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   Ila 
       Gli
  uomini erano usciti a combattere. Le loro grida risuonavano da fuori,
  dall’oscurità. Saturavano il silenzio delle stanze buie, assieme al palpito della
  paura. E all’odore della morte, che aleggiava dalla camera ove era deposto il
  cadavere. Le donne, radunate tutte assieme, piangevano. Poi la luce delle
  fiamme divampò oltre le colonne dell’ingresso. Le grida di dolore delle
  vittime. Le grida di assalto dei carnefici. Avevano perso.  -La bestia!-  -La bestia e i suoi
  mangiatori di ghiande!- gridarono le donne affrante. Il piccolo era
  terrorizzato. Nascosto sotto i pepli di sua madre. -Ila, va giù nel ripostiglio, nasconditi
  nella cassa, corri!- aveva strillato lei. Solo dentro quella cassa,
  il bimbo vedeva soltanto tenebre. Tenebre dappertutto. Il suo cuore rombava,
  ne sentiva il battito ansimare nelle orecchie. Come i passi dei nemici che
  avanzavano nella stanza. La luce delle loro torce filtrava nel buio, assieme
  alle strida isteriche delle donne, reiterate a cadenza. Ancora. E ancora. E
  ancora. Ma era tutto così lontano. Là dentro c’erano solo lui e la sua paura.
  Un orrore così forte da far scomparire il mondo intero in una tenebra
  vacillante.  Infine si accorse di essere
  calmo. Incapace di muoversi. Ma anche di restare in quell’ombra, colma
  dell’odore fetido della sua stessa paura. Spinse via il coperchio di quella
  prigione. Anche fuori era buio. I nemici se ne erano andati. Solo la pallida
  luce della luna filtrava da una crepa. Riverso a terra, il piccolo non era
  capace neppure di piangere. Le sue gambe non riuscivano a stare erette.
  Strisciò carponi nell’oscurità. Nella stanza del morto. Il signore, suo
  padre, giaceva riverso, la bocca aperta che agognava il respiro perduto. In
  attesa di onori funebri che mai avrebbe ricevuto. Il suo volto non era più il
  suo. Pallido, scavato, immoto. A Ila sembrò che si
  volgesse verso di lui, aprisse gli occhi e fissandolo con orrore ripetesse
  ancora: -Tutto questo per un bue! Vendicatemi! Vendicatemi!-. Il piccolo
  trasalì. Avrebbe gridato se ne fosse stato in grado.  Si spinse sin nella grande
  sala del fuoco. Il suo orrore fu immenso. La grande fiamma era spenta. La
  luna filtrava nel vuoto di una parete distrutta, tra i resti carbonizzati,
  assieme al baluginio degli incendi che ancora ardevano i campi lontani. A
  terra erano riversi altri corpi. Neanche a loro sarebbero toccati gli onori
  funebri. Una donna giaceva in un lago di sangue, le vesti stracciate. Più in
  là vi era un giovane combattente, probabilmente intervenuto in suo aiuto.
  Invano. Era poco più giovane dei fratelli di Ila.
  Il corpo nudo crivellato di ferite. La testa staccata di netto dal collo. Gli
  occhi vacui e sbarrati fissavano il povero bambino tremante. Un getto di
  sangue schiumava fuori dalla cavità del collo tranciato, un terzo, grande
  occhio rosso che fissava il piccolo, minaccioso. Lo sguardo ciclopico della
  morte. Il bimbo cadde riverso all’indietro. Si fece strada sul nudo marmo.
  Gli arredi, i seggi, le mense, tutto era stato distrutto o predato e
  trascinato via. E poi vide sua madre. Il volto disperato, volto ancora verso
  la luce della luna. Il suo corpo era intatto, immobile, prono a terra,
  avvolto nel peplo bianco. Ila si avvicinò, le toccò
  il viso. Era freddo. I suoi occhi non avevano espressione.  -Mamma!- avrebbe voluto
  chiamarla. Ma nessuna voce usciva dalla sua gola. Cercò di scuoterla. Invano.
  E vide il sangue che dilagava lento sotto di lei.  Poi il fuoco si avvicinò,
  l’afrore di una torcia accesa. I passi nel silenzio. I passi cadenzati e
  rombanti di un guerriero. La bestia. Era là. Li aveva presi tutti. Ora era
  tornato per lui. Il piccolo si rannicchiò contro il corpo freddo della sua
  mamma. Pregò di essere morto anche lui perché nessuno turbasse più il suo
  sonno. I passi dell’uomo tremendo erano sempre più vicini. Il suono
  incalzante della morte. Il bimbo chiuse gli occhi per non vedere la luce del
  fuoco che ormai raggiungeva l’uscio, l’ombra immane che si stagliava tra le
  colonne. Era venuto a prenderlo. Il ragazzo si svegliò di
  soprassalto, ansimante. Il respiro troppo affranto persino per ristorarsi
  nell’aria fresca che spirava sotto quel cielo stellato. Il suo primo istinto
  fu di stringersi al poderoso petto del guerriero sdraiato accanto a lui. Si
  sentiva il sudore incollato addosso, ma aveva la sensazione di morire di
  freddo. Quegli incubi riaffioravano sempre più spesso. Ma non erano soltanto
  sogni fallaci. La macchia del passato non può essere lavata via. Neppure in
  quella placida notte di primavera allietata dal canto delle cicale tra gli
  alberi. L’uomo, ancora immerso nel sonno, parve avvertire il contatto del
  giovane che lo cercava e tese una delle sue immense braccia ad attirarlo a sé
  sotto le coltri di pelliccia. Ila si lasciò cullare
  dalla protezione di quelle membra forti, nelle cui vene ardeva il fuoco. Quel
  petto era un’immensa pianura dove trovare rifugio. La notte era ancora alta.
  Il bosco oscuro, denso di ombre e di suoni infidi. Per un attimo il ragazzo
  temette di vederne spuntare le ombre dei suoi incubi. Ma non gli avrebbero
  fatto alcun male sinché era con il forte Eracle.       Quando
  mattutina si mostrò Aurora dalle dita di rosa, l’ora per i viaggiatori di
  levarsi e riprendere il cammino, il ragazzo s’era già alzato per attingere
  acqua a una vicina sorgente, il suo compito quotidiano. La foresta era
  immersa nella foschia del mattino. Ma ora che il Sole già s’appressava a
  spronare i suoi cavalli d’oro oltre il confine dell’orizzonte, le ombre non
  gli facevano più paura. I sogni erano soltanto sogni. Chino sul pelo
  dell’acqua, vide la propria immagine riflessa. Un bel fanciullo dal volto
  simmetrico e perfetto, liscio come una pesca dorata, coronato da grandi occhi
  verdi e incorniciato da lunghi boccoli biondi. Il suo corpo si era
  irrobustito, temprato dalle fatiche degli anni di servizio come scudiero. Le
  membra erano ben fatte, i muscoli modellati e guizzanti, ma la pelle ancora
  bianca, soffice e priva di peli. Era così diverso dal corpo di Eracle. Di
  certo Ila non sarebbe mai diventato alto e possente
  quanto l’eroe.        -L’acqua
  è calma come il mare in bonaccia!- esclamò la voce di Eracle alle sue spalle,
  simile a un rombo di tuono.       Ila si affrettò a riempire la brocca e alzarsi, timoroso
  per essersi attardato a eseguire i propri compiti quotidiani. Ma quel mattino
  il suo signore sembrava di buon umore.       -E
  fresca come le vette del Parnaso!- soggiunse balzandovi dentro. Il suo
  ragguardevole peso sollevò un’immensa onda che infradiciò completamente il
  ragazzo –Vieni in acqua, cerbiatto!- soggiunse con un gioviale sorriso. Il
  suo corpo nudo pareva un’enorme montagna di roccia. A Ila
  ricordava i monumentali giganti di cui raccontavano i miti, quelli che un
  tempo avevano tentato di scalare l’Olimpo prima che il fulmine del sommo Zeus
  li respingesse scaraventandoli nel Tartaro, l’abisso sotterraneo. Le sue
  spalle erano simili a due enormi massi levigati, le braccia possenti e le
  cosce a enormi mazze da guerra, il torace smisurato e villoso a due scudi oplitici accostati l’uno all’altro, le placche sporgenti
  del suo addome sembravano cesellate da Efesto, il
  fabbro divino in persona. Quanto a ciò che svettava più in basso, Ila sapeva bene quanto anche un pezzo così piccolo e
  insignificante di quell’immenso corpo dalla forza divina potesse, al richiamo
  del dio dell’amore, divenire tanto grande e potente da gareggiare -nel suo
  piccolo- con la stessa clava che l’eroe brandiva in battaglia. Ma questa
  clava oltre che dolore sapeva infliggere anche sovrumano piacere.  -Ehi, vuoi smetterla di fissarmi
  e tuffarti?- lo apostrofò l’uomo ridendo.  Il
  fanciullo scoppiò a ridere, si slacciò la tunica e si immerse per celare il
  rossore del viso.                                                                                           -Ammiravo solo la tua
  possanza e mi chiedevo se mai diverrò un uomo altrettanto forte- si schermì.  Eracle rise e si gettò
  verso di lui per afferrarlo. Ila sgusciò via e si
  immerse nell’acqua per poi emergere dietro di lui e aggrapparsi alle sue
  spalle. L’eroe rise e lo portò in girotondo nell’acqua, poi si immerse sulla
  schiena fingendo di volerlo schiacciare con tutto il proprio peso. Ila si divincolò e fece per fuggire, ma un‘enorme mano di
  Eracle lo afferrò per i fianchi e lo strinse a sé. -Sarai sempre forte cento
  volte me?- chiese Ila tastandogli i muscoli delle
  braccia.  -Tu non hai idea di che uomo
  diventerai. Forte e bello!- gli sussurrò Eracle attirandoselo vicino con
  prepotenza e baciandogli una guancia imberbe. Ila
  si chiese se glielo sussurrasse solo per compiacerlo. Il suo corpo sembrava
  così gracile, stretto tra le membra di quel gigante. La bocca di Eracle, la
  carezza delle sue labbra era così dolce. La sua pelle invece era salata,
  cotta dal sole, tesa sopra i muscoli duri. Il fanciullo gemette, sollevato in
  aria dalla foga dell’eroe. Quelle braccia immani lo serravano in una stretta
  mortale che non gli lasciava via di fuga. Poco di più e avrebbe potuto
  stritolarlo, come aveva fatto con tanti altri.  Uomini malvagi che
  meritavano quella fine. Ma anche coloro che più amava. Ricordava ancora lo
  sguardo affranto che tali ricordi dipingevano in quei fondi occhi scuri. Gli
  stessi che ora lo fissavano quasi sorridenti, perduti in una dolce estasi.  Per un attimo a Ila sembrò di desiderare che stringesse più forte e la
  facesse finita, immortalasse per sempre quel fuggevole attimo di pura gioia,
  quell’agonia di piacere, prima di spedirlo con violenza nel regno delle
  ombre, sotto le profondità di quell’acqua scura. E poi il suo piacere esplose
  contro il ventre dell’uomo. La piccola morte lo scosse sull’orlo di
  un’invisibile baratro. Anche nel momento dell’estasi Eracle pareva lanciare
  un grido di guerra, il suo petto rombava come una tromba di bronzo mentre
  gioiva nel corpo del ragazzo. Poi si accasciava e lo stringeva, mite e
  affettuoso come un cucciolo di leone. Quando fu sazio di piacere,
  l’eroe uscì dall’acqua. Asciugandosi al sole reimbracciò
  arco e faretra e si cinse sulle spalle l’immensa pelle di leone. Le fauci
  aperte sopra i riccioli bruni, la pelliccia e i resti delle zampe
  drappeggiati sulle membra possenti. -Andiamo, cerbiatto. Elios si sta già levando. Prima che giunga a metà del suo
  cammino saremo al porto di Pagase-. Ila obbedì. -Davvero vuoi unirti alla
  spedizione che viaggerà sull’acqua?- chiese con un misto di ammirata fantasia
  e di paura. -Certo. Il prode Giasone
  figlio di Esone di Iolco varcherà il mare fino ad
  Aia, la terra dove sorge il Sole, per ricondurre in Ellade
  il Vello d’Oro- -Tutti questi pericoli per
  una pelliccia?- -È la pelle dell’ariete
  divino che, come narrano i miti, salvò il principe Frisso
  di Minia dal sacrificio cui la sua crudele matrigna lo aveva condannato e lo
  condusse in volo sino alle terre del Sole. Gli uomini più prodi di tutta l’Ellade stanno accorrendo per unirsi al suo contingente. E
  io non posso certo esimermi dal prestare il mio contributo-. -Desideri che gli aedi di
  tutto il mondo celebrino le tue imprese?- -Desidero essere presente a
  un viaggio mai intrapreso da alcuno. Ma di certo i canti degli aedi ci
  ricorderanno per sempre. Ogni uomo deve aspirare a una gloria che lo renda
  immortale-. -Ma come faranno a
  camminare sull’acqua?- -Dicono che Argo il
  Costruttore abbia creato una casa simile a un enorme tronco di legno, in
  grado di muoversi sul mare-. -E come faranno a dirigere
  il suo tragitto sino ad Aia?- -Non lo so- replicò l’eroe.
  E scoppiò a ridere –Fra breve lo scopriremo, mio curioso ragazzo-. E si avviò a rapidi passi,
  mentre il suo scudiero gli stava dietro.       -No!
  Il tuo grave peso potrebbe spezzare il mio fragile asse di legno! Per te la
  Moira non ha stabilito di prender parte a quest’impresa!-       Così
  aveva tuonato la voce cupa e arcana della bella dea intagliata nella quercia.
  Poi la sua bocca si era richiusa nel sorriso enigmatico dei numi e i suoi
  occhi erano tornati immobili a fissare il mare, levata nell’aria sulla punta
  anteriore di quella strana costruzione di legno che si librava sull’acqua. Il
  suo chitone cilindrico, scanalato dalle pieghe, pareva formare un tutt’uno con l’asse obliquo su cui si
  congiungevano i legni delle due pareti laterali convesse.  Gli eroi presenti erano
  scoppiati a ridere ed Eracle rise più forte tra tutti, immobile a gambe
  larghe sull’asse centrale di quella bizzarra costruzione di legno che avrebbe
  dovuto sfidare la furia del mare. La voce della Argo. Così avevano chiamato
  quel legno prodigioso in onore al suo architetto. L’aveva fabbricata con i
  tronchi delle querce sacre di Dodona, gli alberi
  profetici che rivelavano agli uomini la volontà del sommo Zeus in persona. A
  quanto pareva i loro legni, anche dopo essere stati recisi e inchiodati in
  quel modo, avevano conservato la propria voce prodigiosa. E forse anche il
  senso dell’umorismo.       -Non
  c’è donna, tantomeno di legno, che mi proibirà di prender parte alla più
  grande impresa mai celebrata in Ellade.- aveva
  replicato l’eroe sprezzante -Se tu mi vorrai, figlio di Esone, si intende-.       -Il
  legno sacro della nostra Argo di certo vuole scherzare- aveva replicato
  Giasone ridendo –Sali pure, Eracle amico mio, la tua fama ti precede e credo
  di parlare a nome di tutto l’equipaggio se dico che le tue braccia e il tuo
  coraggio saranno preziosi per quest’arduo viaggio e per la mia ricerca-.       Il
  giovane principe di Iolco aveva accolto
  calorosamente il forte Eracle stringendogli la mano. Anche Telamone di Salamina, figlio di Eaco, un
  altro membro della spedizione e vecchio amico di Eracle, lo aveva abbracciato
  con affetto: -E il giovanetto che è con
  te? Figlio tuo? Di certo avrà preso la bellezza da sua madre!- disse
  ridendo.   - Il mio scudiero- si era
  limitato a replicare Eracle con orgoglio -Ila,
  figlio di Teiodamante il Driope-.
  Il forte Telamone lo aveva salutato con gentilezza. Tutti gli uomini
  dell’equipaggio avevano acclamato l’arrivo di Eracle, gli avevano addirittura
  offerto il comando della spedizione, riconoscendo in lui l’eroe più forte tra
  tutti loro. Ma lui aveva generosamente declinato l’invito in favore di
  Giasone: quella era la sua ricerca e la guida degli uomini spettava a lui.       Giasone
  figlio di Esone era noto in tutta l’Ellade per il
  suo bell’aspetto: riccioli biondi inanellati incorniciavano il suo volto
  nobile e regolare, membra forti, longilinee e slanciate, lucenti come il
  bronzo, su cui cingeva un manto di porpora e oro raffigurante imprese di dèi
  ed eroi. Si diceva lo avesse intessuto per lui la dea Pallade
  Atena in persona. I suoi alteri occhi cerulei sfidavano lo splendore del
  mare. Ma non c’era fierezza nel suo sguardo, pensò Ila
  fissandolo. Si diceva che nessuna donna potesse posare i propri occhi su di
  lui senza essere colta dal richiamo di Eros. Mopso,
  l’indovino della spedizione, aveva addirittura letto negli auspici che il
  giovane principe avrebbe trionfato nella sua impresa grazie al favore di
  Afrodite, la dea dell’amore. Ma Ila, da parte sua,
  lo guardava già con gli occhi un uomo: di certo era bello, non si poteva
  negarlo, ma si vedeva lontano mille miglia che non valeva neppure la metà di
  Eracle. Mentre il sole a picco gli
  cuoceva la testa, Ila fissava il riflesso della
  luce sull’acqua. La Argo era una strana costruzione, simile a un enorme
  tronco cavo costruito mediante l’assemblaggio di tanti tronchi più piccoli.
  La sua forma ricordava un grande guscio di noce rovesciato, congegnato in
  modo tale che l’interno, cavo e leggero, potesse galleggiare sulle onde del
  mare, con tanto di uomini ed equipaggiamenti al proprio interno. Nessuno in
  tutta l’Ellade aveva mai visto un simile prodigio.
  Il giovane Ila aveva tremato, aggrappato al
  parapetto di legno, mentre la costruzione era stata sospinta in mare dalle
  braccia robuste dei cinquanta eroi dell’equipaggio. Poi però era rimasto
  incantato nel vedere come quell’enorme legno restava davvero sospeso sulle
  onde, simile ai cavalli del dio del mare Poseidone.
