L’eretico

 

 

Ad Alecs

 

Alessandro è irrequieto. Ishaq è uscito in mattinata e non è ancora rientrato. Di per sé non ci sarebbe nulla di strano, ma sono alcuni giorni che Ishaq appare preoccupato. Alessandro gli ha chiesto più volte di che cosa si trattava, ma ha ottenuto solo risposte vaghe.

Sono ormai dieci anni che Ishaq ha acquistato Alessandro al mercato degli schiavi e il loro rapporto non è quello che esiste di solito tra il padrone e un suo schiavo, ma quello che c’è tra due amanti, due amici, due compagni di vita.

Alessandro si siede nel cortile interno, dove le fronde degli alberi forniscono un po’ di fresco. Immerge la mano nell’acqua della fontana. Scuote la testa, come a scacciare i pensieri molesti. Oggi deve parlare a Ishaq, deve costringerlo a dirgli che cosa lo preoccupa.

Mentre lo pensa, Ishaq entra nel giardino. È pallidissimo. Cerca di sorridere, ma quello che appare sul suo viso è solo una smorfia.

Ishaq si siede davanti ad Alessandro, che non osa chiedere. È Ishaq a parlare:

- È finita, Iskandar.

Ishaq ha sempre chiamato Alessandro con il nome arabo, Iskandar.

Alessandro guarda Ishaq.

- Perché dici questo?

Ishaq distoglie lo sguardo. Per un momento sembra fissare un angolo del cortile, poi gli occhi si posano nuovamente su Alessandro.

- Verranno domani ad arrestarmi.

Alessandro ha la sensazione che gli manchi il fiato. Ishaq arrestato!

- Arrestarti? Perché?

- Perché mi considerano un eretico. Nur al-Din era più indulgente, ma suo figlio al-Malik al-Salih Ismail è solo un ragazzino, sono altri a decidere. E molti intorno a lui gli chiedono di essere inflessibile con chi si allontana dall’insegnamento degli imam. L’Atabeg è dalla parte degli imam, che mi odiano: ciò che ho detto e scritto per loro è inaccettabile e va punito con la morte. Ma io non intendo ritrattare.

Alessandro apre la bocca, ma le parole escono a fatica.

- Non è possibile, non…

Ishaq fa un cenno con la mano, per impedire ad Alessandro di continuare.

- Non c’è nulla da fare, Iskandar. Io verrò arrestato, i miei beni sequestrati, i miei schiavi messi all’asta. Poi verrò giudicato e… sarà quel che Dio vorrà.

Alessandro china la testa: non riesce ad accettare quello che Ishaq gli sta dicendo. Il suo padrone prosegue:

- Ma tu non devi temere nulla. Mi sono già messo d’accordo con Ruwayd. Ti acquisterà oggi stesso e poi ti libererà.

- Oggi stesso… no, non è possibile.

Alessandro scuote il capo: tutto gli sembra irreale. Separarsi da Ishaq. Oggi stesso. Alessandro è angosciato. Non è la propria sorte a preoccuparlo, ma quella del suo padrone.

- Che ne sarà di te, Ishaq? Che cosa ti faranno?

- La morte mi attende, Iskandar. Sarò un esempio per chi osa sostenere che ogni forma di amore è bella, perché è stato Dio a darci l’amore, per chi non crede nell’odio, ma nella misericordia infinita di Dio.

Alessandro si alza di scatto. Si rende conto di avere i brividi.

- Fuggi, Ishaq. Se vengono domani, hai il tempo di uscire dalla città oggi, di allontanarti, di raggiungere i territori franchi. Non puoi lasciarti uccidere così. Devi fuggire.

Ishaq sorride, un sorriso dolce.

- No, Iskandar. La mia morte sarà un ammonimento per chi condivide le mie idee, ma anche una testimonianza della loro forza: morirò per ciò in cui ho sempre creduto.

- Tu credi nella vita, nel piacere, morire è…

Alessandro non riesce a proseguire. Ha le lacrime agli occhi. Ishaq si alza, si avvicina a lui e lo abbraccia. Lo tiene un buon momento stretto. Gli accarezza il capo.

Quando Alessandro si è calmato, Ishaq si stacca.

- Adesso va’ a preparare le tue cose. Ruwayd sarà qui prima del tramonto.

