e proprio in quel momento si spalanca la porta con fragore. Un uomo sporco di terra e privo di una gamba entra aiutandosi con due nodose stampelle.

Vedendoli, grugnisce come un cinghiale infuriato, poi urla, rosso in viso:

– Te ne sei trovato un altro, puttana?

La donna si allontana da Gilbert mettendo il tavolo tra lei e la furia dell'uomo. Gilbert riesce a malapena a schivare una bastonata, stupito che, anche privo di sostegno, il nuovo arrivato riesca ugualmente a mantenersi dritto su un piede, con perfetto equilibrio. Sa che per uscire dalla porta deve passare per le grinfie del furente contadino, ma non sa ancora come evitare la stampella. Indietreggia fino ad afferrare un duro cuscino dal giaciglio in fondo alla stanza. L'uomo avanza, chiaramente intenzionato a suonargliele di santa ragione, nonostante la sua menomazione. Quando l'ha quasi raggiunto, Gilbert gli lancia il cuscino in faccia, schiva la stampella e fugge dalla porta ancora aperta. Una volta fuori, afferra gli abiti e corre sui campi fino a distanza di sicurezza, perdendo gli zoccoli strada facendo. Intanto che si riveste e si rassetta, ripensa alla scena e scoppia a ridere. Con un sospiro riprende il sentiero. Ma a più riprese gli torna in mente e non può trattenersi dal ridere.

Prima del tramonto, Gilbert raggiunge il villaggio. È formato da poche case di legno su quattro strade di terra che si irraggiano da una piccola piazza. In mezzo c'è un pozzo e intorno si affacciano alcune botteghe e una taverna.

Il primo conforto che Gilbert vuole assicurarsi è un piatto caldo, con le chiappe ben sistemate sopra una panca. È davvero stanco. Come al solito, prima ancora di ordinare il pasto, tira fuori le monete, per essere trattato meglio che sia possibile. Ma quello che esce dalla sua scarsella è solo un mucchio di sassolini piatti.

Per un attimo, Gilbert resta allibito, poi capisce a chi deve quello scherzetto. Alla fattoria si è fatto derubare come un idiota. Mentre la donna lo distraeva, l'uomo ha avuto tutto il tempo di svuotargli la scarsella e di sostituire all'oro le pietre. Quando si è rivestito, non ha minimamente pensato di controllare.

– Che ti posso portare? – gli chiede l'oste, osservando i sassolini – Sempre che tu non pensi di pagarmi con quelli.

– Sono stato derubato.

– Mi dispiace.

– Anche a me.

– Ma non ti preoccupare, se mi lasci il mantello, per me va bene lo stesso.

– Se ti lascio il mantello, morirò di freddo.

– Ho della paglia che puoi mettere dentro i vestiti. Ti assicuro che tiene caldo lo stesso.

– Che bella prospettiva. E dire che sono venuto qui per comprare un paio di cavalli per sostituire quelli che mi hanno rubato. E invece ritorno a piedi, senza oro e senza mantello.

– Si può dire che o sei molto sfortunato o sei molto stupido.

– L'uno e l'altro, credo. In cambio del mantello mi dai da mangiare, da dormire e la paglia per imbottire i vestiti?

– Sarai servito. E siccome sono buono come il pane, ti darò anche da bere. Sei contento?

Gilbert lo guarda con espressione rassegnata.

– Visto che ci sei, ti dispiacerebbe prestarmi una cote per affilare la spada?

– Sono indeciso. Poi non la proveresti su di me, vero?

– Forse sarò anche uno stupido, ma non sono un ingrato.

– Bene, mi fa piacere.

Poco dopo l'oste ritorna con un corno di bovino. Al suo interno, immersa nell'acqua, c'è la cote con cui Gilbert affila attentamente la lama della sua spada, sotto gli occhi attoniti degli altri avventori.

 

Gilbert si sveglia all'alba. Come promesso, l'oste gli fa imbottire i vestiti di paglia e gli consegna ancora qualcosa da mangiare, da portare in viaggio.

– Se torni tra un paio di giorni ci saranno anche due cavalli. Me li faccio portare da un altro villaggio. Sei contento?

– Contentissimo. Non si vede?

– No, ma ti capisco. Se entro una settimana non ti rivedo, mi rivendo il mantello e faccio riportare indietro i cavalli.

– Affare fatto. Spero di riuscire a trascinare il mio amico fin qui. È ferito a una coscia, non so se ce la fa.

L'oste se lo studia con curiosità, come farebbe con un insetto mai visto.

– Ma c'è qualcosa che ti vada dritta, di tanto in tanto?

– Ci devo pensare. Te lo dico al mio ritorno.

– Buona fortuna, amico. Credo proprio che tu ne abbia bisogno.

 

Gilbert fa il suo ingresso alla fattoria senza preannunciarsi. Trova i due contadini nel bel mezzo di una lite cruenta. Mentre l'uomo prende a bastonate la donna, lei gli lancia addosso tutto quello che si trova a portata di mano, compresa una pesante padella. Entrambi sono insanguinati e pesti, ma non smettono di urlare, lanciandosi accuse incomprensibili.

Erasmo pone fine alla discussione, urlando anche lui dalla soglia.

– Restituitemi subito il mio oro, razza di briganti! Altrimenti v'infilzo come due piccioni, quant'è vero Dio!

Il silenzio cala come per magia. I due tacciono, pur continuando a guardarsi in cagnesco. Poi lei esplode:

– Ecco, hai visto? Che ti dicevo? Daglielo, orco.

Daglielo tu, brutta puttana.

– Allora dimmi dove l'hai nascosto.

– Nemmeno se ti si secca la lingua, serva di satana.

– Allora fatti infilzare, tizzone d'inferno. E tu, bel ragazzo, levamelo di torno una volta per tutte. Te ne sarò eternamente grata.