  Qualcuno diceva che il saggio Argo avesse imparato l’arte di viaggiare
  sull’acqua in Oriente, nel corso di lunghe peregrinazioni. Ma Ila non credeva che in tutto il mondo conosciuto fosse
  mai stato visto niente del genere. Nessun uomo avrebbe mai potuto
  attraversare il mare. Piuttosto, pensò, era il potere divino dei legni sacri
  a Zeus che consentiva quel prodigio. Al centro della costruzione si levavano
  tre gigantesche ali simili a quelle degli ippogrifi ma fatte di lino, che si
  spiegavano per incanto sotto la spinta del vento, guidando l’intero legno e
  gli uomini che lo cavalcavano sulla superficie dell’acqua. Solo in seguito Ila si era accorto che a sorreggere le ali, che Argo
  chiamava ‘vele’, erano tre alti pali simili ad alberi o a enormi lance
  infissi nel ventre cavo del legno. Quando, come adesso, non c’era vento,
  erano gli stessi cinquanta naviganti a sospingere la Argo a forza di braccia:
  seduti sui venticinque banchi paralleli, due per banco, uno per lato,
  sospingevano all’esterno delle pareti lignee dei lunghissimi bastoni che
  battevano l’acqua spingendo la costruzione in avanti. Erano intagliati in una
  forma simile a quella delle pinne dei pesci o delle ali dei cavalli del dio
  del mare. Argo il Costruttore li chiamava ‘remi’.  Era Eracle a spingere più
  forte di tutti. Ila vedeva i possenti muscoli della
  sua schiena tendersi e rilassarsi mentre rivoli di sudore la imperlavano
  scintillando al sole. Ma anche gli altri marinai non erano da meno. Cinquanta
  tra gli eroi più prodi e noti dell’Ellade erano
  accorsi a quella spedizione. Vi erano i due forti principi di Sparta, Castore, abile nelle corse dei cavalli, e Polideuce, imbattibile nel pugilato; Zete e Calais, figli
  di Borea, il feroce vento del Nord; Orfeo, il cantore di Tracia dallo sguardo
  triste, che cadenzava il ritmo dei remi con il suo suono della sua lira; i
  figli di re Afareo di Messene,
  Ida, invitto nella lotta, e Linceo, dall’occhio infallibile; Eufemo di Tenaro, imbattibile
  nuotatore; Tifi di Beozia, che era stato scelto per tenere il ‘timone’, una
  barra che guidava la direzione della Argo. Ila
  aveva colto lo sguardo curioso e ammirato di qualcuno di loro posarsi sui
  suoi riccioli biondi, ma nessuno avrebbe mai osato fare profferte al ragazzo
  di Eracle.  Tutta la vita era stato il
  ragazzo di Eracle. Il suo primo ricordo (il primo che conservasse da sveglio
  almeno) era il volto dell’eroe che lo raccoglieva da terra sollevandolo tra
  le sue forti braccia. Ila era un bimbo tremante, ma
  Eracle lo aveva stretto a sé, cullandolo finché non aveva smesso di piangere,
  con una dolcezza che nessuno si sarebbe mai atteso da quel colossale e
  spietato guerriero. Lo aveva portato con sé e da allora non si erano mai più
  separati. All’inizio l’eroe lo aveva amato come un figlio. Gli aveva
  insegnato tutto ciò che sapeva: a guidare il cocchio, a combattere corpo a
  corpo, a maneggiare le armi, a forgiarle con le proprie mani. Ricordava
  ancora la forza possente di Eracle intento a battere il filo rovente di una
  spada sull’incudine. -Ora arroventa il bronzo
  sul fuoco sinché non scintilla e poi tempralo nell’acqua sinché non sfrigola.
  Così la tua arma sarà indistruttibile. Nessuno potrà mai piegarla né
  spezzarla!- -Anche le tue membra sono
  fatte di bronzo?- chiese il giovanetto toccandogli un braccio. Era ammirato
  da quei muscoli immensi che si flettevano nella fatica, madidi di sudore
  sotto il riflesso del fuoco baluginante della fornace. Sembrava uno dei
  giganteschi Ciclopi che, a quanto si narrava, forgiavano le armi degli dèi
  sotto il fuoco del cratere dell’Etna. L’eroe scoppiò a ridere.
  -No! Sono di carne e sangue come le tue!- -E un giorno anch’io
  diverrò forte come te?- -Non lo so! Questo solo il
  tempo ce lo dirà. Ma di certo diverrai un uomo prode e valoroso! Io ti farò
  diventare un eroe-. -È vero quello che si
  dice?- chiese timidamente il giovanetto -Che nelle tue membra scorre il
  sangue di un dio?- Eracle sorrise senza rispondere.
  La gente diceva che era stato generato dal sommo Zeus in persona, che il dio,
  preso l’aspetto di re Anfitrione di Tirinto mentre
  questi era in guerra, si era goduto a lungo la compagnia della bella regina Alcmena, prolungando quella notte d’amore per la durata
  di ben tre notti mortali. Era tutto vero? Forse neppure Eracle lo sapeva. Ma
  di certo Ila lo venerava come se fosse stato un
  dio.        -Diverrai
  un uomo di grande valore!- gli ripeteva spesso l’eroe -Impari bene e in
  fretta le arti del guerriero! Forse dovrei trovare qualcuno che ti insegni
  anche la musica, la poesia e la danza. Saresti un allievo di gran lunga
  migliore di me!-        -Tu
  hai appreso la poesia e la danza?- aveva chiesto Ila
  senza riuscire a nascondere un sorrisetto. Il pensiero di quell’energumeno
  enorme e pesante intento a danzare lo faceva ridere. Si chiese come doveva
  essere stato Eracle alla sua età.       -Da
  ragazzo, quando era in esilio a Tebe, mio padre mi assegnò il miglior maestro
  di lira dell’Ellade, Lino di Tracia. Si vantava di
  aver appreso la sua arte dalle Muse in persona. Ma io sono stato un pessimo
  allievo. Lo facevo infuriare, povero Lino. Che gli dèi lo abbiano in gloria-. -È morto?-  -Un giorno esasperato dalla
  mia caparbia ignoranza mi fustigò e io mi infuriai talmente tanto che...- L’eroe si interruppe
  abbassando gli occhi. -Cosa?- aveva chiesto Ila incredulo. -Gli suonai la lira in
  testa! Con molta... troppa forza e... Lino non sopravvisse al colpo-. Il ragazzo era rimasto a
  bocca aperta: -Non è vero!- -Credi che me ne vanterei
  se non lo fosse?- -Vuoi burlarti di me! Un
  uomo buono come te non lo farebbe mai-. Eracle sorrise, ma era un
  sorriso amaro: -Ero solo un ragazzo. Non controllavo la mia forza. E non è
  stata neppure la cosa peggiore che ho fatto nella mia vita. Guardati dall’ira
  ragazzo! Conduce ad azioni sconsiderate persino gli uomini più probi! Povero
  Lino! Almeno la sua fama è divenuta immortale e tutta l’Ellade
  intona ancora i suoi canti! Mio padre si adirò a tal punto che mi fece
  bandire e mi spedì a badare alle sue mandrie sul Monte Citerone!-       Eracle
  aveva continuato a istruire il piccolo mentre cresceva, divenendo un giovane
  virtuoso.         -Tendi
  l’arco più che puoi!- rimarcava mentre guidava le sue mani sulla corda, alla
  base della freccia –Il tuo strale sia tutt’uno col tuo braccio e i tuoi occhi
  con la punta dello strale. Solo così sarai certo di non mancare il
  bersaglio!-        Non
  vi era arciere al mondo migliore di Eracle. Apollo in persona gli aveva
  donato quell’arco e quelle frecce al tempo in cui aveva iniziato le sue
  Dodici Fatiche al servizio del crudele re Euristeo.
  L’eroe era in piedi dietro il ragazzo, le braccia che guidavano le sue, i
  corpi stretti l’uno all’altro. Il membro dell’uomo contro i suoi lombi era
  eretto. Perché? Il ragazzo tremò, sorpreso da quell’improvviso turgore, e
  volse indietro la testa a guardarlo. Vide il guerriero abbassare gli occhi di
  scatto e ritrarsi.       -Adesso
  tira!- imperò la sua voce, distante.       Ila non capiva.
  Era ormai abbastanza grande da sapere cosa facevano gli uomini elleni con i
  fanciulli. Indiscrezioni origliate dietro le porte delle sale dei banchetti,
  delle stanze degli uomini dove ancora non era ammesso. Forse era per quello
  che ora quelle mani forti che stringevano le sue, la carezza di quel petto
  villoso contro la schiena nuda, della barba ruvida sulla guancia, il
  familiare afrore di quelle membra sudate gli sembravano così diversi? Anche
  Eracle sembrava desiderarlo. Perché allora si ritraeva da lui?       -Bravo
  ragazzo! Hai centrato il bersaglio!- si limitò a esultare l’uomo, orgoglioso. A quanto narravano anche
  l’Amore era un ragazzo che svolazzava armato di arco e frecce, e le sue
  frecce centravano sempre il bersaglio.   I ricordi tornavano spesso
  alla mente di Ila nel corso delle lunghe giornate di
  viaggio. L’inedia a bordo dell’Argo lo tormentava, lo costringeva a pensare.
  A sera, quando il Sole era ormai disceso nella corrente di Oceano a
  occidente, nella coppa che lo avrebbe traghettato di nuovo alle terre
  dell’Aurora per ricondurre alle stalle i suoi corsieri alati, nell’ora in cui
  il bovaro riconduce gli armenti alle stalle e la placida notte conduce il
  sonno alle case degli uomini e a tutte le specie viventi, gli Argonauti
  spingevano il loro legno su qualche costa rocciosa e aspettavano il mattino.
  Quando le terre erano inospitali dormivano sul pavimento del legno stesso.
  Talora invece approntavano bivacchi a terra, allestivano giacigli comuni e si
  sdraiavano a dormire gli uni al fianco degli altri. Talora Eracle conduceva
  per mano il suo scudiero tra gli arbusti e là, lontani da tutti,
  condividevano i loro amplessi privati. Erano i momenti più felici, attimi di
  estasi che cancellavano la noia. -Davvero attraverseremo
  tutto il mare?- chiese una sera Ila, sdraiato sul
  corpo di Eracle, la testa sulla sua spalla -Giungeremo là dove sorge il Sole?
  Tra uomini barbari e pericolosi e streghe crudeli?- -Chi ti racconta queste
  storie?- -Gli uomini
  dell’equipaggio. Ma credo vogliano solo spaventarmi!- -E tu hai paura?- chiese
  Eracle con un sorriso. Ila scosse la testa in silenzio. -Gli uomini coraggiosi
  vincono sempre la paura! E tu diverrai un uomo prode e coraggioso!- -Quando? Quando diverrò un
  uomo?- -Fin troppo presto, temo,
  piccolo mio- gli sussurrò l’eroe con uno sguardo malinconico negli occhi. -Tu non vuoi che accada
  presto?- -Sì. Voglio che tu divenga
  un uomo valoroso. Lo desidero per te. Anche se allora una ruvida barba
  oscurerà le tue morbide guance- sussurrò accarezzandogli il viso con due dita
  -E la peluria scurirà le tue bianche cosce- soggiunse discendendo più giù
  sino alle pudenda che reagirono istintivamente alla carezza. -Come questa?- soggiunse il
  fanciullo strattonando un ciuffo della scura prateria che ammantava l’immenso
  petto dell’uomo.  -Aaah!- Eracle annuì con una smorfia e si
  chinò a baciarlo. -E il mio membro diverrà
  possente come il tuo?- chiese il ragazzo prendendolo malizioso in una mano. -Mi auguro non divenga
  gigantesco e brutto come quello del dio Priapo!-
  ridacchiò Eracle. Dopo che ebbero fatto di nuovo
  l’amore restarono sdraiati nella pelle del leone,  sotto stelle ormai diverse da quelle che
  erano abituati a guardare nel cielo dell’Ellade. -Hai amato altri ragazzi
  prima di me?- chiese ingenuamente il piccolo Ila. -Qualcuno- annuì Eracle
  distratto. -Chi è stato il tuo
  preferito?- Eracle ridacchiò: -Li ho
  amati tutti. Ma... il più caro si chiamava Iolao.
  Fu il mio auriga e inseparabile compagno d’armi, era prode e coraggioso,
  sempre al mio fianco nelle battaglie. Grazie al suo aiuto sconfissi l’Idra,
  il terribile serpente a nove teste che infestava la palude di Lerna-.  -Era un mostro pericoloso?- -Oh sì. Il suo fiato era
  mortifero come veleno. Il suo corpo invulnerabile alle mie frecce. Mi aveva
  stretto a morte tra le sue spire e ogni qualvolta riuscivo a mozzarle una
  testa, altre tre ne ricrescevano al suo posto. Una sola delle teste era
  immortale, ma, se non fossi riuscito a recidere quella, le altre avrebbero
  continuato a ricrescere rendendo il mio compito ancor più arduo. Iolao però diede fuoco agli alberi ed ebbe la geniale
  idea di prendere dei rami infuocati e utilizzarli per cauterizzare le ferite
  delle teste decapitate in modo che non ricrescessero. Così riuscii infine a
  mozzare per ultima la testa immortale-. Ila aveva gli occhi sgranati al racconto di
  quelle imprese. -E fu Iolao-
  soggiunse Eracle -a guidare la mia quadriga nella gara in cui sconfissi il
  crudele Cicno, figlio del dio Ares, un vile
  brigante che sfidava a una corsa di cocchi tutti i propri ospiti e, dopo
  averli battuti, li uccideva, per spogliarli delle armi e usarne i crani come
  ornamento per il tempio del proprio padre. Lo stesso Ares, il dio della
  guerra in persona, guidava il carro di Cicno ma il
  mio prode auriga Iolao seppe tenergli testa. Grazie
  a lui riuscii a deviare il colpo di lancia con cui il brigante cercò di
  colpirmi durante la corsa. E poi lo uccisi. Ma quando lo stesso Ares mi
  attaccò, una folgore, di certo inviata da Zeus, ci divise-. -E tu e Iolao...
  facevate l’amore?-  -Oh... sì- -Come con me?- -Sì, anche se lui era molto
  diverso da te-.  -In che senso?- Eracle sorrise. Sembrava
  vagamente infastidito, ma gli rispose con pazienza: -Era come una gara di
  lotta furibonda tra corpi sudati, finché lui non cedeva. Tu invece sei così
  dolce, con i tuoi occhioni verdi sempre colmi di
  malinconia. Però sono certo che anche tu crescendo diverrai forte come lui-. -E dove è lui adesso?- -È divenuto un uomo bello e
  valoroso. Vive lontano, nelle terre a Occidente, in un’isola chiamata Sardinia. Ha guidato là una spedizione di Elleni a
  fondare una città, Olbia. E ha una famiglia. Quando gli è cresciuta la barba
  gli ho fatto prendere una sposa. Gli ho dato... la mia precedente sposa, Megara, dopo aver sciolto le nostre nozze-. La sua voce
  si era impercettibilmente incrinata. Abbassò gli occhi in un attimo di
  esitazione –Sai che la nostra unione... è stata infausta!- soggiunse. Ila annuì senza replicare. -E ora non lo ami più?- -Certo. Mi sarà sempre
  caro. E sempre accorreremo in aiuto l’uno dell’altro quando ne avremo
  bisogno, per difendere le nostre famiglie e il nostro onore, per perseguire
  la gloria, come ogni uomo deve fare-. -Ma non fate...- Ila arrossì. Eracle rise: –Ci ameremo
  sempre come un padre e un figlio. Ma non più come una volta. Ora anche lui è
  un uomo. Un uomo che ama le donne e... i bei giovinetti come te-. Gli strappò
  un altro bacio. ‘Come un padre e un figlio’ quella frase risuonò cupa nella mente del ragazzo
  mentre la brezza soffiava nella notte scura.  -Eracle, come era mio padre?- chiese. Vide uno strano sguardo negli
  occhi del guerriero.  -Ssss! Basta parlare adesso- gli sussurrò
  baciandogli la fronte –È ora di andare a dormire. Gli altri si preoccuperanno
  se non ci vedono tornare-.  Tornarono al bivacco dove gli
  uomini erano già coricati. Uno di loro era di guardia ma, riconosciuto Eracle
  non fece domande. L’uomo si sdraiò su un giaciglio mezzo vuoto a fianco di
  Telamone già addormentato. Ila si accucciò accanto
  a lui. Poco dopo Eracle già ronfava placido e il ragazzo era solo con i suoi
  mille pensieri. Che sarebbe accaduto quando gli fosse spuntata la prima
  barba? Eracle avrebbe smesso di amare anche lui? Quel pensiero gli sembrava
  terribile. Si strinse più forte al corpo dell’eroe. -Dormi!- mugolò l’uomo nel sonno. Il fanciullo si addormentò.
  Dormì e sognò. Anche nel sogno era stretto
  al corpo di Eracle. Ma non era Eracle. Era suo padre. L’uomo forte e bruno
  stringeva il piccolo Ila al petto mostrandogli i
  campi. Il bambino, per gioco, gli strappava la peluria dal torace. e il padre
  lo rimproverava mollandogli scherzose pacche sulle manine. Il sole splendeva
  alto nel cielo. Il bimbo era felice. Il padre cantava un antico canto agreste
  delle loro terre. Aveva posto il piccolo in groppa al suo bue migliore, il pelo
  fulvo dell’animale scintillava al sole e dietro di lui l’uomo sospingeva
  l’aratro lungo il solco del proprio maggese, pregando gli dèi che
  concedessero un ricco raccolto.  -Un giorno tutto questo
  apparterrà a te, Ila, e ai tuoi fratelli! E voi
  dovrete far sì che i campi prosperino!- lo ammaestrava. La pace regnava su quella
  terra. Una brezza placida spirava tra le chiome degli alberi nella luce del
  meriggio. E poi arrivava il flagello.
  Una nube di polvere si sollevava minacciosa all’orizzonte. Il piccolo
  scorgeva appena l’orda di mangiatori di ghiande, simili a satiri barbuti
  cinti di pelle di daino. Isolato dinanzi a tutti, avanzava lui. La bestia.
  Un’ombra mastodontica e minacciosa, simile a un gigante. Ila
  non fece in tempo a vederlo in faccia. Suo padre lo sollevò di peso dal dorso
  del bove, gli baciò la fronte e rapido lo depose sul solco di terra lucente. -Fuggi Ila!