Alessandro guarda Ishaq, poi si avvicina a lui e lo bacia sulle labbra. Lo stringe tra le braccia. Gli sussurra:

- Un’ultima volta, Ishaq.

Ishaq lo guarda, poi annuisce.

Si dirigono nella camera di Ishaq. Alessandro solleva la tunica di Ishaq, poi gli cala i pantaloni. Lo contempla, in silenzio

Ishaq si avvicina ad Alessandro per spogliarlo, ma il giovane scuote la testa.

- Lasciati contemplare. Sei bellissimo, Ishaq.

Ishaq ride. Ha sessant’anni e, anche se è ancora un uomo forte, gli anni e l’amore per la buona tavola hanno appesantito il suo corpo. Ha perso quasi completamente i capelli e una fitta peluria grigia ricopre il torace e il ventre, le braccia e le gambe.

Ishaq sa che pochi lo giudicherebbero attraente, ma agli occhi di Alessandro lui è davvero bellissimo.

Alessandro si toglie gli indumenti. Poi si inginocchia davanti a Ishaq e gli guarda il cazzo, ancora vigoroso. Gli accarezza con delicatezza i coglioni, poi le sue mani salgono lungo il corpo, scivolando tra la peluria, fino ai capezzoli, che Alessandro stringe con forza. Ishaq chiude gli occhi. Alessandro apre la bocca, la sua lingua percorre il cazzo di Ishaq dalla base alla cappella, per poi ritornare indietro e ripetere il movimento. Ishaq gli accarezza la testa e gli sorride, guardandolo. Poi Alessandro avvolge con le labbra la cappella e incomincia a succhiare, prima con dolcezza, poi con forza. Ishaq chiude di nuovo gli occhi, mentre il cazzo acquista volume e consistenza. Ad Alessandro piace sentirlo diventare sempre più grande e rigido nella bocca. Lecca, succhia e ogni tanto mordicchia, con molta delicatezza, mentre le sue mani stringono il culo, scivolano fino al solco, le dita stuzzicano l’apertura, poi scendono ad accarezzare i coglioni.

Alessandro si stacca e guarda Ishaq.

- Prendimi, Ishaq.

Ishaq annuisce.

Alessandro si mette a quattro zampe sul pavimento. Ishaq si inginocchia. Lascia colare un po’ di saliva sul buco del culo, la sparge con un dito. Poi si sputa nel palmo della mano e sparge la saliva sulla cappella. Si solleva, avvicina il cazzo all’apertura e, con delicatezza, ma senza fermarsi, lo spinge dentro, fino a che affonda completamente. Alessandro geme, incapace, come sempre, di tacere il piacere che lo investe. Abdul-Qaadir, il primo padrone che lo ha preso, quando aveva quattordici anni, amava sentirlo gemere di piacere. Alessandro non aveva bisogno di fingere, perché da quando il suo corpo si era abituato a essere posseduto, provava sempre un piacere violento.

Ishaq si appoggia completamente su Alessandro e muove il culo avanti e indietro, con un movimento lento e continuo, che strappa ad Alessandro altri gemiti. Ishaq cavalca a lungo e le sue mani scendono sotto il ventre di Alessandro, per accarezzargli cazzo, ormai teso, e i coglioni. Ishaq sa che questa è l’ultima volta che godrà, perché lo aspetta la morte. È grato a Dio di poter cogliere ancora una volta il frutto del piacere. Alessandro non pensa più a nulla: la coscienza di ciò che li attende, la morte per Ishaq e un futuro incerto per lui, è annullata dalle sensazioni violente che prova.

Ishaq continua a muoversi e Alessandro sente il piacere crescere fino a diventare troppo forte per poter ancora essere contenuto. Per l’ultima volta vengono insieme. Il seme di Ishaq si rovescia nelle viscere di Alessandro, che versa il proprio sul pavimento.

Ishaq abbraccia stretto Alessandro, poi, dopo una lunga carezza, si stacca e si alza.

- Va a prepararti, Iskandar.

Alessandro si alza, ancora intontito dal piacere. Guarda Ishaq, lo abbraccia e lo bacia sulla bocca.

Fa per dire qualche cosa, ma Ishaq scuote la testa.

- Va, Iskandar.

