I – Il comandante dell’esercito

 

II – L’emiro di Halel

 

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Dall’alto della collina, Dakhir guarda Shaqra, illuminata dalla luce del sole che tramonta. È un grande centro, più di tutti quelli che l’emiro di Halel ha conquistato fino a ora. La città si allarga nella pianura e alle truppe scese dai monti del Nord appare tanto vasta da sembrare quasi un miraggio: l’intera Halel è meno estesa di uno solo dei cinque quartieri in cui è divisa Shaqra e il palazzo di Dakhir non è più grande di una delle case dei ricchi mercanti di Shaqra. La residenza dello sceicco Omar è una città nella città: dicono che sia la residenza più splendida di tutta la Siria

Tutt’intorno a questo centro fiorente corre una cerchia di mura, ma agli occhi attenti di Dakhir non sfuggono i danni che l’ultimo attacco ha inferto e che non sono stati ancora riparati. I bastioni non offrono più una difesa sufficiente, tanto più che il nuovo sceicco non può contare su un grande esercito: le guerre hanno decimato i guerrieri della città.

Dakhir pensa che domani questa grande città sarà sua: le truppe dello sceicco Omar non riusciranno a difenderla. E dopo Shaqra, sarà il turno di Jabal al-Jadid. Ma Dakhir non intende fermarsi: a ogni vittoria i suoi sogni diventano più ambiziosi. L’emiro intende allargare ancora il proprio territorio e quando sarà abbastanza forte, affronterà lo stesso Nur ad-Din, signore di Damasco e di tutta la Siria. Dakhir è suo vassallo, ma non intende rimanerlo a lungo. Kazbech lo aiuterà a sconfiggere il sovrano: è tanto abile in battaglia quanto spietato. Kazbech sarà al suo fianco quando Dakhir regnerà sulla Siria, ricaccerà i franchi in mare e conquisterà lo stesso Egitto. Al suo fianco di giorno in battaglia e la notte nel letto. Non c’è maschio vigoroso e forte nei giochi del piacere come Kazbech, così come non c’è guerriero altrettanto valoroso.

Dakhir sorride ai suoi pensieri. Poi osserva:

- Non potranno difendere la città: le mura sono danneggiate in diversi tratti.

Kazbech replica:

- Domani questa città sarà nostra, anche se quel coglione dello sceicco ha rifiutato di arrendersi.

Kazbech scuote la testa. La decisione di Omar ibn Sabih, sceicco di Shaqra, è assurda: la città non ha nessuna possibilità di resistere a un assedio e l’esercito non è abbastanza consistente per affrontare le truppe numerose e ben addestrate guidate dal Circasso. Forse Omar spera che il fratello, l’emiro di Jabal al-Jadid, intervenga in suo favore? Anche se decidesse di farlo, non arriverebbe in tempo: la sorte di Shaqra si decide domani. In realtà è già decisa: la guerra che hanno combattuto Shaqra e Jabal al-Jadid poche settimane fa ha condannato le due città, che solo alleandosi avrebbero potuto sperare di resistere.

 

È l’alba. Omar ibn Sabih, sceicco di Shaqra, si prepara alla battaglia. Se la cinta di mura della città fosse integra, Omar non affronterebbe in campo aperto un nemico ben più forte: si limiterebbe a far chiudere le porte della città e organizzerebbe la difesa, sperando in un aiuto da parte del fratello. Ma le opere difensive non offrono più una protezione sufficiente. Non c’è stato il tempo per portare a termine tutte le riparazioni: la guerra combattuta ha privato la città di molti uomini validi e tanti giovani sono stati portati a Jabal al-Jadid come ostaggi.

Omar sa che sarà sconfitto e che troverà la morte: l’esercito di Dakhir, emiro di Halel, è di gran lunga più numeroso e il terribile Kazbech è un comandante abile e spietato. Le truppe che guida Omar non sono certo in grado di affrontare i formidabili guerrieri di Dakhir: sono di gran lunga inferiori per numero e gli uomini sono spaventati, ben conoscendo la ferocia dell’emiro e del Circasso. Omar può davvero contare solo su un ristretto numero di soldati: quelli della sua guardia del corpo personale, proveniente da Jabal al-Jadid. Per gli altri Omar è soltanto un signore straniero.

Omar ha scelto di non fuggire dal fratello: non vuole apparire un vile. Avrebbe voluto mettere in salvo la giovane moglie, Munira, ma la donna si è rifiutata di lasciare la città senza di lui.

Omar è pronto per l’ultima battaglia. Un servitore ha portato il suo cavallo nel giardino interno del palazzo. Omar si appresta a salire, quando vede Munira, che ha lasciato l’harem per venire a salutarlo. Sanno entrambi che è un addio: non si rivedranno mai più.

Omar abbraccia Munira, che cerca di controllare le lacrime. Rimangono stretti, mentre solo il rumore dell’acqua nelle fontane interrompe il silenzio.

Poi Omar si stacca, sale a cavallo e senza voltarsi indietro si allontana. Attraversa i due cortili successivi del palazzo e poi la città fino a giungere alla porta settentrionale. Il pensiero di Munira è un cruccio: diventerà schiava di Dakhir, forse verrà data a qualche guerriero. O a più d’uno: le donne delle famiglie dei signori di Barqah e Marwan sono diventate le puttane dei soldati di Dakhir. Perché Munira non ha voluto fuggire?

 

Le truppe guidate da Kazbech sono già schierate sulla collina, quando lo sceicco esce dalla città con i suoi uomini. Kazbech ride:

- Povero sciocco. Crede davvero di avere qualche possibilità contro di noi?

La sproporzione di forze è troppo evidente perché Omar possa pensare di riportare la vittoria. Bilal osserva:

- Sa di essere perduto, ma non vuole arrendersi: ha i coglioni.

- I coglioni glieli taglierò io, Bilal, te l’assicuro.

E dopo queste parole Kazbech dà il segnale che l’esercito attendeva. Gli arcieri si preparano e quando i cavalieri di Omar incominciano a salire sulla collina, le frecce ne fanno strage. Ora sono i cavalieri di Dakhir a farsi avanti, guidati da Kazbech. Essi piombano sugli avversari, troppo inferiori per numero, e ne fanno strage. Dopo i cavalieri, sono i fanti a essere decimati.

La battaglia volge presto alla fine: l’esercito dello sceicco si sbanda e i soldati superstiti cercano la salvezza nella fuga.

Solamente un manipolo di uomini ancora resiste, a fianco di Omar: sono i soldati della sua guardia personale, che si sono arroccati sul fianco della collina, tra le rocce, e non intendono cedere, anche se sanno bene che la loro sorte è segnata.

Il Circasso dispone le sue truppe per l’ultimo attacco contro l’avversario, che sta per perdere il potere e la vita.

Prima gli arcieri scagliano le frecce, che aprono nuovi vuoti nelle esigue schiere nemiche, poi è la volta delle lance e infine Dakhir, il Circasso e i suoi uomini si scagliano contro gli ultimi superstiti, in un furioso corpo a corpo. Uno dopo l’altro i soldati di Omar ibn Sabih cadono trafitti. Uccise le ultime guardie, che difendono la vita dello sceicco con la propria, il comandante Kazbech è di fronte a Omar. È Kazbech a colpire per primo il re: un fendente vibrato con grande forza ferisce Omar alla coscia e il sovrano cade a terra, incapace di sostenersi. Il Circasso ride guardando lo sceicco che ancora solleva la spada, come se sperasse di difendersi dalla morte che incombe.

Kazbech fa un passo in avanti e con un secondo fendente ferisce Omar al braccio. La spada cade. Lo sceicco è inerme. Coloro che ancora resistono perdono ogni coraggio e si sbandano: gli uomini di Dakhir li uccidono tutti.

Omar aspetta la morte: sa bene che Dakhir non avrà pietà. Spera solo che lo uccidano subito: l’idea di subire il supplizio di Nidal e dei suoi figli lo fa inorridire. Ma Shaqra è stata una preda facile e il Circasso non ha motivo per infierire.

Dakhir e Bilal arrivano al galoppo. Il Circasso mostra loro lo sceicco a terra, in un lago di sangue.

- Abbiamo conquistato Shaqra.

Dakhir sorride e annuisce. Si rivolge a Omar:

- Sei stato un coglione, Omar ibn Sabih. Credevi davvero di potermi resistere?

Omar non dice nulla: ogni parola sarebbe inutile, non è più il tempo di parlare. Dakhir fa un cenno con la testa, appena percettibile. Kazbech afferra i lunghi capelli di Omar e gli solleva il capo. Omar lo fissa negli occhi, sforzandosi di non tradire ciò che prova.

Kazbech ride, poi lascia la testa e con una pedata colpisce in faccia Omar, facendolo cadere supino. Kazbech si china su Omar e vibra un colpo, immergendo la lama nel basso ventre. Omar urla. Kazbech estrae la lama e colpisce una seconda volta. Omar lancia un nuovo grido disperato.

Kazbech si volta verso Bilal e gli dice:

- Ti avevo detto che glieli avrei tagliati.

Kazbech ride, perché pensa che farà lo stesso servizio a Bilal: questo stronzo sospettoso pagherà anche lui.

Kazbech cala la spada sul collo di Omar, recidendo la testa. L’afferra, la guarda, sputa sul viso e porge il trofeo a Dakhir.

Dakhir guarda la testa: lo sceicco ha gli occhi spalancati e dalla bocca è colato un po’ di sangue; lo sputo di Kazbech scivola su una guancia. Dakhir annuisce, poi passa la testa a un soldato, con l’ordine di legarla al suo cavallo.

Mentre scendono tutti verso la città, Dakhir sorride a Kazbech. Pensa che Jabal al-Jadid non è lontana. È la loro prossima meta. E poi c’è al-Hamra, la perla della Palestina, in mano a quei cani cristiani.

 

La città ha spalancato le porte ai vincitori. Dakhir e i suoi fratelli, accompagnati da Kazbech, percorrono le vie che portano al palazzo dello sceicco. Gli uomini si inchinano al loro nuovo signore e guardano sgomenti la testa del loro sceicco penzolare dalla sella del cavallo di Dakhir. Poi osservano il Circasso, badando bene a non incrociare il suo sguardo: la sua fama è terribile e tutti hanno paura. Saranno anche loro puniti perché lo sceicco ha rifiutato di consegnare la città? Tanti guerrieri sono già morti nella guerra contro Jabal al-Jadid e poi nella battaglia di oggi, altri giovani sono stati portati via come schiavi dall’emiro Ashraf. Ci saranno nuovi lutti? Non basta ancora? Perché devono essere i cittadini a pagare per l’ostinazione di coloro che comandano? Ma di certo non possono dire questo all’emiro che cavalca orgoglioso per la strada, con la testa appesa che ballonzola.

 

Il corteo giunge al palazzo dello sceicco, un grande edificio disposto su quattro cortili interni: intorno al primo vi sono gli alloggiamenti militari, edifici severi, che non offrono grandi comodità; sul secondo affacciano la sala delle udienze e altri locali occupati da uffici, dove lavorano gli uomini addetti all’amministrazione della città, e da magazzini pieni dei prodotti versati come tributi da tutto il territorio; il terzo, un vero e proprio giardino con una grande vasca al centro, è il cuore della residenza dello sceicco; intorno al quarto, più piccolo, vi è l’harem e qui vi sono ancora le mogli e le concubine di Abdel Haqq, ma l’appartamento principale è quello di Munira, sulle cui pareti uno degli sceicchi di Shaqra, ormai morto da tempo, ha fatto tracciare da un artista versi d’amore.  

Dakhir si guarda intorno. La residenza in cui Omar è vissuto per poco tempo è davvero sontuosa. Le sale sono molto spaziose, con le pareti coperte di ceramiche oppure di decorazioni a stucco, con versi del Corano e altri che inneggiano agli eroi; alcune hanno disegni policromi di grande eleganza, delicati intrecci di foglie e fiori che paiono ricami. Gli alti soffitti sono riccamente decorati da archi e rilievi. Ovunque i pavimenti sono coperti da tappeti e cuscini di seta con aggraziati ricami. Tutti i mobili, in legni pregiati e incrostazioni di avorio e pietre preziose, mostrano raffinati lavori di intaglio. Il giardino interno è un piccolo paradiso di alberi e fiori, allietato da fontane e canali e da una grande vasca con un porticato a colonne: dalle porte e dalle finestre che vi si affacciano, entra la luce del giorno, velata dal portico e dalla vegetazione, e si sente l’acqua che scorre.

Abdel Haqq amava vivere nel lusso e Omar aveva ereditato una reggia degna del califfo. Ma Shaqra e Jabal al-Jadid non sono piccoli centri di montagna: sono città opulente, che dominano su aree fertili e versano ricchi tributi ai loro signori.

In cuor suo Dakhir disprezza questa ricchezza: è un guerriero e il potere gli interessa assai più del lusso. È abituato a passare lunghi periodi in tenda e ad affrontare i disagi. Una residenza come questa è più adatta a Hamdan, che si aggira per le stanze a bocca aperta, come un bambino incantato da ciò che vede.

Dakhir ha un sorriso di scherno. Ha promesso al fratello di dargli Shaqra o Jabal al-Jadid. Di Jabal al-Jadid Dakhir vuole fare la sua capitale, in attesa di conquistare al-Hamra e Damasco. A Hamdan darà Shaqra, indebolita dalle guerre perse. Così Hamdan rimarrà nel cuore delle nuove conquiste, controllandole, mentre Dakhir estenderà i suoi domini più a sud. Dakhir sa che può fidarsi del fratello: Hamdan non ha i coglioni per ribellarsi. Bilal è più intraprendente e di lui Dakhir ha capito che deve diffidare: non si era accorto di niente, ma Kazbech gli ha aperto gli occhi. Da parte di Hamdan non c’è nulla da temere.

- Allora, Hamdan, ti piace questo palazzo?

Hamdan ride.

- A chi non piacerebbe? È degno di un califfo.

- Sarà la tua residenza, Hamdan. Volevi una città e te la dono. Sei lo sceicco di Shaqra.

Hamdan è raggiante. Dakhir aveva promesso di dargli una città come Shaqra, ma Hamdan non era sicuro di ottenerla davvero e certamente non pensava che il fratello gliela donasse ora: per il momento, in attesa di conquistare Jabal al-Jadid e al-Hamra, Shaqra è il centro più ricco e importante tra tutti quelli sotto il dominio di Dakhir.

- Grazie, fratello, per la tua generosità. Allah ti ricompenserà.

Bilal vorrebbe chiedere se avrà anche lui diritto a governare una città in futuro, ma preferisce non parlarne ora: non vuole sembrare avido e la presenza di Kazbech lo rende diffidente. Dakhir conclude:

- Hamdan, ora questo è il tuo palazzo e noi saremo tuoi ospiti, fino a quando partiremo alla conquista di Jabal al-Jadid. Non per molto, quindi. Non avrebbe senso attendere. Piomberemo su Ashraf come il falco sulla colomba.

Poi i tre fratelli esaminano il bottino. Nella stanza del tesoro del palazzo di Shaqra ci sono grandi ricchezze. Dakhir prende una grande quantità di oro e gioielli: serviranno per proseguire la spedizione, insieme ai tributi straordinari che Shaqra dovrà versare. A Dakhir non passa neppure per la mente di chiedere a Hamdan. Il fratello non dice nulla: sa benissimo che, anche se Dakhir gli ha donato la città, non può disporne liberamente. Il nuovo sceicco di Shaqra non è indipendente: è solo uno dei tanti signori al servizio dell’emiro di Halel. Hamdan non se ne fa un cruccio. Gli rimangono ricchezze sufficienti e Shaqra si riprenderà dalle guerre: presto tornerà al suo splendore.

A sera Hamdan fa chiamare la moglie di Omar e le concubine che vivono nel palazzo: sceglierà tra loro con chi trascorrere la notte. Prima che le donne arrivino, chiede a Dakhir:

- Dakhir, vuoi prenderti una femmina?

Hamdan ha visto che Dakhir non ha mai mostrato interesse per le mogli o le concubine dei signori sconfitti, ma vuole mostrarsi gentile con il fratello che gli ha donato la città.

Dakhir sorride.

- No, ho altro a cui pensare.

Allora Hamdan si rivolge a Bilal:

- E tu, fratello?

- Volentieri, ti ringrazio.

Hamdan fa la stessa offerta a Kazbech, che invece la declina, come Hamdan si aspettava. Kazbech è come Dakhir: pensa solo al potere e alla guerra.

 

Le donne si presentano, accompagnate dagli eunuchi che sorvegliano l’harem. Alcune stanno a capo chino, piene di vergogna per essere messe in mostra come al mercato delle schiave. Qualcun’altra invece lancia una rapida occhiata ai conquistatori, sperando di fare colpo e ottenere il favore del nuovo sceicco o del fratello.

Munira piange e si copre il viso con il velo. Uno degli eunuchi glielo strappa, perché i nuovi signori possano vederla. La sua bellezza colpisce Hamdan, che decide di prenderla per sé.

- Tu verrai da me questa notte.

La giovane impallidisce. Poi si getta ai piedi del nuovo sceicco:

- Sono la vedova dello sceicco Omar. Rispettami.

Hamdan ride, poi dice:

- Ciò che apparteneva a Omar ora è mio.

Munira replica, con veemenza:

- Devi rispettarmi. Non hai diritto di prendermi con la forza.

Hamdan si rabbuia e la schiaffeggia, mentre risponde, rabbioso:

- Sei la mia schiava e nient’altro.

Poi si volta verso Bilal e gli dice:

- E tu, fratello, quale prendi?

Bilal si avvicina a Munira e le solleva il capo. La ragazza non ha più di vent’anni e ha un viso incantevole.

- Devo dire che avrei scelto anch’io questo bel bocconcino. Ma…

Hamdan ride di nuovo.

- Possiamo prenderla tutti e due. È una schiava.

In un’altra situazione, Hamdan non accetterebbe di dividere Munira con il fratello, ma vuole punire l’insolenza della donna. Aggiunge:

- La faccio accompagnare da te quando ho finito. Se non vuoi seguire le mie orme, puoi sempre farle usare la bocca o prenderla da dietro.

Bilal ride e dice:

- Mi sembra una bella idea. Magari tutte e due le cose.

La risata diventa più forte. Bilal conclude:

- Grazie, fratello.

Anche Hamdan ride mentre fissa Munira, che sembra far fatica a respirare. Le dice ancora:

- Preparati, che ti manderò a prendere tra non molto.

Munira torna nell’harem. Si siede a terra, in lacrime. Sa che cosa deve fare, quello che ora si pente di non aver fatto prima: prende la cintura e ne fa un cappio, poi sale su uno sgabello e fissa la cintura a una sporgenza della parete; infila la testa nel cappio e dà un calcio allo sgabello.

 

È notte nel palazzo che fu dello sceicco Abdel Haqq, poi di Omar ibn Sabih e ora appartiene a Hamdan. La testa del signore precedente è infilzata su un palo, accanto all’ingresso principale del palazzo. Il suo cadavere è stato abbandonato in aperta campagna, perché gli animali selvatici possano nutrirsene.