  Va’ a casa! Va’ a nasconderti!- Il piccolo correva,
  inciampava, ruzzolava sulle ginocchia. Ma fuggiva carponi con tutte le forze
  che aveva. Udiva il grido furioso della bestia nel campo. Ma non si voltava
  indietro. Raggiungeva gli arbusti, al limitare del maggese, si nascondeva tra
  le foglie. Nessuno lo aveva visto. Ma quel clangore era insopportabile. Il
  bambino si tappò le orecchie. Le grida fiere di suo padre si levavano contro
  il nemico ma la bestia replicava più forte, la sua voce era simile al ruggito
  di un leone. Le loro urla risuonavano insopportabili. O forse era la propria
  stessa voce quella che udiva il piccolo, mentre piangeva in rantoli
  soffocati. Infine udì il tonfo e il grido di strazio. Il volto esanime di suo
  padre doveva giacere a terra. -Tutto questo per un bue!-       Ila sbarrò gli occhi di soprassalto e si accorse che
  anche fuori del sogno stava piangendo.       L’Argo
  era deserta anche quel mattino, arenata ormai da giorni sulle aride coste
  dell’isola di Lemno, al largo del Mare Egeo.
  Musica, canti e grida di gioia risuonavano tra le case del villaggio vicino,
  oltre gli alberi. Il suono delle feste e dei banchetti. Gli Argonauti,
  dimentichi di traversate e imprese, erano dolcemente persi tra le braccia
  delle donne, facevano festa con loro, ebbri, nelle piazze o nel segreto dei
  talami. Le dolci danze della dea Afrodite. Soltanto il forte Eracle sedeva
  immoto sulla punta del legno, la fronte corrucciata, carezzando la chioma
  d’oro del suo fanciullo che teneva stretto sulle ginocchia.       -È
  così che credono di prendere il Vello d’Oro? Pensano di indurre un qualche
  dio con le loro preghiere a portarglielo bell’e conquistato mentre si sollazzano
  con vino e donne, per altro di dubbia fiducia?- borbottava tra sé e sé.       -Non
  ti fidi delle donne di Lemno?- chiese Ila.       -Non
  fidarti di nessuna donna, ragazzo. Mai!- lo ammonì l’eroe sorridendo. -Prendi
  il loro amore quando sarai pronto ma non concedere a nessuna tutto il tuo
  cuore!-       Quando
  erano giunti al largo di quelle coste, pronti a fissare a terra la catena
  dalle mascelle di bronzo che Argo chiamava ‘àncora’,
  gli Argonauti avevano visto venir loro incontro uomini armati fino ai denti.
  Ma il passo di quegli stranieri sembrava incerto, i loro corpi quasi
  sparivano sotto le corazze di bronzo, né parevano disinvolti nel maneggiare
  le spade.        -Ravvedetevi
  ingenui!- li aveva redarguiti Eracle –Quelli non sono uomini. Son solo donne,
  con indosso armature da maschio-. Giasone si era risolto a
  inviare loro un messaggero per domandare ospitalità, in pace.    A quanto pareva l’intera pattuglia era
  davvero costituita da donne e sole femmine abitavano l’intera isola. Le
  straniere però non si erano limitate a concedere agli Argonauti di sostare là
  per la notte. Il giorno seguente, quando il vento del nord li aveva bloccati
  su quelle sponde, avevano inviato loro una messaggera.       Era
  da tempo che Ila non vedeva una donna, ma dal
  volgere di qualche stagione aveva cominciato a guardarle tutte con occhi
  diversi. Lunghe chiome d’oro danzavano sotto quell’elmo, simili a rivoli di
  seta, piccoli seni sodi facevano capolino sotto la sua tunica, fianchi
  sinuosi danzavano mentre avanzava. Ricordava le ninfe silvestri del corteo di
  Artemide, la dea cacciatrice, o le prodi guerriere Amazzoni che Eracle
  narrava di aver sconfitto in battaglia dopo averne sedotto la regina Ippolita per sottrarle la preziosa cintura d’oro. Quella
  straniera aveva l’aria così fiera, ma al tempo stesso pareva gentile e
  fragile. Il ragazzo provò l’improvviso desiderio di serrarla tra le braccia e
  stringerla a sé. Ma la fanciulla pareva avere occhi soltanto per Giasone,
  mentre gli comunicava che la regina Ipsipile,
  figlia di Toante, lo invitava alla propria reggia.
  Il comandante aveva accettato l’invito. Spazzolatisi i boccoli e
  drappeggiatosi nel suo manto di porpora, si era messo in cammino.       -Sta’ in guardia, amico mio- lo aveva ammonito Eracle. Ma Giasone era tornato
  circondato da fanciulle adoranti che lo coronavano di fiori levando al vento
  i propri veli e caricando la Argo di ricchi doni ospitali. A quanto pareva la
  bella regina, appena posati gli occhi sullo straniero, non aveva potuto fare
  a meno di offrirgli non solo sé stessa, ma anche il proprio scettro nel caso
  avesse deciso di stabilirsi là. E tutti gli Argonauti erano stati invitati a
  unirsi a quelle donne affinché la terra di Lemno
  potesse ripopolarsi di una nuova stirpe di uomini. Giasone aveva rifiutato
  gentilmente lo scettro, ancora memore della sacra impresa che lo attendeva
  lontano da lì, ma aveva accettato ben volentieri la generosa ospitalità.
  Tutti gli uomini si erano persi nel tripudio delle danze, dei banchetti e
  dell’amore. Tutti tranne Eracle che se ne era rimasto con il suo piccolo Ila, contrariato e impaziente di riprendere l’impresa.       –Cos’è adesso questa stramberia di un popolo di sole
  donne?- rombava   imbronciato
  -Indossano loro le armature? Magari vanno anche in guerra? E si occupano di
  persona di arare i campi? Che fine han fatto fare ai loro uomini?-       -Non
  li hanno scacciati perché erano infedeli e le maltrattavano?- chiedeva il
  ragazzo. Stando a quanto la regina Ipsipile aveva
  detto a Giasone, gli uomini di Lemno, sconvolti dai
  sortilegi della dea Afrodite, si erano trovati delle concubine tracie,
  prigioniere di guerra, e le avevano portate nelle loro case mettendo alla
  porta le mogli legittime e le figlie da loro partorite. Per questo esse li
  avevano scacciati dall’isola e costretti a fuggire a nuoto in Tracia, dove si
  erano stabiliti, portando con loro i figli maschi.       -Da
  quando in qua uomini con armi e armature, avvezzi a guerre e razzie, si
  lasciano scacciare dalle proprie case ad opera di deboli donne? Credo davvero,
  ragazzo, che se non sono più qui è perché, colte dal furore della gelosia, li
  hanno ammazzati tutti. Nel sonno o con l’inganno, come san fare le donne.
  Eppure gli sciocchi Argonauti si fidano di loro. Basta che sventolino le
  proprie grazie e corrono affamati come bambini? E, dimentichi delle imprese,
  giacciono a languire nei loro letti-.       -Eracle,- chiese il fanciullo con un sorriso –com’è... fare l’amore con una donna?-       L’uomo
  scoppiò a ridere scompigliandogli affettuosamente i riccioli.        -Già
  pensi alle donne, piccolo mio? È bello congiungersi in amore con una donna.
  Ma non lasciare che il desiderio ti ottenebri la mente. Sei troppo giovane
  per comprenderlo. Lo capirai quando sarai un uomo-.        -
  Tu quanto eri giovane la prima volta che amasti una donna?- -Meno giovane di te-
  rispose. Ma dal modo in cui abbassò gli occhi, Ila
  si chiese se non avesse mentito.       -Chi
  fu? Una delle figlie di Tespio?- chiese il ragazzo
  incuriosito -O tutte quante loro?-  -E chi ti ha raccontato
  questa storia?- chiese l’uomo tra il divertito e l’indispettito. Ila fece spallucce. -Sì- replicò, paziente
  Eracle –Fu al tempo in cui badavo alle greggi di mio padre sul Citerone. Un feroce leone infestava la montagna razziando
  gli armenti non solo miei ma anche di Tespia, la città
  sacra al dio dell’amore che sorgeva sull’altro versante della montagna.
  Sradicai un grosso olivo sul Monte Elicona per
  fabbricarne la mia clava e diedi la caccia a quella fiera in tutti gli
  anfratti del monte. Re Tespio mi offrì tutto il suo
  aiuto, mi ospitò nella sua reggia per cinquanta notti e... Beh, le donne di Tespia sono note per la loro... libertà e allegria. Procri, la figlia primogenita di Tespio
  era una fanciulla davvero bella e piena di ardore che non si fece remore a
  chiedere ospitalità nel mio letto. Con il benestare di suo padre, peraltro,
  che mi riteneva un padre degno per i propri nipoti-. -Ma Tespio
  non aveva altre figlie?- -Sì, cinquanta figlie-
  replicò Eracle evasivo. -Ed è vero ciò che si
  dice?- -E che cosa si dice, mio
  fanciullo dall’impertinente curiosità?-  Ila ebbe un momento di timore sentendo il
  tono duro della voce di Eracle, ma era davvero curioso: -Che le deflorasti tutt’e
  cinquanta, una per notte? Alcuni dicono che si sostituirono alla maggiore una
  alla volta perché tutte volevano generare un figlio tuo. Ma c’è anche chi
  dice che le... godesti tutte quante in una notte sola-. -Ah, dicono questo?-
  replicò l’eroe ridendo. Da quando, durante un
  banchetto, aveva udito quella storia, i sonni di Ila
  erano turbati dall’immagine del vigore possente di Eracle che, instancabile,
  faceva godere una ad una tutte quelle cinquanta vergini gementi e bagnate di
  desiderio. Del resto come avrebbero potuto non esserlo? Il suo incrollabile
  membro eretto che continuava senza posa a sprizzare seme in tutte loro. Quei
  pensieri eccitavano tremendamente Ila, anche se non
  sapeva dire esattamente perché, o per chi. -È vero?- si limitò a
  chiedere. Eracle lo fulminò con lo
  sguardo senza rispondere. Ma pareva non riuscire a trattenere un sorrisetto. -E tu sapevi che la donna
  nel tuo letto non era sempre Procri o nell’oscurità
  le confondevi l’una con l’altra?- si azzardò a chiedere ancora. -Smettila, Ila. Un uomo virtuoso non presta attenzione alle
  chiacchiere!- lo ammonì l’eroe con ostentata severità. -Io penso solo che, se è
  vero, non pensavano davvero a essere ingravidate di un figlio tuo!- replicò
  impertinente. Eracle alzò un sopracciglio
  guardandolo interdetto, con un lampo negli occhi. -Secondo me volevano
  soltanto conoscere il tuo possente vigore sotto le coperte!- soggiunse il
  fanciullo con audacia. Eracle non poté trattenere
  il riso: -Ora smettila o, con somma sofferenza nel mio cuore, sarò costretto
  a fartelo conoscere a suon di botte il mio vigore!- Ila ebbe un pensiero impertinente e si
  accostò al suo orecchio: -Preferirei assaggiarlo in
  altra maniera!- sussurrò. Sentì la voglia fremere nelle membra di Eracle
  mentre lo stringeva a sé. -Sarei molto tentato.-
  rispose l’eroe -Ma ora non posso cedere al desiderio anch’io. Devo piuttosto
  scendere a terra e richiamare quegli scellerati- Ciò detto lo depose
  delicatamente dalle ginocchia e si alzò: -Aspettami qua, cerbiatto-. Ila vide la sua figura possente, ammantata
  della leontea, allontanarsi oltre la scogliera e
  l’abitato.  Diverse volte il piccolo Ila aveva visto Eracle appartarsi in compagnia di
  fanciulle e donne, amanti o concubine, talune delle quali gli avevano
  generato dei figli. Non poteva negare di esserne stato incuriosito. Come
  sarebbe stato amare una donna nel modo in cui Eracle amava lui? Baciare il
  suo corpo, trovare piacere dentro di lei? Quando sarebbe stato abbastanza
  uomo per farlo? Quel pensiero se ne tirò dietro un altro: essere pronto per
  l’amore delle donne avrebbe significato rinunciare all’amore di Eracle? Per
  sempre? Perché allora non poteva restare fanciullo? Perché gli dèi immortali
  hanno voluto che la vita degli uomini fosse un perenne cambiamento? Il
  bambino deve divenire fanciullo, il fanciullo uomo, l’uomo vecchio e poi... L’immagine della morte colpì
  il ragazzo allo stomaco. Un volto esanime e sfigurato riverso su un catafalco
  che reclamava vendetta. Perché gli dèi sono stati tanto crudeli?        Ila era ancora immerso nei suoi pensieri quando vide il
  forte Eracle tornare dal villaggio di Lemno alla
  testa degli uomini dell’equipaggio che, seri e a occhi bassi, si accinsero a
  riprendere i propri posti sull’Argo. Le donne li inseguivano piangendo,
  abbracciandoli, offrendo loro doni d’addio. Ma Eracle aveva rammentato loro
  il dovere. Ora li fissava severo sul parapetto del legno prodigioso e Ila vide chiaramente che gli altri lo guardavano di
  sottecchi con timore reverenziale. Gli avrebbero obbedito. Il bel Giasone
  poteva anche giocare a dare ordini, ma era Eracle il vero capo. Il migliore,
  il più forte nel corpo e nell’animo. E gli uomini lo sapevano. Infine anche
  il vanesio principe biondo si allontanò dal palazzo della regina.  -Non giudicarmi male, amico
  mio!- disse Giasone a Eracle una volta a bordo –Sono uno stolto. Dovresti
  condurre tu la mia spedizione-. -Sei giovane e hai ceduto
  alla passione- aveva replicato Eracle indulgente -La prossima volta sarai
  migliore. La donna è debole e ha cuore infido, ma l’uomo deve essere forte,
  godere dei doni di Afrodite ma non lasciarsi dominare da essi-.  In seguito Ila
  sentì dire che la bella Ipsipile aveva gettato le
  braccia al collo del principe, in lacrime, supplicandolo di non partire. Ma
  di fronte alla ritrovata fermezza di lui gli aveva augurato piangendo il
  successo, promettendo che se si fosse scoperta gravida avrebbe inviato il
  proprio figlio da lui in Ellade.  Ripresero il viaggio al
  sorgere del sole. Ila piangeva. Vedeva il volto di suo padre,
  livido, sfigurato dall’agonia. La sua tunica era lorda di sangue. Era
  lontano, circondato di uomini e donne piangenti, sulla lettiga su cui lo
  avevano ricondotto a casa, dopo averlo ritrovato sul campo, ferito e in fin
  di vita. I figli maggiori si stringevano attorno a lui.  –Voleva il mio bue.- gemeva -Gli ho detto che era mio, che mi serviva, e
  lui se l’è preso con la forza. Mi ha ferito a morte e mi ha dichiarato
  guerra. Tutto per un bue! Vendicatemi!- supplicava –Vendicatemi!-. I giovani
  attorno a lui si risolvevano ad attaccare.  Le donne piangevano e li
  supplicavano, dicendo che era una follia, che sarebbero andati al macello:
  -Quella bestia sanguinaria!- gemevano –Lui e i suoi Arcadi mangiatori di
  ghiande!-.  Uno dei fratelli,
  imbracciate le armi, abbracciava il piccolo Ila.  -Sei ancora troppo giovane!
  Va’ a nasconderti al sicuro! Un giorno anche tu scenderai con noi in
  battaglia -. Suo padre lo aveva chiamato
  a sé. Ila era spaventato dal pallore cinereo del
  suo viso, dal respiro rantolante che scuoteva le sue membra. Ma si fece
  forza. -Vivi Ila.
  Un giorno, quando sarai un uomo, toccherà anche a te! Se i tuoi fratelli
  falliranno, il dovere della vendetta, l’onore della famiglia ricadranno sulle
  tue mani!- La luce nei suoi occhi
  vacillava e pareva spegnersi. Le donne gemevano e si battevano il petto. Ila si svegliò trattenendo un grido.  Era notte fonda. La luna splendeva
  sulla sua testa. Poteva sentire il leggero sciabordio dell’acqua sotto di
  lui. Giaceva accanto a Eracle sul fondo di legno dell’Argo. Lo abbracciò, nel
  buio, sperando che riuscisse ancora a farlo sentire al sicuro, come quando
  era bambino e si stringeva tra le sue braccia. Come quando l’eroe lo aveva
  tenuto stretto a sé la prima volta, mentre si allontanava in silenzio dal
  fuoco e dalla devastazione. Il piccolo non si era voltato indietro. Non si
  era più voltato indietro da allora. Che adorazione aveva provato allora di
  fronte a quell’uomo forte e indomito, che non conosceva la paura. Era stato
  in quel momento che aveva deciso che lo avrebbe seguito ovunque fosse andato,
  che lo avrebbe servito fedelmente, non desiderando altro che di divenire come
  lui?  Ma lo aveva davvero deciso?
  O era ciò che era stato deciso per lui, che sin da allora gli era stato
  insegnato a volere? Si levò a sedere. Incapace
  di riprendere sonno, si alzò da quell’improvvisato e malfermo giaciglio e,
  sforzandosi di non fare rumore, si fece strada tra i banchi dell’Argo,
  scavalcando i corpi ammassati degli uomini che giacevano gli uni accanto agli
  altri, avvinti dal sonno. Si aggrappò al bordo del grande legno come a un
  parapetto, contemplando il placido infrangersi delle onde, il riflesso della
  luna argentea sull’acqua. Una piacevole brezza fresca gli carezzava il corpo
  nudo. Una luna simile splendeva
  nel cielo anche la sera in cui l’amore di Eracle per lui aveva infine
  cambiato forma. Era stato lo stesso giorno in cui Ila  aveva ucciso un uomo per la prima volta. Da giorni stavano
  viaggiando, lui ed Eracle, tra i valichi montuosi della Tessaglia. Dapprima
  gli sconosciuti si erano appressati furtivi in mezzo agli alberi e alle
  rocce, per pararsi poi all’improvviso innanzi a loro, là dove il sentiero
  inerpicandosi si stringeva su un valico roccioso. Due uomini, dall’aspetto
  poco amichevole. -Buongiorno stranieri.