Alessandro va a lavarsi e a preparare le sue cose. Nascosti nel doppio fondo della cassa dove tiene le sue proprietà ci sono due manoscritti sottili: le poesie che Ishaq non ha mai pubblicato e un breve trattato, Sul desiderio e sulla carne. Alessandro li avvolge in una striscia di tessuto. Sa di correre un grosso rischio: se venisse sorpreso con quelle poesie e soprattutto con quel trattato, potrebbe venire condannato a morte anche lui. Ma vuole portarli con sé. Riflette un attimo e infila i fogli nel mantello, in una tasca interna, poi ripiega il mantello in modo che non si vedano.

Quando ha preparato tutte le sue cose, raggiunge Ishaq.

- Iskandar, devo distruggere i manoscritti. Per favore, portameli.

Alessandro scuote la testa.

- No, li prendo con me.

- Sei pazzo, Iskandar? Se te li trovano, finirai come me.

- Li ho messi nel mantello, poi li nasconderò bene.

- Non dire sciocchezze. Ci metterebbero due minuti a trovarli nelle tue borse. Si accorgerebbero subito che nel mantello ci sono dei fogli.

- Non mi fermeranno adesso e a casa di Ruwayd vedrò di nasconderli dove nessuno possa trovarli.

Ishaq è perplesso.

- Sarebbe meglio distruggerli. Se cadono nelle loro mani…

- No, Ishaq. Li terrò.

Alessandro si avvicina e bacia Ishaq sulla bocca. Poi spinge la lingua tra i denti. Rimangono stretti l’uno all’altro, in un abbraccio che lenisce il dolore della separazione. Poi Ishaq si stacca:

- Iskandar, sai che ho avuto molti uomini, anche in questi anni. Ma nessuno di loro era davvero importante per me. Ho sempre dato al mio corpo ciò che cercava, ma la mia anima rimaneva accanto a te.

Alessandro annuisce. Sa che Ishaq ha spesso cercato il piacere altrove, spinto da un’urgenza di vivere a cui non si sottraeva. Anche Alessandro ha conosciuto altri uomini: la sua bellezza attira i maschi e Ishaq gli ha sempre lasciato una grande libertà. Ma il legame che li ha uniti è stato saldo, più importante di tutti gli altri

 

Ruwayd arriva poco dopo. Viene steso un contratto di vendita con tutte le formalità necessarie. Ruwayd diventa padrone di Alessandro, ma l’accordo scritto prevede che lo schiavo possa riscattarsi pagando una certa somma: ad Alessandro Ishaq ha fornito il necessario per il riscatto e altro denaro che gli servirà per vivere quando lascerà la casa di Ruwayd. Alessandro dovrà però aspettare un po’ di tempo: nessuno deve sospettare che Ishaq abbia liberato Alessandro, perché potrebbero accusarlo di essere suo complice.

Ruwayd è un mercante, che viaggia spesso tra i territori franchi e quelli arabi. Alessandro gli farà da segretario per qualche settimana, grazie alla sua perfetta conoscenza delle due lingue, ma Ruwayd chiarisce subito che intende lasciargli piena libertà di movimento.

Nella casa del mercante, Alessandro ha una camera per sé. La sera si stende sul giaciglio e prende i manoscritti. Sono solo una ventina di fogli: una trentina di poesie, alcune brevissime, altre più lunghe, e un breve saggio.

Alessandro legge la prima, in cima alla quale Ishaq ha aggiunto di suo pugno la dedica: A Iskandar.

E lo vidi il bel corpo, che pareva

modellato da Amore con la sua perizia:

plasmate con gioia le perfette membra,

elevata e scolpita la statura,

effigiato con commozione il viso

e, lasciato dal tocco delle mani,

un non so che sulla fronte, negli occhi, sulle labbra.1

Alessandro si accorge di avere le lacrime agli occhi. Spegne la lampada e cerca rifugio in un sonno che tarda a venire.

 

Il giorno seguente Alessandro è inquieto: il pensiero va continuamente a Ishaq. Alessandro si illude che possa non essere arrestato, che le voci di un’incriminazione si rivelino prive di fondamento. Ruwayd gli detta alcune lettere, poi esce per informarsi. Ad Alessandro pare che nella grande casa del mercante il tempo non passi mai. È sempre stato curioso e ama esplorare nuovi ambienti, ma adesso le stanze, il magazzino, la bottega, l’ampio cortile interno, il piccolo giardino fiorito, tutto gli appare insignificante. Trascorre le ore disteso sui cuscini, immobile, lo sguardo perso nel vuoto.