Ridammi il mio oro, o brucio questa catapecchia fino a che non ne resterà nemmeno la legna per accendere un camino.

– Non ci sperare. Se non gli hai ancora detto addio, puoi farlo adesso, perché non lo rivedrai mai più.

– Testa di legno! Vuoi smetterla di provocarlo? Non vedi che ha una spada? E da come la tiene si capisce bene che è capace di usarla. Restituiscigli quello che gli hai rubato, razza di ladrone.

– Mai!

– Tagliagli l'altra gamba, per favore.

Gilbert osserva la donna. Lei si fa un segno intorno alla gola, come per invitarlo a sgozzare l'uomo che si trova tra loro.

– Hai una corda da qualche parte, donna?

– Al pozzo.

– Valla a prendere.

– E tu tienilo buono, se ci riesci.

– Va', ci penso io.

L'uomo solleva di nuovo la stampella verso di lei, un po' per impedirle di aggirarlo, un po' sperando di assestarle una buona legnata. Gilbert è subito pronto a punzecchiargli l'unico arto, facendogli perdere l'equilibrio e mandandolo a terra. Nel cadere, perde la presa sulle stampelle, che la donna si affretta ad afferrare e allontanare da lui, mentre l'uomo si agita, punzecchiato ancora da Gilbert, per impedirgli di bloccare la donna. Finalmente lei esce, tornando poco dopo con una corda umida.

– Legagli le mani dietro la schiena – le ordina Gilbert, mentre tiene la punta della lama alla gola dell'uomo.

– Questo non vi farà ritrovare il mio tesoro. L'ho nascosto bene.

L'uomo ride, godendo della situazione. – E se voi mi ammazzate, non saprete mai dov'è nascosto.

Ride di nuovo.

Gilbert si guarda intorno.

– Qui hai cercato bene?

– Ho rivoltato tutto, ho perfino cercato dentro il pagliericcio.

– Allora dev'essere fuori, nei campi.

– E dove?

– Non lo so, cerchiamolo.

Gilbert sgancia il paiolo della minestra dal gancio del camino, posandolo sul tavolo, lega la corda al gancio rimasto libero, in modo che l'uomo non se ne possa allontanare, poi prende per un braccio la donna e la trascina fuori.

– Come ti chiami?

– Elisa. Ma dimmi, che fine ha fatto il tuo bel mantello? Perché hai i vestiti pieni di paglia?

– Affari miei, Elisa. Il mulino potrebbe essere un buon nascondiglio, che ne dici?

– Ho già cercato anche lì dentro, in ogni angolo.

– Allora andiamo a vedere se sotto gli alberi c'è terra smossa di recente. E guarda se sui tronchi c'è qualche segno. Io guardo da un lato e tu dall'altro.

– Come vuoi, ma se te lo ritrovo io, tu mi fai continuare quello che ieri ho dovuto lasciare a metà.

Gilbert non risponde. Non ha alcuna intenzione di fare patti con Elisa, e men che mai di sottostare alle sue richieste. Vuole poche cose, semplici e chiare. Ritrovare l'oro, tornare al villaggio a prendere i cavalli, andare da Erasmo e riprendere il viaggio.

Nel tardo pomeriggio, la lunga ricerca non ha ancora sortito effetto. Gilbert comincia a disperare. Ha sete. Stringe in pugno la spada con cui si è aiutato a smuovere le foglie cadute ai piedi degli alberi. Si guarda intorno. Hanno percorso un bel po' di strada e si trovano a una buona distanza dalla fattoria. Le ombre si allungano. Il sole calerà presto. Sul campo vicino, uno spaventapasseri sembra prendersi gioco di lui. In un impeto di esasperazione e di rabbia, Gilbert lo raggiunge con poche falcate, brandendo la spada e con un colpo secco lo decapita. Poi, con soddisfazione, prende a calci la testa fatta di stracci annodati. Un tintinnio lo blocca con un piede alzato, pronto a calciare. Si china sulla palla e la fa a pezzi a colpi di spada. Con stupore, scopre che al suo interno c'è un ripieno molto prezioso, il suo oro ritrovato. A terra, davanti a lui, si profila un'ombra strana. Sembra quella di una cameriera con le braccia alzate, che porti in alto un piatto da portata. Immediatamente capisce, si volta di scatto con la spada puntata ed Elisa rimane infilzata proprio in mezzo al petto. La grossa pietra che gli stava per lanciare sulla testa cade dietro alle sue spalle con un tonfo attutito. Elisa ha gli occhi vitrei per la sorpresa, o per il dolore, o forse per la coscienza improvvisa che sta morendo. A Gilbert non importa.

Dopo aver trascinato il corpo della donna fino a un canalone, Gilbert ve lo lascia scivolare dentro, gettandovi sopra manciate di terra, fino a coprirlo alla meno peggio. Quindi torna alla fattoria per finire l'opera. Un attimo prima di sferrargli un fendente alla gola, come gli ha consigliato la stessa Elisa, dice all'uomo:

– Amo gli spaventapasseri. Hanno un cervello di prim'ordine. Più utile del tuo, sicuramente.

È troppo tardi per riprendere il viaggio di ritorno al villaggio. Gilbert trascina il cadavere fuori dalla porta, lo nasconde sotto un cumulo di frasche e poi rientra in casa. Beve due tazze d'acqua, mangia la minestra fredda, si butta sul pagliericcio senza neanche togliersi gli stivali e crolla in un sonno profondo e soddisfatto, sognando di Erasmo, di un castello in Boemia e di mandrie di cavalli selvaggi che galoppano liberi nelle vaste pianure alluvionali.