  Benvenuti nelle nostre terre. Cosa portate nelle vostre bisacce?- -Briganti!- bisbigliò
  Eracle sottovoce – Ila, sta indietro!- -Nulla di valore per voi!-
  replicò poi con voce stentorea e ferma –Solo viveri per giungere sino alla
  prossima città. Posso chiedervi chi siete e se avete intenzione di onorarci
  della vostra ospitalità?- -Ospitalità?- chiese uno
  dei due. Guardò ironico il proprio compagno ed entrambi sbottarono in una
  risata gracchiante. Aveva una barbaccia nera e un’ampia cicatrice segnava il
  suo viso sgraziato. Il suo compagno invece aveva capelli fulvi e un viso
  rubizzo, con fattezze ricordavano quelle di un suino. Entrambi erano robusti
  e corpulenti, cinti di pelli conciate. -Ma certo!- sentenziò il
  secondo. -Possono testimoniare della
  nostra ospitalità tutti coloro che sono stati tanto audaci da avventurarsi
  sulle nostre montagne prima di te!- soggiunse lo sfregiato –Puoi
  chiederglielo. Credo siano ancora qui, in qualche dirupo-.  -Le loro ossa quanto meno-
  replicò l’altro. -Osservate la legge sacra
  dell’ospitalità del padre Zeus e nessuno di noi si farà male!- replicò Eracle
  imperturbabile come un dio. -Ahaha! Hai sentito Arpax?-rise
  quello con la faccia da porco. -Facci tu un dono di
  ospitalità, straniero!- lo sfidò per tutta risposta lo sfregiato -Quella
  pelle di leone che indossi deve valere una fortuna, ci accontenteremo di
  quella!-  -E del bell’arco scita che
  porti in spalla!- soggiunse il maiale. Eracle li fissò senza
  replicare, con un sorrisetto divertito. Poveri sciocchi! Pensò Ila. Davvero non sapevano quale sorte li attendeva. -Davvero vorresti questa
  pelle di leone? Sarebbe un vero peccato privarmene dopo che ho strangolato da
  solo la fiera in questione e ho fatto la fatica di scuoiarlo a mani nude -. -Oh davvero?-  L’altro brigante scoppiò a
  ridere.  -Raccontami come hai fatto,
  straniero! E poi io ti racconterò come ho infilato il mio membro nel conno della vergine Atena in persona! Oppure... uno
  scambio più interessante: dacci il giovanetto biondo, anche lui sembra un
  ornamento degno di Afrodite, e ti farò vedere come lo infilzo di persona!- Ila sentì il sangue salirgli nelle viscere a
  quella dichiarazione oltraggiosa. Fece per portarsi la mano alla cintura ed
  estrarre il pugnale di bronzo, ma lo sguardo di Eracle lo trattenne. -Evidentemente non sapete
  chi sono- replicò l’eroe con aria serena e quasi gioviale. -No! Ma a giudicare dalle
  fandonie che racconti... sembra che tu creda di essere qualcuno di
  importante. Ora cosa ci dirai: che sei il possente Eracle figlio di Zeus e
  che quella è la pelliccia del Leone di Nemea?- -Vuoi il mio arco?- chiese
  l’eroe allo sfregiato sfilandoselo dalle spalle. -Oh! Sembra una bell’arma.
  Ma preferisco il ragazzo. O meglio: perché scegliere quando posso averli
  entrambi?- soggiunse sghignazzando. Non aveva ancora finito di
  parlare che un sasso cadde, scagliato giù dal monte. Centrò Eracle sul capo,
  ma rimbalzò contro la pelle invulnerabile del leone immortale che lo
  ammantava. Prima ancora che la pietra si schiantasse a terra rombando,
  Eracle, incoccata una freccia, la scagliò in aria. Un urlo risuonò tra le
  gole del monte e un attimo dopo un terzo brigante ruzzolò, infilzato, giù
  dalla parete rocciosa e stramazzò a terra sbattendo la testa su un masso. Ora
  giaceva esanime in un lago di sangue. Aveva altri sassi stretti in mano. Ila si ritrasse con un balzo, adocchiando troppo tardi lo
  sperone roccioso dal quale li stava tenendo sotto tiro. Una seconda freccia,
  una terza e ne piovvero dal cielo altri due prima ancora che avessero il
  tempo di gridare. -Ora siete rimasti solo in
  due!- replicò secco Eracle. -Due contro uno? A meno che
  tu non faccia combattere il ragazzo!- -Non sottovalutare il mio
  ragazzo. E comunque ne ho affrontati molti di più anche da solo!- soggiunse. -Davvero, bastardo figlio
  di cagna?- lo apostrofò lo sfregiato prendendo la rincorsa. Eracle schivò l’attacco
  e un attimo dopo balzò su di lui con un ruggito selvaggio.  Frattanto Ila si ritrovava braccato dal maiale.  –Ehi ragazzino! Oggi la Dea
  della Sorte mi sorride davvero- lo apostrofò ridendo e gettandoglisi
  addosso per afferrarlo. Ila schivò l’attacco con
  agilità balzando su una roccia. Quello lo assalì di nuovo. Con un calcio nel
  ventre il giovane lo fece piegare in due. Ma in quel momento il porco
  saltò sul fanciullo sbavando, gli afferrò la tunica che si stracciò nello
  strattone. Sdraiato a terra sotto di lui, disgustato dal suo fetore, il
  fanciullo afferrò la daga. Sentì il sangue salirgli alla testa per il
  violento senso di rifiuto. Emise un grido rabbioso. Un attimo di esitazione.
  Ma solo un attimo. Le pesanti mani dello straniero gli calarono addosso e
  d’istinto il pugnale affondò. Ila senti lacerarsi
  la tunica, e la carne sotto di essa. Il bestione emise un rantolo strozzato,
  d’istinto le sue mani si serrarono alla gola del ragazzo. Il suo volto si era
  stravolto in un ghigno, più di sorpresa che di furia.  Il giovane ritrasse il pugnale di scatto.
  L’omone gridò. Ila sentì il sangue, caldo e
  viscoso, colargli sul petto nudo. E sangue fetido gli colò addosso dalla
  bocca del mostro. Ila stava soffocando tra le sue
  mani. Reagì d’istinto, affondando di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. Ma in
  quella tenebra che lo sopraffaceva gli sembrava quasi di non essere davvero
  lui quello che colpiva e che a stringerlo non fosse un uomo, ma un ammasso di
  carne e liquidi pulsanti, pronti per il macello. Il porco strillò, l’avrebbe
  soffocato anche da morto ma... -Ti avevo detto di non
  sottovalutare il mio ragazzo!- tuonò Eracle. E poi la testa del maiale al
  macello andò in frantumi sotto un colpo di clava, il suo corpo rotolò per
  terra e, dietro di lui, Ila vide il volto infuriato
  del suo signore, anch’esso trasfigurato nella maschera di una belva feroce.
  La bocca schiumava, gli occhi ardevano, rossi come braci. Su quel volto non
  era rimasta traccia alcuna dell’uomo gentile che lo aveva abbracciato da
  bambino. Frattanto lo sfregiato
  attaccò il prode alle spalle, ma non fece in tempo a raggiungerlo che Eracle gli fu addosso con un balzo.  -Uno contro uno!- ringhiò
  quello. -Due!- strillò
  all’improvviso uno degli uomini che giacevano a terra, un selvaggio robusto
  dal collo taurino. Era ancora vivo. Si sollevò con una freccia ancora infissa
  nel petto nudo imbrattato di sangue. Ma non fecero neppure in tempo ad
  attaccarlo. Come un leone rincorre due innocui cerbiatti, li bracca e li fa a
  pezzi senza lasciar loro speranza alcuna di scampo, così Eracle, ruggendo
  come una fiera, con la pelliccia leonina che riluceva nella luce del
  crepuscolo, fu addosso alle due prede, li afferrò entrambi per la gola a mani
  nude, li sollevò in aria scalcianti e sbatté i loro crani l’uno contro l’altro.
  Li gettò addosso alla parete rocciosa, urlanti. Quelli caddero a terra
  tramortiti. Uno, il ferito, non ebbe neppure la forza di chiedere pietà
  mentre Eracle, afferrata la clava, lo colpiva in testa a ripetizione con
  furia selvaggia finché il suo cranio non fu solo poltiglia in un lago di
  sangue scuro. Quanto allo sfregiato, l’eroe lo afferrò per la gola e lo
  sollevò oltre la parete rocciosa, sull’orlo del precipizio, sospeso sul
  vuoto. Quello scalciava come un agnellino inerme tra le fauci della fiera. -Io sono il forte Eracle figlio di Zeus!- tuonò l’eroe –E questa è la pelle del Leone Nemeo. L’ho
  ammazzato con queste mani dopo aver constatato che la sua pelle era
  invulnerabile alle frecce, alla spada, alla mia stessa clava. Sono entrato
  nella sua tana e l’ho strangolato a mani nude. Io ho scuoiato la sua pelle
  invulnerabile utilizzando i suoi stessi artigli e sempre io ho istituito in
  memoria della sua morte i Giochi Nemei che ancora oggi si celebrano!- Il povero malcapitato
  scolorì in viso, troppo tardi. Temette di finire anche lui soffocato dalla
  mano dell’eroe come quella terribile fiera. Ma Eracle mollò la presa e quello
  precipitò nel vuoto, il suo grido di rovina disperso dal vento fu il suo
  unico lamento funebre.  Eracle restò immobile, la
  possente muscolatura del suo corpo ancora fremente. La bocca ringhiante, lo
  sguardo stravolto dalla furia. Poi il suo respiro si acquietò. Ila avrebbe voluto avvicinarsi, parlargli.
  Ma non ne ebbe il coraggio. Fu l’eroe a guardarlo, impassibile ma calmo, e a
  rivolgergli la parola: -Meritavano di morire!- si
  limitò a sentenziare –Tutti quanti! Andiamo-. Ila lo seguì, in silenzio, lungo la discesa
  che, oltre quella china rocciosa, conduceva al bosco. -Tu stai bene?- gli chiese
  infine l’uomo.  Il ragazzo annuì. -Mi hai
  salvato- furono le uniche parole che riuscì a balbettare. L’eroe si voltò verso di
  lui e il suo bel viso barbato si rilassò di nuovo in un sorriso gentile. -Nessuno può fare del male
  al mio ragazzo!- sentenziò scompigliandogli i boccoli –Vieni, è ora di
  accamparci!- sentenziò. Ila aveva continuato a fissare il fuoco in
  silenzio, incapace di parlare. Alzare gli occhi e guardare Eracle lo turbava.
  L’eroe sedeva placido, intento ad arrostire la cena sul fuoco, come se niente
  fosse accaduto. Il ragazzo non si era mai reso conto di quanto vederlo
  sconvolto dalla furia della battaglia gli avesse sempre messo paura. Anche se
  era convinto che quell’uomo non gli avrebbe potuto mai fare del male. Quel
  giorno però, per pochi attimi, si era sentito anche lui come Eracle. E adesso
  non ne era più tanto sicuro. Aveva lottato per la propria vita, ma si sentiva
  come se qualcosa fosse scivolato fuori dalle sue mani troppo in fretta, fuori
  dal suo controllo.  -Non tormentarti, ragazzo!-
  gli fece l’uomo sorridendo, servendogli un cosciotto del cervo che aveva
  appena arrostito –Hai fatto ciò che dovevi. Sei stato valoroso-. -L’animo di tutti gli
  uomini dopo resta tanto turbato?- chiese Ila.  -Sei un ragazzo dai
  pensieri retti e gentili, Ila. Ma ogni uomo deve
  fare ciò che è necessario, l’importante è agire per propositi onorevoli-. Si
  voltò, come trattenendo un’espressione malinconica. -Tu quanti uomini hai
  ucciso?- -Credo di aver perso il
  conto-. -È così, alla fine? Smetti
  di ricordarli?- -Alcuni non puoi
  dimenticarli mai.- soggiunse l’eroe scuotendo la testa, a occhi bassi
  –Restano per sempre con te. Per tutta la vita continuerai a tormentarti. E
  non potrò smetterla neppure quando sarò morto, oltre le sponde
  dell’Acheronte. Ne sono certo-. -Neppure l’onore che sempre
  ti guida rende sereno il tuo animo?- chiese Ila
  guardandolo incredulo. -Onore è uccidere i nemici
  in battaglia combattendo corpo a corpo. Ma un uomo come me il proprio onore
  l’ha macchiato nel peggiore dei modi...- -Perché?- chiese il giovane
  senza capire. -Nulla, ragazzo,
  dimentica!- lo rassicurò l’uomo scuotendo la testa –Ora mangia, gustiamo il
  pasto che ci meritiamo dopo la vittoria-. Terminato di mangiare, si
  erano coricati. Ila era scivolato in un sonno
  inquieto solo per risvegliarsi nel cuore della notte. Eracle non era accanto
  a lui. Sedeva ancora accanto agli ultimi bagliori del fuoco fissandone le
  braci consunte, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Il suo torso monumentale
  pareva rilassato, abbattuto e sopraffatto dalla stanchezza. Ila si alzò e si avvicinò in silenzio.
  L’eroe non si voltò. Forse non lo aveva visto. Ma no. Eracle avrebbe captato
  qualunque nemico in avvicinamento alle sue spalle. Evidentemente non si
  curava di lui. Pareva triste, chiuso nei suoi pensieri. Il ragazzo ebbe
  l’insana idea di allungare una mano a toccargli una spalla. L’uomo si voltò
  lentamente, come un leone a riposo. I suoi occhi parevano colmi di tristezza.       -È
  così quando ripensi a quelli che hai ucciso?- chiese Ila
  senza riflettere. Eracle lo fissò in silenzio. -Scusami– soggiunse il
  giovanetto senza sapere che dire –non volevo rattristarti quando ti ho
  chiesto quelle cose-. Colse una scintilla di
  dolcezza negli occhi dell’eroe, che allungò la mano a carezzargli la guancia.
   -Sei un fanciullo così
  dolce! Non è colpa tua. Sta tranquillo, a te non succederà mai di sentirti
  così. Tu non potresti mai far del male a coloro che hai più cari- le parole
  gli morirono in gola. -Cosa?- chiese Ila incredulo. Eracle lo guardò di sbieco:
  -Ti ho detto di non lasciarti mai dominare dall’ira. Ma un uomo può riuscirci
  davvero?- -Cosa? Intendi... quando
  uccidesti il tuo maestro Lino?- -Molto peggio, piccolo
  mio-. L’uomo abbassò lo sguardo
  in silenzio. Si fissava le mani, quelle mani grandi e forti su cui
  riverberavano gli ultimi riflessi del fuoco. Ora sembravano tremare. -I miei figli- ansimò
  infine in un soffio –I miei poveri fanciulli!- Ila lo guardò ammutolito. -I loro sguardi, i loro
  teneri visi mi accompagneranno sino alla fine dei miei giorni. È stato...- la
  sua voce pareva turbata, ma ancor più sembrava tormentarlo il silenzio. Quel
  silenzio che ora Ila, immobile e confuso, non era
  in grado di riempire. -...ero ancora giovane.
  Vivevo a Tebe e più volte avevo guidato le armate del re Creonte
  contro il suo nemico Ergino, re di Orcomeno. Per ricompensa il re mi diede in sposa sua
  figlia Megara. Era una donna così bella e virtuosa,
  la sposa che ogni uomo desidera. Non sai quanto la amavo, lei e i tre bei
  figlioletti che avevamo avuto. Il giorno in cui sconfissi Ergino
  una volta per tutte, aiutato dall’esercito degli Arcadi, che sono sempre
  stati miei alleati, fui accolto in trionfo. La città mi acclamava come un
  dio, ma io... ero soltanto felice di aver terminato la guerra, di tornare a
  casa, da coloro che più amavo al mondo. Ma... quella notte mi svegliai e
  trovai il cortile del mio palazzo invaso dai nemici. Cinque uomini armati
  sino ai denti. Colto dal furore li assalii con la clava in pugno, li pestai
  tutti, fracassai i loro crani, lordai il cortile del loro sangue...- Tacque. Ila
  non capiva. -Cosa avevano fatto i
  nemici ai tuoi figli?- chiese esterrefatto. -I nemici.... Non c’era
  alcun nemico! Troppo tardi tornai in me per rendermi conto che quelli che
  nella furia della mischia avevo scannato come capretti... erano solo i
  ragazzi di casa che si allenavano alle armi in cortile, ingenui fanciulli ben
  più giovani di te...- -I tuoi...-  -Sì, i miei poveri figli,
  assieme a due compagni. E io... non potei che inginocchiarmi accanto ai loro
  corpi sfigurati. Piangere. E piangere ancora, sinché i miei occhi ebbero
  lacrime... Alla loro nascita mi ero ripromesso di proteggerli a costo della
  mia vita stessa e invece... non ero riuscito a proteggerli da me stesso!- Ila sentì un groppo alla gola. -Ti starai chiedendo come
  feci a sopravvivere?- chiese l’uomo guardandolo –Quando tornai in me urlai,
  mi rinchiusi in una stanza buia, non volevo più vivere. Non potevo dormire,
  né toccare cibo. Ero pronto a lasciarmi morire di inedia per raggiungerli
  nell’Ade. Per supplicare il loro perdono-. Ila sentì il proprio cuore sanguinare.
  Quell’eroe così grande, così forte era così impotente di fronte alla
  sofferenza. -Ma non lo facesti
  intenzionalmente!- -E che importanza ha?-
  sbraitò l’uomo con un tono improvvisamente irruento che lo pietrificò –Io li ho uccisi!- soggiunse con voce rotta
  –Li ho ammazzati con queste mani! Anche gli adulatori desiderosi di blandirmi
  dissero che non fu colpa mia. Il forte Eracle non avrebbe mai potuto. La dea
  Era, sposa di Zeus, gelosa di mia madre, aveva mandato la demoniaca dea della
  Follia ad accecare il mio senno perché scambiassi i miei piccoli per
  aggressori e commettessi l’irreparabile in preda a un furore inumano. Ma in
  verità, ragazzo, io non vidi alcun orrido demone dalle chiome di serpenti
  intento a spirarmi la pazzia nel petto, se non nelle orride maschere scolpite
  sui fregi dei templi e nei racconti dei cantori. Né alcun dio discese dal
  cielo a fermare la mia mano. Là c’ero solo io con le mie mani lorde di sangue
  e i corpicini scannati dei miei bambini.  e quel turpe, pazzo furore era dentro
  di me. Mi aveva reso grande sul campo di battaglia e ora invece mi aveva
  rovinato nella mia stessa casa.  Ma alla fine si esaurirono
  anche le lacrime. Fu soltanto mio padre, Anfitrione, l’unico padre che io
  abbia mai conosciuto, ad avvicinarsi sfidando la mia ira, a persuadermi a
  vivere, sopportando la crudeltà della vita. L’oracolo di Delfi mi disse di
  recarmi a Tirinto, da mio cugino Euristeo, di servirlo fedelmente e compiere tutti i
  travagli che mi avesse imposto per espiare la mia empietà. Così compii le mie
  dodici Fatiche. E poi fui libero dalla colpa per la volontà degli dèi. Ma per
  il mio cuore... per quello non ho mai espiato davvero!- L’eroe, seduto sulle
  ginocchia, aveva preso a dondolare il suo busto monumentale mentre si batteva
  una mano contro la fronte. Per un attimo a Ila
  sembrò che un insano sguardo vacuo, lo sguardo della follia, si fosse
  riaffacciato nei suoi occhi. -A volte li rivedo ancora i
  miei piccoli. Nei miei sogni o nelle ombre di notti come questa. Scorgo gli
  uomini che sarebbero divenuti. Alceo, il mio
  primogenito, era il più coraggioso tra tutti i suoi coetanei. Avrebbe
  governato Tirinto, la città da cui mio padre era
  stato esiliato e io avrei posto sulle sue spalle la mia leontea.