Ruwayd torna a metà giornata, con la notizia temuta: Ishaq è stato arrestato e la sua casa perquisita. Si parla di sodomia ed eresia. È stato rinchiuso nel carcere della fortezza. Il mercante non dice che tutti prevedono la condanna a morte del prigioniero: coglie l’angoscia di Alessandro e non vuole peggiorare la situazione. In ogni caso il giovane avrà modo di scoprirlo da solo.

 

I giorni passano. Alessandro non esce di casa. Nelle lunghe ore di libertà che il suo incarico gli lascia, preferisce rimanere nella sua stanza o nel giardino. Ruwayd gli riferisce le voci che circolano, per prepararlo a una conclusione che ormai appare inevitabile: tutti sembrano essere sicuri che Ishaq sarà condannato a morte. Le poesie che ha scritto, per quanto meno esplicite di quelle in mano ad Alessandro, costituiscono un atto d’accusa; ancora più gravi sono alcuni passaggi di due trattati, anche se meno dirompenti di quello in mano ad Alessandro, Sul desiderio e sulla carne. Ishaq è considerato eretico: per lui non sembra esserci speranza.

Alessandro sprofonda nelle sabbie mobili del dolore. Esegue meccanicamente i compiti che Ruwayd gli assegna, poi vive nell’attesa delle notizie che il suo nuovo padrone gli porta quando rientra dai suoi giri per la città, ma non esce.

Ha sempre amato camminare per le strette strade della città, osservare la gente che passa, trascorrere qualche ora all’hammam. Ha sempre amato il gioco degli sguardi per la via o al bagno, il sorriso furtivo, il rapido cenno d’intesa, l’appartarsi in un angolo tranquillo per abbandonarsi ai giochi del piacere, ora delicati, ora brutali. Ma ormai il mondo di Alessandro si è ristretto a questa casa in cui trascina le sue giornate.

 

Sono passate due settimane dall’arresto. La condanna è ormai considerata inevitabile. Ishaq ha sfidato le autorità, rifiutandosi di avvolgere nell’ombra i suoi desideri e i suoi comportamenti: una punizione esemplare è necessaria. Pare che interrogato abbia avuto l’impudenza di rispondere: - Quando mai il Profeta proibì la passione?

La sua sorte è segnata, ormai è chiaro a tutti.

La sera nella sua camera Alessandro rilegge le poesie di Ishaq. Al dolore si somma il desiderio.

Torna sovente e prendimi,

torna e prendimi amata sensazione -

quando il ricordo del corpo si ridesta

e trascorre nel sangue il desiderio antico;

quando labbra e pelle rammentano,

e alle mani pare di nuovo di toccare.

Torna sovente e prendimi, la notte,

quando labbra e pelle rammentano...2

E allora Alessandro cerca altre poesie, quelle in cui il desiderio non si nasconde tra i veli, ma grida:

Preda facile dei sensi fosti come in sonno,

t'abbandonasti lento, incominciasti

piano, nel sogno, a scendere la china,

io colsi il fiore dei tuoi fianchi,

divorai il frutto e tu giungesti

alle soglie d'un piacere senza freni.

Non ti fermasti. Proseguisti ancora

Accogliendo la mia virilità trionfante,

ebbro di desiderio e di piacere

(vuota la mente, prosciugato il corpo)

sprigionasti al vento le ultime fiamme,

le ultime scintille, toccasti il fondo,

poi, placati i sensi, giacesti vinto alfine.3

Il desiderio preme. Alessandro spegne la lucerna. La destra scende al cazzo, che già si tende. Lo accarezza piano, con delicatezza, come a volte faceva Ishaq. Poi lo stringe con forza, in una morsa che quasi fa male. La sinistra scivola dietro il culo. Un dito cerca l’apertura e la stuzzica, poi si infila dentro. Alessandro geme, piano, per evitare che gli altri lo sentano. Nella mente rivede il corpo robusto di Ishaq, il suo cazzo vigoroso. Gli sembra di sentirlo in bocca. Affonda di più il dito in culo e ora è Ishaq che lo sta fottendo, come ha fatto tante volte in questi anni. La destra chiusa a pugno si muove lungo il cazzo, dalla base alla cappella, per poi ridiscendere, in un movimento continuo. Ishaq sembra sorridergli, mentre lo prende, come quando Alessandro si sdraiava sulla schiena e Ishaq si metteva le gambe dello schiavo sulle spalle e poi lo trafiggeva con il suo spiedo vigoroso. Alessandro mormora:

- Fottimi, Ishaq, fottimi. Spaccami il culo. Così! Sì! Sì!