Hamdan ha mandato a chiamare Munira. Ma l’eunuco si presenta senza la donna. Quando scopre che la donna si è uccisa, Hamdan è furente. Fa fustigare l’eunuco, poi entra nell’harem e sceglie una giovane armena.

 

Dakhir è in un’altra delle stanze regali. Nudo, è steso sul letto. Ha allontanato il lenzuolo, perché il caldo è soffocante. Si accarezza il cazzo, lentamente.

Questa notte, come sempre, Dakhir dividerà il suo letto con Kazbech. Mentre lo attende, pensa che Hamdan si stia godendo la bella Munira.

Ma Kazbech tarda e Dakhir è impaziente. La destra stringe i coglioni, la sinistra scivola dietro, lungo il solco tra le natiche, fino all’apertura che tra poco Kazbech forzerà. Ha un cazzo possente, Kazbech, ma si muove con cautela per non fare male a Dakhir. L’emiro pensa alle mani del Circasso, mani forti, la cui stretta è una morsa. Pensa al corpo che accende i suoi desideri.

Perché Kazbech non arriva?

Finalmente sente un rumore di passi.

- Kazbech!

Il Circasso entra.

- Mio signore.

Dakhir ride. È il sovrano, di fronte a cui tutti si prosternano, ma ora è lui a inginocchiarsi davanti al Circasso. Preme il suo viso contro lo stoffa che copre il ventre del comandante e sente il cazzo del comandante acquistare volume e consistenza. Lo stringe in mano attraverso il tessuto. Poi si alza e, come se fosse un servitore e non l’emiro, aiuta Kazbech a spogliarsi e più volte con le mani e le labbra accarezza la pelle del valoroso Circasso, mentre contempla il vigore del corpo che emerge dai vestiti. Quando ha concluso l’opera, Dakhir fa un passo indietro e osserva a lungo l’uomo potente che è il suo amante e il suo signore.

Kazbech si avvicina, gli mette le mani sulle spalle e lo fa nuovamente inginocchiare. Poi gli passa una mano dietro la testa e l’avvicina al proprio cazzo. Dakhir apre la bocca e avvolge con le labbra la cappella. Ne sente il gusto intenso. Fa scorrere la lingua tutt’intorno, poi incomincia a succhiare. Il cazzo del Circasso cresce ancora e rapidamente si irrigidisce. Dakhir succhia con foga, gustando la consistenza, la grandezza, il calore di questa carne. Oggi vuole sentire il sapore del seme del suo uomo, di questo maschio vittorioso che ha conquistato per lui un’altra città. E mentre la sua bocca lavora, con la mano Dakhir si stringe il cazzo e lo accarezza. Vuole venire insieme a Kazbech. A tratti accelera il movimento della mano, a tratti lo rallenta. Lavora a lungo e infine sente il fiotto del seme riempirgli la bocca. Inghiotte e intanto la sua mano lo guida al piacere. Viene, mentre in bocca ha ancora il cazzo di Kazbech, non tutto, certamente, ma quella parte che riesce a tenere.

Ma Dakhir non è sazio. Rimane con il viso contro il ventre di Kazbech, di fianco al cazzo magnifico che solo lentamente abbassa il capo. Gli stringe il culo con le dita, accarezza le natiche, un dito scivola sul solco. Dakhir allontana il viso e guarda ammaliato il cazzo e i coglioni di Kazbech.

- Leccami il culo, Dakhir.

Dakhir annuisce. Ha imparato a fare anche questo. Non l’aveva mai fatto. Ma Kazbech non è un uomo, è un demone che lo ha assoggettato completamente e Dakhir non chiede altro che questa schiavitù completa. Kazbech si volta, Dakhir incomincia a leccare il solco, mentre le sue mani passano davanti, una  stringe leggermente i coglioni, li soppesa. Dakhir lecca, preme la lingua contro l’apertura, mordicchia le natiche. Poi si stacca e, stringendo un po’ di più i coglioni, dice:

- Dicono che Barbath, il comandante dell’esercito di Jabal al-Jadid, ne abbia tre, ma non sono certo grossi come i tuoi.

- L’ho sentito dire anch’io. Se è vero, mi divertirò a tagliargliene tre.

Kazbech ride.

La lingua di Dakhir riprende a lavorare, mentre le sue mani accarezzano il cazzo del Circasso, che sta nuovamente irrigidendosi. Questo splendido stallone non è mai sazio.

Kazbech lo lascia fare, poi dice:

- Adesso stenditi.

Dakhir si mette sui cuscini. Divarica bene le gambe. Kazbech gli sputa sul solco, sparge la saliva e poi avanza la sua arma.

Dakhir ormai è abituato, ma l’ingresso del cazzo è sempre un po’ doloroso. Eppure a Dakhir va bene così. Essere posseduto da Kazbech è la sensazione più forte che Dakhir abbia mai provato nella sua vita. C’è sempre dolore, quando le spinte del Circasso gli scavano il culo, eppure è splendido.

Kazbech lavora a lungo e Dakhir geme, più volte. Quando infine il Circasso viene nelle sue viscere, Dakhir ha il cazzo nuovamente in tiro. Kazbech lo stringe tra le braccia e si girano, in modo che ora il Circasso sia sotto e Dakhir sopra, con lo spiedo di Kazbech ancora in culo. Kazbech afferra il cazzo di Dakhir e incomincia a muovere la mano, brutalmente, fino a che Dakhir viene. È venuto meno di un’ora fa. Ha cinquantacinque anni. Ma Kazbech gli ha restituito la sua giovinezza.

 

Kazbech saluta Dakhir e se ne va. Non dormono mai insieme. Dakhir a volte si chiede se ha ancora senso nascondere il loro legame. Quando sarà il signore di tutta la Siria e si sarà installato a Damasco, Kazbech dormirà nel suo letto. Dakhir porta la mano al monile che gli ha regalato Kazbech, la prima notte in cui si sono amati. Lo stringe tra le dita, come un talismano.

E mentre accarezza sogni di un futuro che non vedrà mai, Dakhir si addormenta, esausto.

Due uomini sono entrati. Stringono un pugnale in mano e si muovono silenziosi. Guardano l’emiro di Halel che dorme, nudo, appena visibile alla fioca luce lunare che proviene dalla finestra. Un corpo possente, che tra poco sarà solo un cadavere.

 

Dakhir non si accorge dei due assassini. Solo quando uno di loro alza il braccio per vibrare il colpo, apre gli occhi, un attimo prima che la lama gli squarci il petto.

Dakhir grida e alza le braccia per ripararsi, ma è troppo tardi: la lama già affonda nello stomaco, strappandogli un urlo di dolore. Anche il secondo uomo lo colpisce, lacerandogli il ventre. E poi ancora un colpo e un altro, che gli squarciano il petto e il ventre. Al quinto colpo, che gli spacca il cuore, Dakhir sprofonda nel nulla, ma i due uomini colpiscono ancora: vogliono essere sicuri che l’emiro muoia.

Richiamate dalle grida di Dakhir, le guardie accorrono ed entrano nella stanza. I due sicari le affrontano. Uno riesce a ferire un soldato, ma viene ucciso, l’altro viene catturato.

Hamdan, Bilal e Kazbech sono stati chiamati. Raggiungono la camera di Dakhir. Il corpo dell’emiro di Halel giace sul letto, con gli squarci di otto pugnalate.

Kazbech si rivolge a Hamdan. La voce sembra tradire una rabbia contenuta a fatica.

- Hamdan, tu sei lo sceicco di Shaqra per volontà di tuo fratello e ora anche l’emiro di Halel, per diritto naturale. Permettimi di punire le guardie che non hanno svolto il loro compito.

Se i due sicari sono riusciti a entrare nel palazzo e giungere fino alla camera di Dakhir, le guardie non hanno vigilato come dovevano, questo è chiaro. Hamdan guarda il cadavere del sicario e osserva:

- Era uno dei nostri soldati. Per questo le guardie non hanno diffidato di lui.

- In ogni caso nessuno doveva potersi avvicinare alla camera dell’emiro.

Kazbech è scuro in volto. Guarda l’assassino che è stato legato dalle guardie e dice:

- Hamdan, se mi autorizzi, mi occuperò io delle guardie e dell’assassino di tuo fratello. Voglio scoprire chi ha ordinato questo delitto atroce.

Hamdan sa che Kazbech è l’uomo giusto per scoprire la verità. E vuole sapere chi ha fatto uccidere Dakhir. La morte di suo fratello fa di lui l’emiro di Halel e il signore di tutto il territorio conquistato. Ma l’assassinio di Dakhir non può rimanere impunito. Qualcuno potrebbe pensare che è stato Hamdan stesso a ordinare questo omicidio, per ereditare i domini del fratello.

- Ti do carta bianca, Kazbech.

 

Kazbech procede a un rapido interrogatorio delle guardie e individua i quattro che dovevano sorvegliare l’ingresso del corridoio che portava agli appartamenti di Dakhir. Ordina che vengano imprigionati. Gli uomini sono sgomenti: conoscono la ferocia del Circasso e sanno che pagheranno con la vita per la morte dell’emiro.

 

Hamdan e Bilal si occupano di raddoppiare i soldati di guardia: non è detto che gli assassini non abbiano altri complici pronti ad agire; potrebbe trattarsi di un piano per eliminare i signori di Halel e provocare una rivolta nella città conquistata.

Poi danno le disposizioni necessarie perché in mattinata il cadavere di Dakhir venga lavato e poi sepolto. Quando hanno concluso, Bilal osserva:

- Quando si saprà che Dakhir è morto, i nostri nemici cercheranno di approfittare della situazione.

- Sì, Bilal, è possibile. Dovremo essere molto vigili, ma Kazbech incute un grande timore e non so se oseranno sfidarci.

Bilal annuisce. Poi mormora:

- Kazbech…

- Che cosa c’è, Bilal?

Bilal riflette un momento, poi dice:

- Non mi fido di Kazbech, Hamdan: quell’uomo è molto ambizioso.

Hamdan alza le spalle.

- Può essere, ma Kazbech ci serve. Se lui se ne andasse, tutte le città che abbiamo conquistato si ribellerebbero.

Bilal sa che Hamdan ha ragione, eppure preferirebbe fare a meno del Circasso. Avrà occasione di riparlarne con Hamdan.

 

Il sicario viene trascinato in una cella e incatenato alla parete. Kazbech dà ordine di portare un braciere e di accenderlo. Kazbech si toglie la tunica e con un ferro rovente incomincia a bruciare la carne dell’assassino: prima i capezzoli, poi il cazzo, i coglioni, le ascelle. Intanto pone domande a cui l’uomo non risponde. Dice solo il suo nome, Issam, e aggiunge che Dakhir meritava la morte. Si rifiuta di dire altro.

Kazbech prosegue con il suo interrogatorio. Issam tace, malgrado il ferro rovente che gli brucia la carne. Non potrebbe dire molto: Ramzi lo ha inviato a uccidere, ma di certo non gli ha detto che il mandante è proprio l’uomo che ora lo sta torturando. Il sicario riesce a controllarsi a lungo, finché il dolore non diventa più forte anche della sua volontà di resistere. Grida, sempre più forte e più a lungo, ogni volta che il ferro rovente gli tocca la pelle. Il suo corpo è madido di sudore e nella cella c’è un fetore di carne bruciata che toglie il fiato. Issam è esausto e solo le catene lo tengono ancora in piedi. Ormai respira a fatica, anche le grida sono rauche.

A un certo punto Kazbech ordina:

- Uscite tutti.

I soldati obbediscono. Kazbech  si toglie anche i pantaloni. Ormai ha il cazzo duro: torturare Issam lo ha eccitato, gli piace vedere il viso del sicario deformarsi in una maschera di dolore, sentire le sue urla disperate. Riprende a usare il ferro rovente, ma questa volta non si limita ad appoggiare per un momento: preme a fondo contro la cappella e la carne brucia.

Ora Kazbech non pone più domande. Si diverte soltanto a prolungare il martirio di Issam e il suo piacere: non manca più molto perché venga. Infine Kazbech libera un braccio di Issam dalla catena, volta il prigioniero contro la parete e gli infila il ferro rovente in culo, fino in fondo. Un brivido di piacere percorre Kazbech, mentre dal suo cazzo il seme prorompe e ricade sul culo dell’uomo ormai agonizzante. Issam grida, poi l’urlo si spegne in un rantolo.

Kazbech estrae il ferro. Issam è svenuto, forse è già morto. Kazbech lo incatena come prima, poi con il braccio vibra un colpo secco sul collo, spezzando la trachea: meglio essere sicuri.

Kazbech si pulisce le mani e il petto, poi si riveste e raggiunge Hamdan, che sta parlando con Bilal e due ufficiali.

Hamdan guarda il Circasso e chiede:

- Allora? Hai ottenuto qualche cosa?

Kazbech risponde, scuro in volto:

- Ho bisogno di parlarti da solo.

Hamdan congeda i tre uomini, ma Bilal non si muove. Kazbech lo guarda senza dire nulla. Bilal osserva:

- Dakhir era anche mio fratello.

Kazbech risponde, con una voce gelida, in cui vibra una minaccia:

- Intendo parlare solo a Hamdan, emiro di Halel e sceicco di Shaqra. A lui solo rispondo.

Bilal guada Hamdan, che con il capo gli fa cenno di andarsene. Bilal reprime un movimento di rabbia e si allontana senza dire più nulla.

Kazbech gli fa paura. Che cosa succederà ora che Dakhir non c’è più? Hamdan si deciderà una buona volta a sbarazzarsi del Circasso o anche lui lo terrà al suo fianco? La morte di Dakhir potrebbe essere una buona occasione per sbarazzarsi di Kazbech. È un comandante valoroso e un guerriero formidabile, ma non si può contare su di lui, Bilal ne è sicuro. Deve farlo capire a Hamdan. In un modo o nell’altro ci riuscirà.

 

Quando Bilal è uscito, Kazbech dice:

- L’assassino è morto, ma prima di morire ha confessato.

- E allora? Chi l’ha mandato a uccidere mio fratello?

Kazbech fissa Hamdan negli occhi e dice:

- Bilal.

- Bilal! Nostro fratello! Ecco perché… Maledetto!

- Diffidavo di lui. Anche Dakhir lo temeva: è troppo ambizioso. Lo ha portato con sé per evitare che tramasse a Halel, senza pensare che lo avrebbe fatto uccidere qui. È stato certamente lui a fare uccidere il servitore ebreo, quel Yehonathan, che probabilmente aveva visto o sentito qualche cosa… Dakhir sospettava di lui.

Hamdan è annichilito. Ma sente la rabbia montare. Kazbech aggiunge:

- Se Dakhir non si fosse svegliato e non avesse urlato, i due assassini avrebbero ucciso anche te: questo era il loro compito. Bilal avrebbe preso il posto di Dakhir e tornato a Halel avrebbe certamente fatto uccidere i tuoi figli.

- Bilal! Maledetto! Lo farò decapitare e getterò il suo corpo ai cani.

Kazbech sorride:

- Tu sei l’emiro e tu deciderai, ma io credo che Bilal meriti una punizione peggiore per quanto ha osato fare.

- Che cosa proponi?

 

Ormai è quasi mattino. Tutti sono ritornati nelle loro stanze. Di colpo la porta della camera di Bilal si spalanca ed entra Kazbech, seguito da sei soldati. Bilal stava dormendo, ma l’irruzione lo sveglia. Ancora intontito dal sonno, chiede:

- Che cosa succede?

Kazbech non risponde. Ordina ai suoi uomini:

- Legatelo.

I sei uomini si avventano su Bilal, che cerca di resistere, impreca e chiede spiegazioni. I soldati non badano alle sue parole: lo afferrano, gli legano le mani dietro la schiena e lo trascinano nudo per i corridoi del palazzo. Bilal ordina di lasciarlo immediatamente e minaccia gli uomini. È furente.

- Kazbech, che significa questo oltraggio?

Kazbech si limita a rispondere:

- Lo saprai presto.

I sei sgherri lo fanno entrare nella sala delle udienze. In alto, sul trono regale, è seduto Hamdan. Kazbech si mette al suo fianco, in piedi. Alla sinistra di Hamdan, sei uomini anziani, maestri della legge.

Gli uomini che hanno portato Bilal lo costringono ad inginocchiarsi. Bilal ha intuito che la sua vita è in pericolo, ma non riesce a capire e attende di sapere perché lo trattano come un malfattore.

Hamdan si solleva e tende il bastone del comando verso Bilal, come una mano accusatrice:

- Infame, il complotto è stato svelato.

- Che dici, fratello?

- Non mi chiamare fratello, traditore.

Poi Hamdan si rivolge ai sei uomini vicino a lui:

- Bilal, quest’uomo che mio padre ha generato, ma che non è più mio fratello, ha ucciso l’emiro Dakhir, che Allah lo accolga tra i giusti. E ha tramato per uccidere anche me, per prendere il posto di colui che ha ucciso.

Bilal grida, furibondo:

- Tu menti.

Hamdan si rivolge a Kazbech, che assiste impassibile:

- Kazbech, tu che sei il comandante e hai condotto l’interrogatorio del sicario, rispondi sinceramente: che cosa ha detto l’uomo che ha ucciso mio fratello?

Bilal guarda Kazbech, che però volge il capo verso Hamdan.

- Il sicario sotto tortura ha confessato. Ha detto di essere stato mandato da Bilal per uccidere Dakhir. Questa stessa notte avrebbe dovuto uccidere anche te, ma Dakhir si è svegliato e ha urlato prima di morire, perciò non ha potuto portare a termine il suo compito.

- Tu menti, infame!

Bilal grida di rabbia, ancora incredulo per l’accusa. È stato Hamdan a convincere Kazbech a raccontare il falso o è un’iniziativa del Circasso?

Hamdan si rivolge ai giudici:

- Giudici, avete sentito. Pronunciate il verdetto.

Uno dopo l’altro, dal più vecchio al più giovane, i sei uomini si pronunciano e tutti dicono un’unica parola:

- Morte!

Bilal si guarda intorno, cercando un aiuto che sa benissimo non verrà.

Hamdan si rivolge a lui:

- Hai ucciso nostro fratello. Volevi uccidere anche me. Per questo meriti la morte che hanno decretato i giudici. Ma io non voglio versare il tuo sangue. Ti impedirò di compiere il male che hai progettato, ma non ti toglierò la vita.

Bilal sa che è inutile replicare: la sua sorte è decisa. Hamdan prosegue:

- Cercando di uccidermi, hai rescisso il legame di sangue che ci univa. Non sei più mio fratello, ma uno schiavo e come tale vivrai.

Hamdan si rivolge ai giudici:

- Voi potete andare.

I giudici lasciano la sala.

Ora lo sguardo di Bilal è attratto da un braciere che arde in un angolo. Uno schiavo nero poggia la lama di una spada sulle fiamme e guarda nella sua direzione. Bilal fissa l’uomo, che indossa solo una fascia intorno ai fianchi, e avverte un brivido. Questo maschio vigoroso, i cui muscoli possenti guizzano sotto la pelle scura, è il suo carnefice. Hamdan ha detto che non lo ucciderà. Che cosa vuole fargli?