  Anphitryo, il secondo, era straordinariamente forte
  per la sua età, sarebbe divenuto un uomo più robusto di me, avrebbe ereditato
  Tebe dal padre di sua madre e avrebbe avuto la mia clava. Illo,
  il terzo, era un fanciullo bello e dolce come te, ma anche lui sarebbe
  divenuto un grande guerriero e avrebbe ereditato la città di Ecalia che ho conquistato ai malvagi abitanti dell’isola
  di Eubea. Ancora oggi ogni anno i Tebani celebrano
  due giorni di feste e giochi in loro onore e memoria. Il loro ricordo vivrà
  come quello degli eroi che sarebbero diventati...- Infine la sua voce
  stentorea gli morì nella gola. Ila lo fissò e
  scorse una lacrima rigargli una guancia. Non lo aveva mai visto piangere. In
  silenzio, in piedi dietro di lui, gli cinse le braccia al collo stringendosi
  la sua testa al petto. Eracle posò le mani sulle sue. Ila
  gli pose le labbra sulla guancia, quasi a voler cancellare quella lacrima con
  un bacio. -So che nessuno te li
  ridarà più!- sussurrò tenendolo stretto a sé –Ma non ci sono sempre io?
  Anch’io ti amo come se fossi tuo figlio-. Eracle sorrise e tese un
  braccio dietro la spalla a stringere la testina ricciuta del fanciullo. Lo
  prese, se lo portò sulle ginocchia, lo abbracciò forte e Ila
  pregò che quell’abbraccio potesse scacciare via tutto il dolore, proteggere
  Eracle dalla crudeltà del mondo. Ma poi con orrore lo sentì ritrarsi, un
  momento prima di accorgersi che anche i lombi dell’uomo avevano reagito
  all’abbraccio del suo corpo nudo.  Fu solo un breve attimo di
  esitazione però. Poi l’unico istinto del giovane fu quello di stringersi
  ancor più stretto all’uomo, cercare il suo corpo con il proprio. Dirgli con
  le sue soffici membra di fanciullo ciò che la sua bocca non era in grado di
  dire a parole. Le mani forti del guerriero avevano tentato di fermarlo. -No!- sentenziò fissandolo
  con sguardo severo. -Perché?- aveva replicato
  sprezzante il ragazzo prima ancora di potersene pentire -Credi che non sappia
  ciò che gli uomini come te fanno ai fanciulli?- -Non sei ancora pronto per
  amare!- sentenziò l’uomo –E io non voglio che il mio amore per te sia diverso
  da quello di un padre-. Ma il suo corpo diceva ben altro né le sue membra
  parevano avere la forza di respingerlo, mentre le labbra del ragazzo gli
  cospargevano il volto di baci fino a sfiorare le sue. La forza possente di
  Eracle diveniva dunque debole di fronte alla dolcezza della passione?  –Ila ti prego- rantolò con voce rotta -Non
  voglio farti del male!-  -A me non ne farai, lo so-
  gli sussurrò il giovane zittendolo infine con le proprie labbra. Fu un bacio
  tenero come quello di un figlio a un padre, ma caldo e lento come quello di
  due amanti. Poi la lingua di Eracle cercò d’istinto la sua insegnandole la
  danza dell’amore come gli aveva insegnato tutto ciò che aveva appreso da
  quando era al mondo. I loro corpi sapevano perfettamente cosa volevano l’uno
  dall’altro. Avvinghiati, ignudi, riarsi di un sudore solo.  -Sei l’unica cosa al mondo
  che io sia capace di amare!- ansimò Ila – Sei stato
  un padre, un maestro, sii il mio amante!-. Vide gli occhi di Eracle ardere, sentì
  i suoi muscoli possenti fremere, ma non c’era più furia in lui, soltanto
  amore. E lasciare che possedesse il suo corpo non avrebbe che reso
  quell’amore ancor più forte. Le mani forti di Eracle carezzarono con
  inaspettata dolcezza quelle membra diafane, discesero a toccargli le pudenda
  facendo fremere di desiderio tutto il suo corpo imberbe. Sdraiatolo sul
  giaciglio e imprigionatolo sotto il proprio peso, discese su di lui per
  ricoprirlo tutto di baci. Ila sentì il membro del
  guerriero che si inturgidiva sfregandosi tra le sue cosce. Lievitava e
  danzava in quella stretta ardente come avrebbe fatto nel grembo di una donna.
  Anche il membro implume del ragazzo era eretto, schiacciato e voglioso contro
  il ventre del suo signore. In seguito avrebbero conosciuto unioni più intime,
  selvagge e persino dolorose, ma quella prima notte era bastato quel tenero
  mutuo contatto perché i loro corpi danzassero come fossero stati uno, il
  petto tenero e glabro del fanciullo contro quello duro e villoso dell’eroe,
  gli occhi dell’uno persi in quelli dell’altro, le loro bocche che si
  cercavano, avide di baci e generose di sussurri d’amore. E infine Ila gioì nel vedere l’abbandono e la gioia sul volto del
  suo amante, nel sentirli sul suo corpo, all’unisono con i propri, mentre quel
  seme caldo eruttava tra le sue cosce e anche lui agonizzava il proprio
  piacere contro quel ventre muscoloso. Infine Eracle si era abbandonato nel
  suo abbraccio. Il suo dolore se ne era andato. E Ila
  era stato felice. Era stato il giorno più felice che ricordasse.  A volte rivedeva ancora
  quell’amore negli occhi di Eracle. Ora, anni dopo, a bordo dell’Argo, l’eroe
  dormiva placido, dimentico dei propri affanni. Ila
  si chiese cosa stesse sognando. Ma l’Aurora mattutina dalle dita di rosa già
  tingeva l’orizzonte. Presto si sarebbe svegliato e lo avrebbe guardato con
  quel sorriso. Forse. Ila aveva uno strano
  presentimento. Come se quel viaggio fosse stato destinato a cambiare le cose
  per sempre.  La rotta continuava, giorno
  dopo giorno. Ora sotto la spinta dei venti, ora grazie a quella delle forti
  braccia dei guerrieri. Ma quando il furore della tempesta agitava il mare del
  colore del vino, la Argo doveva restare ferma sulla costa. E aspettare.
  Aspettare. Aspettare. A volte per giorni e giorni. Ila
  era sollevato di sentire i piedi sulla terra ferma. Poteva aggirarsi a
  proprio piacimento lungo la costa o allontanarsene, da solo o al seguito di
  Eracle. Ma alla fine cos’erano quelle soste se non una logorante attesa di
  riprendere la traversata sull’acqua? Da qualche giorno erano fermi su quella
  che, a detta del timoniere Tifi, doveva essere la costa dell’Asia Minore.
  Presto, dicevano, avrebbero valicato lo stretto che li avrebbe condotti in
  quel mare interno chiamato Ponto Eusino o Mar Nero. Ma il mare era burrascoso e li
  bloccava sulla costa da giorni. Una sera Ila prese
  Eracle per mano, supplicandolo che lo conducesse nel bosco. Bramava il corpo
  dell’uomo, quell’amplesso che gli permettesse di non pensare, che lo tenesse
  sveglio allontanando i brutti pensieri che agitavano il suo sonno. Quella
  sera l’eroe cedette. Stavolta fu Ila a gettarsi su
  di lui con una furia insolita, a cercare ogni parte del suo corpo. Talora gli
  strappava un gemito affondando i denti. Si chiedeva se assieme alla carne di
  Eracle avrebbe potuto ingoiarne anche la forza, divenire come lui, fiero e
  imperturbabile al dolore. Infine, giunto sull’orlo dell’agonia, l’eroe lo
  prese come lui desiderava. Per più di una volta. Quella sera non ci furono
  parole dopo l’amplesso, soltanto baci. E poi il placido sonno si sparse sulle
  palpebre di Eracle. E su quelle di Ila.       Come
  ogni notte il piccolo era stretto al corpo di sua madre. Le carni di lei
  erano fredde, sul pavimento della sala del fuoco ormai predata e
  saccheggiata. Ma al fanciullo non importava. L’amore di sua madre non era
  mutato. Sarebbero discesi nel mondo sotterraneo assieme. Se solo fosse stato
  già morto. Perché ancora quell’orripilante attesa? Ancora dolore? Ila aveva paura. Voleva morire e basta. Non essere più
  costretto a risvegliarsi ancora. Ma il fuoco si avvicinava, l’afrore delle
  torce accese. I passi nel silenzio. I passi cadenzati e rombanti del
  guerriero. Della bestia. Si facevano sempre più vicini. Li aveva presi tutti.
  Ora era tornato per lui. Il suono incalzante della morte. La luce del fuoco
  ormai raggiungeva l’uscio. Le pietre del pavimento rimbombavano. E oltre i
  propri occhi chiusi, lo vide. L’ombra immane che si stagliava tra le colonne.
  Era venuto a prenderlo. Un’ombra mastodontica e
  minacciosa, simile a un gigante. Ai mitici Giganti che un tempo avevano
  tentato di scalare l’Olimpo. Il volto barbuto che lo fissava non pareva
  neppure umano. La maschera di una belva feroce. La bocca ringhiante
  schiumava, gli occhi ardevano rossi come braci, stravolti dalla furia. Le sue
  membra immani fremevano, membra più forti del bronzo, su cui era drappeggiata
  la pelle di un leone.  Ila sbarrò gli occhi di soprassalto. E
  rotolò lontano, oltre il bordo del giaciglio, quasi soffocato dal corpo che
  lo stringeva a sé. Non si volse a guardarlo, non poteva. Né ve ne era
  bisogno: conosceva quel corpo alla perfezione. Immani le sue membra,
  smisurate le sue spalle, più forti del bronzo. Doveva avere un aspetto così
  placido, come sempre mentre dormiva. La bestia sanguinaria era sopita, vinta
  dal dio Morfeo. Gli occhi di Ila si riempirono di
  lacrime, si sforzò di trattenere i singhiozzi per non svegliare nessuno. Non
  poteva. Non poteva più ignorare quella verità che, simile a un macigno,
  pesava inesorabile sul suo cuore. Lui conosceva quella bestia, sapeva che
  prima o poi si sarebbe risvegliata. Si alzò in silenzio e si inerpicò verso
  gli scogli, il chiarore del giorno iniziava a diffondersi all’orizzonte, ma
  il cielo era grigio. Il mare in tempesta come il cuore del ragazzo. Le onde
  mugghiavano, nuvoloni neri si contorcevano in cielo sospinti dal soffio di
  Eolo e dei suoi figli.  Le parole di suo padre gli
  risuonarono nella mente: -Vivi Ila. Un giorno,
  quando sarai un uomo, toccherà anche a te! ...il dovere della vendetta,
  l’onore della famiglia, ricadrà sulle tue mani!-. Quale sarebbe stato ora,
  invece, il suo destino? Quello di uno schiavo senza onore? Per sempre?        L’alba
  doveva essersi levata da un pezzo, dietro le nubi, quando ridiscese
  all’accampamento. Gli eroi bivaccavano in mezzo ai giacigli, ormai
  infiacchiti dall’inedia. Loro che smaniavano solo per grandi imprese, loro
  cui era concesso essere uomini, uomini liberi, aspirare a essere eroi. Cercò
  con gli occhi il suo padrone, non era tra loro. Lo trovò poco più in là,
  oltre il limitare del bosco, reduce da una caccia solitaria. Sentì la paura
  contrargli lo stomaco, come un colpo di clava, ma raccolse tutto il suo
  coraggio, il coraggio di un uomo, e avanzò, attraversando l’accampamento a
  passi decisi, diritto verso di lui.  Eracle era intento a scuoiare
  la carcassa di un cervo appena cacciato. Probabilmente sarebbe stato in grado
  di divorarlo tutto da solo. Forse lo avrebbe fatto. Gli volgeva le spalle, ma
  avvertì seduta stante la sua presenza. -Dove sei stato?- non c’era
  crudeltà nella sua voce, non c’era mai stata verso di lui. Solo la serena
  autorità di chi è certo di essere obbedito. -Perdonami, avevi bisogno
  dei miei servigi, signore?- sentì un’aggressiva acredine mai udita prima
  risuonare nella propria voce. Eracle alzò gli occhi e lo guardò, senza
  proferire parola, con il suo sguardo da guerriero e da comandante. -Sei stato tu!- sibilò Ila. Per un attimo vide una
  scintilla in quegli occhi scuri. Poi tornò impassibile come era:-Sì!- si
  limitò a replicare -E lo hai sempre saputo-. -Come hai potuto? Come hai
  potuto fare questo a me?- -A te? Io ti ho salvato e
  ti ho tenuto con me, mentre gli Arcadi razziavano e predavano le terre di tuo
  padre, le loro donne, gli altri fanciulli?- -I tuoi Arcadi! Tu
  razziavi e predavi! - -In tutti questi anni, non
  ti ho forse amato come un padre ama il proprio figlio diletto? Ti ho forse
  mai fatto del male?- pareva quasi risentito. -Hai ucciso mio padre, hai
  sterminato la mia famiglia, mia madre, i miei fratelli che amavo più di me
  stesso e che adesso ricordo a mala pena.- gli aveva
  vomitato addosso quella caterva di accuse tutta di un fiato -E io che
  confidavo in te quando mi svegliavo dagli incubi. Fingevi di consolarmi. Ma
  in realtà eri solo tu che tormentavi i miei incubi!- -Ora basta, Ila!- sentenziò l’eroe alzandosi in piedi -Non lasciare
  che la paura o l’ira ti facciano pronunciare parole di cui ti pentiresti. Non
  sei più un bambino! Impara a sopportare il dolore e continua a vivere: è così
  che fa un uomo-. -Un uomo? Che razza di uomo
  potrò mai essere io che servo chi ha le mani lorde del sangue del mio sangue?
  Che condivido il suo stesso giaciglio? Che cosa mi hai fatto diventare? Il
  trofeo della tua vittoria? Un’altra pelle di leone di cui fregiarti dopo
  averlo scuoiato vivo? Lo schiavetto fedele che ti seguisse riempiendoti la
  coppa e reggendoti lo scudo e ricordando a tutti il valore con cui hai
  massacrato suo padre?- -Non sai quello che dici,
  ragazzo! Tuo padre non valeva neanche un decimo del Leone Nemeo, era il
  signore di un popolo di bovari.- -Già! E l’eroe più forte
  dell’Ellade si è gloriato nell’uccidere un bovaro e
  predare suo figlio? E tutto... per un bue?- -Avevo fame! Gli chiesi con
  parole miti di darmi in pasto la bestia con cui arava il campo e lui mi ha
  detto di no. Mi ha negato i miei diritti di ospite. Le leggi sacre di Zeus in
  persona! Per una bestia!- -E per la tua fame hai
  sterminato un popolo! Sei tu la bestia!- -Attento, piccolo mio.- la
  sua voce era divenuta tagliente come una spada, il suo sguardo freddo come
  ghiaccio -Ho ucciso uomini migliori di te per molto meno. Razza di ingrato!
  Ti rendi conto di quale onore ti ho fatto? Tuo padre era un bovaro barbaro,
  ma a me non è importato: ti ho preso con me. Ti ho insegnato, come fossi
  stato io tuo padre, tutte le cose che io stesso ho appreso per divenire
  l’uomo valoroso e degno di gloria che sono. Ho voluto che tu ti formassi
  secondo il mio animo e, unendoti a me in un solo giogo, divenissi un vero
  uomo. E questa è la tua gratitudine?- -Secondo il tuo animo? Tu hai fatto di me il tuo
  giocattolo! Hai predato la mia innocenza di ragazzo macchiando anche me del
  sangue dei miei cari! Preferisco morire che essere come te!- strillò infine.
  Avrebbe voluto colpirlo. Ma non poteva, non ne sarebbe stato capace. Lo
  sorpassò e a rapidi passi si diresse verso l’oscurità degli alberi che si
  infittivano lungo il sentiero. -Fermo!- tuonò Eracle alle
  sue spalle -Non puoi andartene, ragazzo!- -Ah no?- gridò Ila, voltandosi, sprezzante. -Tu sei mio!- sentenziò
  l’uomo. E sul suo viso Ila riconobbe quella stessa
  espressione. Gli occhi ardenti, la bocca ansimante. La furia della bestia.
  Quella che Ila aveva visto scatenarsi soltanto in
  battaglia.  E nel suo sogno.  Ebbe paura. Ma gli uomini
  coraggiosi vincono sempre la paura. -Meglio morire!- gli urlò
  contro -Sei un bastardo di nascita e di fatto! Un vile! Una bestia!- Ma già Eracle l’aveva
  afferrato alla gola, sollevandolo in aria per attaccarlo di schianto contro
  il tronco di un albero. Ila avrebbe voluto
  scalciare e dibattersi, ma sarebbe stato inutile. La sua testa vorticava,
  assieme al viso di Eracle e al mondo intero attorno a lui. La stretta di
  quelle manacce enormi gli mozzava il respiro.  -Se vuoi fare la fine che
  merita la tua razza di briganti, posso accontentarti!- ansimò Eracle, il volto
  sfigurato dalla rabbia. Ila ripensò ai terribili
  racconti dell’eroe. La Follia era davvero un demone dall’orrida maschera e
  lui ce l’aveva davanti. La stretta in cui quelle braccia lo avevano serrato
  negli amplessi non era che un assaggio dell’agonia che provava adesso. Ora
  era un nemico. Ma anche in questo momento il suo cuore sciagurato avrebbe
  desiderato che stringesse più forte, che la facesse finita, che quella
  tenebra gli calasse per sempre sugli occhi per mano di colui che più di tutti
  amava. Una dolce resa.  -Allora fallo!- ansimò
  -Ammazzami come hai ammazzato la mia famiglia...- ‘...e la tua!’ avrebbe
  voluto aggiungere. Ma le parole gli morirono in gola. Non era necessario.