Alessandro ansima, mentre la sua mano accelera il ritmo e infine il piacere esplode e il seme sgorga.

Alessandro rimane immobile, gli occhi chiusi, la destra ancora intorno al cazzo, un dito in culo, lo sborro appiccicoso sulla mano e tra i peli del ventre. Mormora:

- Ishaq!

 

Il giorno seguente Ruwayd arriva, scuro in volto. Alessandro intuisce, prima ancora che il mercante apra bocca.

- È stato condannato a morte. Lo crocifiggeranno domani.

Alessandro barcolla, come se lo avessero colpito. Non riesce a dire nulla. Crocifisso, come un malfattore. Il corpo esposto al ludibrio della folla. Domani. Ishaq. La morte. Domani. La croce. Alessandro raggiunge la sua camera, senza dire una parola, e si siede a terra, in un angolo. Chiude gli occhi.

Il pensiero gli martella in testa per tutto il giorno. Ruwayd cerca di distrarlo: lo chiama; gli assegna qualche compito; cerca di parlargli. Si rende conto che il giovane non lo ascolta, sembra non capire quello che gli viene detto, non reagisce. Ruwayd vorrebbe in qualche modo alleviare la sua sofferenza, ma non sa come fare.

La sera Alessandro si corica, ma per tutta la notte non riesce a prendere sonno. A tratti prova l’impulso di alzarsi, correre al carcere e denunciarsi, per morire con Ishaq. Si alza, deciso a uscire, ma si ferma sulla soglia e poi ritorna a stendersi: l’idea della morte lo angoscia. Non se la sente di denunciarsi, di affrontare il supplizio.

 

L’indomani, poco prima dell’alba, Alessandro esce di casa da solo, per la prima volta da quando ha cambiato padrone: vuole assistere all’esecuzione. Raggiunge la piazza, dove si sono già radunate alcune persone, nonostante l’ora antelucana. Alessandro si sistema vicino al palco dell’esecuzione, a due passi dai soldati che stanno tutt’intorno per evitare che la folla si avvicini troppo. Man mano che le ore passano, la piazza si riempie. Intorno a lui la gente, sempre più numerosa, commenta, scherza, litiga, maledice l’eretico. Ogni parola è una pugnalata, ma Alessandro non tradisce ciò che prova. In realtà gli sembra di non provare niente: dentro di lui c’è solo un immenso vuoto.

Infine il rumoreggiare della folla lo scuote dal suo torpore. Alcuni uomini salgono sul palco, portando la croce a T. Alessandro rabbrividisce. Pensa che non può assistere, che deve andarsene: non può vedere lo scempio che faranno del corpo di Ishaq. Ma le gambe rifiutano di muoversi.

La croce viene sistemata su un cavalletto, in modo che sia possibile legare il prigioniero e poi issarlo. Alessandro ha la nausea. Vorrebbe vomitare, anche se l’angoscia gli ha impedito di mangiare ieri sera e questa mattina.

Dalla parte della strada che arriva dalla fortezza si sente un boato: stanno portando Ishaq nella piazza. Alessandro si chiede se Ishaq verrà ucciso prima di essere crocifisso, come spesso accade, o subito dopo. Non vuole vederlo morire, ma si rende conto che è un pensiero assurdo. Perché è qui, in questa piazza ormai gremita di folla, se non per vedere Ishaq? E Ishaq è qui solo per morire.

Ishaq sale sul palco, accompagnato dal boia. Non c’è traccia di paura sul suo volto.