I soldati ai lati di Bilal gli afferrano le braccia, in modo da impedirgli ogni movimento. Uno gli blocca la testa passandogli un braccio intorno al collo. Lo schiavo nero, che ha arroventato la spada sul braciere, si dirige verso di lui. Bilal lo guarda. La punta incandescente della spada si avvicina al suo viso. Bilal capisce, vorrebbe sfuggire al ferro, ma non gli è possibile. La punta ora sfiora i suoi occhi. Bilal grida, ma l’urlo di rabbia e disperazione diventa un grido di dolore quando la lama incide l’occhio destro. Poco dopo è l’occhio sinistro ad essere tagliato.

Bilal sprofonda nel buio, mentre gli sembra di avere un incendio negli occhi. Lacrime di sangue gli scorrono lungo le guance.

Bilal sente la voce di Hamdan, che si rivolge a Kazbech:

- Quest’uomo non è più mio fratello, ma uno schiavo. Fanne ciò che desideri.

Hamdan lascia la sala.

A un gesto di Kazbech gli uomini afferrano Bilal e lo sbattono a terra.

Bilal non capisce, finché non sente che un corpo si stende sul suo: è Kazbech, che gli afferra il culo con le mani, divaricando le natiche. Bilal può sentire la risata del Circasso e poi le sue parole:

- Ora ti fotto, Bilal.

Bilal grida:

- No, no! Non puoi! Hamdan! Sono tuo fratello!

Hamdan si è allontanato. Per lui Kazbech può davvero fare ciò che vuole di Bilal: non è suo fratello, è un assassino, un fratricida.

Bilal si dibatte: nessun uomo lo ha mai preso. Kazbech non può fargli questo.

Ma Bilal può sentire il cazzo che preme contro il suo culo ed entra con forza, facendolo urlare. Gli sembra di avere un palo nelle viscere. Kazbech  si muove con tale violenza da lacerare la carne. Ogni spinta accresce il dolore. Bilal singhiozza.

Lo stupro dura un tempo infinito. Quando infine Kazbech viene, rovesciandogli nelle viscere il suo sborro, Bilal rimane inerte. Viene sollevato e trascinato nei sotterranei da due guardie che lo tengono sotto le ascelle. Sangue e sborro gli colano dal culo. A un certo punto gli uomini si fermano. Bilal sente il rumore di un catenaccio che scorre e poi di una porta che viene aperta. Lo spingono in avanti. Ora dev’essere nella cella, in cui c’è un greve odore di chiuso. Gli uomini gli slegano le mani, lo sbattono al suolo e lo lasciano lì. Con fatica Bilal si solleva e si appoggia contro il muro. Il dolore agli occhi è atroce, quello al culo è violento.

È finita. Era il fratello dell’emiro e ora è un prigioniero cieco. Per quanto tempo suo fratello lo lascerà vivo? E Kazbech che ha testimoniato il falso... Su ordine di Hamdan o per iniziativa personale? Poco cambia. Ma perché accanirsi contro di lui? Non ha mai tramato, non contava certo di prendere il posto di Dakhir o di Hamdan.

Un pensiero improvviso gli appare come un lampo: sono stati Hamdan e Kazbech a uccidere Dakhir, per impadronirsi del potere. E hanno voluto eliminare anche lui, per maggiore sicurezza.

Bilal sa di non avere speranze: nessuno muoverà un dito per difenderlo, nessuno oserà mettersi contro il nuovo emiro e soprattutto contro il Circasso.

Bilal esplora la sua prigione con le mani. La cella è minuscola: se si alza, la sua testa sfiora il soffitto; pochi passi sono sufficienti per andare da una parete a quella opposta. Il pavimento è tutto bagnato, perché da un angolo filtra acqua. Non c’è un giaciglio, nulla.

 

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Kazbech ha raggiunto la stanza dove il corpo di Dakhir viene lavato. Kazbech osserva il lavatore di cadaveri che svolge con cura il suo compito. Il viso del Circasso è una maschera di rabbia e di dolore.

Quando infine tutto il corpo è stato avvolto, Kazbech lascia la stanza e ritorna nella propria camera. Solo allora l’espressione contrita lascia il posto a un sorriso. Kazbech si stende per riposare un momento, anche se ormai è pieno giorno: in tutta la notte ha potuto dormire ben poco. È soddisfatto di come sono andate le cose: ha davvero svolto un buon lavoro.

In mattinata le guardie che non hanno impedito l’ingresso degli assassini vengono decapitate davanti alle mura. Il cadavere del sicario Issam viene squartato da quattro cavalli. Il tronco, con la testa e una gamba, viene infilzato su un palo all’ingresso della città, gli altri pezzi sono abbandonati agli animali selvatici.

 

Bilal sprofonda in un vortice, oscuro come la cella in cui si trova, come il buio in cui ormai rimarrà fino alla sua morte. A lungo i suoi pensieri si attorcigliano intorno al nodo di dolore che gli chiude la gola. Poi, sfinito, si stende sul pavimento e si addormenta, ma il suo sonno è agitato.

Quando si sveglia, per un momento Bilal si chiede dove si trova. Poi ricorda.

Bilal si rende conto di avere sete. Deve anche pisciare.

È giorno? È notte? Bilal batte contro la porta. Nessuno risponde. Bilal batte di nuovo.

Infine una voce chiede:

- Che c’è?

- Voglio bere.

Bilal non si è ancora abituato alla sua nuova condizione di prigioniero e di schiavo. La risata del carceriere gli ricorda che non può più dare ordini.

L’uomo si allontana, senza neppure rispondere.

Il tempo passa. Il bisogno di pisciare è troppo forte, ora. Bilal si mette contro un angolo e svuota la vescica.

Dopo un po’ si sentono dei passi nel corridoio.

La porta si apre.

- Da mangiare e da bere per te. Ma lo devi pagare.

L’uomo che ha parlato ride.

Bilal sente delle braccia che lo afferrano. Reagisce d’istinto: cerca di divincolarsi e, in preda a una rabbia cieca, mena pugni. Gli uomini sono su di lui e non fanno fatica a bloccarlo. Incominciano a colpirlo. Quando è a terra, gli uomini lo prendono a calci nelle costole, in faccia, al ventre, ai coglioni.

Bilal non è più in grado di reagire. Vedendolo inerte, il carceriere gli dice:

- Stronzo, adesso ti faccio vedere.

Si stende su di lui e lo incula con una spinta decisa, che strappa a Bilal un gemito. Poi procede, spingendo con violenza. Mentre gli squarcia il culo, gli afferra i capelli con la mano e gli sbatte la testa contro il pavimento della cella, più volte. Il dolore stordisce Bilal. Il sangue gli cola dal naso e dalla bocca.

Dopo il carceriere, sono i due soldati ad incularlo: Kazbech ha dato istruzioni precise ai suoi circassi.

Quando se ne sono andati, Bilal rimane disteso al suolo. Un dolore violento gli pulsa nel ventre, ai coglioni, nel culo, in faccia. Vorrebbe che lo avessero ammazzato.

Quando infine si riprende, Bilal cerca il cibo e le bevande. La brocca si è rovesciata nella lotta e il cibo, una focaccia, è finito a terra: è tutta bagnata di acqua, fango e piscio.

La gola di Bilal arde. Mangia due bocconi della focaccia. La sete è intollerabile. Bilal si stende e beve un po’ del liquido fangoso che copre il pavimento.

Il carceriere ritorna più tardi.

- Volevi bere? Eccoti! Apri la bocca.

Bilal intuisce, ma non si sottrae: la sete è troppo forte, più dell’orgoglio. Uno schiavo non può permettersi di essere orgoglioso.

L’uomo scioglie la fascia che porta ai fianchi e incomincia a pisciargli in bocca. Poi i due soldati che lo accompagnano fanno altrettanto.

I tre se ne vanno. Non gli hanno lasciato nulla da mangiare. Tornano più tardi e gettano per terra un po’ di cibo. Se ne vanno, chiudendo la porta. Al buio, Bilal cerca il cibo e se lo porta alla bocca.

 

Nei giorni seguenti Hamdan è molto indaffarato: ora è l’emiro e deve affrontare tutti i problemi che la morte improvvisa di Dakhir ha aperto. Non si parla più di attaccare Jabal al-Jadid: bisognerà tornare a Halel, c’è molto da fare anche là adesso che Dakhir è morto, ma Shaqra andrà lasciata in buone mani, per evitare che ci siano ribellioni o che magari lo stesso Ashraf cerchi di riprendersela, quando Hamdan sarà lontano.

Di Bilal Hamdan non si occupa. Ci pensa Kazbech, che prosegue la sua vendetta. I giorni del prigioniero trascorrono in assoluta solitudine. La cella si apre ogni tanto, per far entrare il carceriere e due guardie, che cambiano spesso. Di solito i tre uomini lo inculano e quando hanno finito si fanno pulire il cazzo. A volte Bilal ha la febbre, ma la sua fibra robusta regge alle condizioni inumane in cui vive.

Dopo una decina di giorni, Hamdan decide di tornare a Halel. Bilal viene fatto uscire dalla cella e caricato su un carro.

 

Farid è felice del ritorno di Kazbech. La morte dello zio non lo ha turbato: sapeva che Dakhir costituiva una minaccia per lui e che avrebbe potuto farlo uccidere se avesse scoperto che lui e Kazbech erano amanti. Ora però che Dakhir è morto, Farid non capisce perché lui e Kazbech debbano continuare a incontrarsi di nascosto.

È Kazbech a spiegargli:

- Farid, tu sei giovane e poco esperto del mondo. Non hai mai sospettato che tuo zio Bilal potesse far uccidere il fratello, eppure è avvenuto.

- Sì, davvero, non pensavo proprio… che orrore! E dire che lo zio gli aveva perfino affidato Halel quando era partito per le campagne precedenti.

- Un uomo ambizioso è capace di tutto. E Akram è molto ambizioso. Tuo padre ti preferisce a lui e non ne fa mistero. Di sicuro ti designerà come erede. Akram non ha nessuna intenzione di accettare questa situazione e prima o poi interverrà.

Farid non si stupisce di quanto Kazbech gli racconta. Ma ancora non comprende perché il loro rapporto debba ancora essere tenuto segreto.

- E allora? Sapendo che io e te siamo legati, Akram ci penserà due volte prima di agire, no?

- No, Farid. Non è così. Il legame tra di noi è un’ulteriore minaccia per Akram. Tu sei il figlio preferito da tuo padre, il comandante dell’esercito è il tuo amante: le sue possibilità sono ben poche.

- Sì, questo è vero…

- Farid, te l’ho detto: tu hai poca esperienza degli intrighi di corte, ma io sto cercando di far credere ad Akram che sono dalla sua parte. Se lo convinco gli dirò anche che quando sarà giunto il momento, mi occuperò io di te. E capisci come…

Kazbech ride. Farid è perplesso.

- Ma… perché?

- Perché se affida a me il compito, non lo eseguirò e invece ucciderò lui. Se lo affida a qualcun altro, questi lo eseguirà e non è detto che tutte le precauzioni che possiamo prendere siano sufficienti a salvarti. Adesso capisci?

- Sì. Grazie, Kazbech. Ma…

Farid esita.

- Dimmi.

- Io credo che… Se è così… Akram non può vivere. Finché vive è una minaccia per me.

- Sì, lo credo anch’io. Quando deciderà di agire si rivolgerà a me e allora vedremo se ricorrere al veleno o in che altro modo muoverci.

 

Bilal è stato messo in una cella un po’ più bassa dell’altra, dove non può nemmeno rimanere in piedi. Dopo qualche settimana alcuni soldati lo trascinano fuori, lungo il corridoio. Bilal spera che lo portino al luogo dell’esecuzione. Ormai desidera solo morire.

Arrivati in una stanza lo gettano a terra. Bilal sente la voce del fratello:

- Tra qualche giorno partirai, Bilal: è ora che tu impari a guadagnarti il pane che mangi. Prima però ti renderemo più docile.

Le guardie afferrano Bilal, gli bloccano le braccia e le gambe. Uno gli passa le braccia intorno alla vita.

Bilal sente una mano afferrargli i coglioni. Intuisce. Urla, si divincola, con la forza che gli dà la disperazione. Non vuole che lo castrino. Ma sente la lama tagliare la pelle e poi recidere. Bilal lancia un grido disperato, un “No!” che si trascina a lungo.

Ma il carnefice non ha finito. Bilal sente la mano stringere il cazzo e la punta del pugnale scavare subito sopra.

Bilal urla di nuovo, mentre il boia completa la sua opera.

Prima di perdere i sensi Bilal sente la risata del carnefice e la riconosce: è stato Kazbech a castrarlo.

Per una settimana Bilal ha la febbre. Giace nella sua cella immonda, delirando. Qualcuno versa a più riprese un liquido sulla ferita, che brucia in un modo terribile. Bilal è tormentato dalla sete, ma può bere solo quando un carceriere gli piscia in bocca o gli versa un po’ d’acqua dalla brocca.

Lentamente Bilal si riprende. Vorrebbe morire. Non sa come fare. Cerca di uccidersi sbattendo la testa contro il muro, ma è troppo debole e crolla al suolo dolorante.

 

Dopo dieci giorni vengono a prenderlo e lo trascinano per il corridoio. Questa volta lo conducono all’aperto: Bilal può sentire il calore del sole sulla pelle. Gli uomini lo incatenano e lo fanno salire su un carro.

Il viaggio dura otto giorni. L’aria è fresca: stanno salendo verso le montagne.

Ogni sera, quando il convoglio si ferma e i soldati si accampano, lo trascinano a terra e lo violentano. Sono una ventina e il culo di Bilal sanguina in abbondanza.

Il convoglio si dirige verso nord e raggiunge le montagne del Kahar. Dai discorsi dei soldati Bilal ha capito qual è la loro meta: Khar-zen’a, un paese sperduto in una vallata tra i monti.

Stanno salendo in alto, il freddo diviene sempre più intenso. Altro non cambia: le violenze dei soldati si susseguono.

Giungono infine a Khar-zen’a.

Bilal viene fatto scendere dal carro. Sente parlare gli uomini del paese, in curdo, una lingua di cui Bilal conosce appena qualche parola.

Il giorno successivo Bilal viene attaccato alla grande macina, che dovrà spingere ogni giorno, girando in cerchio. Un lavoro che fanno gli animali, di solito, ma Bilal è un animale. Spinge, ruotando tutto il giorno, le mani ed i piedi incatenati.

La sera, quando ritornano dai campi, gli uomini più giovani, non ancora sposati, e quelli rimasti vedovi si servono del suo culo e della sua bocca.

Solo la notte gli liberano le mani. Può stendersi sulla paglia lercia e dormire.

Le giornate trascorrono così, sempre uguali.

La vita di Bilal è questa, giorno dopo giorno. Un animale che gira una ruota, a cui una frustata ricorda che non è permesso fermarsi.

 

Hamdan si è stabilito a Halel e non sembra intenzionato a lanciarsi in altre conquiste, anche se Kazbech lo invita a riprendere la campagna militare interrotta: prima di proseguire l’espansione, Hamdan preferisce consolidare il suo potere in città e nei territori occupati. La morte violenta di Dakhir potrebbe provocare rivolte e Hamdan non vorrebbe trovarsi ad assediare Jabal al-Jadid mentre alle sue spalle le città conquistate insorgono, tagliandolo fuori dai rifornimenti.

Inoltre Hamdan ha la necessità di insediare nelle posizioni di potere uomini di sua fiducia. Per un po’ di tempo non ci saranno nuove spedizioni di conquista.

Kazbech ubbidisce agli ordini del suo nuovo sovrano, ma quando parla con Akram non nasconde il suo malcontento: rimanere inattivi significa dare alle città che si sanno minacciate il tempo di organizzare una difesa, magari anche di convincere Nur ad-Din a intervenire. Bisogna battere il ferro finché è caldo.

Anche Akram vorrebbe che il padre riprendesse la campagna di conquista senza perdere tempo. Tra Akram e il Circasso si stabilisce presto un’intesa, che però viene tenuta segreta: Kazbech mette in guardia Akram da Farid.

- Fa’ attenzione a lui. Hamdan lo designerà come erede, accecato dalla sua preferenza. Ma tutti pensano che tu sia più capace. Questo Farid non può accettarlo.

Akram ha ormai capito che suo fratello è un nemico e che non può contare su suo padre. Freme.

- Che cosa mi consigli di fare, Kazbech, per difendere la mia vita e i miei diritti?

- Puoi contare su di me. Sono il comandante dell’esercito e ho la fiducia di tuo padre, che sa di poter fare affidamento sulla mia lealtà. Terrò d’occhio Farid e ti avvertirò se la tua vita verrà minacciata.

- Ma… tu pensi che mio padre accetterebbe che Farid mi facesse uccidere…

- Forse sì. Sa che Farid deve farlo se vuole regnare senza che nessuno minacci di togliergli il trono.

Akram è sconvolto. Nonostante Kazbech lo avesse già avvertito, ancora gli sembra impossibile che anche suo padre possa volerlo morto. Kazbech prosegue:

- Ma se Farid decidesse di farti uccidere, lo elimineremo e a quel punto sarai l’unico erede. Non ti preoccupare, Akram.

 

Farid ha notato che Kazbech si mostra molto cortese nei confronti di sua sorella. Nabila è una femmina e non partecipa ai banchetti, ma in qualità di comandante dell’esercito e uomo di fiducia di Hamdan, Kazbech ha occasione di vederla in alcuni momenti in cui la ragazza è con il padre e i fratelli: ormai è come se il Circasso facesse parte della famiglia.

Farid ha l’impressione che Kazbech quasi faccia la corte a Nabila. La fanciulla ha solo quindici anni e non vuole esporsi a critiche, per cui è molto riservata, ma non appare insensibile alle attenzioni di Kazbech: il comandante dell’esercito che ha conquistato tante terre esercita anche su di lei un indubbio fascino.

La faccenda infastidisce Farid. Un giorno chiede, a bruciapelo:

- Ti piace Nabila?

Kazbech ride.

- Che cosa vuoi che m’importi di una femmina? Figurati! Ma forse tuo padre me la darà in moglie.

- Cosa?

Farid è scattato come se Kazbech lo avesse schiaffeggiato.

- Che c’è, Farid?

- Vorresti sposarla?! E lo dici a me?!

- Non mi dire che sei geloso, Farid!

Kazbech scoppia a ridere.

- Farid, non essere sciocco. Un guerriero deve sposarsi e avere eredi. Il matrimonio con tua sorella mi permetterebbe di consolidare la mia posizione a corte e di proteggerti meglio dagli intrighi di Akram. Ma non cambierà nulla tra noi, Farid. È una femmina!

Le parole di Kazbech tranquillizzano un po’ Farid, che però non è pienamente convinto. Kazbech sorride.

- Il mio cucciolotto di lupo è geloso di una femmina. Sciocco! Dovresti invece essere contento se tuo padre me la desse in moglie. Potresti suggerirglielo.

- Io? Io? Ma…

- Sì, tu. Ti ascolta volentieri. Ed è anche nel suo interesse, lo sa benissimo. È un modo per assicurarsi che io rimanga con lui. Sa che molti signori in Siria sarebbero ben felici di avere me e i miei circassi al loro servizio.

- Te ne potresti andare?

L’idea sgomenta Farid. Non ha mai pensato a questa possibilità. Kazbech potrebbe mettersi al servizio di un altro? No!