 

L'unguento e il decotto fanno miracoli, ma Erasmo si sente ancora intontito, benché la febbre sia ormai scomparsa e la gamba gli faccia decisamente meno male. Sono trascorsi due giorni, proprio come ha previsto lo speziale. Prova ad alzarsi. I primi passi sono indecisi, ma poi prende la misura delle proprie forze, adattandosi a zoppicare leggermente, per evitare il dolore. Mentre si riveste, ricomincia a chiedersi che fine abbia fatto Gilbert. Doveva essere già tornato con i cavalli. Sente il bisogno di uscire dal camerone. Quindi si aggancia con cura la cintura da cui pendono la scarsella, la spada e la sacca di cuoio imbottito in cui trasporta la coppa.

Scendere le scale è una bella fatica, ma anche al dolore ci si abitua. La sala è semivuota, nel pomeriggio inoltrato. L'oste lo saluta bruscamente.

– Guarito?

– Sì, era solo una scheggia che mi si è conficcata nella coscia.

– A noi non piacciono troppo quelli dalla salute cagionevole. Se hai finito di occupare il letto, mando le donne a fare pulizia.

– Certo. Sono qui, come vedi. E sono affamato.

– Ti darò qualcosa da portare via, ma ti consiglio di riprendere il tuo cammino. C'è gente, qui intorno, che non ha capito bene di che cosa ti sei ammalato. Ho sentito dire che ti volevano buttare fuori. Ma fino a prova contraria il padrone qua dentro sono io. Se sparisci adesso che sono ancora occupati nei campi è meglio per tutti.

Erasmo capisce perfettamente la situazione. Non può fare altro che andarsene, finché è in tempo. Con la gamba in quelle condizioni gli sarebbe difficile combattere da solo contro un manipolo di zotici armati di forcone. Incontrerà Gilbert strada facendo. Peccato che non abbia più una coperta. Gli avrebbe fatto comodo per dormire all'aperto.

– Farò come dici.  

Il villaggio dove si è diretto Gilbert è a una giornata di cammino. Trova strano che non sia ancora tornato. Forse non ha trovato cavalli e ha dovuto proseguire per un altro villaggio. I cavalli non sono molto frequenti da quelle parti. Per lo più la gente impiega asini e buoi, sia per i lavori nei campi che per spostarsi. Erasmo e Gilbert fanno parte di quella piccola cerchia di benestanti che possono permettersi una vera cavalcatura. Il pensiero di non rivedere presto Gilbert lo angoscia. Da quando è il suo compagno di viaggio non fa che desiderarlo. L'attrazione che prova per lui è tanto potente da spiazzarlo. In certi momenti si perde nei suoi occhi azzurri, smettendo di ascoltare quello che gli dice. Una volta Gilbert se n'è accorto.

Gli ha sorriso, con quel suo sorriso disarmante, e gli ha detto: – Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto.

– Certo che ti ho sentito, solo, stavo pensando, e se arrivati al castello di Also lui non ci fosse ancora? Pensi che i suoi servitori ci faranno entrare?

– Un posto nella stalla non si rifiuta a nessuno. Male che vada dormiremo sulla paglia, insieme ai cavalli – gli ha risposto Gilbert.

– Perché Also ci dovrebbe tenere dei cavalli, se non va mai al castello?

– Tu pensi che l'abbia abbandonato? Io non credo.

– Hai ragione. Quella in fondo è la sua vera casa, nella sua vera patria, anche se, dopo che i suoi lo hanno mandato a Parigi per il noviziato, lui non è più voluto tornare a casa. Un'altra storia che ha fatto infuriare la sua famiglia.

– Già, come il fatto che si è adattato a fare il commercio.

– In questo è stato davvero bravo. Ha sfruttato gli insegnamenti del Tempio. E poi gli piace, lo diverte e c'è pure un effetto collaterale da non sottovalutare: è diventato ricco. Lui era solo il nono figlio di de Zajic. In fondo ha potuto scegliere liberamente di fare quello che voleva, anche se la famiglia l'ha praticamente rinnegato, per questo. E lui, per dispetto, ha ricomprato il castello che i suoi avevano lasciato cadere in rovina e poi venduto. L'ha ripristinato e l'ha chiamato castello di Also, abbandonando l'appellativo de Zajic. Un vero pazzo, come gli dico sempre.

– Beh, glielo dico anch'io, molto spesso. Tutti quelli che lo conoscono la pensano su di lui alla stessa maniera, eppure tutti gli vogliono bene.

– È vero.

E anche a te voglio bene, avrebbe voluto aggiungere Erasmo, ma qualcosa l'aveva trattenuto. Un pudore sconosciuto. Una paura improvvisa. Un senso d'inadeguatezza che provava per la prima volta. Poi si era dato dello stupido, per essersi lasciata sfuggire quella magnifica occasione. Non era proprio da lui.

 

Come sempre, Gilbert si sveglia all'alba. Si infila gli stivali che si è sfilato durante la notte e scende dall'alto giaciglio. Mangia ancora un po' della minestra fredda che ha avanzato, e intanto decide il da farsi. Se torna al villaggio resterà ancora un paio di giorni lontano da Erasmo. Se torna alla locanda senza cavalli, Erasmo non sarà in grado di viaggiare. Gilbert si trova esattamente a metà strada. Ma la distanza, per lui, sta diventando più facile da colmare. Il suo passo è più spedito, i suoi muscoli si stanno rinforzando. Decide in fretta. La cosa che desidera di più è ritornare da Erasmo. Poi, quando sarà sicuro di trovare i cavalli al villaggio, ci tornerà di nuovo, da solo, mentre Erasmo l'aspetterà ancora alla locanda. Intanto sarà guarito completamente e potrà riprendere il viaggio.