  Eracle sapeva. Gliele leggeva negli occhi. Anche adesso. Una scintilla, sola
  e lontana, baluginò negli occhi della bestia.  Le sue mani mollarono. Un
  attimo prima della fine. Non avrebbe potuto. Mai. Ila
  scivolò a terra inerme, mentre il suo petto riprendeva a respirare e i
  contorni delle cose di questo mondo riprendevano forma. -Stupido moccioso!- imprecò
  Eracle volgendogli le spalle e allontanandosi -Vattene! Vuoi essere libero?
  Allora sparisci dalla mia vista! Ho fallito con te! Del resto sei solo il
  sangue di un bovaro! Va’ a pascere vacche o a rubarle o quel che ti pare! Non
  voglio vederti mai più!-  Il ragazzo corse via. I suoi occhi erano
  offuscati dalle lacrime, ma non osò voltarsi indietro, corse a perdifiato
  finché non fu solo, nel folto della boscaglia. La sua gola continuava a
  singhiozzare, i suoi occhi a piangere. Non riusciva a togliersi dalla testa
  quel fuoco selvaggio che ardeva negli occhi scuri del suo amante, la sua ira,
  la sua forza brutale, che ardevano come fossero state palpabili. Ma ciò che
  faceva più male era la sua pietà. Tanti altri, li aveva uccisi per molto
  meno. Mentre lui, lo aveva lasciato andare. Infine i suoi occhi non ebbero
  più lacrime da versare. Come non le avevano avute più quelli di Eracle,
  rinchiuso nella stanza buia dopo aver ucciso i propri figli. Il suo cuore
  aveva esaurito tutto il tormento di cui era capace: ora era calmo, come non
  sentisse più nulla. Attorno a lui gli alberi si agitavano a salutare le scure
  nubi di tempesta in arrivo, le fronde sussurravano. Da qualche parte il
  gorgoglio di un ruscello rispose. Ila ebbe la
  sensazione che una voce lo chiamasse, una voce dolce, che gli prometteva la
  pace, la fine del suo tormento. O forse era solo la Follia che infine aveva
  trionfato e si era impossessata anche di lui.  Avanzò inebetito lungo il
  sentiero, non sapendo dove andare. S’inerpicò tra le rocce, su un crinale
  collinare, ove gli alberi si diradavano e il battere della pioggia inondava
  la sua testa, inzuppava i bei riccioli del fanciullo che non sarebbe mai
  cresciuto. Sotto la vetta, dall’altro lato, uno strapiombo crollava sul mare
  mugghiante, del colore del vino. Sarebbe stata una degna fine cadere da
  lassù, nel vuoto, inghiottito dalle onde. L’acqua lo chiamava a sé,
  prometteva di cullarlo nel grembo del mare, lontano dagli affanni che
  tormentano gli uomini sulla terra nera. Il suicidio che, a quanto narravano i
  miti, si addiceva agli amanti traditi. Era così che si sentiva? Una parte di
  lui inorridiva al pensiero di ciò che aveva appena fatto, sarebbe voluta
  tornare dal suo pietoso gigante, chiedergli perdono, mostrargli la gratitudine
  che meritava. Ma al tempo stesso continuava a pensare a suo padre, alla sua
  povera madre, ai suoi fratelli, che ora erano tutti sepolti sotterra e
  vagolavano silenti nelle case dell’Erebo. Forse erano davvero i loro spettri
  quelli che vedeva quando socchiudeva gli occhi, tornati dalla tenebra per
  riscuotere la vendetta, sangue per sangue. Sarebbe stato facile se la bestia
  avesse ucciso anche lui, strangolato in un impeto d’ira come i suoi figli,
  come il maestro Lino, come tanti altri. Invece lo aveva condannato a
  sopravvivere.  Che fare adesso? Passate le
  tempeste, gli eroi se ne sarebbero andati tutti, non v’era un’altra Argo
  capace di ricondurlo in Ellade. E per andar dove,
  poi? Camminare sino alla città più vicina. E per far cosa? Eracle gli aveva
  insegnato abbastanza perché potesse vivere come scudiero, stalliere...
  schiavo da letto? Quel pensiero lo fece inorridire: toccare un altro uomo
  come aveva toccato Eracle... Ma cosa era lui nella terra dei vivi senza il
  suo signore? Si chiese se fosse il suo intelletto a sussurrargli quelle
  parole, o se invece era la sua passione. Forse era meglio saltare nel vuoto,
  giù, sin sulle sponde dell’Acheronte. Non aveva nulla con sé, neppure l’obolo
  che si mette sotto la lingua dei morti per pagare la traversata al funesto
  nocchiero dell’aldilà, ma magari, se lo avesse supplicato, Caronte avrebbe
  avuto pietà di un fanciullo dai riccioli così belli. E là sull’altra riva,
  tra i campi di asfodeli, i suoi cari gli avrebbero sorriso, sua madre gli
  avrebbe teso le braccia. Lo avrebbero riconosciuto? Ora che era divenuto un
  giovanetto abbastanza bello da farsi amare dall’eroe sterminatore, ma mai
  abbastanza forte da trionfare su di lui per vendicare le sue vittime. E forse
  un giorno, fra tanti anni, avrebbe rivisto anche Eracle, la leontea drappeggiata sulle sue belle e forti membra
  smisurate, l’arco in mano, intento a bersagliare i candidi uccelli dei boschi
  dell’Elisio con i gloriosi dardi donatigli da Apollo. Gli avrebbe ancora
  rivolto il suo sguardo bieco quel giorno, memore del suo tradimento? O magari
  gli avrebbe sorriso ancora, tutto perdonato nella pace eterna della dimora
  dei beati. Ma se Eracle era davvero figlio di un dio, forse non sarebbe mai
  sceso là sotto. Lo avrebbero accolto le auree case dell’Olimpo, la dimora del
  padre Zeus e magari in compagnia di una vergine celeste, non si sarebbe
  curato del piccolo Ila, destinato a giacere nel
  mondo di sotterra, nella terra delle ombre senza rivederlo mai più. Il
  fanciullo ebbe una stretta al cuore. E, una volta ancora, pianse. Il sole era prossimo al
  tramonto quando le nuvole si diradarono e raggi di fuoco indorarono l’acqua.
  Il vento si era abbassato, la tempesta era finita. Se le condizioni si
  mantenevano uguali, all’alba l’Argo sarebbe salpata, portando Eracle via con
  sé. I gabbiani si levarono stridendo dal mare volteggiando sulla scogliera.
  Il ragazzo sapeva cosa doveva fare, non v’era altro destino per lui, nessuno
  che il suo cuore avrebbe potuto sopportare.  -Perdonami!- ansimò
  sforzandosi di tenere ferma la voce -Non sono che uno sciocco ragazzo.- Eracle era immobile,
  impassibile, assiso su un tronco, un braccio appoggiato alla clava. Lo
  sguardo fisso a terra. Ila sentì il cuore
  sobbalzargli ripetutamente nel petto, il sangue rombargli nelle orecchie come
  un tamburo da guerra. Il gigante avrebbe potuto levare la mazza e
  fracassargli il cranio solo roteando le dita della mano. Era paura quella che
  sentiva? O qualcos’altro? Ma quando Eracle levò lo sguardo, non vide alcuna
  ostilità sul suo viso. Solo la dolceamara passione ispirata da un dio
  inesorabile. Gli importava, gli importava davvero di lui. -Sciocco, sciocco ragazzo!-
  riecheggiò la sua voce possente -Non mi lasciare mai più! Promettilo!- Era un
  ordine, ma non suonava come tale. C’era solo affetto nella sua voce, sollievo
  e nostalgia. Lo sciocco ragazzo corse verso di lui. Quando gli fu vicino un
  ultimo tremito di paura bloccò i suoi piedi. Ma fu Eracle a tendergli le
  braccia per attirarlo a sé, al suo cuore.  Ila si accorse che stava piangendo di nuovo.
  Eracle sorrideva. ‘Un uomo non piange. Sopporta con fermezza l’affanno’. Ma
  il rimprovero era solo nella mente del ragazzo. Il suo eroe non disse nulla,
  si limitò a sorridere mentre l’altro gli carezzava il viso barbato con la
  punta delle dita. Voleva immortalare sulle sue mani il ricordo di ogni parte
  di quel viso mentre sorrideva, di ogni singolo muscolo, essere sicuro che
  fosse reale, dopo che aveva rischiato di non vederlo più. -Io...- balbettò. -Che cosa vuoi?- chiese
  Eracle rude, ma col sorriso. -Te!- si limitò a
  sussurrare il ragazzo con il viso accostato al suo.  Le sue labbra cercarono la
  bocca di Eracle. L’uomo ricambiò il bacio.  Poi lo sollevò di peso,
  come un fuscello, e lo trasportò tra gli alberi del bosco. Ila si aggrappò a quel corpo forte e smisurato. Eracle si
  slacciò la leontea e la distese al suolo adagiando
  con dolcezza il ragazzo sopra di essa. La luna filtrava tra i rami giocando a
  nascondino sui suoi muscoli immensi. Si chinò sul fanciullo baciandogli
  ancora le labbra, discendendo lungo il suo corpo. Il peso di quel corpaccione immenso adagiato sopra il suo, che pareva
  schiacciarlo, faceva fremere il ragazzo. Quelle mani possenti che lo avevano
  quasi strangolato lo carezzavano con delicatezza, quella voce roboante nel
  grido di guerra gli sospirava in un sussurro dolci parole d’amore. Fu Ila a pungolarlo, smanioso che lo prendesse con rudezza,
  rivoltandolo prono sul giaciglio e avvinghiandolo in una stretta tenace,
  mentre si faceva strada tra le sue tenere natiche. Voleva essere posseduto da
  quelle membra che avrebbero potuto stritolarlo. Montato con tutta la sua
  forza mentre gli strattonava i bei riccioli d’oro ansimandogli sul collo, il
  fiato corto come nella furia della lotta. Accolse il dolore di quell’irruenza
  come un’espiazione. Sinché infine l’uomo non lo rivoltò di nuovo a faccia in
  su e, gli occhi negli occhi, non si sospirarono il mutuo piacere. Nella luce
  della luna l’agonia rilassò per qualche breve attimo il volto corrucciato del
  guerriero. La piccola morte. Poi si accasciarono uno al fianco dell’altro,
  slacciando la stretta dei loro corpi sudati. -Non fu solo per un bue- la
  voce roca di Eracle ruppe il silenzio. Ila prono
  sulla pelle del leone si riscosse. -La bestia fu un pretesto. I barbari Driopi di tuo padre occupavano senza alcun diritto le
  terre ai piedi del Parnaso che appartenevano al santuario di Delfi. Per
  questo li attaccai con i miei alleati Arcadi. Restituii le terre sacre al suo
  legittimo proprietario, il dio Apollo, mio fratello per parte di padre, e al
  suo tempio condussi prigionieri i superstiti-. Ila voleva supplicarlo di tacere, di non
  parlargli più di quelle cose. Ma si limitò a guardarlo in silenzio,
  trattenendo le lacrime. -Ma tu, tu sei diverso. Sei
  stato allevato da me: sto facendo di te un uomo valoroso. Anche se Teiodamante era tuo padre...- -Sei tu mio padre!- replicò Ila
  abbracciandolo con le prime parole che gli sgorgarono dal cuore -Sei mia
  madre! Sei la sola famiglia che ho! Perdonami! Non voglio lasciarti mai più.- Eracle gli baciò la fronte,
  perdendosi con le dita tra i suoi riccioli.  -Io ti amo davvero,
  ragazzo. Non devi dubitarne mai-. Ila si gettò
  ancora sulle sue labbra, in un bacio vorace. Infine l’eroe se lo strinse al
  cuore e il ragazzo si adagiò sul suo petto spazioso, sinché non sentì che
  iniziava a innalzarsi e abbassarsi sotto di lui con il respiro regolare del
  sonno.  Volse la testa a guardarlo.
  Il viso della bestia addormentata pareva quello di un uomo gentile. Davvero
  non sembrava possibile che fosse l’assassino efferato da cui il piccolo Ila era fuggito spaventato nelle tenebre, tra le macerie
  della sua casa. Il ragazzo restò a guardare il suo viso barbuto, il profilo
  del suo forte collo taurino, del suo gozzo che si muoveva nel respiro
  regolare del sonno. Per un attimo pensò a come sarebbe stato serrare le mani
  attorno a quel collo e stringere, stringere forte sino a sentirlo rantolare.
  Vendicare una volta per tutte i propri cari che chiamavano sangue. Ora che
  dormiva pareva così innocente e vulnerabile. Ma l’eroe era sempre vigile,
  anche nel sonno. Narravano i cantori che era ancora infante quando la sua
  matrigna, la dea Era, aveva mandato due feroci serpenti a soffocarlo nella
  culla e già allora egli, balzato in piedi, li aveva strangolati entrambi a
  mani nude. Così avrebbe fatto anche con Ila,
  soffocandolo stavolta per davvero? Ponendo fine una volta per tutte alla sua
  sofferenza che ormai non poteva più trovare via d’uscita? Per un attimo pensò
  di farlo davvero e farla finita. Ma non poteva. Si limitò a stringersi più
  forte al suo petto e seguirlo nel sonno. Chiudendo gli occhi vedeva i morti
  che supplicavano vendetta, ma si limitò a chiedere loro perdono: non era
  abbastanza forte per loro. In fondo non era che uno sciocco ragazzo!  Era già passata l’alba quando
  Ila si svegliò, solo sulla pelle del leone. Le sue
  mani avevano cercato il corpo dell’amante prima ancora dei suoi occhi ancora
  chiusi. Eracle non c’era. S’era già alzato, ma non lo aveva svegliato per
  metterlo al lavoro. I ricordi della notte trascorsa allietavano il suo corpo.
  Quando ripensò a quanto era successo prima, a ciò che aveva ricordato, ebbe
  una fitta al cuore. Ma decise di non pensarci. Raccolse la leontea che gli aveva fatto da giaciglio, lo scudo e le
  altre armi che Eracle aveva lasciato deposte là accanto e si avviò verso la
  spiaggia. Il cielo era terso quel mattino, il sole appena sorto già splendeva
  sull’acqua. Scorse Eracle, nudo, assieme agli altri eroi, intenti a caricare
  la Argo. Quando lo vide, l’uomo lo incitò ad avvicinarsi. Gli rivolse ancora
  un sorriso: -Fa’ presto, porta su le mie cose. Dobbiamo
  partire- -La veste- fece il ragazzo
  porgendogli la leontea con un timido sorriso,
  ripensando a quanto accaduto la notte prima. -Mettila assieme al resto.
  Fa caldo. E a quanto pare dovremo sospingere la Argo a forza di braccia!- Era
  serio, ma Ila colse un ombra di complicità sul suo
  viso. Obbedì all’ordine. Udendo le chiacchiere dei navigatori riuscì a
  intendere che quella notte un alcione aveva svolazzato a lungo sul capo di
  Giasone annunciando col suo grido la fine dei venti contrari. Al sorgere del
  sole l’indovino Mopso aveva interpretato il
  prodigio, ordinando che gli Argonauti salissero sull’alta vetta vicina per
  rendere sacrifici propiziatori prima di riprendere il mare.  I venti erano caduti,
  pertanto i marinai sospinsero la Argo coi remi. Eracle era di buon umore quel
  mattino e sfidò i compagni a gara per vedere chi resistesse di più alla
  fatica. Giasone divertito raccolse la sfida, gli altri li seguirono. La forza
  delle loro braccia era tanto prodigiosa che il ventre di legno solcava
  l’acqua veloce come il vento. Incuranti del sole che bruciava loro le membra
  ignude, del sudore che colava lungo gli ampi dorsi cotti dalla calura e i
  muscoli delle braccia,
  continuavano instancabili a sospingere. Ma quando, passato il meriggio, i
  flutti iniziarono ad alzarsi per il risorgere dei venti, i marosi ad
  agitarsi, lentamente, uno dopo l’altro, mollarono tutti, prostrati per la
  fatica. Anche Giasone, da ultimo, lasciò andare il suo remo e si accasciò sul
  banco. Soltanto Eracle, incrollabile, continuò a sospingere con le sue sole
  braccia la Argo e tutti i compagni. I legni sotto di loro gemevano Fiera e incrollabile era la
  forza possente di Eracle, pensò Ila assiso sul
  proprio banco. La forza di quelle braccia lo aveva protetto dalla crudeltà
  del mondo, la possanza di quelle spalle lo aveva sorretto nelle avversità. Ma
  poi ripensò alle avversità della sua infanzia. E quelle avevano il volto di
  Eracle. Fissò in silenzio la distesa dell’acqua, i vortici che la solcavano
  tutt’attorno, che lo chiamavano a sé. Decise di smettere di pensarci. La luce
  ardeva nel cielo e sul mare, non c’era posto per il buio nel suo cuore. O
  forse era solo il sole che gli bruciava la testa.  -Attento figlio di
  Anfitrione, sei tanto forte che hai spezzato il tuo stesso legno!- riecheggiò
  la voce canzonatoria di Telamone. Eracle volò sbalzato, riverso sul banco con
  un troncone in mano, sospinto dalla propria stessa forza. Imprecò
  furiosamente, mentre l’intero equipaggio non poté trattenere le risa. Metà
  del ‘remo’ spezzato era stata risucchiata via nei vortici dell’acqua salsa.