- Non ho intenzione di farlo, Farid, ma io ho scelto di mettermi al servizio di Dakhir e non di tuo padre. Potrei decidere di andarmene in qualsiasi momento. Non sono un suddito obbligato a rimanere fedele al suo signore. E poi…

Kazbech si interrompe.

- E poi? Che cosa c’è, Kazbech?

- Sono stufo di rimanere inattivo. Sono venuto qui per combattere, non per fare il cane da guardia a un emiro pauroso. Se non fosse per te me ne sarei già andato da tempo. Tuo padre è un debole.

Farid annuisce. È spaventato. Non potrebbe accettare di separarsi dal Circasso. Farid abbraccia Kazbech.

- Non te ne andrai, non te ne andrai! Non voglio.

- Rimarrò con te Farid e con il mio appoggio diventerai il signore di tutta la Siria. Ma non sarebbe male se diventassi tuo cognato. Rafforzerebbe la mia posizione e potrei difenderti meglio da Akram.

Farid annuisce. Non è del tutto convinto, anche se si rende ben conto che per Kazbech il matrimonio con Nabila sarebbe soltanto una manovra per rafforzare la propria posizione a corte.

- Ne parlerò con mio padre.

 

Hamdan ha già riflettuto all’opportunità di dare Nabila in moglie a Kazbech: è un modo per legarlo indissolubilmente a sé. Kazbech si era messo al servizio di Dakhir e da tempo è il comandante dell’esercito. Ma non ha un obbligo di fedeltà, non è un suddito. Potrebbe andarsene e chi difenderebbe il regno contro i suoi nemici? Chi soffocherebbe le ribellioni? E se, ipotesi terribile, Kazbech decidesse di mettersi al servizio di un altro signore? Hamdan immagina il Circasso che riconquista, per conto di un altro signore, le città che ha già espugnato una volta: non gli sarebbe difficile, perché sicuramente quasi tutte gli aprirebbero subito le porte, per evitare le sue rappresaglie. Non avrebbero certo paura dell’esercito di Hamdan, privato del suo comandante. E un giorno il Circasso potrebbe presentarsi davanti a Halel e la scelta sarebbe tra una resa ignominiosa e la fine dell’emiro Nidal.

Quando Farid parla, come casualmente, dei vantaggi di un eventuale matrimonio tra Nabila e il comandante dell’esercito, Hamdan dichiara di averci già pensato. Farid informa Kazbech, che però non fa nulla: non sembra interessato ad affrettare questo matrimonio che pure ha detto di volere.

Qualche tempo dopo, è Hamdan stesso a proporre il matrimonio al Circasso.

- Kazbech, non sarebbe ora che tu ti sposassi?

- Forse hai ragione, emiro. Ma solo se ne vale la pena. Non ci si sposa per il piacere.

- Che ne diresti di Nabila? Sono sicuro che le piaci e il vostro matrimonio rafforzerebbe la nostra alleanza, legandoti a Halel.

- Per me è un grande onore, emiro. Ti ringrazio.

 

Per il matrimonio giungono a Halel inviati da tutte le città sottomesse, ma anche da molti altri centri della Siria; nessuno vuole certo inimicarsi il terribile Circasso. Il grande banchetto nuziale vede riuniti emiri e sceicchi da tutto il paese, che offrono doni sontuosi. Perfino Nur ad-Din ha inviato un suo messaggero con un monile per la sposa e una scimitarra con l’elsa istoriata per lo sposo.

Nabila appare intimorita dal gran numero di invitati, ma è orgogliosa di mostrarsi a fianco dello sposo, con indosso i magnifici gioielli che Kazbech le ha donato. Il banchetto è allietato da numerosi musici e danzatori.

I festeggiamenti proseguono per tre giorni, poi gli ospiti ripartono.

 

Farid non è contento di questo matrimonio, ma, su consiglio di Kazbech, ha nascosto il suo malumore. D’altronde non può lamentarsi: ancora la notte precedente Kazbech lo ha ricevuto nella sua camera e il giorno dopo la cerimonia, Kazbech e Farid riprendono i loro incontri quotidiani.

 

Kazbech sonda il terreno con Nabila: vuole conoscerla meglio e sapere se può servirsene per raggiungere i suoi obiettivi. Per quanto giovanissima, la donna gli sembra intelligente. Un giorno, mentre parlano dei fratelli di Nabila, Kazbech le dice:

- Akram e Farid sono disposti a tutto per ottenere il regno.

Nabila annuisce.

- Sì… so che sono gelosi uno dell’altro. Mio padre ha sempre preferito Farid. Ma spetta a lui decidere.

- Certamente. Spetta a lui decidere, ma Akram potrebbe cercare di impedirgli di fare questa scelta.

- E come? Mio padre è ostinato e quando si mette in testa una cosa, non cambia facilmente idea.

- Potrebbe non avere il tempo di designare Farid come erede. Se morisse d’improvviso… o se una malattia gli impedisse di comunicare con gli altri… La morte del servitore ebreo non è certo stata un caso. Probabilmente voleva uccidere Dakhir e tuo padre, versando un veleno nelle loro coppe. Nessuno avrebbe diffidato di lui.

Nabila appare sorpresa e preoccupata. Ciò che Kazbech le racconta la stupisce; si chiede se davvero le cose stanno davvero così. Osserva:

- Ma Bilal è stato punito. Non può più nuocere.

- Lui no, ma Farid e Akram sono impazienti di salire sul trono.

- Ma non è possibile che pensino di fare del male a nostro padre. Sarebbe un’infamia.

Kazbech annuisce.

- Certo. Ma non si può mai sapere. Per il potere alcuni sono disposti a qualunque delitto.

- Bisogna che tu ne parli a mio padre.

- Gliene ho già parlato, Nabila. Ma non voglio angosciarlo troppo. Cerco di tener sotto controllo la situazione.

 

Anche Hamdan si pone il problema della successione. Vorrebbe che fosse Farid a ereditare i suoi domini il giorno in cui lui morirà, ma sa bene che Akram non sarebbe disposto ad accettare di essere del tutto escluso dall’eredità. Conta di associare Farid al trono, tra qualche anno, ma per evitare che ci sia un conflitto tra i suoi due figli, è opportuno che Akram abbia una compensazione.

Hamdan decide di chiedere come sposa per il figlio maggiore la sedicenne Manaar. La famiglia della giovane regna su Tawuq, una cittadina sull’Eufrate, ai confini orientali del territorio di Halel. Il matrimonio è un modo per stabilire un’alleanza e un segno di volontà di pace. Ma per Hamdan l’obiettivo principale è un altro: nella famiglia di Manaar non ci sono eredi maschi, perciò Akram potrebbe in futuro regnare su Tawuq. Hamdan conta di assegnargli anche Halel stessa, mentre a Farid andranno tutte le terre conquistate da Dakhir. Akram non potrà lamentarsi: otterrà le terre ereditarie dell’emiro di Halel e Tawuq. Farid avrà i nuovi territori: Barqah, Marwan, Shaqra e i centri minori conquistati.

Hamdan ottiene il consenso del padre di Manaar, che non vuole inimicarsi il potente vicino. Hamdan stabilisce che Akram vada a vivere presso il suocero dopo un anno di matrimonio: preferisce che sia lontano da Halel, quando assocerà Farid al governo della città.

Il matrimonio è una nuova occasione di festa. Akram è soddisfatto. Kazbech si congratula con lui:

- Questo matrimonio è un’ottima cosa. Lontano da Halel correrai meno rischi.

- E mio suocero potrà appoggiarmi quando mio padre morirà. Tra te e lui, Farid sarà costretto a rinunciare alle sue pretese.

Kazbech lo guarda. Ha un’espressione molto dubbiosa. Akram chiede:

- Non sei d’accordo, Kazbech?

Il Circasso scuote la testa.

- No, Akram. Il matrimonio è una manovra per allontanarti di qui. Quando te ne andrai, tuo padre assocerà Farid al governo. Così Farid avrà modo di tessere la sua rete di alleanze e quando tuo padre morirà, nessuno potrà impedirgli di prendere il potere: saranno tutti dalla sua parte.

- Ma tu…

- Io sono il comandante dell’esercito e tuo cognato, ma non posso decidere chi governa. No, mi spiace, Akram, ma questa manovra di tuo padre è stata una mossa astuta. Una volta che tu sia partito da Halel, le tue possibilità di ottenere l’eredità di tuo padre mi sembrano minime.

- No, se è così… no! Merda! Non voglio… Farid non ha nessun diritto. Ne parlerò a mio padre.

Kazbech abbassa la voce:

- Non dire cazzate, Akram. Il giorno in cui tuo padre sapesse che non intendi rispettare la sua volontà, la tua vita varrebbe molto poco. Davvero molto poco. E non durerebbe a lungo.

Akram tace. È furente, ma sa che deve muoversi con cautela.

- Devo sottomettermi, Kazbech? Accettare di essere escluso?

- Aspetta, Akram. C’è tempo. Finché sarai qui, tutto gioca a tuo favore. E prima che passi un anno, molte cose possono cambiare.

 

Hamdan ha consolidato il suo potere. Regna su un territorio vasto e le città sottomesse versano regolarmente i loro tributi. Dakhir contava di attaccare Jabal al-Jadid e di lì al-Hamra, la Rougegarde dei Franchi. Ma Hamdan continua a rimandare l’organizzazione della campagna militare. Perché correre rischi quando il suo dominio è già molto più vasto di quello che Dakhir ereditò dal loro padre?

A Hamdan non spiacerebbe stabilirsi a Shaqra: il palazzo dello sceicco è una vera meraviglia, ma la città è troppo esposta. Halel, racchiusa tra i monti, offre una maggiore sicurezza.

Sono passati oltre sei mesi dal ritorno a Halel dell’esercito, quattro dal matrimonio di Kazbech con Nabila, tre da quello di Akram. Nabila e la moglie di Akram sono incinte: Allah ha benedetto le nozze.

Hamdan mangia con i figli e il genero. Al termine del banchetto, Kazbech osserva:

- Emiro, che senso ha rimanere ancora inoperosi? Sono oltre sei mesi che non ci muoviamo. Sei mesi in cui Jabal al-Jadid ha rafforzato le sue difese, in cui sono state costruite nuove torri, organizzati sistemi di vedette. Sei mesi in cui Nur ad-Din riceve doni e richieste di aiuto, in cui si sussurra alle sue orecchie che l’emiro di Halel vuole togliergli il dominio sulla Siria, che deve intervenire per fermarlo prima che sia troppo tardi. La primavera è in arrivo: è il momento giusto per partire, prima dei grandi caldi dell’estate.

Hamdan appare infastidito dall’osservazione di Kazbech.

- L’emiro di Halel ha ampliato il suo territorio e anche l’orgogliosa Shaqra è caduta nelle sue mani. Ricevo il triplo dei tributi che riceveva mio fratello. Perché dovrei lanciarmi in nuove imprese, mettendo a rischio ciò che ho conquistato?

Kazbech potrebbe rispondere che Hamdan non ha conquistato nulla: sono stati Dakhir e Kazbech stesso a condurre l’esercito di vittoria in vittoria. Ma non ne vale la pena. Quello che gli interessa è che Hamdan riveli le sue intenzioni in presenza dei figli. Osserva:

- Nuove conquiste porterebbero nuovi tributi e il nome dell’emiro sarebbe temuto e lodato in tutta la Siria. Se rimaniamo oziosi, le città sottomesse potrebbero pensare che non abbiamo più la forza per tenerle sotto il nostro dominio.

Hamdan alza la mano, per interrompere Kazbech. Non ha voglia di sentire altro.

- Le città sottomesse hanno conosciuto la nostra forza e se proveranno ad alzare il capo dal giogo, le schiacceremo nella polvere. Ma altre guerre sono inutili e rischierebbero di indebolire la nostra posizione, come è successo a Shaqra.

Hamdan si allontana e con lui Farid, che di rado si intrattiene con Kazbech quando ci sono altre persone presenti.

Kazbech rimane da solo con Akram. Dopo che i servitori sono stati congedati, Kazbech esprime le sue perplessità:

- La volpe si è infilata nella tana del leone, ma non ha il coraggio del re degli animali. Se rimarremo ancora a lungo inattivi, non riusciremo più a conquistare nulla. I miei uomini sono stufi di oziare, senza nessuna prospettiva di bottino.

Akram annuisce.

- Lo so, quello che dici è vero, ma nostro padre non vuole sentire ragione. Teme rivolte e congiure, preferisce consolidare il suo potere qui.

- Tuo zio Dakhir lo diceva sempre: tuo padre non ha i coglioni. Mi spiace dirtelo, ma è così. Pensa davvero che se rimarremo ancora inoperosi, le città sottomesse non rialzeranno la testa?

- Lo so, Dakhir. Mio padre ama la vita tranquilla. Non è un guerriero.

- I vecchi sono troppo prudenti, chi non osa non può salire davvero in alto. Akram, la verità è che tuo padre ha fatto il suo tempo.

Kazbech sorride e aggiunge:

- Halel ha bisogno di un sovrano giovane e forte, che sappia osare, raccogliendo l’eredità del grande Dakhir.

Akram lo guarda. Sorride, ma mille pensieri si inseguono nella sua mente. Abbassa la voce, mentre osserva:

- Sì, questo è vero, ma mio padre…

Kazbech risponde, come se ciò che dice fosse solo un’osservazione casuale:

- Tuo padre ha ormai cinquantun anni. Un’età a cui è facile essere colpiti da qualche malattia e difficile guarire.

Akram annuisce. Ha capito benissimo ciò che Kazbech ha espresso solo velatamente, ma si chiede che cosa succederebbe dopo la morte dell’emiro. Osserva:

- Mio padre potrebbe designare Farid come erede: ha sempre avuto un debole per lui.

Kazbech alza le spalle.

- Farid è troppo giovane. Non può diventare emiro alla sua età. Non ha l’esperienza e l’autorevolezza necessarie. L’emiro di Halel, un ragazzo che non ha neanche diciott’anni? Non scherzare, Akram.

Akram insiste:

- Ma se mio padre lo designasse…

- Se l’emiro si ammalasse, sarebbe necessario isolarlo, per tenere segreta la sua malattia: se i nostri nemici lo venissero a sapere, potrebbero decidere di approfittarne per attaccarci, sobillando le città sottomesse.

Akram sorride. In effetti se Hamdan non potesse comunicare con nessuno, non potrebbe indicare Farid come proprio erede.

- Farid stesso potrebbe rivendicare il trono.

- Non ci possono essere due eredi in conflitto. Sarebbe un rischio per Halel. Akram, sai benissimo che in molte città l’erede nel momento in cui sale al trono provvede a far eliminare i propri fratelli. È l’unico modo per assicurare la stabilità del regno. Qui non è mai successo, forse, ma quando ci sono rivalità tra fratelli… è per il bene del regno, per evitare guerre che farebbero molti lutti e indebolirebbero Halel.

Akram rimane in silenzio. Kazbech prosegue:

- Bisogna riprendere la campagna ora. Jabal al-Jadid non potrà resistere a lungo. E quella è la capitale degna di un grande sovrano, che di lì potrebbe lanciarsi alla conquista di al-Hamra, che i cani cristiani ci hanno tolto e poi… ma perché parlo? L’emiro preferisce dormire tranquillo nel suo letto, in una piccola città tra i monti, e accontentarsi di ciò che il fratello ha conquistato. Ma non so fino a quando le città sottomesse rimarranno in suo potere: di certo la ribellione già serpeggia.

Akram esita. Kazbech aggiunge:

- Ma questo forse non ti preoccupa. Tu regnerai su Tawuq.

C’è una chiara sfumatura di disprezzo nella voce di Kazbech quando nomina la cittadina. Certo è un piccolo centro, di nessun conto. Kazbech scuote la testa e prosegue:

- Tawuq… Sì, meglio così, un dominio piccolo ma sicuro. Meglio così, anche se Farid perderà le gemme del suo dominio… che ti importa?

Akram stringe i denti. Poi sibila:

- Hai ragione, Kazbech. Mio padre non è più in grado di regnare. Ed è ora di riprendere la campagna militare.

 

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Il giorno seguente, nel pomeriggio, l’emiro Hamdan si sente molto debole e a un certo punto fa fatica a reggersi in piedi. Kazbech, che è insieme a lui, gli consiglia di riposarsi e farsi accompagnare in una delle camere. Quando l’emiro si è coricato, Kazbech mette due dei suoi uomini di guardia, con il compito di non lasciar entrare nessuno, a parte Akram e i due servitori che assistono Hamdan. Poi invia due circassi alla porta dell’appartamento di Farid, con l’ordine di non lasciare uscire il principe e non far entrare nessuno. Manda a chiamare Akram. Quando questi giunge, Kazbech gli dice:

- Tuo padre sta male. Rimani con lui. Io ho mandato due uomini a controllare l’appartamento di Farid: non deve lasciare le sue stanze.

- Assisterò mio padre.

Kazbech raggiunge l’appartamento di Farid. I due uomini di guardia gli dicono che il principe è furente e ha cercato due volte di uscire.

Kazbech entra nella stanza.

- Kazbech! Che cosa succede? Perché non mi vogliono far uscire?

- Farid, tu hai coraggio e sei l’uomo giusto per salire al trono di Halel.

- Perché parli di salire al trono, Kazbech? Mio padre regna… o…

- Credo che la vita dell’emiro giunga alla fine. Akram ha messo in atto i suoi propositi.

- Che cosa dici?

- Tuo padre sta male. Sembra una malattia, ma sono sicuro che è un avvelenamento. Akram voleva farti sopprimere oggi stesso, ma l’ho convinto ad aspettare la morte di tuo padre e gli ho detto che avrei provveduto io stesso a ucciderti.

Farid guarda Kazbech, gli occhi spalancati. Kazbech ride.

- Quando verremo a ucciderti, sarà lui a morire e tu a regnare. Ma di qui ad allora, sostieni bene la tua parte. Tu non sai nulla, se non che tuo padre sta male e che non puoi uscire di qui. Vorresti accorrere da tuo padre, ma te lo impediscono.

Farid annuisce.

Kazbech dice:

- Tra poco sarai l’emiro.

Farid è spaventato, sa che corre molti rischi e l’idea che suo padre stia morendo lo angoscia: Hamdan gli ha sempre voluto bene. Ma Akram l’ha avvelenato e ormai Farid deve lottare per la sua vita. Per fortuna può contare su Kazbech.

 

L’emiro Hamdan non è più apparso in pubblico. Pare che sia malato. Era in ottima salute, ma ci sono malattie che vengono improvvise e non lasciano scampo. Se Allah ha inviato l’angelo della morte, non rimane che chinare il capo: al suo volere nessuno può opporsi.

Tutti si chiedono se Hamdan ha designato come successore Farid, che è sempre stato il suo preferito, o Akram. Il figlio maggiore è più esperto, ha già retto Halel durante l’ultima campagna militare dello zio, quella in cui Dakhir ha trovato la morte. Farid è molto giovane, è inadatto a governare. E il Circasso? È un uomo potente, ha sposato la figlia dell’emiro, di sicuro non starà a guardare e quello dei due figli che avrà il suo appoggio, ha ottime probabilità di poter governare. Molti non sono contenti del potere che ha questo straniero. Alcuni sperano che il nuovo emiro se ne sbarazzi. Ma se Kazbech verrà allontanato, le città sottomesse non staranno a guardare: senza il Circasso, con un emiro giovane e inesperto, Halel corre molti rischi.