Mentre sta per uscire, Gilbert si accorge di un mantello appeso a un chiodo, accanto alla porta. È consumato e scolorito, ma è proprio quello che gli serve. Con un sospiro di sollievo si toglie la sopravveste, scuotendola per lasciar cadere fino all'ultimo filo di paglia. Quindi la indossa nuovamente e si copre con il mantello, dopo averlo battuto in aria un paio di volte. La giornata è frizzante, ma fa meno freddo dei giorni passati. In fondo è quasi estate, anche se ormai da qualche anno le stagioni sembrano impazzite. Senza voltarsi indietro, Gilbert riprende a percorrere il sentiero in direzione della locanda. Ma non fa che pochi minuti di strada, prima d'imbattersi nel suo compagno zoppicante, che da principio non lo riconosce nemmeno.

– Gilbert, ma come ti sei conciato? E dove sono i cavalli? Insomma, che ti è successo?

– È una lunga storia. Ma tu perché non mi hai aspettato alla locanda? Non potevi riposare ancora un giorno, prima di rimetterti in viaggio? E poi, dove credevi di andare, senza di me?

– Tirava una brutta aria da quelle parti. Ho preferito andarmene finché ne avevo la possibilità.

– E io non ho trovato i cavalli, ma tra un paio di giorni potrebbero esserci. Quindi, nel frattempo, direi di rifugiarci in quella fattoria laggiù. Almeno saremo al coperto e al sicuro. Spero.

– Conosci già chi ci abita?

– Non ci abita più nessuno. Ti racconto strada facendo. Vedi quello spaventapasseri senza testa?

– Sì, lo vedo.

– Bene, fa parte della storia.

 

Il ritorno nel suo paese rende Also silenzioso. Gli tornano in mente episodi della sua lontana fanciullezza che gli sembrava di aver dimenticato. Quante cavalcate aveva fatto là con i suoi fratelli, lui piccolino, loro già grandi. Lo issavano in sella davanti a loro e gli lasciavano guidare il cavallo. O meglio, gli davano l'illusione di condurlo, per farlo contento. Era il suo gioco preferito. Poi, quando aveva compiuto dieci anni, un cavaliere si era presentato al castello, in compagnia di tre scudieri. Erano stati accolti dalla sua famiglia con tutti gli onori, ma a lui e ai suoi fratelli era stato ordinato di non entrare nel salone, per non disturbare. Solo dopo alcune ore un servitore era andato a chiamarlo. Lui si era stupito di essere il solo ragazzino presente tra gli adulti. A un primo momento di orgoglio per essere stato ammesso alla loro augusta presenza, era seguita la certezza preoccupante che si stava preparando qualcosa per lui, e che non gli sarebbe piaciuta. Quando il padre gli aveva annunciato la sua decisione di mandarlo a Parigi con il cavaliere, lui si era fatto forza, per non piangere, ma la sua espressione doveva essere stata molto eloquente.

– Non ti piacerebbe diventare un cavaliere come me? – gli aveva chiesto lo sconosciuto.

Also aveva esaminato bene il cavaliere, vestito di una modesta cappa grigia. Con la stessa naturalezza, portava al fianco un lungo spadone e sul volto sereno un sorriso incoraggiante. Poi, dal momento che sembrava evidente che si aspettasse una risposta, con riluttanza Also si era deciso ad annuire.

Ne è passato di tempo. Certo, non è diventato un cavaliere, ma ha fatto una fortuna, sebbene alla sua maniera, e sta per rimettere piede nel castello della sua infanzia, che ora è tutto suo. Il castello di Also.

Superata l'ultima collina, appare finalmente di fronte a loro la montagna.

Also, è quello il tuo castello? Quello arrampicato sulle rocce della grotta?

– Sì, Tuccio. Siamo arrivati.

– È incredibile. Non ho mai visto niente del genere. Che strano posto dove costruire un castello.

– Chi l'ha voluto così inaccessibile aveva buoni motivi. A quell'epoca c'erano continuamente guerre con popoli che tentavano di conquistarci.

– E non è così dappertutto?

Also ride.

– Hai ragione, ragazzo. In effetti è così che va il mondo.

– Quanto è grande il tuo regno?

– Non è un regno. Comunque è grande abbastanza. Siamo già sulle mie terre.

– Per le zanne di Cerbero!

– Chiudi la bocca, Tuccio. Hai l'espressione meno intelligente che ti abbia visto. Piuttosto, ti va di fare una bella galoppata fino a lì?

– Ma certo.

– Allora, andiamo!

 

La fattoria è un rifugio sicuro, per il momento. Per prima cosa i due amici accendono il camino. Gilbert insiste perché Erasmo si stenda per far riposare la gamba e spalmare la ferita di una nuova dose di unguento. Erasmo si spoglia, e intanto immagina la scena della donna in ginocchio davanti a Gilbert, invidiandola intensamente.

– Com'era questa Elisa?

– Una giovane strega piena di voglie.

– Ne hai approfittato, dunque.

– Che dici? Non vedevo l'ora di andarmene. L'arrivo del villano mi ha salvato.

Gilbert prende il vasetto con l'unguento. La fantasia di Erasmo galoppa, mentre le mani di Gilbert replicano i movimenti dello speziale sulla sua ferita, in via di guarigione. Le conseguenze del suo tocco sono inevitabili e appaiono presto evidenti. Gilbert lo nota immediatamente, con un senso di trionfo. Gli si chiude la gola. Guarda negli occhi Erasmo, senza più parlare. Mai sguardo fu più eloquente. Erasmo sa che questo è il momento che aspetta da tempo. Gli sorride e osa ciò che gli sembrava impossibile:

– Però è davvero un peccato lasciare certe cose a metà. Lascia che sia io a completarle.