  L’eroe si rialzò a sedere con la furia negli occhi. Ma vedendo sé stesso e
  l’ilarità negli occhi dei compagni sbottò a ridere anche lui, più forte degli
  altri. Povero legno! Fu il
  pensiero di Ila. Spezzato dalla brutalità di un
  energumeno incapace di controllare la propria forza. Reciso dal suo tronco
  per prestare un servigio tanto prezioso, sospingere da solo cinquanta uomini
  sull’acqua, ha ceduto da eroe assolvendo ai propri compiti e l’unica dedica
  che il rematore ingrato ha per celebrare la sua dipartita sono risa di
  scherno?  L’eroe imbronciato si riassise sul banco. Il suo sguardo era inquieto,
  tremavano le dita della sua mano. L’inedia lo divorava. Non sapeva restare
  senza far niente. Troppa forza per un uomo solo. Così come eccessivi erano il
  suo impeto, la sua ira, la sua stessa generosità. Quella che lo aveva spinto,
  incurante dei pericoli e dei doveri che lo trattenevano in Ellade, ad andarsi a unire a una rischiosa spedizione non
  sua, declinandone per di più il comando in favore di un bamboccio. Anche io,
  pensò Ila, mi spezzerò tra le sue mani come quel
  remo? Come tutto il resto? Era ormai passata la sera
  quando si accamparono, approdati sulle coste della Misia,
  alle foci del fiume Cìo. Venivano da amici e gli
  abitanti del luogo riservarono loro un’accoglienza ospitale, donando loro
  viveri, pecore e vino abbondante. Ora bivaccavano, ammassati, non lontano
  dalla costa, dove la scogliera brulla cedeva il passo al bosco. Giasone
  accompagnato da Mopso era salito su un’altura a
  offrire sacrifici ad Apollo dio dello Sbarco. Alcuni uomini trasportavano
  legna secca e accendevano i fuochi, altri stendevano a terra manciate di
  foglie secche, che fungessero da giacigli, altri ancora arrostivano i viveri
  o mescevano vino nei crateri.  Eracle ordinò a Ila di raccogliere la brocca di bronzo e seguirlo nel
  bosco. -Va ad attingere acqua per
  la cena!- sentenziò –Vi è una sorgente nel folto della foresta, sulla destra
  del sentiero, così han detto i Misi. Va’,
  svelto! Io intanto mi procuro un nuovo ‘remo’- -Come farai?- chiese il
  giovanetto. -Cercherò un nuovo albero,
  lo abbatterò, e darò forma al suo tronco. Su va’, sciocco ragazzo!- soggiunse
  con un amorevole sorriso che fece fremere il cuore del fanciullo –Non è tempo
  di chiacchiere-. Ila balzò rapido verso il folto del bosco.
  Si voltò e vide il forte Eracle che, fermatosi di fronte a un alto abete,
  deponeva a terra arco e faretra, si spogliava della pelle del leone e,
  sollevata con un solo braccio la clava di bronzo, squassava con un secco
  fendente la base del tronco, in un boato che risonava nell’intera foresta
  facendo fuggire via gli uccelli tra i rami. Il cuore del ragazzo sobbalzò a
  quel colpo. Possibile, pensò mentre si allontanava da lui, che il suo petto
  si riempisse d’ammirazione a contemplare la forza portentosa di quell’uomo,
  di quelle membra semidivine, ma al tempo stesso il suo cuore sobbalzasse per
  la paura?  Era l’ora dell’imbrunire.
  Le ombre iniziavano a calare nel folto della vegetazione. E nel cuore del
  ragazzo. Le prime stelle facevano capolino tra i rami, anche se, in
  lontananza, filtravano ancora le ultime luci del giorno. Una civetta strideva
  da qualche parte. Il bosco era pieno di sussurri. -Ila!- parvero chiamarlo delle voci nascoste. -Ila! Ila! Ila!- era il richiamo della selva che lo evocava a sé?
  Una voce argentina, un coro di vergini. Voci simili alla sua, a quella del
  fanciullo che sarebbe stato per sempre. O a quelle delle donne che non avrebbe
  mai conosciuto. A ogni passo tra quelle ombre credeva di veder spuntare le proprie ombre.  –Perdonatemi!- avrebbe
  voluto sussurrare loro –Ma non posso! Che volete che faccia? Lui è un eroe,
  il figlio del divo Zeus in persona. E io, io non sono che un ragazzo. Che
  altro potrei fare se non arrendermi?- Ma v’era solo il silenzio
  ad accogliere le sue parole. E il sussurro del bosco. -Ila! Ila! Ila!- La sorgente gorgogliava in
  mezzo agli alberi esattamente dove Eracle gli aveva detto. Una cascatella
  zampillava giù da una parete di roccia, tra rivoli di capelvenere ed edera
  selvatica, riversandosi in una polla d’acqua che s’allargava tra gli alberi,
  in una radura sotto il cielo. Il disco argenteo della dea Artemide, signora
  delle ninfe del bosco, sfolgorava tra le stelle, riflettendosi sul pelo
  dell’acqua. La roccia piangeva, la sorgente cantava, rispondeva al coro del
  bosco, invocando il suo nome: -Ila! Ila! Ila!- Raggiunta la sponda dove
  l’acqua corrente si riversava nella polla, il ragazzo si inginocchiò, tese la
  brocca e la immerse. La distesa d’acqua era così placida. Pareva invitarlo a
  sé, gli prometteva eterna pace, la fine del suo tormento. Da bambino qualcuno
  gli aveva detto che proprio da quelle sorgenti, dal dominio delle ninfe Efidriadi, passa la ripida via che conduce all’Ade.
  Chinandosi vide la propria immagine riflessa, il volto del bel fanciullo dai
  capelli d’oro e dagli occhi colmi di tristezza. Si chiese per quanto ancora
  il fiore della giovinezza avrebbe lasciato imberbi le sue guance, quanto
  mancasse perché Eracle non lo amasse più. Quale sarebbe stato dunque il suo
  destino? Scaldare il letto del figlio di Zeus sinché non gli fosse cresciuta
  la barba, sinché l’eroe non si fosse stancato di lui. E poi? Divenire un uomo
  senza onore, servire colui che aveva versato il sangue del suo sangue? Con
  quale orgoglio avrebbe potuto amare una donna? Pensava, sfiorando l’acqua.        Si
  chiese se l’immagine riflessa che lo fissava fosse davvero la sua. No. Adesso
  non lo sembrava. Quella figura leggiadra che lo invitava a balzare nei
  flutti, a perdersi in essi.  -Ila! Ila! Ila!- In quel canto sussurrato
  pareva che il riflesso argenteo della luna si animasse, che l’acqua danzasse
  fuori dall’acqua, prendendo vita. Una figura eterea sorrise al fanciullo. Le sue
  lunghe chiome erano simili alla cascata del capelvenere, alle onde dell’acqua
  stessa che zampillava dalla sorgente. Riflettevano tutti i colori della terra
  verde e della notte azzurra, cadendo a velare le grazie muliebri di un corpo
  candido e sinuoso, simile a una perla o allo scintillio della luna riflessa.
  Il volto più bello che Ila avesse mai visto gli
  sorrise, simile a quello di una donna ma di una bellezza immortale. Occhi
  lucenti come stelle, simili ad acquemarine azzurre. Una bocca fatta per amare
  lo chiamava in un soave sussurro: -Ila! Ila! Ila!- Quella figura morbida e
  ammaliatrice pareva moltiplicarsi nell’oscurità, riflessa e rifratta
  dall’acqua e dalla luna. O forse erano altre due apparizioni, le sue sorelle,
  che si univano al suo coro tendendo al fanciullo le loro bianche braccia per
  invitarlo a sé.  -Ila! Ila! Ila!- Danzarono ridendo in un
  girotondo, poi si immersero nella fonte, solo per riemergere simili a candidi
  cigni rincorrendosi a pelo d’acqua, raggiungendo la riva. I seni nudi sotto
  le lunghe chiome, la morbida curva dei fianchi, le gambe affusolate che
  accendono il desiderio degli uomini. -Ila! Ila! Ila!- sussurrò una di loro –Vieni da noi, Ila! Abbandona il tuo dolore! Noi possiamo porre rimedio
  al tuo affanno. Tu sei così bello, che appena ti ho visto il desiderio di
  Afrodite mi ha sconvolta tutta. Non è forse giunto per te il tempo di
  conoscere l’abbraccio di una donna?- Quella voce era dolce come
  il miele. Rifratta come in una cascata d’acqua, in un cristallo spezzato o in
  un dolce gemito d’amore. Aveva un tremulo fiore di ninfea tra i capelli,
  roseo come i capezzoli rotondi, accesi contro il candore della pelle, che
  facevano capolino sotto la cascata di riccioli che la avvolgevano tutta.
  L’amore di una donna. Ila sospirò a quel pensiero.
  Divenire un uomo. Si chiese se un simile destino sarebbe mai spettato a lui.
  Un triste presentimento si faceva strada.  -Smetti di soffrire!-
  sussurrò una delle tre. -Smetti di pensare!
  Abbandonati alla gioia, all’oblio di questa sorgente sacra-. -Io posso renderti
  eternamente beato- sussurrò quella che gli aveva parlato per prima –Posso
  fare di te un dio, far sì che i mortali ti ricordino. E ti venerino. Per
  sempre-.   Era più di quanto il ragazzo potesse
  ascoltare. Le tre apparizioni, immerse nell’acqua, erano a pochi passi sotto
  di lui, gli tendevano le braccia, pronte ad afferrarlo e attirarlo giù. Il
  tocco delle loro mani sottili e morbide lo fece fremere.  Gli sembrò di ricordare
  carezze innocenti ricevute da bambino. E la sua povera mamma, morta di
  crepacuore.  Si sfilò la veste, la gettò
  via e si lasciò cadere nell’acqua, nel fondo del suo riflesso, trascinato da
  quelle dolci carezze, smanioso soltanto di afferrare e tenere stretta a sé la
  prima di quelle figure di donna, che pareva guizzare via inafferrabile come
  un’apparizione. Bramoso di sentire il canto delle sue forme nude contro il
  proprio petto. Di nascondere la testa nella valle tra i suoi seni e
  dimenticare il mondo attorno. Assaggiare la sua pelle lattea, le sue labbra
  madide e rosee, i suoi capezzoli, ben più grandi e sporgenti di quelli di un
  uomo, gli unici con cui avesse giocato sino ad allora. Avrebbe potuto
  deflorarle tutte e tre, una dopo l’altra, come aveva fatto Eracle con le
  cinquanta figlie di Tespio? Faceva male pensare a Eracle.
  Ma ora non avrebbe più pensato. Desiderava solo lasciarsi inghiottire dalle
  onde, affondare nel caldo umidore in mezzo a quelle cosce, nel dolce abisso,
  sprofondare in quell’abbraccio azzurro.  Le acque si richiusero
  sopra di lui. In silenzio. E in quella radura non restarono che la limpida e
  immota superficie di una fonte cristallina, lo stormire delle fronde e la
  muta, vergine luna, che volgeva pudicamente gli occhi al cielo, ignara dei
  conviti d’amore. -Eracleeee!- L’eroe fu distolto da quel
  grido improvviso. Squassato il tronco alla base, lo aveva divelto
  avvinghiandolo con gambe e braccia. Per molti altri uomini poteva risultare
  un ‘impresa folle, ma per lui era lavoro ordinario. Abbattutolo, lo aveva
  caricato in spalla per portarlo all’accampamento, per sgrossarne la punta con
  una lama e renderlo idoneo a battere il mare. Ma a quel grido il suo cuore
  rombò nel petto come un tamburo. Il suo ragazzo lo chiamava. C’era una nota
  allarmante nella sua voce. Gettò a terra il tronco e corse a perdifiato nella
  foresta, lungo il sentiero su cui aveva visto il piccolo allontanarsi.
  Raggiunse la sorgente, esattamente nel luogo indicato dai pescatori misii, ma del fanciullo non v’era traccia.  -Ila!- strillò a gran voce. -Eracle!- era una voce flebile, lontana, da
  qualche parte. Il guerriero non riusciva a comprendere dove. Si aggirò a
  passi rapidi tutt’attorno alla sorgente cercandolo disperatamente con gli
  occhi. Nulla. Nessuna traccia. Dove era il suo Ila?
  Che gli era accaduto? Se l’avessero assalito le fiere? Povero ragazzo!
  Disarmato. Poteva essere ferito, sanguinante chissà dove. O peggio. Oppure?
  Predoni! Quei maledetti misii vigliacchi. Conosceva
  bene la loro fama. Avevano accolto con sorrisi e parole di amicizia gli
  Argonauti, temibili guerrieri la cui fama superava i confini dell’Ellade. Ma se avessero visto quel povero, sciocco
  ragazzo. Una facile preda, poco più di un bambino. Con quei capelli d’oro,
  quel visetto meraviglioso, quelle bianche grazie... maledetti vigliacchi!
  Snudò la clava e si diede a cercarlo nel folto degli alberi menando fendenti
  a caso per farsi strada tra l’erba alta e le felci del sottobosco.  -Ilaaaa!- chiamò di nuovo disperato. Il sudore
  gli grondava copioso dalle tempie. Il sangue nero gli rombava nei visceri,
  gli ruggiva assordante nelle orecchie. -Eracle- quella voce rispondeva, come dispersa
  nella nebbia. Come attutita attraverso l’acqua. Non riusciva a individuarne
  la direzione. Lontana, così lontana. L’aveva udita davvero o era solo uno
  scherzo dell’immaginazione? Povero ragazzo! Che gli era accaduto? Perché non
  correva da lui? E se fosse... No! Non poteva. Abbatté gli arbusti con la
  clava, si fece strada tra gli anfratti del bosco. -Ilaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!! Mio cerbiatto, dove sei?- gridò più
  forte che poteva. Udì il rombo della propria voce risonare. -Eracle...- la voce giunse sempre più flebile.
  Quasi strozzata. Come se provenisse da un altro mondo. O forse era solo
  l’eco. Il riverbero della sua stessa voce. Poi solo il silenzio.  Eracle sentì un grido
  squassare le proprie viscere, e rimbombare talmente forte dalla sua bocca che
  le sue orecchie non riuscirono a udirlo. Corse disperato dove lo portavano i
  piedi, facendosi strada a suon di clava, abbattendo ogni ostacolo che si
  frapponeva sul suo cammino. Sentiva la sua bocca gridare, invocare disperata
  il nome del suo amante, ma a rispondergli non era rimasto che il silenzio. Lo
  rivedeva riverso a terra, i suoi begli occhi disperati e piangenti, i
  riccioli d’oro intrisi nel proprio stesso sangue, i suoi soffici fianchi
  candidi coperti di lividi, mentre supplicava pietà, pietà contro tutto il
  male che la terra infame dei mortali gli aveva inferto. Mentre un branco di
  schifosi, fetidi aguzzini lo percuoteva, lo costringeva a fare chissà cosa
  altro.  Eracle urlò. Con tutta la
  furia che aveva in corpo.  Gli uccelli del bosco
  fuggono via in un turbine nella notte nera. Persino le fiere corrono via.
  Hanno paura di lui. Il sangue ruggisce nero nelle orecchie, acceca gli occhi.
  Tutto il mondo è nero. Come le ombre di quella foresta. Le ombre dei
  malfattori che hanno predato il suo povero scricciolo d’oro e ora si
  acquattano invisibili nell’oscurità. Non hanno neppure il coraggio di
  mostrarsi. Vigliacchi infrattati dietro gli alberi,
  ombre nelle ombre. Dove siete? Li avrebbe scovati, li avrebbe uccisi tutti.
  Menò fendenti furibondi agli alberi e all’oscurità. Vi prenderò! Vi ammazzerò
  uno ad uno! Squasserò a mazzate i vostri crani e li offrirò in tributo al mio
  piccolo principe per ciò che avete osato tentare di fargli! Bastardi! Bestie!
  Dove osate nascondervi? Ehi dico a voi, maledetti codardi! Non ho bisogno
  della clava con voi. Non sono un vile. Vi ammazzerò a mani nude, vi strapperò
  i visceri. Oh sì! Venite fuori! Ho sete del vostro sangue! Ah eccoti, pezzo
  di sterco! Ti ho preso! Non mi scappi! Ti ho preso traditore infame! Piccolo
  bastardo! No! Non supplicare pietà! È questa la fine che meritano i vili! Che
  hai fatto al mio ragazzo? Quel povero fanciullo! Amor mio, mio diletto, mio
  cerbiatto adorato. Dove sei? Chi ti ha portato via da me? Chi ha osato? Eri
  qui. Ti stringevo a me solo un attimo fa. Queste mani ti toccavano. Eri vero,
  bello, tenero e profumato contro questo petto. Eri mio. Eri reale. Tu sei
  ancora reale. Sei ancora qui. Devi esserlo. Non sei solo un sogno, un’ombra, che possano strapparmi via.  Noooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo‼‼ Ilaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa‼‼ Che ti hanno fatto? Perché
  te ne sei andato? Dove sei? Dove sei? Dove sei? Perché non rispondi? Maledetto
  silenzio! Ferisci le orecchie mille volte più di mille grida?  Eccolo là! Un altro! Un
  altro dei miserabili che me l’hanno sottratto! E te ne vai in giro così, al
  chiarore dell’alba, fiero, a petto in fuori, come se niente fosse? Dopo
  quello che gli hai fatto? Credi che la luce dell’alba che sta sorgendo ti
  salverà da me? Dall’Erinni, il demone della notte che sono, lo spettro
  vendicatore del sangue che ti lorda le mani? Sei un cane! Faccia di cane!
  Cuore di cane! Vieni qua! Dove credi di scappare? Ti schiaccerò la testa come
  la piccola bestiola che sei! Che hai fatto al mio Ila?
  Ridammi il mio Ilaaaaa‼‼!
  Miserabile, ora gemi come una femmina? Il tuo stesso sangue ha il colore
  dello sterco! -Noooo! Figlio mio! No! Che gli hai fatto?- Era il grido di un padre.
  Eracle conosceva bene quel tono. Lo aveva udito sgorgare dalle proprie labbra
  anni prima, tra le ombre del palazzo di Tebe, quando era tornato in sé.
  Troppo tardi. Il pianto della donna sull’uscio sembrava quello della sua Megara, la sua povera sposa, sola con i corpicini dei
  figli morti. E la gola che le sue mani serravano era quella di un ragazzo, un
  ragazzo poco più grande del suo Ila, la testa
  sanguinante e malconcia contro le pietre, vivo per un soffio. A differenza
  del tronco d’arbusto che quella notte aveva strappato e dilaniato nel bosco,
  scambiandolo per un brigante. Mollò la presa, giusto in tempo perché il
  povero malcapitato corresse a rifugiarsi dietro le spalle del suo vecchio
  padre, accorso fuori nudo, nel freddo mattino di quel villaggio di poveri
  pastori misii. -Sei il forte Eracle?
  L’eroe più glorioso dell’Ellade?- biascicò il
  vecchio, il coraggio negli occhi affranti dal terrore –Perché te la sei presa
  con il mio ragazzo? Cosa ti ha fatto? È solo un fanciullo innocente!- Eracle si raddrizzò sulla
  schiena, in piedi, fermo, drappeggiato in quella maledetta pelle di leone.
  Gli pareva ancora di aspirare da essa gli effluvi dell’amore della notte
  prima. Del suo Ila. Che ora non c’era più. Sparito
  chissà dove. La sua mente era ancora corrucciata. La sua bocca schiumava di
  rabbia. Lampi scarlatti gli pulsavano nella testa. Forse quel ragazzo era
  innocente, ma il suo popolo probabilmente non lo era. -E il mio fanciullo innocente?- replicò. Alle sue stesse orecchie la
  sua voce suonò di una calma glaciale. -Di chi parli?- -Il mio Ila.