 

L’emiro Hamdan respira a fatica. Il suo corpo è madido di sudore e invano un servitore gli passa uno straccio bagnato per pulirlo: dopo pochi minuti nuovi rivoli scendono sul viso, sul petto e sul ventre.

Hamdan sa che sta per morire. Da quattro giorni non è più in grado di alzarsi dal letto su cui giace, ormai non riesce più nemmeno a muovere le braccia e a parlare. Un dolore violento gli scava il ventre. A tratti la vista gli si annebbia e non distingue più nulla.

I servitori cercano di farlo bere, ma la lingua è gonfia e pochissima acqua scende in gola al re, provocando accessi di tosse.

Hamdan alterna periodi di lucidità ad altri in cui il mondo sembra scomparire in un grande vuoto. In questo momento i suoi occhi non sono spenti.

Vede avvicinarsi Akram, il figlio maggiore. Con lui c’è Kazbech. L’emiro sospetta che siano stati loro ad avvelenarlo. Da quando è stato costretto a letto, Hamdan non ha più visto il figlio minore, Farid. È ancora vivo o lo hanno già ucciso?

Akram ordina ai due servitori che assistono l’emiro di uscire e rimanere nel corridoio.

- È tempo di concludere, padre. Questa lunga agonia mette in pericolo il regno. L’emiro deve essere in grado di regnare.

Hamdan ha capito. Vorrebbe gridare il suo disprezzo a suo figlio, al suo assassino, ma non può parlare, non può neppure fare un gesto. Guarda Akram fare segno al Circasso, che prende un cuscino e lo appoggia sul viso dell’emiro, premendo.

È breve l’agonia di Hamdan, che non può difendersi. L’incendio che si accende nei suoi polmoni lo trascina nel nulla. Quando il Circasso toglie il cuscino, l’emiro giace immobile, gli occhi spalancati. Il torace non si solleva più nella respirazione affannosa di prima.

Akram e il Circasso escono dalla stanza e ordinano ai servitori di seguirli. Una cella sotterranea accoglie i due uomini. Invano uno di loro chiede pietà. L’altro, più anziano, tace: ha capito che l’emiro è morto e che anche loro sono morti.

 

Akram pensa che ormai è il nuovo emiro, grazie a Kazbech, questo guerriero valoroso che lo ha aiutato. Ma, per quanto riconoscente nei confronti del Circasso, Akram non è ingenuo. Sa che Kazbech è un alleato formidabile, ma anche un uomo ambizioso e perciò pericoloso: questo eroe capace di espugnare ogni città e sconfiggere ogni avversario, può trasformarsi in un nemico mortale. Quando Nur ad-Din sarà stato sconfitto, i franchi ricacciati in mare e l’Egitto sottomesso, probabilmente Akram lo farà eliminare: un po’ di veleno nella coppa e il banchetto del trionfo diventerà il banchetto funebre del comandante dell’esercito. Ma per questo c’è tempo. Adesso la vita del Circasso è preziosa: perdere ora un comandante valoroso come Kazbech sarebbe un peccato e rischierebbe di compromettere i piani di conquista.

 

Nella sua stanza, sorvegliata dalle due guardie, Farid aspetta. Tra poco arriverà suo fratello. Kazbech glielo ha annunciato. Suo padre ormai dovrebbe essere morto. Questa sera stessa il nuovo emiro salirà al trono. Il nuovo emiro. Farid sorride, ma poi il sorriso scompare. Farid è inquieto. 

La porta della stanza si apre. Entrano Akram e Kazbech.

Farid si rivolge al fratello:

- Akram, fratello mio, nostro padre sta morendo e io non posso nemmeno dirgli addio. Mi tieni qui prigioniero. Voglio porgergli l’ultimo saluto.

Akram ride.

- Farid, chi vuoi ingannare? Sai benissimo qual è la situazione. Non c’è posto per due maschi nella nostra famiglia. Sai dove si trova nostro zio, in che condizioni.

Farid conosce bene le condizioni di Bilal, accecato ed evirato e ora schiavo in un villaggio tra i monti del Nord: il fratello dell’emiro è incatenato a una macina, che deve far girare tutto il giorno. Hamdan diceva di non aver voluto sporcarsi del sangue del fratello, ma ucciderlo sarebbe stato un atto di pietà.

Farid è inorridito:      

- Vuoi accecarmi e mandarmi a girare una macina in qualche villaggio, come uno schiavo?     

- No, Farid. Mi sembra una crudeltà inutile. Ma ti rendi conto anche tu che non è possibile che tu viva, ora che nostro padre è morto e io salirò al trono.

Farid finge rabbia e stupore.

- Nostro padre è morto? L’hai ucciso tu, maledetto!

Akram scuote le spalle.

- Kazbech, a te.

Il Circasso scioglie il laccio che stringe la tunica e aprendo le braccia lascia che l’indumento scivoli al suolo. Ora indossa soltanto la fascia che gli cinge i fianchi e Farid fissa affascinato quel corpo, che ha sempre destato in lui un desiderio violento. Le mani del Circasso si muovono agili e in un attimo il laccio della tunica è divenuto un cappio. Per un momento Farid pensa che davvero il Circasso voglia ucciderlo, venendo meno al loro patto. Scuote la testa, arretrando verso la parete.

- No, no!

Akram sorride.

- Come vedi, Farid, la tua ora è giunta. Ma la tua fine sarà rapida e…

Non conclude la frase, perché il Circasso si è spostato dietro di lui con uno scatto felino e gli ha già passato il laccio intorno al collo, cominciando a stringere. Akram porta le mani al collo, per allentare la stretta mortale. Farid ride, sollevato: Kazbech tiene fede ai patti.

Farid schernisce Akram:

- Fratello, non sarò io a morire oggi.

La forza erculea del Circasso potrebbe avere facilmente ragione della resistenza di Akram, ma il Circasso sembra non avere fretta. Gli piace uccidere, gli è sempre piaciuto. Gli piace sentire la sua vittima lottare contro la morte. Akram è un uomo forte e ucciderlo è per Kazbech un grande piacere.

Akram sente che le forze gli mancano. Perde il controllo dei visceri e un odore di merda si diffonde nella stanza, mentre il piscio cola attraverso la stoffa formando una pozza sul pavimento. Kazbech stringe ancora, poi, con un ultimo strattone del laccio, fa cadere il corpo a terra.

- Crepa nella tua merda, povero coglione.

Farid ha guardato affascinato la morte del fratello. Ora sarà lui il re e avrà sempre Kazbech al suo fianco.

- Hai mantenuto la tua parola, Kazbech.

Il Circasso annuisce. Si toglie la fascia, che non riesce più a coprire la formidabile erezione. Farid guarda, ammutolito, il magnifico cazzo che diverse volte lo ha posseduto.

Kazbech si avvicina a lui, gli pone le mani sulle spalle e lo forza a inginocchiarsi.

- Succhialo, Farid.

Farid annuisce. Non desidera altro. Prende in bocca l’arma, ne sente l’odore, intenso, il calore, la consistenza. Succhia con foga. Gli piace, il cazzo del Circasso. Gli piace succhiarlo, leccarlo, accarezzarlo con le mani, stringerlo. Gli piace anche prenderselo in culo, purché Kazbech entri con delicatezza: la sua è davvero un’arma letale.

Kazbech lo lascia lavorare a lungo, poi dice:

- Adesso basta. Sul letto.

Farid si stende prono e allarga le gambe. Tra poco accoglierà il cazzo poderoso del Circasso, lo sentirà riempirgli le viscere.

Kazbech si stende su di lui, ma questa volta l’ingresso avviene senza nessuna cautela: è un coltello che lo squarcia. Farid urla.

- No, non così. No, toglilo, ti prego, toglilo. Mi fa male.

Ma Kazbech non ascolta le suppliche di Farid. Poco gli importa della sofferenza del giovane. Il Circasso spinge con violenza, senza frenarsi, a differenza di come ha sempre fatto fino a ora.

Farid ha le lacrime agli occhi

- Basta, ti prego, basta!

Il Circasso non gli bada. Ride. Continua a spingere, dilaniando le viscere di Farid. E finalmente il getto prorompe. Allora Kazbech si ferma.

Farid si lamenta:

- Mi hai fatto male, Kazbech. Perché sei stato così brutale?

Kazbech non risponde.

Il dolore si attenua lentamente, mentre il cazzo del Circasso perde consistenza e volume. Farid riprende fiato. Perché Kazbech lo ha preso in questo modo? Probabilmente la rabbia nei confronti di Akram, che minacciava la sua vita.

Farid guarda il cadavere del fratello. Akram è morto, non potrà più fargli male. E oggi stesso lui salirà sul trono.

Improvvisamente Farid sente le mani del Circasso intorno al suo collo. Solo ora, in un lampo, capisce: non sarà lui a regnare, dopo la morte del padre. Come ha potuto pensare che Kazbech fosse disposto a uccidere Akram solo per far regnare lui, Farid? Kazbech salirà sul trono. Un terrore cieco lo invade.

- No, risparmiami! Ti prego. Ti servirò fedelmente.

Kazbech ride.

- Hai bevuto il mio piscio e volevi essere il mio signore, Farid?

Il Circasso non ha fretta. Farid sente che nel suo culo lo spiedo riacquista consistenza: a Kazbech piace uccidere. Il Circasso stringe e fotte. Farid cerca di allentare la stretta, ma riesce appena a lasciare con le unghie qualche segno rosso sulle mani del suo assassino. Farid non riesce a respirare, il dolore diventa intollerabile, poi il mondo sprofonda in un vortice.

Il Circasso conclude l’opera.

Si alza. Guarda i cadaveri dei due figli dell’emiro. Sorride.

Esce dalla stanza e dà alcuni ordini. Poi fa chiamare Imad e lo manda da Manaar, insieme a quattro guardie.

Imad comunica alla giovane che Akram è morto. Una buona sposa deve seguire il marito nella morte. La donna è sconvolta e incredula: non le sembra possibile che il marito sia morto e che vogliano davvero far morire anche lei. Quando capisce che è così, Manaar si dispera e invoca pietà: aspetta un bambino, non possono costringerla a uccidersi. Non capisce che proprio l’essere incinta è la sua condanna a morte.

Due guardie la tengono ferma mentre Imad prepara il laccio a cui viene impiccata.

 

I cortigiani guardano stupiti la sala del trono: ai piedi dei gradini che conducono al seggio reale vi sono il comandante dell’esercito, Kazbech il Circasso, e accanto a lui Nabila, la figlia dell’emiro, che è pallidissima. Non c’è traccia né di Akram, né di Farid, i due figli maschi dell’emiro, gli eredi. Come molti sussurrano, il sovrano deve essere morto nel pomeriggio. Perché il nuovo emiro non è lì ad annunciare la notizia e prendere possesso del trono, come impone il rituale?

Il Circasso sale i tre gradini che portano al trono e si volta verso di loro. Al suo fianco si mette Nabila, che non riesce a nascondere il suo tremito.

- Oggi è un giorno di lutto e sciagura per il regno di Halel. L’emiro Hamdan e i suoi due figli, Akram e Farid, sono stati chiamati a sé dall’Onnipotente.

Stupore e terrore si dipingono sul volto dei presenti. Il Circasso prosegue:

- Oggi è un giorno di gioia per il regno di Halel. Salutate il vostro nuovo emiro e la sua consorte regale.

Kazbech e Nabila si siedono sul trono, uno a fianco dell’altra. Nabila sembra sul punto di scoppiare a piangere.

C’è un momento di silenzio. Ma il Circasso sta fissando i cortigiani, con i suoi occhi che paiono trafiggerli. Non perde uno solo dei loro gesti, delle loro espressioni. Ogni esitazione è mortale.

Il grido prorompe, prima incerto, poi più sicuro, man mano che tutti si uniscono al coro di lodi, con crescente entusiasmo, per nascondere il loro sgomento e cancellare l’impressione che il silenzio iniziale può aver trasmesso.

- Gloria all’emiro e alla sua consorte. Gloria. Allah li protegga.

Il Gran Consigliere arriva fino ai piedi della scalinata e si prosterna. Poi sale i gradini e bacia i piedi dei nuovi sovrani. Seguendo il suo esempio, tutti i cortigiani,  uno dopo l’altro, avanzano fino al trono, si inchinano davanti a Kazbech e Nabila e baciano loro i piedi. Nabila sta piangendo.

 

*

 

Tra i notabili il malcontento è forte: il Circasso ha affidato diversi posti di comando a uomini che godono della sua fiducia e parecchi sostenitori di Hamdan si sono visti privare delle loro cariche.

Tutti hanno paura e chinano il capo. Ma qualcuno non intende sottomettersi a questo sovrano straniero.

Suleiman, uno dei consiglieri di Dakhir e di Hamdan che Kazbech ha deposto, parla con Yunus, che ha subito la sua stessa sorte.

- Un circasso. A che titolo regna? Per aver sposato la figlia dell’emiro?

- Perché è il comandante dell’esercito e perché se qualcuno sentisse ciò che vai dicendo, tu saresti un uomo morto.

- Vuoi dire che dovremmo tollerare questa situazione?

- Che cosa possiamo fare?

- C’è l’emiro legittimo, Bilal. Bisogna rimetterlo sul trono, al posto dell’usurpatore.

- Bilal è stato accecato e castrato.

- Può tornare a regnare.

- Un eunuco come emiro? E anche cieco.

- È l’erede. E noi saremo al suo fianco.

Yunus appare perplesso. Suleiman insiste:

- E quando sarà il momento, cercheremo un erede. Per questo c’è tempo. Bilal ha una figlia: la si può dare in moglie all’erede designato.

- E come pensi di fare per rimetterlo sul trono?

- Nell’esercito molti fremono sotto il giogo ferreo del Circasso, uno straniero. Dobbiamo parlare con gli ufficiali e con gli uomini delle famiglie principali.

- È una follia. Se fossimo scoperti…

- Non ci scoprirà se non quando lo uccideremo.

Yunus ascolta. Ha paura, ma sa che molti mal sopportano il giogo del Circasso.

Non è facile organizzare la congiura. Bisogna muoversi con cautela, perché se si venisse scoperti sarebbe la fine, una fine sicuramente orrenda. In gran segreto Yunus e Suleiman contattano coloro che sono ostili al nuovo emiro.

In una settimana il piano è pronto. Una delegazione di cittadini chiederà udienza a Kazbech. Forse saranno perquisiti, per cui non porteranno con sé armi, ma un soldato metterà i pugnali in una cesta nella sala delle udienze. Gli uomini in attesa di parlare con Kazbech li prenderanno e si avventeranno su di lui. Sono in dodici, ma nell’esercito ci sono altri pronti a sostenerli: nella congiura sono entrati oltre trenta uomini, che hanno giurato di uccidere l’usurpatore e rimettere sul trono l’unico erede legittimo.

I dodici si presentano nella sala delle udienze. Le guardie controllano che non abbiano armi, ma non è una perquisizione accurata: sembrano non diffidare.

Ora i cospiratori sono al cospetto di Kazbech. La cesta con le armi è sul fondo della sala. Mentre Kazbech congeda due messaggeri con cui ha parlato, uno dei congiurati, nascosto alla vista dagli altri, apre la cesta. Reprime a fatica un grido di stupore: la cesta è vuota. Il soldato che doveva mettere i pugnali è stato scoperto? O non è riuscito a svolgere la sua parte per la presenza di qualcun altro?

Kazbech intima:

- Venite avanti.

I dodici uomini avanzano, confusi. Dopo che si sono tutti inchinati davanti all’emiro, Yunus dice che la delegazione è venuta a salutarlo, prima della sua partenza per la campagna militare, e ad augurargli che Allah onnipotente lo assista.

Kazbech sorride e risponde:

- Avete bisogno voi ben più di me dell’assistenza di Allah.

A quelle parole cento soldati compaiono come dal nulla: alcuni erano dietro le tende, altri nelle stanze vicine, tutti pronti a intervenire. In un attimo sono intorno ai congiurati e li arrestano. Solo Suleiman non viene arrestato. Yunus capisce:

- Tu, infame! Era una trappola.

Suleiman

- In cui siete tutti cascati, poveri coglioni.

 

L’esecuzione dei trentadue congiurati dura tre giorni e nessuno degli abitanti di Halel scorderà mai le scene a cui ha assistito. Ogni attività è stato sospesa e tutti hanno dovuto vedere la fine riservata a chi ha osato tramare contro il nuovo emiro.

Nelle taverne e nei mercati, nelle piazze e nei campi, nessuno osa pronunciare il nome del Circasso, se non per lodarlo e augurargli lunga vita. Ognuno vede nel vicino una possibile spia e tiene per sé i suoi pensieri. Molti preferiscono non formularli neanche, quei pensieri, quasi temendo che qualcuno possa leggerglieli in fronte.

Ora che Kazbech si è assicurato la fedeltà dei suoi sudditi, può partire per la campagna militare. La moglie di Bilal è stata trovata impiccata, accanto al corpo senza vita della figlia: di certo la donna si è uccisa dopo aver soppresso la figlia. Rimane solo ancora una cosa da fare. Quattro soldati partono per una località del nord, sperduta tra i monti.

 

Bilal non sa che qualcuno ha pensato di liberarlo per metterlo al posto del Circasso. Spinge la macina, il corpo madido di sudore, spossato. Gli sembra di non aver mai fatto altro nella vita. Il suo passato sprofonda nel buio che lo avvolge.

- Fermati.

Bilal obbedisce. Ha imparato l’obbedienza.

È ancora presto, non è l’ora di mangiare. Che cosa vogliono da lui?

Gli tolgono le catene.

- Inginocchiati.

Bilal obbedisce. Intuisce che è giunta la fine e prova soltanto sollievo.

L’uomo dice:

- Bilal, l’emiro di Halel e Marwan, Barqah e Shaqra, il grande Kazbech, ha deciso di mettere fine alle tue sofferenze.

Bilal ha un sussulto: Kazbech, emiro! Poi scoppia a ridere. Certo! Non poteva essere altrimenti. Hamdan, Farid, Akram erano solo pedine destinate a essere sacrificate. Come Bilal stesso.

Mentre l’uomo gli passa il laccio intorno al collo, Bilal chiede:

- Che ne è di Hamdan e dei suoi figli?

- Allah li ha chiamati a sé.

Bilal annuisce: lo sapeva, ne era certo.

- E di mia moglie, di mia figlia?

- Allah ha chiamato anche loro.

Bilal china il capo. Recita la professione di fede, mentre il laccio del soldato si stringe intorno al suo collo. Poi con un movimento istintivo alza le braccia per cercare di allentare la presa. Ma già la sua mente si sta spegnendo. Le braccia ricadono inerti. Quando il soldato lascia il laccio, il corpo scivola a terra. Il cadavere viene riportato a Halel, dove verrà sepolto: tutti devono sapere che Bilal è morto e che Kazbech dà pietosa sepoltura ai parenti della moglie. Kazbech farà costruire un mausoleo, con un monumento funebre per Dakhir e i suoi due fratelli, per i due figli di Hamdan e per le donne della famiglia. Tutti lodano ad alta voce gli onori che Kazbech rende ai defunti. Kazbech è un uomo pio.