Il carnefice gli afferra la tunica e la lacera completamente. Alessandro sussulta, come se avessero stracciato i suoi abiti. Ishaq è rimasto a torso nudo. Le guardie lo fanno stendere sulla croce. Ishaq le lascia fare, senza cercare di ribellarsi. Ora Alessandro non vede bene, ma capisce che gli fanno mettere le braccia dietro l’asse orizzontale, poi gliele legano. Infine passano la corda attorno alle caviglie. La croce viene issata.

Ora Alessandro può guardarlo, in alto, sopra le teste della folla che ha accompagnato il sollevamento della croce con un grido di esultanza.

Il boia incrocia le braccia e guarda il condannato appeso. Alessandro ha un brivido. Non uccideranno subito Ishaq? Lo lasceranno agonizzare fino a che non riuscirà più a respirare? Non è possibile, è una morte atroce, di solito riservata a briganti colpevoli di molti omicidi. Normalmente il condannato viene ucciso subito, spesso ancora prima di essere legato alla croce, ed è solo il suo cadavere a essere esposto.

Ma i commenti della gente gli fanno capire che la sorte di Ishaq è un’altra: agonizzerà sulla croce fino a che non morirà; le autorità hanno deciso di infliggergli la condanna più severa, per dare un esempio. Alessandro guarda il corpo di Ishaq appeso alla croce. Il sostegno posto tra le gambe lo aiuterà a reggere a lungo e ritarderà la sua morte, che sarà comunque atroce.

Il sole illumina in pieno il condannato, che incomincia a sudare. Il sudore scorre abbondante sul viso, deformato dalla smorfia di dolore, e sul petto, dove i rivoli si perdono tra la fitta peluria. Presto anche i pantaloni sono intrisi di sudore. Alcuni spettatori se ne vanno: l’agonia sarà lunga e non possono perdere tutto il giorno, magari ripasseranno più tardi. Altri arrivano. Alessandro rimane immobile al suo posto. Gli insetti ronzano intorno al viso di Ishaq, che agita la testa per scacciarli. Altri si posano numerosi sul suo petto.

Il tempo passa, il sole sembra schiacciare la folla dei curiosi, che ora incomincia a diradarsi: il calore è intollerabile. Alessandro si accorge che Ishaq ha incominciato a pisciare. I pantaloni, già bagnati di sudore, ora si inzuppano di piscio e attraverso la stoffa bagnata si intravede il cazzo di Ishaq. Molti ridono e dileggiano il condannato.

Alessandro si rende conto che non riesce più a reggere: la testa gli gira e la vista si sta annebbiando. Cerca di allontanarsi, ma cade a terra, semincosciente. Lo aiutano ad alzarsi e lo sostengono fino a un caffè vicino, dove lo fanno sedere. Qualcuno gli versa acqua sulla testa, due volte. Poi gli danno da bere e lo accompagnano a stendersi su un tappeto in un cortiletto interno, ombreggiato da un grande albero. Gli mettono una pezza di stoffa bagnata sulla fronte.

Il cortile è ombroso e fresco. Lentamente Alessandro si riprende. Ogni tanto gli chiedono se ha bisogno di qualche cosa. Rimane a lungo disteso. Quando infine si sente di camminare, si alza e si dirige verso la casa di Ruwayd, senza più passare per la piazza dove Ishaq agonizza.

 

Il giorno seguente Alessandro raggiunge nuovamente la piazza. Vorrebbe non andarci, ma qualche cosa lo attira verso il luogo dell’esecuzione. C’è parecchia gente che assiste. Alessandro guarda Ishaq appeso sulla croce. Con orrore si accorge che è ancora vivo. Si avvicina. Fissa il condannato che respira a fatica: il petto si solleva e si abbassa con un ritmo rapido. Una miriade di insetti banchetta sul viso e sul corpo del suppliziato. Molti uomini assistono allo spettacolo e ridono, scambiandosi battute e lazzi osceni. Alessandro è pentito di essere venuto.

Una voce alle sue spalle lo fa sussultare:

- Sei venuto a vedere la fine del tuo vecchio padrone, Iskandar?

Alessandro si volta. Conosce bene l’uomo che si è rivolto a lui: è Abdul-Qaadir, uno dei più importanti ufficiali di Damasco. Alessandro è stato suo schiavo per quattro anni, dai quattordici ai diciotto. Abdul-Qaadir lo ha acquistato dal suo padrone precedente perché ormai Alessandro aveva raggiunto l’età per diventare schiavo di piacere. Molto giovane, molto bello, vergine, un bocconcino da re per un guerriero valoroso e potente.