  Il mio scudiero. Il mio ragazzo dai capelli d’oro. Dov’è? So che qualcuno di
  voi me l’ha preso! Lo rivoglio! O giuro per tutti gli dèi dell’Olimpo che
  raderò al suolo la Misia intera e spedirò voi e
  tutti i vostri figli nell’Ade!- -Perdonaci! Noi non abbiamo
  mai visto il ragazzo di cui tu parli. Lo giuriamo per tutti gli dèi che
  conosciamo. Non farci del male, siamo innocenti. Ma non sei giunto qui con
  gli eroi dell’Argo? È passata l’alba, di certo il legno sta per riprendere a
  cavalcare le onde!- Quel pensiero freddò
  d’impatto il sangue nelle vene di Eracle, rendendogli improvvisamente il
  senno. L’alba era passata da un pezzo e di certo la Argo aveva ripreso il suo
  volo verso la Colchide, Giasone aveva una missione
  da compiere e non lo avrebbe aspettato.  Ma che importanza aveva
  adesso? -Non mi importa!- tuonò.
  Quegli sciocchi pastori arroganti pensavano di sapere ciò che lui doveva
  fare? –Sono qui per riprendermi il mio ragazzo. Userò la forza se
  necessario!- -Ti prego credici: noi non
  lo abbiamo. Non siamo che poveri pastori. Puoi ispezionare tu stesso le
  nostre case se vuoi-. -Lo farò di certo! Metterò
  tutto a ferro e fuoco!-  -...E se hai perso il
  ragazzo- soggiunse il vecchio -puoi prenderti uno dei nostri. Qualunque
  giovane sarà di certo onorato di farti da scudiero e...- -Taci!- sentenziò Eracle.
  Avrebbe voluto strangolare il vecchio e suo figlio assieme per quelle parole
  insolenti. Guardò il viso intontito del ragazzo spaventato: una testa di
  rapa, con un’espressione equina e i capelli del colore della fuliggine. Il
  solo pensiero di quello o di qualsiasi altro ragazzo che cavalcasse al suo
  fianco al posto del suo Ila, di dividere il proprio
  giaciglio con lui, lo disgustava –Non voglio uno dei vostri pidocchiosi
  mocciosi. Rivoglio il mio Ila!- Ma poi quel
  pensiero se ne portò dietro un altro –Però, visto che insistete... Se non
  posso avere il mio fanciullo, mi prenderò i vostri. Li voglio tutti. Radunate
  tutti i primogeniti sulla piazza per quando avrò finito di ispezionare le
  vostre case. O verrò a cercarli uno ad uno e li passerò a fil di spada!- -Noooo!- era il grido terrorizzato di una madre
  da qualche parte. Eracle impassibile si fece fare strada dal vecchio capo del
  villaggio.  Del suo bel giovane in quel piccolo centro
  sperduto non vi era traccia. Quando ebbe finito l’ispezione, tornò sulla
  piazza, dove, terrorizzati, gli abitanti avevano schierato tutti i propri
  primogeniti. Molti erano stati tirati giù dai letti, nudi o quasi. Molti
  sembravano ben temprati dal lavoro dei campi, corpi robusti e muscolosi atti
  alla fatica. Ciò che ci voleva. Alcuni erano poco più che bambini, altri
  splendevano ancora del fiore imberbe della giovinezza, altri ancora erano già
  uomini fatti, con barbe più o meno rasate e peli sul petto. Per la maggior
  parte avevano pelle abbronzata e capelli scuri, i tratti tipici degli
  abitanti della regione. Nel viso di alcuni vi era l’ombra o la promessa
  dell’avvenenza virile, ma nessuno di loro era neppure lontanamente bello come
  Ila. Per un attimo l’eroe fu sfiorato dal pensiero
  di metterli in fila e deflorarli tutti quanti, come aveva fatto con le figlie
  di Tespio, consolare nella loro carne il dolore
  dell’amore perduto. Ma non avrebbe sopportato di toccare un altro giovane
  adesso. Alcuni tremavano dalla paura, altri lo fissavano con aria di sfida,
  svariati tra loro. Meglio così: più forti erano, più utili sarebbero stati
  alla sua causa. -Ascoltatemi bene!-
  sentenziò –Il mio ragazzo, il mio scudiero è scomparso. Dite di non averlo
  mai visto, di non avere nulla a che fare con la sua dipartita. E io voglio
  credervi, se saprete dimostrarmi la vostra lealtà. È un fanciullo di media
  altezza e rara bellezza, con occhi verdi e lunghi riccioli biondi. Ora vi
  separerete in gruppi e lo cercherete per tutta la foresta, in tutte le terre
  di Misia, Lidia, Caria e oltre, nell’intera Asia
  Minore, se necessario. Chi lo troverà lo riporterà a me e non ritornerete
  alle vostre case sinché non l’avrò riavuto!- A quelle parole i visi di
  alcuni di loro scolorirono. Gli uomini del villaggio, privati dei propri
  figli, lo fissavano terrorizzati. Le donne piangevano. Una voce in fondo al
  cuore gli diceva che non avevano mai fatto del male a Ila.
  Ma chiunque fosse stato, in ogni caso quegli uomini dovevano riparare alla
  colpa di cui la loro terra era stata macchiata. Li passò in rassegna con lo
  sguardo, sapendo fin troppo bene che nessuno avrebbe osato contrariarlo.  Poi ripartì. Riprese la
  propria ricerca. Per giorni e notti vagò invano. Ripensò all’impresa tanto
  sospirata e perduta. Agli Argonauti che per primi avrebbero viaggiato
  sull’acqua del mare, che avrebbero riportato il Vello d’Oro in Ellade senza di lui. Ma francamente al momento non
  riusciva a preoccuparsi di quello. Ovunque guardasse rivedeva gli occhi
  tristi di Ila, i suoi capelli d’oro. Lo supplicava
  di tornare a lui, ma quelle dolci labbra simili a un frutto di fico spezzato
  non proferivano risposta. Mise a soqquadro città e villaggi di tutta la Misia senza trovare traccia del suo amasio.
  Quelli tra i misii che si ribellavano li puniva con
  la forza. Ovunque razziava tutti i primogeniti e li inviava a cercare il suo
  ragazzo, ma le loro ricerche furono altrettanto sfortunate. Qualcuno narra
  che i primogeniti delle città di Misia stiano
  ancora cercando Ila. Talvolta Eracle era ripreso
  dall’impeto del furore, prendeva a strillare, a percuotere gli alberi con la
  clava o a divellerli a mani nude. E infine, dopo aver cercato in lungo e in
  largo, per monti, valli, boschi e campi brulli, spossato, s’accasciò ai piedi
  di un pruno e, lontano dagli sguardi degli uomini, lacrime amare rigarono le
  sue guance. Quando i suoi occhi si furono saziati di pianto, finalmente il
  sonno avvolse le sue membra sfinite donando sollievo alle pene del suo cuore.
   E mentre giaceva addormentato,
  nella calura dell’ora magica del meriggio, gli apparve un’immagine in tutto
  simile a Ila: le membra diafane, il bel viso
  imberbe, i grandi occhi tristi, i riccioli d’oro. Ma non era più il fanciullo
  mortale. Sembrava avere la stessa consistenza dei sogni, pronti a disperdersi
  nel rapido soffio del vento. Gli stette sospeso sul capo e gli parlò
  dolcemente: -Perché piangi, oh divina
  forza di Eracle?- -Ila, mio adorato sei tu? Sei tornato da me?
  Posso dunque por termine al pianto luttuoso?- Il fanciullo sorriso. -Il
  forte Eracle- lo apostrofò -il figlio di Zeus,
  l’uccisore di mostri, il vincitore delle dodici Fatiche piange dunque
  straziato per amore di uno sciocco ragazzo?- c’era un tono di affettuosa
  ironia nella sua limpida voce. -Non ho più pace da quando
  t’ho perduto! Ma ora sei qui. Sei tornato da me?- Gli tese le mani, ma la
  vacua immagine del ragazzo si scostò al suo tocco e parve dissolversi per un
  attimo. Pareva immensamente lontana adesso, come fosse sfocata al di là della
  nebbia, o dell’acqua. -Perché mi neghi un
  abbraccio, mio amato, mio dolce cuore?- -Non sono davvero qui.-
  rispose l’altro con un riso argentino -Sono solo un sogno adesso. Ma il sogno
  viene da Zeus ed è per te foriero di verità-. -E dove sei? Stai bene? Che
  ti hanno fatto? O di tua volontà sei fuggito da me per quel che t’ho fatto
  io?- Pronunciò infine quelle parole, il dubbio che più gli faceva male,
  nascosto nel fondo del suo cuore. -No, sta’ tranquillo, forte
  Eracle, mio signore. Io t’ho amato sempre e più d’ogni altro al mondo. Ma non
  è destino per noi due ricongiungerci in questa vita!- -Perché? Quale triste fine
  t’ha colto? Dimmelo! Ti prego-. -Eracle, mio amato, non v’è ragione di cedere al
  dispiacere. La Ninfa della fonte di Pagai e le sue sorelle m’han preso con
  loro: Eunica, Malide e Nicea sguardo di primavera. Le Ninfe insonni, dee
  temibili per i campagnoli, colpite d’amore per me nel tenero animo mi
  precipitarono d’un colpo nell’acqua scura. Mi condussero nella loro gaia
  spelonca, sul fondo della fonte. Di là udii le tue grida e risposi, ma tu non
  potevi vedermi. E loro, tenendomi, in lacrime, sulle ginocchia, mi
  rincuorarono con dolci parole, promettendomi la felicità, la giovinezza
  eterna. La Ninfa immortale di Pagai fece di me il suo sposo, mi rese un dio,
  ché conservassi il mio bell’aspetto di fanciullo in eterno-. -Sei tu dunque un dio,
  adesso, mio bell’Ila?- -Sì, perché piangi ancora,
  dunque? Non sei felice per me?- -Lo sono. Lo sono, mio
  dolce Ila. Eppure langue il mio cuore perché
  l’amore d’una bella diva immortale t’ha strappato al mio. Mai più dunque il
  mio cuore conoscerà la gioia che lo accese quando ti insegnai a cavalcare e,
  stretto il mio corpo al tuo, le tue mani nelle mie, a tendere l’arco? Mai più
  potrò gonfiarmi d’orgoglio nel petto nel vedere quanto valido ti mostravi,
  come un padre per il figlio che non ha mai visto crescere? Mai più t’avrò al
  mio fianco, né cavalcherò con te verso le immense strade del mondo, le
  gloriose imprese che ogni uomo sogna? Mai più vedrò i tuoi occhi tristi sorridere
  a me, e a me soltanto? Mai più, appartati da tutti gli altri, ci scambieremo
  parole dolci come il miele, le tue rosee labbra cercheranno le mie, mai più
  sotto alberi come questo faremo l’amore, le mie braccia stringeranno il tuo
  candido corpo e le tue morbide natiche, regalandoci reciproca gioia?- -No. Mai più, amore mio. Anche a me tutto
  questo mancherà immensamente. Ma non rattristarti: in fondo abbiam sempre saputo entrambi che questo giorno sarebbe
  giunto. La giovinezza non dura in eterno e neppure l’amore di un uomo per un
  fanciullo- Per un attimo gli occhi del ragazzo gli sembrarono di nuovo umidi
  di malinconia. Anche mentre gli sorrideva. Eracle ripensò a tutto ciò che di
  non detto c’era stato tra loro. La morte dei cari di Ila
  per mano sua, il sangue che forse neppure l’amore avrebbe potuto lavare. Che
  il ragazzo, divenuto uomo, non avrebbe mai potuto perdonare. -Speravo solo che non
  giungesse così presto. Speravo di vederti coi miei occhi divenire uomo...-
  l’eroe piangeva senza più remore.  -Sei stato il mio primo
  amore. L’unico mortale che abbia mai amato. E io ti ricorderò per sempre-
  sussurrò il ragazzo –Ma tu non devi piangere. Presto compirai molte altre
  imprese. Amerai molte donne e altri giovanetti. Avrai una nuova sposa,
  genererai altri figli che allieteranno i tuoi giorni e d’amore e orgoglio
  riempiranno il tuo cuore. E quando sarà giunta l’ora anche tu diverrai un
  dio, accolto nella reggia dell’onnipotente Zeus. Ti chiedo solo, nel profondo
  del tuo cuore, tieni una piccola parte per me. Non scordarmi-. -Non potrei mai scordarmi
  di te, mio ragazzo, mio amore, mio piccolo cerbiatto! Né, temo, riuscirò mai
  ad amare di nuovo- -Non è vero. E lo sai.- si limitò a sussurrare Ila.
  Sembrava lui adesso, il più forte tra loro due -Ora è tempo di lasciarci.
  Addio, amore mio!-  -Addio- Eracle gli tese le
  braccia per l’ultima volta, ma l’immagine del ragazzo appariva così distante,
  in trasparenza in una cascata d’acqua, come sfocata nello scintillio del
  sole. Un dio, eternamente fanciullo. Adesso, in quegli ultimi attimi, persino
  lo sguardo triste che sempre aveva aleggiato nei suoi occhi sembrava svanito,
  l’affanno del mondo mortale cancellato nella vita eterna. Si dissolse, luce
  nella luce. L’eroe si riscosse dal sonno. Guardò il cielo vuoto, i suoi occhi
  erano colmi di pianto.  Era tempo di andare adesso.
  Tempo che la vita continuasse a fluire. Tornato in quel bosco, levò preghiere
  alla dea della sorgente. E al dio suo sposo. Chiamò a raccolta la popolazione
  del luogo e ordinò che ogni anno, nell’anniversario del giorno della sua
  scomparsa, una processione si recasse alla fonte di Pagai a rendere sacrifici
  al giovane immortale. Poi attraversassero il bosco e la montagna e per tre
  volte il sacerdote invocasse il nome di Ila, per
  tre volte nell’eco la voce del ragazzo avrebbe risposto, in memoria delle tre
  volte che Eracle aveva chiamato e invano aveva ricevuto risposta. E così
  continuò a essere nei secoli. Infine l’eroe tornò in Ellade. Non si ricongiunse più alla spedizione degli
  Argonauti. Gli aedi cantarono le imprese di Giasone, che a bordo dell’Argo,
  la prima nave che fosse mai stata costruita, aveva raggiunto Aia, sedotto la
  bella principessa Medea, figlia del re Aiete,
  figlio del Sole e, impossessatosi del Vello d’Oro grazie ai poteri magici di
  lei, aveva condotto la donna e il tesoro nella patria Tessaglia. Afrodite lo
  aveva aiutato in quell’impresa come dicevano i presagi, o forse era stato
  solo merito della sua bellezza, cui nessuna donna sapeva resistere. Ma
  qualcuno disse che quella donna sarebbe stata per lui causa di ogni rovina. Quanto a Eracle, tornato in
  Ellade, prese in sposa la bella Deianira,
  figlia di Oineo di Calidone,
  con lei si stabilì a Trachis in Tessaglia ed ebbe
  molti figli: Illo (che forse chiamò così in memoria
  di un altro figlio perduto), Ctesippo, Gleno, Odite e la bella figlia Macaria. Amò altre donne e giovanetti e compì molte altre
  imprese, che nei secoli gli aedi continuarono a cantare in tutto il mondo
  conosciuto.  Ma spesso, nelle notti
  solitarie, il cuore indomito di Eracle continuò a ripensare ai riccioli d’oro
  e agli occhi tristi di Ila, il bel fanciullo il cui
  amore lo aveva fatto divenire folle, e a sognare l’uomo che non lo avrebbe
  visto diventare mai.  NOTA MITOGRAFICA:  Alcuni autori
  antichi narravano che, quando Giasone partì per la Colchide
  (la regione sulla costa orientale del Mar Nero identificata con la mitica
  terra di Aia) alla conquista del Vello d’Oro, Eracle non poté prender parte
  alla spedizione perché la stessa nave Argo si rifiutò di trasportarlo
  ritenendolo troppo pesante. Altri sostengono invece che Eracle partì con gli
  Argonauti e dette un prezioso contributo all’impresa in varie occasioni, ad
  esempio quando incitò i compagni a sottrarsi alle seduzioni delle donne di Lemno. Tuttavia, quando la nave giunse in Misia, l’eroe abbandonò l’impresa per cercare il suo
  giovane amasio Ila,
  scomparso mentre si recava ad attingere acqua.  Il mito di
  Eracle e Ila è narrato da poeti e scrittori antichi
  come Apollonio Rodio, Teocrito, Euforione
  e Apollodoro. Eracle, affamato, mentre attraversava
  le campagne dei Driopi, aveva chiesto al contadino Teiodamante di dargli il bue che trainava il suo aratro
  e, al rifiuto di questi, lo aveva ucciso. Aveva preso però con sé il suo
  figlioletto Ila per allevarlo come proprio
  scudiero. Crescendo, Ila era divenuto un giovanetto
  di tale bellezza che la ninfa della sorgente di Pagai in Misia,
  innamoratasi di lui, lo aveva rapito trascinandolo nelle acque per farne il
  proprio sposo immortale. Eracle lo aveva cercato disperatamente senza
  successo. I Misii avevano infine istituito un culto
  in onore di Ila.  Taluni
  vedono nel ratto di Ila il simbolo della natura che
  appassisce e lo pongono in relazione con il ciclo della vegetazione e i
  rituali agricoli. Altri lo riconnettono a un rito di passaggio dei ragazzi
  all’età adulta, al trapasso dall’amore omosessuale-pederastico all’amore
  eterosessuale.  Nel mio
  racconto ho voluto rivedere invece il mito dal punto di vista del ragazzo.
  Soprattutto mi sono chiesto cosa provasse l’amasio
  del prode Eracle ad amare e servire l’uomo che aveva ucciso suo padre e
  sconfitto il suo popolo. NOTA ANTROPOLOGICA: Questo
  racconto riflette usi, pratiche e forme di amore dell’antica Grecia, che
  potrebbero turbare la sensibilità moderna ma vanno intese come espressione
  culturale di un’altra epoca, molto lontana dalla nostra. Il rapporto amoroso
  e sessuale con un uomo adulto era considerato parte integrante
  dell’educazione di un ragazzo alla vita adulta e alla sessualità. In base ad
  alcune interpretazioni delle testimonianze antiche, sembra che una delle
  pratiche più frequenti in questo tipo di amore fosse il rapporto
  intercrurale, con il fallo dell’uomo tra le cosce del ragazzo, come descritto
  in questo racconto.  |