 

Kazbech riprende la campagna di conquiste che Hamdan ha interrotto. Kazbech vuole la Siria intera e se riuscirà ad averla non si fermerà neppure allora. La prossima meta è Jabal al-Jadid.

Suleiman rimane a Halel come governatore della città.

 

*

 

Ashraf ibn Harun, emiro di Jabal al-Jadid, ha convocato i notabili del regno. I suoi informatori gli hanno comunicato che il Circasso sta marciando verso la città e tra pochi giorni giungerà sotto le mura. Ashraf sa benissimo che gli verrà intimato di arrendersi. Vuole sentire l’opinione dei suoi consiglieri.

Ashraf espone brevemente la situazione, di cui tutti sono già a conoscenza:

- Sapete che l’emiro di Halel, Kazbech il Circasso, si avvicina a Jabal al-Jadid alla guida del suo esercito. Entro qualche giorno riceverò una richiesta di resa. Posso scegliere di consegnare la città, che passerà sotto il giogo del Circasso, oppure decidere di resistere, nella speranza di sconfiggerlo e di liberare la Siria una volta per sempre da questa minaccia.

I notabili si guardano, sgomenti. Poi uno di loro parla:

- Emiro, che Allah ti conservi. Tu sai bene ciò che è successo a chi ha cercato di opporsi al Circasso. L’emiro di Barqah e i suoi figli hanno incontrato una morte orrenda e non dico, per decenza, che cosa è successo alle donne della famiglia, lo sappiamo tutti. Lo sceicco di Marwan si è sottratto a una fine altrettanto orribile solo dandosi la morte. Potrei continuare ancora. Che senso ha resistere? Il Circasso regna su un vasto dominio, il suo esercito è forte e assai più numeroso del nostro.

Ashraf freme, ma non dice nulla. Gli altri uomini concordano con il primo che ha parlato. Nessuno lo dice, ma tutti hanno paura delle rappresaglie del Circasso. Troppi notabili sono andati incontro a una fine orribile perché i signori delle loro città hanno osato opporsi al Circasso.

Ashraf si rende conto che è inutile insistere. Congeda i maggiorenti di Jabal al-Jadid. Quando sono usciti, si rivolge a Barbath, che è rimasto al suo fianco durante il consiglio. Ashraf non gli ha chiesto di esprimersi e il comandante dell’esercito non ha detto nulla. Adesso però Ashraf vuole sapere che cosa ne pensa:

- Barbath, qual è il tuo pensiero?

- Emiro, l’esercito del Circasso è più numeroso del nostro, di gran lunga, ma i nostri uomini sono coraggiosi e se tu lo ritieni opportuno, affronteremo il nemico. Ti consiglio solo di mettere tuo figlio in salvo, per evitare che in caso di sconfitta subisca la sorte dei figli di Nidal.

- “In caso di sconfitta”. Anche tu pensi che non possiamo costringere il Circasso a ritirarsi.

- Non posso mentirti, emiro. I nostri uomini sono determinati e non arretreranno per paura, ma il Circasso regna su molte città e ha con sé molti più guerrieri.

Anche Ashraf lo sa: ormai l’emiro di Halel regna su un vasto territorio e non è più uno dei tanti signori del nord. La disparità di forze è molto grande.

- E io dovrei arrendermi, consegnare Jabal al-Jadid a quest’uomo che ha ucciso mio fratello, che ne ha esposta la testa infilzata su un palo davanti al palazzo… Jabal al-Jadid che già apparteneva a mio nonno e prima di lui ai suoi antenati. Sono trecento anni che regniamo su questa città…

- Emiro, sei tu a comandare. Farai quello che ritieni giusto e ti garantisco che l’esercito eseguirà i tuoi ordini senza esitare.

- Grazie, Barbath.

Ashraf congeda il comandante dell’esercito e riflette. Sa che sarebbe più saggio consegnare la città, ma non sopporta l’idea di umiliarsi come ha fatto Nidal, per poi magari subire la stessa sorte solo per un capriccio del Circasso. E se il Circasso lo tenesse in vita, Ashraf diventerebbe un suo servitore. Probabilmente Kazbech vuole stabilire la capitale proprio a Jabal al-Jadid: Halel è troppo lontana dal cuore della Siria. Che ne sarebbe di Ashraf? Ashraf potrebbe abbandonare ora la città e rifugiarsi a Damasco, ma non vuole che tutti lo giudichino un vile.

No, non ci sono vie d’uscita. Ashraf convoca Barbath ed espone la sua decisione:

- Resisteremo, Barbath. Chiederemo aiuto a Nur ad-Din.

Barbath non si aspettava una decisione diversa: conosce il suo signore.

- Credi che Nur ad-Din interverrà a favore di Jabal al-Jadid?

- Tu pensi di no, vero?

- No. Non intende misurarsi con il Circasso finché può evitarlo.

- Ma così il Circasso acquista ogni giorno più potere e finirà per prendere il suo posto.

- Nur ad-Din lo sa benissimo, ma spera che il Circasso venga ucciso in battaglia o venga sconfitto.

- Ci lascia andare al macello… Vile!

Barbath tace.

Ashraf riprende:

- Barbath, dobbiamo organizzare la resistenza.

- Pensi di affrontare il Circasso in campo aperto o di asserragliarti in città?

- Ci prepareremo a sostenere un assedio.

Barbath medita un momento, poi osserva:

- Ci conviene radunare tutti gli uomini e abbandonare le fortezze, che non potrebbero resistere a lungo al Circasso. Inutile lasciare che i nostri soldati vengano massacrati, senza nessuna speranza di fermare l’esercito nemico. È meglio avere tutti gli uomini validi in città.

Barbath pensa davvero ciò che sta dicendo. Ma una domanda si affaccia nella sua mente: se il comandante della fortezza più esposta non fosse Feisal, avrebbe dato lo stesso consiglio? Ciò che ha detto è sensato: la guarnigione di Qasr Rim non potrebbe resistere a lungo, potrebbe solo far perdere un po’ di tempo al Circasso. Ma sono mesi che Jabal al-Jadid si prepara a un assedio: a nulla servirebbero alcuni giorni in più. È molto più importante avere il maggior numero possibile di uomini su cui contare.

 

Nei giorni seguenti le fortezza vengono evacuate e gli uomini delle guarnigioni si installano a Jabal al-Jadid.

Quando vede arrivare Feisal alla testa dei suoi uomini, Barbath prova una strana sensazione di euforia. Moriranno entrambi, su questo non ha nessun dubbio, ma è felice di poter parlare ancora un po’ con lui, di fare insieme un pezzo di strada. Verso la notte, sì, è la notte quella che li attende, presto. Ma questi giorni rubati alla morte sono una gioia.

 

Pochi giorni dopo, un messaggero inviato dal Circasso si presenta da Ashraf. Non ha portato con sé la testa del comandante di una fortezza, ma è ugualmente sprezzante. Invece di inchinarsi, fa appena un breve cenno con il capo, poi trasmette il messaggio, senza nemmeno una formula di saluto:

- Il mio signore, l’emiro Kazbech, sarà qui tra tre giorni. Ti intima di arrenderti e consegnargli la città, se non vuoi andare incontro a una morte terribile. Sai che cosa è successo a chi ha osato cercare di resistere alla sua forza. Allah lo guida.

Ashraf freme.

- E con quale diritto il tuo emiro rivendica una città che appartiene alla mia famiglia da generazioni?

Il messaggero alza le spalle. Non gli interessa rispondere alla domanda di Ashraf.

- Preoccupati piuttosto di ciò che sarà di te se osi resistere.

Ashraf ha deciso di non cedere e la tracotanza del messaggero lo fa infuriare.

- Prostrati, cane, se vuoi uscire vivo da questa sala.

Il messaggero non si aspettava una simile reazione, ma mantiene il suo tono sprezzante:  

- Bada a ciò che fai, emiro.

- Prendetelo, guardie!

L’uomo si dibatte, ma le guardie lo tengono.

- Mozzategli la lingua e cavategli gli occhi, poi rimandatelo al suo signore.

Il messaggero non chiede pietà, ma inveisce:

- Cane, tutto ciò che i tuoi uomini mi faranno, l’emiro Kazbech lo farà a te, moltiplicato per cento.

Barbath non ha detto nulla, ma non condivide la decisione dell’emiro: il messaggero è un impudente ed è giusto punirlo, ma la ferocia del castigo susciterà una maggiore crudeltà nel Circasso e saranno i cittadini a pagare.

Il messaggero viene portato via e la punizione eseguita. Viene poi caricato su un carro, perché non sarebbe in grado di trovare la strada. Gli uomini che conducono il carro lo lasciano solo quando vedono in lontananza alcuni soldati di Kazbech inviati in avanscoperta.

 

Ashraf congeda tutti i presenti e rimane con Barbath.

- Barbath, usciremo per affrontare il Circasso in campo aperto.

Barbath è disorientato. Fino a ora Ashraf ha sempre parlato di difendere la città, non di dare battaglia.

- Emiro, l’esercito del Circasso è ormai vicino e non abbiamo il tempo di scegliere una posizione favorevole per affrontarlo…

Ashraf lo interrompe.

- Lo affronteremo. Domani mattina l’esercito uscirà. Valuta tu dove ci conviene cercare lo scontro.

Barbath conosce l’emiro e sa che quando ha deciso qualche cosa, anche se trascinato dall’emozione del momento, è impossibile fargli cambiare idea. Giudica la sua mossa suicida, ma non può che obbedire.

Barbath dà tutti gli ordini necessari perché l’esercito si prepari, poi studia il luogo in cui conviene attendere il nemico e la disposizione delle truppe. Sa che la battaglia sarà persa e si preoccupa di assicurare la possibilità di una ritirata ordinata, che permetta a Jabal al-Jadid di resistere all’inevitabile assedio: se la sconfitta nel combattimento comportasse una fuga disordinata, l’esercito verrebbe decimato e non sarebbe più possibile difendere la città.

Barbath individua l’area in cui affrontare il nemico: un territorio collinoso, a poche ore di marcia da Jabal al-Jadid, dove è possibile dispiegare l’esercito in modo adeguato e predisporre truppe di rinforzo in alcuni punti strategici.

Barbath dispone i suoi uomini secondo il piano elaborato. Il grosso dell’esercito si schiera su due colline: se le truppe del Circasso cercheranno di passare sul fondovalle, saranno attaccate da entrambi i lati. Per evitarlo, dovranno lanciarsi su una delle due colline o su entrambe, combattendo in una posizione svantaggiosa. Barbath sa benissimo che di fronte alla disparità di forze la buona disposizione dell’esercito avrà un peso minimo, ma fa tutto quanto è in suo potere.

Barbath si stabilirà su una delle due colline, sull’altra le truppe saranno guidate da Feisal. Barbath si dice che con ogni probabilità domani sera saranno entrambi morti o forse uno di loro sarà vivo e rimpiangerà di esserlo.

 

Le truppe nemiche appaiono nella tarda mattinata. Dall’alto della collina dove si trovano, Ashraf e Barbath le guardano avanzare. Ashraf guarda sgomento l’immenso esercito che si avvicina, mentre sempre nuovi soldati compaiono all’orizzonte.

Solo ora Ashraf comprende di aver fatto un errore a decidere di affrontare il Circasso in campo aperto, ma ormai è tardi.

Barbath dice:

- Emiro, lanciamo l’attacco.

- Non conviene attendere domani mattina? Ci sono poche ore di luce.

- Emiro, queste ore saranno sufficienti per decidere le sorti della battaglia.

Barbath non completa il suo pensiero: se saranno sconfitti, il buio della notte e la presenza di alcuni contingenti che Barbath stesso ha dislocato nelle posizioni opportune lungo il percorso per Jabal al-Jadid permetteranno di ritirarsi contenendo le perdite. Con la luce del giorno, sarebbe per tutti loro difficile sfuggire a Kazbech.

È il Circasso a lanciare l’attacco contro le due postazioni nemiche.

Inizialmente le truppe arroccate sulle colline riescono a respingere l’avanzata, ma l’attacco non si ferma e le nuove ondate di assalitori finiscono per avere la meglio. I soldati del Circasso riescono a forzare le difese e lo stesso Ashraf verrebbe catturato, se Barbath non si lanciasse in avanti, facendo strage dei nemici. La morsa degli uomini del Circasso si allenta e Ashraf riesce e ritornare tra i suoi uomini. Ma la battaglia ormai è persa.

- Emiro, se vogliamo difendere Jabal al-Jadid dobbiamo ritirarci. Altrimenti troveremo una morte gloriosa sul campo di battaglia.

Ashraf pensa che forse sarebbe meglio morire: ormai non ci sono più speranze. Sa benissimo che Barbath salvandolo ha solo rinviato la sua morte. Ma vuole almeno mettere in salvo il figlio, come gli ha consigliato Barbath. Avrebbe dovuto farlo prima, ma si è illuso di riuscire ad avere la meglio sul Circasso.

- Ritiriamoci.

L’esercito di Ashraf ripiega. È una ritirata ordinata, che permette di portare in salvo una parte consistente delle truppe. L’esercito del Circasso li incalza, ma i piccoli gruppi che Barbath ha disposto per coprire la ritirata bersagliano il nemico di frecce e lance, disorientando gli inseguitori, che temono di cadere in una trappola. Ormai sta scendendo la sera e il Circasso sceglie di fermarsi: la battaglia è stata vinta, Jabal al-Jadid cadrà.

Ashraf e Barbath raggiungono la città. Barbath rimane fuori, con un piccolo gruppo di uomini, per accogliere chi arriva e tenere sotto controllo la situazione: bisogna chiudere le porte prima che giungano i nemici, ma cercare di permettere il rientro del maggior numero possibile di soldati.

Seguendo le istruzioni ricevute da Barbath, i gruppi di soldati dislocati in posizioni distaccate rientrano in città: tra di loro ci sono quelli guidati da Qais e da Mahdi.

Mancano ancora Feisal e i suoi uomini, che controllavano la collina opposta a quella su cui si trovavano Barbath e Ashraf. Man mano che il tempo passa, Barbath vede svanire la speranza che Feisal ritorni. Un dolore violento gli scava dentro, con un’intensità che lo sgomenta.

Quando Barbath ha incominciato a ritirarsi, le truppe di Feisal stavano ancora difendendosi. Anch’essi avevano l’ordine di ritirarsi, ma con ogni probabilità gli uomini del Circasso sono riusciti a sbarrare loro la strada. Barbath spera solo che Feisal non sia caduto vivo nelle mani del Circasso.

La luna sta tramontando, la notte diventa più scura, anche se l’alba non è più lontana. A Barbath sembra che anche dentro di lui sia piombato un buio profondo.

Barbath fissa l’oscurità in cui non riesce a distinguere nulla e nella sua mente scorrono immagini degli ultimi mesi. Quel giorno al fiume, quando si sono bagnati e per la prima volta Barbath ha capito di desiderare il corpo di Feisal.  L’ultima volta che si sono parlati a tu per tu, l’altra sera, quando Barbath gli ha dato le istruzioni, affidandogli il comando delle truppe stanziate sull’altra collina. Barbath rivede il sorriso di Feisal, il suo viso non bello. Ripensa al corpo di Feisal. E una disperazione atroce scava dentro di lui.

Il cielo si sta schiarendo a oriente. Da tempo non è arrivato più nessun soldato. Barbath non ha lasciato la posizione. Ha trascorso una notte insonne, combattendo contro il dolore che lo sommerge.

D’improvviso si sente lo scalpitio di un gruppo di uomini che arriva a cavallo. È ancora troppo buio per vedere.

- Chi va là?

- Feisal.

Barbath ringrazia Allah e l’intensità della gioia che prova lo stordisce.

Feisal è tornato con gran parte dei suoi uomini: sono riusciti a sfuggire alla morsa del Circasso, ma hanno dovuto scegliere una via più lunga per non essere bloccati.

Barbath annuisce. Riesce appena a parlare. Sa che moriranno entrambi, che non ci sono speranze per loro, ma l’idea che ora Feisal sia accanto a lui lo rende felice.

 

Anche Mahdi e Qais sanno che la fine è vicina. Nella stanza di Qais, Mahdi mormora:

- È la fine, Qais. Ci aspettano giorni bui e un destino atroce.

Qais sorride e recita:

- Non è triste il destino se mi sei compagno,/ né oscuro il giorno se sei il mio sole.

Mahdi guarda Qais. Pensieri ed emozioni si accavallano dentro di lui. Sa di amare Qais come non ha mai amato, come non amerà mai più, anche se riuscisse a sfuggire alla morte che ora incombe su di loro. Sa che in Qais l’impudenza e la scurrilità nascondono un’anima sensibile, che la vita ha ferito profondamente. A tratti ha l’impressione che Qais valga molto più di lui. E l’amore che Qais prova per lui gli sembra un dono immeritato.

Ma a tutto questo Mahdi non riesce a dare forma. Chiede, nascondendo ciò che prova:

- Sono di Ibn Zaydun questi versi?

- Sì.

Mahdi bacia Qais sulla bocca.

 

Dall’alto delle mura l’emiro Ashraf guarda l’accampamento nemico. Jabal al-Jadid è condannata: la città verrà conquistata, tra un giorno o tra un mese. L’esercito del Circasso è troppo numeroso.

Ashraf sa benissimo che il Circasso lo ucciderà: la sua vita è giunta alla fine. Ma ad angosciarlo è il pensiero che il Circasso farà uccidere suo figlio, ‘Izz, insieme agli altri parenti. Quel maledetto ha sterminato la famiglia reale di Halel per salire al trono, anche se il sovrano era suo suocero. Chi ha cercato di opporglisi ha sempre trovato la morte insieme ai propri familiari. Ashraf sa che cosa è successo ai figli di Nidal e immagina che la sorte riservata a ‘Izz non sia migliore. L’idea che suo figlio venga stuprato dai soldati del Circasso e poi lasciato agonizzare per ore su un palo lo sconvolge. No, questo mai! Piuttosto lo ucciderà con le sue mani! Perché non l’ha fatto scappare prima?!

Ashraf fa chiamare Barbath.

- Barbath, pensi che sia possibile difendere la città?

Ashraf conosce benissimo la situazione, ma non riesce a rassegnarsi.

- La difenderemo, mio signore. Ma se Nur ad-Din, signore di tutta la Siria, non interviene, non potremo resistere a lungo.

Ashraf annuisce. Sa che Barbath ha ragione. Ha chiesto per avere una conferma, sperando vagamente che Barbath desse una valutazione diversa.

 

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L’assedio dura da tre settimane. Il Circasso ha lanciato diversi attacchi, che sono stati respinti, ma ormai i difensori sono decimati e la città non potrà resistere più di un’altra settimana, forse dieci giorni. Nur ad-Din non è intenzionato a intervenire. Ogni speranza è perduta.

Ashraf ha fatto chiamare Barbath.

- Jabal al-Jadid è persa. La mia vita si conclude. Ma non ha importanza.

Barbath non dice nulla: sarebbe assurdo negare. Attende di sentire ciò che l’emiro vuole dirgli.