Gilbert è subito pronto e disponibile, ma ha atteso con troppo desiderio questa occasione, per poter resistere alla tentazione che ha proprio sotto gli occhi. Quindi è lui a prendere tra le labbra l'offerta svettante.

Di tutte le battaglie che Erasmo ha combattuto, che fosse su lenzuola di lino, sulle assi di una galea o su mucchi di fieno, che fosse l'attaccante o il difensore, disteso o in piedi, questa gli sembra la più violenta eppure la più dolce, la più accanita eppure la più bramata.

Gilbert non ha mai avuto un simile desiderio, tanto potente che gli sembra di non poterne essere mai soddisfatto. Più ne ha e più ne vorrebbe, senza stancarsi mai. Se alla vita ci lega un filo sottile che può essere spezzato a ogni momento, almeno per questo val la pena viverla, si dice. E non è solo il corpo a esserne coinvolto. Il desiderio nasce da dentro, dalle profondità dell'anima, dal cuore che si è fatto gonfio, tanto da scoppiare. Un delirio che potrebbe portare alla follia, alla demenza, alla frenesia, se non ci fosse la lucida coscienza che tutto questo può essere rinnovato e vissuto ancora, e ancora e ancora.

Dopo l'ultima irresistibile esplosione di piacere, Erasmo sente una pressione sul petto, una sensazione di perdita e di paura. Non vuole che tutto questo finisca. Non è come tutte le altre volte, un semplice sfogo degli istinti. È una cosa del tutto nuova, mai provata prima. È un sentimento che ha riempito tutti i suoi spazi vuoti, che per la sua invadente misura sembra troppo grande per restare confinato in lui. Di colpo capisce che dev'essere amore. Ed è toccato proprio a lui, fortunato viandante sulla terra. Fortunato e sciagurato nel contempo, perché se Gilbert se ne andrà per la sua strada, lui è morto.

Crollati sul pagliericcio dopo l'ultimo assalto, soldati stremati da una dura battaglia, entrambi tacciono, incapaci di racimolare due parole per esprimere quella cosa troppo grande che provano.

Entrambi pensano di non esserne capaci, che confessandola spaventerebbero il compagno, che se hanno una minima possibilità di tenerselo accanto, il modo migliore è quello di non parlare. Eppure, il dir troppo e il troppo poco sono entrambi un pericolo. Tacere o mentire sono figli del diavolo, in determinate circostanze.

Nei due giorni di attesa, prima di recarsi al villaggio, la noia non è contemplata. Erasmo e Gilbert sanno come trascorrere il tempo. Arrivano a desiderare di non essersi impegnati nell'impresa di consegnare la coppa ad Also. Vorrebbero restare là, per sempre. Però non se lo dicono.

– Come va la gamba?

– Meglio, molto meglio.

– Potremmo restare qui ancora qualche giorno, finché non ti fa più male.

– Non voglio che ritardiamo il viaggio per colpa mia. Sto bene. Also sarà già arrivato al castello.

– Come vuoi. Spero che l'oste sia riuscito a procurarmi i cavalli.

 

L'oste non c'è riuscito. In compenso ha da offrire ai due amici un asino. Uno solo, robusto, grigio con un orecchio bianco. Gilbert, che ha visto zoppicare Erasmo per tutta la strada, decide che sarà lui a cavalcarlo. Lo seguirà a piedi, senza difficoltà. Ormai camminare non lo stanca più così tanto.

– Vuoi ricomprare il tuo mantello? – gli chiede l'oste, osservando quello che ora indossa, e che sembra più adatto a fare da copertura per una soma.

– Certo, ne ho una certa nostalgia.

– Vi fermate a dormire?

– Sì.

– No.

Il no è di Erasmo. Gilbert si volta a guardarlo, con espressione interrogativa.

– Ci siamo attardati fin troppo. Partiamo subito. Abbiamo ancora davanti a noi una mezza giornata di luce.

Al momento di decidere come utilizzare l'asino, Erasmo s'impunta.

– Faremo i turni. E cominci tu.

A volte tra l'ostinazione degli asini e quella degli uomini c'è poca differenza, pensa l'oste vedendoli discutere davanti al suo locale. Infine si muovono, entrambi a piedi, tirandosi dietro l'animale. L'oste scuote la testa.

Infine Gilbert accetta il primo turno, poi fa salire Erasmo. Continuano ad alternarsi fino a sera, quando decidono di fermarsi per mangiare qualcosa e dormire un po'. Al primo villaggio sperano di poter sostituire l'asino con dei cavalli, ma neppure là ne trovano, né trovano un altro asino, che sarebbe comunque meglio di niente. Si rassegnano dunque a proseguire il viaggio alla maniera dei villici, più lentamente e con maggior fatica.

Sono ormai quasi arrivati, dopo una settimana di tempo abbastanza buono, in cui l'estate sembra decisa a mostrarsi, quando un improvviso temporale si scatena, furibondo, con tuoni e vento forte. Le chiome degli alberi oscillano, i rami scricchiolano, le foglie vengono strappate via, l'asino comincia ad agitarsi. Ancora in groppa, Erasmo decide che è meglio liberarlo dal suo peso, quindi scioglie i legacci delle bisacce, ma proprio mentre sta mettendo piede a terra, un fulmine schianta un albero ad alcuni metri da loro e l'asino s'imbizzarrisce, scalciando con cieco terrore. Mentre Erasmo viene colpito di striscio alla gamba già malandata, il colpo peggiore tocca a Gilbert, che viene raggiunto alla testa, crollando a terra come l'albero colpito dal fulmine. L'animale, le cui briglie Gilbert ha abbandonato cadendo, si sente finalmente libero di fuggire, nell'intento di abbandonare quell'inferno di tuoni, di pioggia e di vento. Ragliando disperatamente si allontana con tutta la velocità che gli consentono le sue robuste zampe.