Alessandro annuisce lentamente. Quest’uomo gli fa paura, anche se non è più il suo padrone.

- So che questo fottuto eretico ti ha venduto, così non finirai all’asta, come gli altri suoi schiavi. Peccato, magari ti avrei ricomprato io.

Abdul-Qaadir ride, una risata aspra. Alessandro non dice nulla. L’ufficiale lo sta prendendo in giro: quando Alessandro ha raggiunto i diciott’anni, lo ha venduto, perché aveva trovato un nuovo schiavo, ancora vergine. Abdul-Qaadir non tiene mai molto a lungo i suoi schiavi di piacere: Alessandro è durato più di altri, ma alla fine l’ufficiale si è sbarazzato anche di lui.

L’ufficiale abbassa la voce.

- Avrei potuto gustare ancora il tuo culo. Ti sarebbe piaciuto, vero? Ti è sempre piaciuto.

Alessandro sa bene che Abdul-Qaadir ha ragione. Solo le prime volte il dolore fu più intenso del piacere, ma poi il desiderio divenne più forte di tutto.

Alessandro annuisce lentamente, non alle parole di Abdul-Qaadir, ma a qualche cosa che è sottinteso nel suo discorso.

Abdul-Qaadir sorride e dice:

- Vieni con me, Iskandar.

Abdul-Qaadir si volta  e si allontana. Alessandro lo segue. Sa che non gli converrebbe cercare di sottrarsi e in ogni caso non lo desidera. Il suo corpo lo chiede con forza e Alessandro è sempre stato debole di fronte ai suoi desideri.

Abdul-Qaadir si infila nei vicoli della città, fino a che arriva a una porta, a cui bussa tre volte. Una donna anziana gli apre. Abdul-Qaadir non dice niente e la donna non si mostra stupita: non è certo la prima volta che l’ufficiale si presenta con un uomo. Entrano e passano nel piccolo cortile. Abdul-Qaadir sale per una scala e raggiunge una cameretta al primo piano. Alessandro lo segue, in silenzio.

- Spogliami, Iskandar.

Alessandro annuisce e scioglie la cintura, poi prende la tunica e la solleva, sfilandola. Infine fa scivolare a terra i pantaloni. Ha un bel corpo Abdul-Qaadir, robusto, molto virile. Il pelame, diffuso attorno ai capezzoli e nella parte mediana del torace, diventa abbondante sul ventre.

Alessandro guarda il cazzo di Abdul-Qaadir: grosso, già gonfio di sangue, anche se non ancora teso. Il desiderio è una mano che lo prende alla gola e lo forza a inginocchiarsi.

- Prendilo in bocca, che voglio pisciare.

Alessandro annuisce. Apre la bocca e accoglie la cappella. Il getto scende in gola. Alessandro inghiotte, finche non riesce più. Il piscio gli cola dal mento sulla tunica. Abdul-Qaadir scuote la testa, ma non smette. Quando ha svuotato la vescica, gli dice:

- Spogliati.

Ma Alessandro ha incominciato a succhiare avidamente il cazzo  che ora gli riempie la bocca. L’ufficiale lo lascia fare un buon momento. Scuote la testa, guardando l’uomo ai suoi piedi: Alessandro ci sa fare, è davvero bravo, ma Abdul-Qaadir lo disprezza.

Il piacere cresce e il desiderio rischia di diventare incontenibile.

- Adesso basta. Spogliati e mettiti contro la parete.

A malincuore Alessandro lascia la sua preda. Si spoglia rapidamente. Si avvicina alla parete, divarica un po’ le gambe e appoggia le mani sul muro, in alto. Abdul-Qaadir si mette dietro di lui. Si sputa sulle dita, sparge un po’ di saliva sul solco, intorno al buco, e senza indugiare oltre, si abbassa un poco, avvicina la cappella al culo che gli si offre e lo infilza. Gli piace vedere Alessandro sussultare, sentire il suo gemito di piacere e di dolore. 