- Porta in salvo mio figlio, Barbath. Questa è l’unica cosa che conta. Conducilo a Damasco, da Nur ad-Din: è il figlio di un uomo che è sempre stato leale al signore di tutta la Siria. Lui si prenderà cura del ragazzo.

Barbath si inchina.

- Farò quello che mi chiedete e tornerò per combattere al vostro fianco.

- No, Barbath, rimani accanto a mio figlio.

- Emiro, affiderò vostro figlio a Nur ad-Din, ma io tornerò qui, perché questo è il mio posto.

- A che servirebbe?

A nulla, lo sanno entrambi. Ma Barbath non è disposto a lasciare il suo signore, anche se non potrà salvarlo. Ashraf riprende:

- Rimani accanto a lui.

- Emiro, so guidare un esercito e combattere, ma vostro figlio non avrà un esercito. Permettetemi di venire a morire al vostro fianco. Ho sempre combattuto lealmente.

Ashraf non può rifiutare a Barbath ciò che questi gli chiede, anche se è la morte, anche se vorrebbe che rimanesse al fianco di ‘Izz.

- Ma ci dev’essere qualcuno che vegli su di lui, qualcuno su cui possa davvero contare.

Il pensiero di Barbath va immediatamente a Feisal. È l’uomo migliore per vegliare su ‘Izz e in questo modo sfuggirà alla morte.

- Emiro, Feisal è l’uomo giusto. È leale, coraggioso, intelligente. Saprà servire vostro figlio nel migliore dei modi.

Ashraf scuote la testa.

- L’uomo giusto sei tu, ma non voglio obbligarti. Porta in salvo mio figlio a Damasco, poi sei libero di fare ciò che desideri. Feisal rimarrà con lui. Porterete con voi tutto l’oro e i gioielli che potete trasportare senza appesantirvi troppo. Quanti uomini pensi di portare con te?

- Pochi, emiro. Un gruppo numeroso avrebbe minori possibilità di passare inosservato e in ogni caso se venisse dato l’allarme, ci troveremo ad affrontare l’esercito del Circasso: che cosa potrebbero fare venti o anche cinquanta soldati? Direi che servono altri due uomini, per una maggiore sicurezza durante il viaggio e anche per quando ‘Izz sarà a Damasco. È meglio che il giovane possa contare su tre uomini fidati.

- Certo. Scegli due ufficiali su cui ‘Izz possa contare davvero. Ma perché ti dico queste cose? Farai le scelte migliori, lo so.

 

La difficoltà maggiore è convincere ‘Izz, che non vuole abbandonare il padre, nonostante questi gli ordini di obbedire. ‘Izz ha sedici anni e preferisce affrontare la morte. Andarsene gli sembra un tradimento. Ashraf è esasperato, ma Barbath gli chiede di lasciarlo solo con il ragazzo. L’emiro lascia la stanza.

Barbath e ‘Izz rimangono uno di fronte all’altro.

- ‘Izz, vuoi bene a tuo padre?

- Come puoi chiedermi questo, Barbath? Lo sai benissimo.

- Allora smetti di comportarti come un bambino viziato ed egoista, ‘Izz.

‘Izz guarda Barbath, senza capire. Barbath prosegue:

- C’è un’unica cosa al mondo che desidera tuo padre: saperti in salvo. Sapere che non finirai come i figli di Nidal, che sono stati stuprati da decine e decine di soldati, poi la spada in culo, la castrazione e infine il palo. Sai che cosa vuol dire per un padre vedere il supplizio del proprio figlio? Te lo sei chiesto, ‘Izz, almeno una volta? O hai sempre solo pensato a te?

‘Izz scuote la testa. Ha le lacrime agli occhi.

- Barbath, io…

- Io, io, io… Pensa a tuo padre. È nei suoi confronti che hai dei doveri. È a lui che devi obbedienza. Se davvero lo ami, non puoi negargli l’unica cosa che desidera. Saperti in salvo, gli permetterà di affrontare la morte a cuor sereno. Sapere che anche tu morirai è un tormento continuo per lui.

- Barbath…

‘Izz sta piangendo. Non riesce a parlare. Barbath prosegue:

- L’hai guardato una volta tuo padre, in questi giorni? Hai letto l’angoscia sul suo viso? O non te ne sei mai preoccupato? Sai che puoi restituirgli la serenità e ti ribelli come un bambino egoista che fa i capricci.

‘Izz è scosso da singhiozzi sempre più forti. Barbath si avvicina e lo abbraccia. Poi gli dice:

- Devi partire, ‘Izz.

‘Izz annuisce.

 

Barbath fa chiamare Feisal e gli trasmette l’ordine dell’emiro. Non rivela che Ashraf aveva affidato il compito a lui: si limita a dire che così ha deciso il signore.

Feisal china il capo. Non è contento dell’incarico, ma è un uomo abituato a obbedire, che non discute mai gli ordini. Barbath coglie la sua insoddisfazione. Osserva:

- È un compito importante, Feisal, il più importante in questo momento. Dovresti essere orgoglioso che il nostro signore te lo abbia affidato.

Feisal fissa Barbath negli occhi.

- Lo sono, ma avrei preferito rimanere qui e morire al tuo fianco, Barbath.

Barbath non si aspettava le parole di Feisal, che non ha parlato di morire per difendere la città o l’emiro, ma di morire al suo fianco. In un altro momento forse parlerebbe sinceramente con Feisal, ma non c’è tempo. Si limita a dire:

- Quando il muezzin chiama per l’ultima preghiera, ci vediamo nella sala del tesoro.

Barbath si allontana. È turbato.

Ora deve scegliere i due uomini che verranno con loro. Il pensiero va a Qais e Mahdi. Sono senz’altro gli uomini adatti. Ce ne sarebbero anche altri, ma loro due vanno benissimo.

Barbath fa chiamare Qais. Sa che Mahdi è di turno sulle mura, per cui gli parlerà dopo avergli fatto dare il cambio.

- Qais, questa notte partiremo per Damasco. Dobbiamo portare in salvo il giovane ‘Izz, il figlio dell’emiro. Tu ti fermerai a Damasco con Feisal, rimarrete agli ordini di ‘Izz e lo proteggerete da qualsiasi minaccia.

Qais guarda Barbath come smarrito. È chiaro che vuole dire qualche cosa, ma è incerto, proprio lui che non ha peli sulla lingua. L’esitazione dura solo un attimo.

- Comandante, se mi ordini di morire oggi stesso sono pronto. Ma Mahdi è più adatto di me a servire il figlio dell’emiro. Manda lui a Damasco.

Barbath sorride e scuote la testa.

- Qais, ho pensato di andare in quattro ad accompagnare ‘Izz e il quarto uomo è Mahdi.

Qais non nasconde la sua gioia. Si inchina e dice.

- Iddio ti ricompensi, comandante.

All’ora dell’ultima preghiera ‘Izz e i quattro uomini sono nella sala del tesoro. Nascondono negli abiti e in piccole borse oro e gioielli in grandi quantità: ad Ashraf non serviranno più e ‘Izz ne avrà bisogno per non presentarsi a Nur ad-Din come un mendicante.

‘Izz è più volte sul punto di mettersi a piangere, ma non dice nulla.

Qais ride e osserva:

- Se i briganti ci ammazzano, non potranno lamentarsi del bottino.

Tutti e cinque hanno abiti molto semplici, più adatti a qualche piccolo mercante o a un contadino benestante che al figlio di un emiro o a ufficiali dell’esercito di una città importante.

 

*

 

Barbath passa rapidamente nella sua abitazione. Chiama Waahid e Latif.

- Waahid, Latif, io devo andare. L’emiro mi ha affidato una missione. Spero di tornare prima che il Circasso espugni la città. Se questo non dovesse avvenire, che Allah vi protegga.

I due giovani guardano Barbath sgomenti. Sanno che per Jabal al-Jadid non c’è più speranza, ma la presenza di Barbath li tranquillizza. L’idea che parta li angoscia. Il comandante prosegue:

- Se potessi, cercherei di farvi uscire dalla città, ma non è possibile.

Barbath sa che un gruppo più numeroso rischierebbe di essere scoperto e non può mettere a repentaglio la vita del figlio dell’emiro per salvare due dei suoi schiavi.

- Waahid, tu sei un artista famoso e la tua vita è preziosa. Cerca di proteggere Latif, dicendo che è tuo fratello e il tuo aiutante. Così forse riuscirete a rimanere insieme.

Latif ha le lacrime agli occhi. Barbath sorride e gli accarezza il capo:

- Forse ci rivedremo ancora.

Barbath vorrebbe stringere ancora questi due corpi, che gli hanno spesso donato piacere, ma deve prepararsi per il viaggio. Non c’è altro tempo per il loro addio, per i giochi a cui si sono dedicati alcune volte anche in quest’ultimo periodo, quando gli impegni di Barbath lo permettevano.

Latif e Waahid si amano e ogni giorno i loro corpi si uniscono. Ma sono entrambi affezionati a Barbath, quest’uomo forte e generoso, che ha cura di loro. Ora si sentono abbandonati, proprio nel momento in cui il pericolo è maggiore.

 

*

 

Non è facile uscire dalla città assediata. Ci sono gallerie sotterranee, le stesse che vengono utilizzate per far arrivare alcuni viveri: conducono in punti diversi, ma nessuna è sicura. Il nemico circonda la città e la morte è sempre in agguato.

Barbath, Feisal, ‘Izz, Qais e Mahdi percorrono una delle gallerie. È un cunicolo molto stretto, adatto al passaggio di una persona, ma non al trasporto di carichi. È la galleria che conduce più lontano ed è la più sicura.

Barbath ha dato ordini precisi: la vita di ‘Izz è quella che conta, quella di Feisal viene subito dopo, perché dovrà vegliare sul ragazzo. Barbath e i due ufficiali devono fare tutto il possibile per assicurare che ‘Izz e Feisal giungano a Damasco. Barbath sa che i due ufficiali obbediranno: Qais e Mahdi sono due uomini fedeli e coraggiosi, disposti a morire per salvare il figlio dell’emiro e anche solo per il loro comandante.

È ormai buio quando il gruppo raggiunge l’estremità esterna della galleria. Non sembra esserci nessuno. Barbath compie un rapido giro esplorativo, poi torna e il gruppo si avvia. Camminano per tutta la notte: devono allontanarsi il più possibile. Di giorno si fermano a dormire all’aperto. Qais lascia le armi e va a comprare un po’ di cibo in una fattoria: ha con sé qualche moneta di scarso valore e mostra solo quelle. Chiacchiera un po’ con il fattore, per conquistarne la fiducia e ottenere informazioni. Racconta di essere un mercante a cui gli uomini del Circasso hanno preso tutto e di voler andare verso Damasco. Dice di aver paura di incontrare i soldati che hanno invaso il territorio: tutto plausibile, quasi tutto vero. L’uomo gli dice che i soldati del Circasso sono passati a requisire cibo e bestiame, ma negli ultimi giorni non ne ha visti.

Nel tardo pomeriggio riprendono a muoversi e nella notte riescono a lasciare il territorio di Jabal al-Jadid. Il giorno seguente Qais raggiunge un altro villaggio, più grande, dove acquista cinque cavalli. Ora possono muoversi molto più rapidamente e dirigersi verso Damasco.

Il viaggio prosegue senza intoppi. Possono spostarsi di giorno e riposare la notte nelle locande o nei caravanserragli, come se fossero commercianti o pellegrini. L’unico rischio che corrono è quello dei briganti: è difficile che un brigante isolato o una piccola banda attacchi questo gruppo di viaggiatori ben armati, ma ci sono anche bande molto numerose, che assalgono perfino le grandi carovane. Nessuno però sa che cosa nascondono i cinque viaggiatori, che non sembrano ricchi.

 

È notte. Barbath e ‘Izz dormono in una delle camere della locanda. Nella stanza a fianco riposano Feisal e i due ufficiali. Barbath pensa a Feisal. Sono gli ultimi giorni in cui lo rivedrà. Poi le loro strade si separeranno per sempre. Barbath è felice che Feisal possa salvarsi, ma l’idea di separarsi da lui pesa come un macigno. Gli tornano in mente le parole di Feisal. Barbath sa che anche lui avrebbe voluto morire al fianco di Feisal. La morte gli sarebbe pesata di meno.

‘Izz è steso sulla stuoia accanto a Barbath. Può sentire il calore del corpo del guerriero. ‘Izz pensa a suo padre, che verrà ucciso. E di colpo il dolore diventa troppo violento. ‘Izz incomincia a piangere. Cerca di non farsi sentire da Barbath, ma il comandante dell’esercito non dorme, perso nei suoi pensieri.

- ‘Izz!

La voce di Barbath sembra rendere ancora più violento il dolore. ‘Izz piange più forte, il corpo scosso dai singhiozzi.

Barbath lo attira a sé e lo abbraccia, in silenzio. Lentamente il pianto di ‘Izz si calma. Barbath gli accarezza il capo con dolcezza.

Nel gesto di Barbath c’è solo tenerezza, ma i loro corpi sono nudi e il contatto accende in ‘Izz un violento desiderio. Prima di rendersi pienamente conto di ciò che sta facendo, ‘Izz si ritrova ad accarezzare il petto muscoloso di Barbath. Il corpo di Barbath reagisce con intensità: non è uomo da rimanere impassibile quando viene accarezzato. Barbath vorrebbe fermare ‘Izz, ma non vuole aumentare il turbamento del giovane in questo momento: ha paura che si senta respinto.

L’angoscia è svanita e ora ‘Izz ha l’impressione di essere leggermente ubriaco. La sua bocca si appoggia sul petto di Barbath, si posa su un capezzolo, i suoi denti mordono. Una mano scivola verso il ventre, fino a incontrare, caldo, rigido, grande, il cazzo di Barbath. A ‘Izz sembra di aver sfiorato una fiamma. Ritira la mano, ma poi l’allunga nuovamente e stringe la preda, mentre le sue labbra baciano il petto di Barbath e poi il ventre. ‘Izz vorrebbe avvicinare la bocca al cazzo del comandante, ma non osa. La sua mano però stringe e stuzzica, scivola fino allo scroto, avvolge i tre coglioni. E infine il desiderio vince il timore e la bocca di ‘Izz bacia la cappella del comandante. Barbath gli prende la testa tra le mani e lo bacia sulla bocca, poi incomincia ad accarezzarlo. ‘Izz geme, mentre ondate di desiderio lo travolgono. ‘Izz sente le mani di Barbath sul suo culo, le sente stringere con forza, accarezzare. Due dita passano lungo il solco e ‘Izz sente la voce di Barbath, roca di desiderio, sussurrare:

- ‘Izz, lo vuoi?

- Sì, Barbath, sì.

Barbath volta ‘Izz, gli morde più volte le natiche, passa la lingua lungo il solco, indugia sull’apertura e poi, lasciandosi guidare dal desiderio, avvicina la cappella e, molto lentamente, cercando di non provocare dolore, incomincia a spingere. Si ferma e riprende ad avanzare lentamente, mentre le sue mani scorrono lungo il corpo di ‘Izz. Barbath sa che non avrebbe dovuto cedere, ma ormai è tardi. Con molta dolcezza, tra carezze e abbracci e baci, affonda il suo sperone nel corpo di ‘Izz e lo ritrae, molte volte, finché sente il piacere sommergerlo e il suo seme si sparge dentro ‘Izz. Si accorge che anche il corpo del ragazzo vibra dello stesso piacere.

Rimangono a lungo abbracciati, poi Barbath esce da ‘Izz e si stende accanto a lui.

Più tardi ‘Izz si addormenta tra le braccia di Barbath, che rimane sveglio. Non è contento di quello che è successo. ‘Izz è il figlio del suo signore e gli è stato affidato. Non è stato Barbath a prendere l’iniziativa, ha ceduto per lenire la sofferenza del giovane, ma ora è a disagio. No, non avrebbe dovuto farlo.

 

Nelle notti successive Barbath fa in modo di non trovarsi mai a dormire da solo con ‘Izz. Il ragazzo non sembra contrariato: probabilmente anche lui si è pentito di aver ceduto al desiderio. A quanto è successo, nessuno dei due fa più cenno.

Due giorni dopo giungono al grande caravanserraglio di al-Qusayr. Sono ormai nella Ghuta, la fertile regione di orti e giardini che circonda Damasco e che gli arabi considerano un paradiso terrestre. Damasco non è lontana, domani sera ci arriveranno e ormai la strada è sicura. Barbath sa di aver portato a termine la sua missione.

Il caravanserraglio è molto grande e ha un bagno dove i viaggiatori possono lavarsi. Tutti e cinque ne approfittano volentieri. Prima Feisal vi accompagna ‘Izz, poi è il turno di Qais e Mahdi e infine quello di Barbath: non possono certo bagnarsi tutti insieme, perché viaggiano con grandi ricchezze e non vogliono correre il rischio di essere derubati.

Barbath si concede un lungo momento di pace. Fino a ora è sempre rimasto molto vigile, ma ormai il viaggio non presenta più nessun pericolo, a parte quello dei furti.

Nel bagno non ci sono molte persone. C’è un ragazzo che ha forse vent’anni e lo guarda con insistenza. Barbath ha l’impressione che sia un franco: non sarebbe strano, molti mercanti franchi si spingono fino a Damasco e anche fino ad Aleppo.

Barbath è attratto da ragazzi un po’ più giovani, ma questo non gli dispiace per niente. Pensa che domani saranno a Damasco e che non appena Nur ad-Din li avrà ricevuti, tornerà a morire a Jabal al-Jadid. Forse non scoperà mai più, prima che il Circasso lo castri, come sicuramente farà. Non che gli importi molto di un’ultima scopata, non l’avrebbe certamente cercata, ma l’occasione si presenta e allora va bene, servirà per scacciare il pensiero di Feisal.

Quando i loro sguardi si incrociano di nuovo, Barbath sorride al ragazzo, che si alza e, dopo essere rimasto un momento in piedi, si muove come per fare due passi e si avvicina. Barbath chiede:

- Come ti chiami?

Il ragazzo risponde in arabo, ma l’accento non è arabo e anche il nome rivela la sua origine:

- Riccardo.

- Da dove vieni?

- Da Rougegarde, al-Hamra.

- La perla della Siria. La vidi quando era ancora in mano a quel vile dello sceicco Ya‘qub. Non ho mai visto nessuna città più bella e mi spiace saperla in mano a voi franchi.

Barbath ha parlato senza acrimonia: non odia i franchi, come non odia nessuno dei nemici che gli è capitato di affrontare. Solo nei confronti del Circasso nutre un’avversione profonda.

Riccardo sorride:

- Le città cambiano signore e forse un giorno al-Hamra ritornerà araba. Ma il suo signore, il duca Denis, è un uomo valoroso.

Barbath ride:

- Non raccontare a me, ragazzo, il valore del Cane dagli occhi azzurri. È il più temuto tra i signori franchi e molti tra di noi lo odiano, ma tutti sappiamo che è tanto prode quanto generoso. Io gli auguro lunga vita, anche se è nostro nemico.

C’è un momento di silenzio, poi Barbath dice:

- Prendo una cameretta per noi due, dove possiamo starcene tranquilli?

Riccardo sorride e annuisce.