Erasmo sta per chinarsi sul compagno, sicuro di trovarlo cadavere. Un baratro si apre davanti a lui, pronto a inghiottirlo. Mentre si avvicina, desidera che un fulmine giunga a interrompere il suo gesto, perché non arrivi mai a sapere che è tutto finito. Ma Gilbert si muove. È vivo.

Erasmo cade in ginocchio, ringrazia tutti i santi del paradiso, si china a toccare la fronte del compagno. Lo bacia. Gli solleva la testa, lo stringe a sé. Lo chiama.

Con un lamento, Gilbert apre gli occhi, confuso.

– Erasmo.

– Non muoverti. Hai preso una bella botta. Ti metto l'unguento. Se è servito a me, farà effetto anche a te. Meno male che hai la testa dura.

– Con questa pioggia si laverà via in fretta. Non sprecarlo.

– Ti metterò una benda.

Mentre lo dice, Erasmo cerca le bisacce cadute a terra. Le vede a poca distanza e si affretta a raccoglierle. Intanto il fango ha ricominciato a farla da padrone.

Erasmo riesce a rimettere in piedi Gilbert, con il suo aiuto. Un po' lo accompagna e un po' lo trascina di peso fuori dal sentiero inondato, in una zona rialzata, con la vegetazione folta. Lo avvolge nel suo mantello, poi in quello vecchio e sdrucito che ha preso alla fattoria. Lo fa sedere a terra. Gilbert si lascia fare, anche quando Erasmo lo impiastriccia con l'unguento, e quando si strappa una striscia di stoffa dalla camicia per avvolgergli la testa. Non è in grado di reagire. A tratti non vede nulla. Solo un velo nero, accompagnato da un confortante senso di estraneità.

Erasmo continua a parlargli, a porgli domande, ma Gilbert non risponde. Soltanto al tramonto la pioggia smette di cadere. Erasmo ha cercato di tenere sveglio Gilbert, con la paura che nel caso si addormenti non si svegli più. Ma il compagno apre gli occhi solo per brevi istanti, e ora scotta. Ha la febbre alta. Erasmo è disperato. Decide di cercare aiuto. Il castello di Also è ormai a poca distanza da loro. Se parte subito e cammina tutta la notte ci arriverà all'alba. Gilbert è avvolto in tre mantelli, gli lascia vicino i loro ultimi viveri e l'acqua.

– Gilbert, vado a cercare aiuto. Tornerò prestissimo. Perdonami, non ti sto abbandonando. Mi senti?

Ma Erasmo riprende il cammino senza che Gilbert abbia riaperto gli occhi.

È la notte più lunga della sua vita, la più solitaria, la più disperata. Il dolore alla gamba, in un altro momento, potrebbe impedirgli di avanzare, ma ora l'unico scopo della sua vita è salvare Gilbert e non c'è niente che possa impedirglielo.

Quando Erasmo riesce a sporgersi oltre l'ultima collina scalata con penosa fatica, l'orlo della notte vomita appena una bava di luce all'orizzonte. Trascina la gamba come un vecchio artritico. Tra poco il nuovo giorno gli mostrerà la direzione giusta. Da molte ore gli sembra di essersi perduto in un mondo vuoto, fatto solo di foresta e di buio. È affamato, assetato e stanco. Ma soprattutto è preoccupato per Gilbert.

A poco a poco si profila davanti a lui la montagna scavata da un'ampia grotta, che inaspettatamente abbraccia e custodisce un piccolo castello a strapiombo sulla roccia.

Col trascorrere dei minuti, il cammino della luce costringe le ombre a ritirarsi, mostrando maggiori particolari della piccola valle e dei boschi che circondano la zona. Le pecore pascolano in tutta tranquillità. Un pastorello appoggiato a un bastone lo vede attraversare il prato.

Alla vista di quel luogo, Erasmo riprende a sperare. Also sarà riuscito a tornare al castello? Ma poco importa. Se non lui, qualcun altro ci sarà. Cercherà aiuto per andare a riprendere Gilbert con una barella. Deve far presto. Anche se gli ha lasciato gli ultimi viveri che possedevano, non è certo che l'amico sia stato in grado di nutrirsi e dissetarsi. L'ha abbandonato privo di conoscenza.

Il lieve calore del sole porta sollievo alla sua gamba dolorante, che pare sciogliersi un poco, permettendogli di mantenere un passo più elastico e spedito. Giunto alla base di una lunga scala scavata nella roccia, trova ad attenderlo il conforto di una fonte da cui può dissetarsi. La scala che porta al castello sembra salire all'infinito, ma Erasmo si rifiuta di perdersi d'animo. Riempie la sua borraccia d'acqua fresca, inala aria nei polmoni e inizia ad aggredire gli scalini disuguali, tinti a tratti dal muschio e dai licheni. Davanti a lui c'è la salvezza di Gilbert, e solo questo conta.

 

Nel castello di Also, Tuccio di sente sperduto. Ora che il viaggio è finito, lo perde spesso di vista. Gli ha assegnato una stanza, tutta per lui, dove si sente smarrito, solo e reietto. Pensa che Also non lo voglia più accanto a sé. Tuccio ci sta male. E poi non sa cosa fare. Si sente inutile.

Also lo trova a gironzolare tra i corridoi come un'anima in pena.

– Stai cercando qualcosa?

– Cercavo te. Non ti vedo più.

– Sono stato impegnato a ispezionare la servitù e adesso sto andando alle stalle a vedere come stanno i cavalli e a fare due chiacchiere con lo stalliere.

– Posso venire con te?

– Non ti annoi con questo vecchio orso?

– Stai scherzando? Senza di te il mondo mi sembra vuoto e io mi sento inutile.

Also scoppia in una risata.

– Ma questa è una dichiarazione d'amore in piena regola, ragazzo. Sei proprio sicuro di quello che dici?

Tuccio si precipita tra le sue braccia.

– Tienimi con te, Also. Per favore.

Also è commosso. Stringe forte il ragazzo e scuote la testa. Da quel giorno che l'ha preso giù al fiume, si è detto mille volte che è stato solo un attimo di follia, che è accaduto solo perché è stato provocato. Ma anche in questo momento Tuccio lo sta provocando. E parecchio. E la potente erezione che ha sollevato le sue brache strofina su quelle del ragazzo, che è alto come lui.

– Per favore – insiste Tuccio.

– Cosa vuoi, ragazzo?

– Fare di nuovo il bagno con te.

Also non sa resistere alle provocazioni, men che meno a quelle di un giovane arciere con le chiappe tonde e fresche come le sue.

Tuccio sa dimostrarsi grato delle attenzioni e nello stesso tempo impara in fretta altri modi di godere del proprio corpo, grazie all'esperienza del suo orso.

Il giovane corpo che gli si concede ispira ad Also una tenerezza e una dolcezza che fino a ora non aveva potuto esprimere e, nello stesso tempo, il desiderio di essere posseduto a sua volta dall'inesperto cucciolo che l'ha scelto come padrone.

– Prendimi ancora, Also - chiede il ragazzo, per la terza volta.

Also ride.

– Non vorrei consumarti tutto in una volta.

Si sentono voci concitate nel corridoio e qualcuno che bussa alle porte. Also stringe ancora una volta Tuccio tra le braccia, poi, con un sospiro, si alza e torna a vestirsi.

– Mi stanno cercando, Tuccio. Meglio che vada a vedere cosa vogliono.

– Vengo con te – replica il ragazzo, che non ha alcuna voglia di separarsi da lui.

Appena fuori dalla stanza, Also si trova di fronte al suo vecchio amico.

– Erasmo! – lo accoglie abbracciandolo – Che immenso piacere vederti! Dunque me l'hai portata!

– Che cosa?

– La coppa! Sei arrivato fino a qui e non l'hai portata con te?

– No. Sì. Ma come fai a sapere della coppa? Scusami sono terribilmente confuso e preoccupato. Ti ho portato la coppa, sì, ce l'ho qui, ma ho lasciato Gilbert moribondo nel bosco, a mezza giornata di cammino. Dobbiamo andare subito a prenderlo. Ci serve una barella.

– Chi è moribondo?

– Gilbert Van Der Meer.

– La peste è dunque già arrivata fino a noi? – si lamenta Tuccio.

– Ma no, è stato uno stupido somaro, che gli ha dato un calcio alla testa. Ma tu non sei il corriere di Marsiglia? Che diavolo ci fai qui?

– Ho consegnato il tuo messaggio.

Per un attimo Erasmo resta interdetto.

– Quando prendi un impegno non ti fermi davanti a niente, eh? Questa è proprio bella. Ma adesso non c'è tempo. Strada facendo ci racconteremo tutto. Però ci vuole una barella.

– E la coppa? – chiede Also.

Erasmo scioglie nervosamente i nodi che l'assicurano alla sua cintura, quindi gliela porge, lievemente esasperato.

– Eccola. Ti prego, l'ammirerai dopo. Adesso andiamo. Ci servono dei cavalli e bisogna trovare un cerusico.

– Signore, – s'intromette una cameriera che, come altri, si è avvicinata attirata dal trambusto – io preparo una stanza e delle bende e metto a scaldare dell'acqua. A chiamare il cerusico possiamo pensarci noi. Lo troverete qui al vostro ritorno.

– Brava ragazza. Qualcuno avverta che ci servono tre cavalli sellati. In fretta. E la barella?

– Ci pensiamo noi. La porteremo giù alle stalle – assicura la ragazza.

– Va bene. Tutto sistemato.

Solo in quel momento Also si accorge delle pessime condizioni di Erasmo.

– Però, amico mio, tu hai un gran bisogno di darti una lavata e di cambiarti. E scommetto che non metti niente sotto i denti da un pezzo.

– Non abbiamo tempo per queste sciocchezze. Farò tutto al nostro ritorno.

– Ragazza, preparaci qualcosa da portare con noi. Va bene anche del pane e della carne secca.

– Subito, signore.

Tuttavia, prima di partire, Also non resiste alla tentazione di guardare la coppa. Gli basta un attimo per comprendere che è davvero quella giusta. L'emozione gli mette le lacrime agli occhi. Il sogno di tutta la sua vita, il suo desiderio più grande, lo scopo più alto che si è prefissato ora è un oggetto reale e concreto tra le sue mani. Troppo rozze, troppo umane le sue mani, per meritare tanto. Trema. Rientra nella sua stanza e devotamente la colloca sopra la biancheria, in una cassa che è ai piedi del letto. Mentre richiude il coperchio pensa che avrà modo finalmente di consegnarla al Papa e di chiedere la riabilitazione dell'Ordine. Ma è poi davvero quello che vuole? Mentre esce dalla stanza si sente l'uomo più confuso del mondo.

 

Tutto viene risolto in fretta, ma per Erasmo il tempo scorre troppo lentamente e ogni minuto gli sembra un'eternità. Agisce nell'angoscia di non ritrovare vivo il suo compagno. Per tutta la strada lo assale il dubbio di arrivare troppo tardi. Ogni metro che guadagna lo avvicina alla terribile visione che l'ha torturato per tutta la notte.

Also ne indovina perfettamente la preoccupazione, che del resto è diventata anche sua, una volta smorzata l'emozione per la coppa.

– Raccontami tutto, Erasmo, dall'inizio.

– Scusami, Also, adesso non posso. Lo farò dopo, te lo prometto.