La camera che Barbath prende è uno spazio angusto: sono in un caravanserraglio, non in un grande bagno come quelli che è possibile trovare a Damasco e in altre città. Appena entrati, si tolgono il tessuto che cinge loro i fianchi. Riccardo guarda il cazzo poderoso di Barbath e sorride. Barbath lo fissa. Pensa che il ragazzo ha un bel corpo e che non è certo nuovo ai piaceri del letto.

Barbath lo accarezza. È bello sentire sotto la mano la pelle liscia e morbida, il calore della carne. Non è il corpo di un guerriero, quello che gli si offre, ma di un giovane che non ha conosciuto le fatiche della guerra e il dolore delle ferite. È il corpo di uno di quei ragazzi che a Barbath sono sempre piaciuti. Eppure ora per un momento il pensiero va a Feisal: Barbath si chiede cosa proverebbe a stringere quel corpo vigoroso, ad accarezzare la pelle segnata dalle cicatrici… Barbath scaccia il pensiero. Attira a sé Riccardo, lo abbraccia, lo bacia, fa scendere le sue mani sul culo del ragazzo, stringe con forza. Poi fa scorrere le dita lungo il solco e l’indice cerca l’apertura, violandola. La carne cede senza sforzo.

Ora Barbath sente che il desiderio preme. Si stacca, volta Riccardo e lo guida a stendersi sui cuscini. Poi si china anche lui, morde con forza due volte il culo che gli si offre, e avvicina l’arma all’apertura. Si inumidisce un po’ la cappella con la saliva e poi avanza lentamente. Riccardo geme di piacere. 

Barbath avanza fino a che i coglioni toccano il culo di Riccardo, poi si ritrae e dà inizio a una lunga cavalcata. È bello fottere questo culo caldo, probabilmente l’ultimo che avrà nella sua vita, è bello accarezzare ancora una volta un corpo che si offre, far scivolare la mano sulla pelle, stringere i capezzoli, avvolgere i coglioni, afferrare il cazzo e guidare il ragazzo al piacere. Barbath viene e insieme a lui Riccardo, che geme forte, ma mentre il seme si sparge nelle viscere del ragazzo, il pensiero di Barbath va di nuovo a Feisal.

Barbath accarezza ancora la testa di Riccardo, poi si stacca. È stato bello, ma il pensiero di Feisal lo ha disturbato. Barbath saluta e ritorna in camera. Guarda Feisal e cerca di nascondere il suo nervosismo. Si dice che tanto tutto finirà presto, la morte lo attende e va bene così.

Il pomeriggio seguente la comitiva raggiunge infine Damasco e i cinque prendono alloggio in una locanda: non vogliono presentarsi direttamente a Nur ad-Din; è preferibile che Barbath chieda prima udienza e saggi le reazioni del signore di tutta la Siria.

Il mattino successivo Barbath raggiunge il palazzo di Nur ad-Din. Informa di essere il comandante dell’esercito di Jabal al-Jadid e di chiedere udienza perché ha accompagnato il figlio dell’emiro, che il padre vuole affidare a Nur ad-Din.

Barbath sa che potrebbe attendere a lungo, anche tutto il giorno, ma con sua sorpresa Nur ad-Din dà ordine di farlo passare subito. Lo riceve in una stanza appartata e non in quella riservata alle udienze.

Barbath si inchina. Dopo i saluti e i convenevoli di rito, Barbath espone il motivo della sua richiesta di un colloquio:

- Nur ad-Din, signore della Siria, l’emiro di Jabal al-Jadid mi manda a te. Come certamente sai, la città è sotto assedio e presto il Circasso se ne impadronirà. L’emiro ti chiede di proteggere il suo unico figlio, che ti invia fidando nella tua generosità.

E con queste parole, Barbath porge a Nur ad-Din la lettera che l’emiro gli ha affidato.

Nur ad-Din si informa della situazione e Barbath narra brevemente come la città sia allo stremo e la resa sia ormai inevitabile. Barbath non prega Nur ad-Din di intervenire: sa benissimo che Ashraf lo ha chiesto molte volte e che il signore della Siria non intende sfidare il Circasso. Barbath non vuole irritare Nur ad-Din: quello che conta ora è assicurare a ‘Izz la protezione di cui il ragazzo ha bisogno.

Nur ad-Din è evidentemente soddisfatto di non ricevere richieste che non intende esaudire e chiede informazioni su ‘Izz e su coloro che lo hanno accompagnato.

Barbath spiega:

- Con lui rimarranno il comandante Feisal e due ufficiali. Sono uomini leali, su cui l’emiro Ashraf sa di poter contare. L’emiro ti chiede di non separare il giovane da loro.

- E tu, Barbath?

- Io tornerò a Jabal al-Jadid. Il mio posto è là.

- Tornerai a morire, se la situazione è quella che mi descrivi.

- Tornerò a combattere e a morire a fianco del mio signore, come è mio dovere.

Nur ad-Din annuisce. Dice a Barbath di accompagnare ‘Izz e gli altri ufficiali da lui nel pomeriggio. Promette che si prenderà cura del ragazzo e terrà conto dei suoi diritti su Jabal al-Jadid: è tutto quello che Barbath desiderava.

 

Nel pomeriggio Nur ad-Din accoglie ‘Izz, che, come gli ha suggerito suo padre, dona al signore della Siria alcuni gioielli.

Nur ad-Din installa ‘Izz e gli ufficiali che lo accompagnano in un ampio appartamento nel palazzo. Barbath è contento di questo: significa che Nur ad-Din intende davvero prendersi cura di ‘Izz. Ora può andarsene. La sera stessa comunica che il mattino dopo partirà.

‘Izz non vorrebbe separarsi da Barbath e lo dice chiaramente:

- Non te ne andare, Barbath!

- Non posso rimanere, ‘Izz. Il mio posto è accanto a tuo padre. Combatterò per lui fino alla morte.

La mattina seguente Barbath prende congedo da ‘Izz, poi saluta Qais, Mahdi e Feisal. Ma Feisal gli dice che lo accompagnerà per un pezzo di strada, in modo da poter tornare entro sera. A Barbath non spiace rimanere ancora un momento accanto a quest’uomo che sa di amare.

Cavalcano a lungo in silenzio. Feisal sembra assorto nei suoi pensieri. A Barbath va bene così: gli basta averlo vicino.

Si fermano a metà giornata in una locanda. È un piccolo edificio vicino a cui passa un canale. Tutt’intorno la vegetazione è rigogliosa: alberi da frutta e un vasto orto fanno del posto un angolo di pace. Vicino alla casa, sotto gli alberi, ci sono alcuni tavoli. Barbath e Feisal si siedono e ordinano da mangiare. Il loro pasto è molto frugale: nessuno dei due ha molto appetito ed entrambi devono viaggiare, ormai in direzioni opposte. Barbath pensa che Feisal va verso la vita e di questo è contento. Sa di andare alla morte, ma non gli pesa.

Per un momento si è chiesto se non rivelare a Feisal il suo sentimento, ma poi si è detto che non ha senso: è meglio lasciarsi così.

Feisal non ha distolto gli occhi da Barbath neppure un momento, per tutto il pasto.

- Barbath, stiamo per separarci per sempre. Tu vai alla morte. Ho bisogno di parlarti.

Barbath guarda interrogativamente Feisal.

- Dimmi, che cosa c’è?

- Solo una cosa, che non ha senso che io non ti dica. Forse preferiresti non saperlo, ma non voglio lasciarti senza averla detta.

- E qual è questa cosa?

- Ti amo, Barbath.

Barbath chiude gli occhi. Non se lo aspettava, ma adesso non può più negare ciò che ha sempre fatto fatica ad ammettere. E le parole gli vengono alle labbra:

- Anch’io ti amo, Feisal. Non so come sia successo e avrei preferito che non succedesse, ma è così.

Feisal e Barbath si guardano. Nessuno dei due si aspettava che il proprio sentimento fosse ricambiato. Ora sono disorientati.

Feisal mormora:

- Abbiamo un po’ di tempo, Barbath.

Barbath annuisce. Sì, hanno ancora un po’ di tempo, prima di separarsi. Damasco non è così lontana e anche se si fermano un momento, Feisal potrà arrivare prima che chiudano le porte della città. Chiedono al locandiere una stanza dove riposare.

Nella camera si guardano, disorientati. Barbath si avvicina a Feisal, lo guarda, poi gli prende il viso tra le mani e lo bacia.

Le sue mani scivolano sul corpo di Feisal e poi le braccia lo avvolgono. Barbath guarda Feisal, sorride e dice:

- Feisal, amore mio!

È la prima volta che Barbath dice a qualcuno di amarlo. Sa che sarà l’unica, ma è felice di averlo detto.

- Barbath…

Barbath incomincia a spogliare Feisal: non hanno molto tempo, lo sanno entrambi. Quando ha concluso, Barbath guarda questo corpo, che ha già visto nudo altre volte, ma che ora gli si offre. Il desiderio lo assale violento. Barbath si spoglia in fretta, con gesti decisi. Feisal lo guarda. Ora sono uno davanti all’altro, nudi. In entrambi il desiderio preme. Feisal si avvicina e la mano accarezza il cazzo di Barbath, già teso.

- Prendimi, Barbath.

Barbath annuisce. Feisal si mette a quattro zampe sul pagliericcio. Barbath inumidisce bene la cappella, poi divarica le natiche di Feisal e sputa sul buco. Barbath si appoggia su Feisal e lentamente entra dentro di lui. Sente la resistenza della carne. Nessuno deve avere mai posseduto Feisal. Barbath si ritrae, accarezzando i capelli di Feisal. Poi avanza di nuovo, molto lentamente. Ripete l’operazione tre volte e poi, senza più uscire, incomincia a muoversi dentro Feisal. È una sensazione violenta, che lo stordisce. Man mano che procede, scompare tutto ciò che non è il corpo che Barbath stringe, accarezza, morde, bacia. Ormai esiste solo questa carne che possiede, il cazzo che le sue mani avvolgono e stringono e accarezzano. Esiste solo il piacere, violento, che infine esplode per entrambi. Barbath si abbandona su Feisal, che scivola sul pagliericcio. Rimangono immobili.

Lentamente il mondo riaffiora. Stringendo tra le braccia Feisal, Barbath ha dimenticato tutto: la missione compiuta, il suo viaggio verso Jabal al-Jadid e la morte, il Circasso.

È ora di separarsi: Barbath deve arrivare prima di sera al caravanserraglio di al-Qusayr, Feisal deve essere a Damasco prima che chiudano le porte della città.

Si baciano a lungo, appassionatamente. Poi si rivestono.

Feisal dice:

- Avrei voluto morire con te, Barbath, ma la volontà dell’emiro me lo vieta.

Barbath annuisce e risponde:

- Spero che tu possa essere felice, Feisal.

Feisal scuote la testa.

- Avrei potuto essere felice al tuo fianco. Oggi, per un breve momento, quando tutto il resto è stato cancellato, sono stato felice.

Barbath annuisce. Dice:

- Spero che un giorno troverai un uomo con cui potrai camminare…

Feisal ha uno scatto. La sua voce è dura:

- Barbath, nessun uomo mi aveva mai posseduto. Nessun altro uomo mi prenderà, se non con la forza. E in quel caso mi darò la morte.

Barbath gli prende la testa tra le mani e lo bacia ancora. Si stringono l’uno all’altro, poi Barbath si stacca.

- Addio, Feisal. Addio, amore mio.

Barbath esce dalla stanza quasi di corsa, raggiunge la scuderia, prende il cavallo e si allontana, senza voltarsi indietro.

Feisal va anche lui alla scuderia. Al momento di salire sul cavallo, gli sembra che gli manchino le forze. Vorrebbe chiudere gli occhi e dormire, per sempre. Perché l’emiro lo ha mandato a Damasco? Perché deve rimanere accanto a ‘Izz? Sarebbe stato così bello morire accanto a Barbath.

 

Il viaggio di Barbath procede senza intoppi. Quando entra nel territorio di Jabal al-Jadid, Barbath si muove con grande cautela, ma è sereno: se lo catturassero incontrerebbe prima la morte che in ogni caso lo attende, ma di morire Barbath non ha paura.

Barbath è giunto non lontano dalla città. Si rifugia su una collina, nascondendosi tra le rocce, e attende la notte. Cercherà di raggiungere l’ingresso di una delle gallerie che conducono nella città.

Quando diventa buio, Barbath si avvia. Un quarto di luna illumina la collina, rendendogli più facile trovare la strada, ma aumentando i rischi che qualche sentinella lo scorga.

E infatti dopo un momento, sente una voce:

- Fermo, chi sei?

Barbath risponde, senza esitare:

- Sono Ibrahim, delle truppe che vengono da Shaqra.

- Che fai qui?

Barbath ridacchia.

- Sono andato a trovare una contadina, una vedova… Sai com’è, era da sola, aveva bisogno di aiuto e io ho arato un po’ il suo campo. Adesso torno al nostro accampamento.

- Sarà, ma non mi fido. Vieni con me. Ti porto dal comandante.

- Va bene.

Barbath si avvicina. Quando è a due passi dal soldato, scatta: in un attimo gli è addosso e con una mano gli stringe la gola, mentre l’altra gli infila un pugnale nel cuore.

Quando Barbath toglie la mano dal collo dell’uomo, questi cade a terra inerte.

Barbath scende rapidamente verso l’ingresso della galleria. La luce della luna gli mostra due figure, di certo due soldati, vicino all’apertura.

Barbath prende un sasso e lo lancia oltre i due uomini.

- Hai sentito? C’è qualcuno!

- Sì, là dietro.

La prima sentinella grida:

- Chi va là?

Nessuno risponde. L’altra guardia dice:

- Rimani qui. Io vado a vedere.

L’uomo si allontana. Muovendosi silenziosamente Barbath raggiunge il soldato rimasto al suo posto, che gli dà le spalle. Barbath gli mette una mano sulla bocca e gli taglia la gola. L’uomo cade al suolo.

Barbath si mette al suo posto.

L’altro soldato torna, dicendo:

- Non ho visto niente, ma è buio.

Barbath annuisce. La sentinella lo raggiunge. Barbath lo trafigge con la spada prima che il soldato abbia il tempo di rendersi conto che l’uomo non è il suo compagno.

Barbath raggiunge l’ingresso della galleria sotterranea. Sposta la pietra che nasconde l’apertura, entra e rimette la pietra al suo posto. Poi scende i gradini, immerso nel buio assoluto, fino a raggiungere lo stretto corridoio, in cui si può camminare solo chini. Barbath inizia a percorrerlo, lentamente.

Ci vuole un’ora per arrivare alla fine del cunicolo, trovare la scala che porta in alto e raggiungere la porta che la sbarra e che può essere aperta solo dall’interno della città.

Barbath batte tre volte contro la porta con il batacchio. Non arriva nessuna risposta, ma Barbath sa che ogni ingresso è sorvegliato giorno e notte. Batte ancora tre volte.

Una voce chiede:

- Chi batte?

- Sono il comandante Barbath.

- Comandante!

L’uomo deve aver riconosciuto la sua voce, perché gli apre senza esitare. Alla luce fioca di una lanterna, Barbath vede il volto di un soldato che conosce.

- Siete tornato, comandante!

- Sì, ho accompagnato il giovane ‘Izz ibn Ashraf in salvo e sono tornato.

- A morire, comandante. Jabal al-Jadid è perduta.

- Lo so, ma questo è il mio posto.

Barbath si congeda dall’uomo e raggiunge il palazzo dell’emiro. Lo fanno entrare subito. Comunica di aver condotto a termine la missione e chiede che l’emiro venga avvisato quando si sveglierà. Ma l’emiro ha dato ordine di chiamarlo a qualunque ora del giorno o della notte Barbath si fosse presentato, per cui gli dicono di attendere.

L’emiro arriva dopo pochi minuti.

Barbath riferisce come ha svolto la sua missione. Ashraf vuole conoscere tutti i dettagli dell’accoglienza di Nur ad-Din ed è soddisfatto di quanto Barbath gli racconta. Ashraf conclude:

- Non avresti dovuto ritornare, Barbath, ma sapevo che l’avresti fatto.

- Un comandante dell’esercito può fuggire quando la battaglia è inevitabile?

Ashraf scuote la testa.

- Jabal al-Jadid è stremata, non arrivano più rifornimenti di cibo da diversi giorni. È finita, Barbath.

Barbath annuisce. L’emiro prosegue.

- Ho atteso il tuo ritorno. Domani mattina usciremo ad affrontare il Circasso. Saremo massacrati. Fortunati quelli che moriranno in battaglia e non conosceranno la vendetta del Circasso.

 

Barbath ritorna nella sua abitazione. È notte fonda. Viene accolto con gioia dai servitori, che non contavano più di rivederlo. In qualche modo si sentono rassicurati dalla sua presenza, ma Barbath sa che è solo un’illusione. E anche loro lo sanno.

Barbath abbraccia Waahid e Latif.

- Waahid, Latif, domani Jabal al-Jadid sarà nelle mani del Circasso. Non credo che farà distruggere la città, anche se gli ha resistito a lungo, ma nessuno può dirlo con certezza.

Waahid e Latif annuiscono.

- Non so che sarà di voi. Vi ho già detto ciò che dovete fare: sosterrete di essere fratelli e tu, Latif, ti presenterai come aiutante di Waahid. In questo modo forse riuscirete a rimanere insieme.

Barbath vorrebbe aggiungere: “sempre che il Circasso non vi faccia uccidere”. Ma è inutile angosciare i due ragazzi, che sono molto spaventati.

Latif chiede:

- Comandante… che ne sarà di voi?

Barbath sorride.

- Ogni uomo ha il suo destino. Io ho accettato il mio.

Barbath si mette a dormire. Ha poche ore di sonno davanti a sé: domani mattina dovrà guidare l’esercito all’attacco.

Il mattino dopo all’alba Barbath raggiunge il palazzo dell’emiro. La sortita viene rapidamente organizzata: non c’è bisogno di tracciare piani, mettere a punto strategie. Sarebbe del tutto inutile.

Sanno tutti di andare a morire, ma preferiscono trovare la morte in battaglia piuttosto che subire ogni genere di tortura e umiliazione.

 

*

 

A Damasco Qais e Mahdi sono nella loro camera. Si sono amati e ora sono stesi sul letto. C’è silenzio in quest’ala del palazzo: ormai è tardi. Dal giardino proviene il fruscio delle foglie mosse dal vento e il profumo intenso delle aiuole fiorite.

- Qais…

- Dimmi, Mahdi.

- Non ti sembra…

Mahdi si interrompe.

- Che cosa c’è, Mahdi? Qual è il problema?

- Penso che noi siamo qui, al sicuro e Barbath, l’emiro, i nostri amici… rischiano di morire tutti.

Qais prende la mano di Mahdi e la stringe.

- Non possiamo farci nulla, Mahdi.

- Mi sembra quasi… quasi di non avere il diritto di essere felice. Ma io sono felice, qui con te, Qais.

- Anch’io lo sono con te, Mahdi. E la sorte di noi tutti è nelle mani di Allah. Non abbiamo colpe. Abbiamo obbedito all’ordine dell’emiro. Com’era nostro dovere. Ci è stato dato in dono di scampare alla morte, senza infamia. E ne rendo grazie ad Allah.


 

 

 

III – Il signore di Jabal al-Jadid

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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