– Non preoccuparti tanto per Gilbert. Ha la testa dura e una bella fibra. È forte come un toro. Sai che ha fatto una volta a Gand?

Also riesce a distrarre Erasmo con i suoi racconti. Ha capito che l'unico argomento che possa riuscirci è proprio Gilbert Van Der Meer. E lui l'ha conosciuto molto bene. Ne ha di cose da raccontare.

Quando finalmente raggiungono l'amico, è Tuccio il primo ad avvicinarsi a lui e a urlare:

– È vivo! Avevi ragione tu, Also. Ha la pellaccia dura.

 

Gilbert apre finalmente gli occhi. A fatica si guarda intorno. Non capisce dove si trova. Batte le palpebre ripetutamente per scacciare l'ultimo residuo di appannamento. La prima cosa che riconosce è il volto di Erasmo. Riesce a sorridergli. Erasmo esulta. La seconda cosa di cui si rende conto è che sono entrambi distesi su un grande letto, incredibilmente comodo.

– Come ti senti? – chiede Erasmo, abbracciandolo.

– Bene, credo. Ma dove siamo? In paradiso?

– Al castello di Also.

– E come ci siamo arrivati?

– Non importa. L'importante è che tu ti sia ripreso. Avevi la febbre alta. Deliravi. Mi chiamavi. E io sono morto di paura. Sei andato avanti così per un'intera settimana.

– Mi stupisco di te. La paura non è un sentimento adatto a un comandante.

– Ti sei ripreso bene, vedo. Ne sono felice.

– E io sono felice che tu sia qui. Hai vegliato così su di me per tutto il tempo?

– Sì, Gilbert.

– Perché?

– Lo sai perché, accidenti.

– Anche per me è lo stesso – risponde Gilbert, allungando una mano tremante per fargli una carezza.

– Gilbert, pensa solo a rimetterti.

– Mi rimetterò in tutta fretta, con te accanto.

Gilbert si guarda ancora intorno. Mette a fuoco la stanza, che è ampia, con un bel finestrone e un camino nell'angolo.

– E Also dov'è?

– È chiuso nella sua stanza a piangere. Ma non mi preoccuperei troppo per lui, è in compagnia di Tuccio, un ragazzo che sa come consolarlo.

– Perché, che gli è successo?

– Sai la coppa che dovevamo consegnargli?

– Si è rotta?

– No, gliel'ho data.

– E allora perché piange?

– Perché è sparita.

– Che vuol dire sparita?

– Quando sono venuto a riprenderti, nel bosco, con Also e Tuccio, c'è stato un momento in cui il castello è rimasto completamente deserto, salvo per le donne che lavoravano nelle cucine. La servitù infatti è andata alla ricerca di un medico perché tu potessi essere curato. Sicuramente il ladro ha approfittato di quel momento, perché quando siamo tornati, dopo averti sistemato in questo letto, Also è tornato in camera sua a riprendere la coppa che aveva riposto in una cassa e non c'era già più.

– Rubata, dopo tutta la fatica che hai fatto per portargliela!

– Che abbiamo fatto.

– Io ho fatto ben poco, Erasmo.

– Ma c'è anche un'altra pessima notizia, purtroppo.

– Che altro è successo?

– Appena scoperto il furto, Also, Tuccio e i suoi servi sono partiti alla ricerca del ladro. Quando sono arrivati al guado del fiume hanno trovato un cavallo morto e là vicino, nascoste sotto la vegetazione, c'erano le bisacce di Gerard.

– Vuoi dire Filippo?

– Sì, il conte di Nevers.

– Ma è sicuro?

– C'era una tua lettera dove gli chiedevi quando si sarebbe deciso a tornare a Gand. E poi c'era un mantello che gli avevo regalato io. L'ho riconosciuto subito perché non ne esiste un altro uguale. Inoltre, alcuni giorni prima, Tuccio aveva ucciso per accidente un tizio che era in possesso del sigillo di Filippo. Sai che non se ne separava mai. Probabilmente è stato proprio lui che l'ha ammazzato.

– Ma che ci faceva qui? Tu non l'avevi lasciato a Costantinopoli?

– Deve aver cambiato idea. Probabilmente stava venendo da Also.

– Accidenti! Mi mancherà.

– Anche a me. Eravamo buoni amici.

– E quel ragazzo avrebbe ucciso il suo assassino per un caso?

– L'ha scambiato per un orso.

– Anche se non lo conosco ancora, quel ragazzo mi piace.

 

Come indice di compiacimento per l'iniziativa intrapresa e come segno che la sua opera è approvata dal cielo, un asino con un orecchio bianco, bardato di tutto punto, incrocia la strada del Custode, fermandosi davanti a lui. Come sempre, l'uomo si inchina umilmente al volere di Allah.

L'asino, docilmente, si lascia cavalcare, cosicché la strada del ritorno scorre più veloce davanti agli occhi del pio Custode. Sebbene felice del lieto esito della sua impresa, egli sa che il merito non è suo. È stata la volontà di Allah a convincere l'ubriaco a parlare. È stata la volontà di Allah a rendere deserto il castello, permettendogli di cercare e trovare la coppa. È stato infine sempre Allah a mandargli un asino per offrire al suo fedele servitore un viaggio di ritorno più confortevole e veloce. 

Dicono che, alla fine dei tempi, Gesù tornerà sulla Terra, e apparirà a Damasco, alla Moschea degli Omayyadi, anzi, per la precisione, al minareto di Gesù. Quindi, si affaccerà dall'alto e annuncerà il Giudizio Universale. Per questo da secoli si custodiscono al suo interno gli oggetti che gli sono appartenuti, in modo che al suo ritorno li ritrovi. A questa sacra collezione manca un unico oggetto, quello che il Custode sta per aggiungervi. I tempi sono maturi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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