Abdul-Qaadir inizia a spingere, lentamente: sentire intorno al proprio cazzo questo culo caldo è splendido, il corpo che gli si offre è snello e forte e accende in lui un desiderio violento. Di solito preferisce i ragazzi, ma Alessandro è bellissimo e fotterlo gli trasmette una sensazione di potere.

Alessandro geme forte, incapace di controllarsi. Abdul-Qaadir sorride: il suo schiavo di un tempo non è cambiato, si abbandona al piacere senza remore.

Abdul-Qaadir sente che non può prolungare ancora il piacere. Le spinte diventano più forti e rapide e il seme si sparge. Alessandro lancia un grido e il suo seme schizza sulla parete.

Abdul-Qaadir esce da Alessandro. È stata una grande scopata. Alessandro è una troia, ma scoparlo è sempre bello!

L’ufficiale si lava il cazzo con l’acqua che c’è nella bacinella. Poi guarda lo schizzo di seme contro la parete, raccoglie la tunica di Alessandro e lo pulisce. Ride.

Si rivestono entrambi. Alessandro non sembra badare alle macchie di piscio e di sborro sulla sua tunica. Troppo forte è il suo turbamento. China la testa. Si sente sporco. Mentre l’uomo che ama agonizza sulla piazza, si è offerto al suo assassino. Abdul-Qaadir è solo un ufficiale, non è lui il responsabile della morte di Ishaq, ma fa parte di coloro che controllano la città e impongono il volere del signore.

Abdul–Qaadir gli dice:

- Ora di andare. Muoviti.

Alessandro annuisce. Scendono dalla scala e raggiungono la porta. Escono in strada. L’ufficiale si allontana senza voltarsi. Alessandro lo guarda percorrere il vicolo e scomparire dietro un angolo. Rimane a lungo fermo vicino alla porta, poi si dirige a passi lenti verso la piazza.

C’è ancora gente, ma meno della mattina: pochi possono stare tutta la giornata a guardare crepare un eretico e poi lo spettacolo dopo un po’ diventa noioso. Alessandro può avvicinarsi al palco su cui è issata la croce. Ishaq è ancora vivo, il suo corpo a tratti è scosso da un tremito e la testa oscilla. Alessandro spera che non sia più cosciente.

Nei movimenti convulsi con cui Ishaq si solleva dal piolo che lo sostiene all’altezza del cavallo, i pantaloni si sono abbassati, scoprendo il culo. Ishaq ha perso il controllo degli sfinteri e l’odore di merda arriva fino ad Alessandro. Nugoli di insetti coprono il corpo del condannato. Qualcuno vicino a lui osserva:

- Ha quello che si è meritato.

- Già. Si preoccupava solo dei piaceri del corpo. E questa è la sua giusta punizione.

Un uomo dalla voce profonda osserva:

- Queste esecuzioni dovrebbero farle nel cortile della fortezza. Ci sono anche donne che passano di qui. Gli si vede tutto.

Nella piazza ci sono soltanto uomini, ma in effetti qualche donna l’attraversa rapidamente, volgendo il viso dall’altra parte.

Alessandro si sente stanchissimo. Vorrebbe che l’agonia di Ishaq avesse termine, che non fosse più esposto al ludibrio della folla. Vorrebbe essere lontano, in un’altra città, tra altra gente.

Alessandro si volta e lentamente, quasi barcollando, si dirige verso la casa del suo nuovo padrone.

 

Il mattino dopo Ruwayd gli comunica che Ishaq è morto in serata. Il suo corpo rimarrà appeso alla croce a lungo, dicono per alcuni giorni, finché il lezzo del cadavere non sarà intollerabile.

Alessandro non vuole vederlo, ma nel tardo pomeriggio esce di casa e si dirige verso la piazza. Il corpo è interamente coperto di insetti. Già si sente il fetore della morte, perché il sole cocente accelera la decomposizione.

Alessandro pensa a una poesia che Ishaq ha scritto e gli ha dedicato:

Bevi ora, e ama, Iskandar. Non

sempre berrai e non sempre andrai con gli uomini.

Ci saranno sempre coppe di vino,

ma non saranno più le tue labbra a berle.

Ci saranno sempre membri vigorosi,

ma non saranno più i tuoi fianchi ad accoglierli.

Mettiamoci ghirlande e unguenti, prima

che li portino sulle nostre tombe.

Finché vivo, goda il corpo del vino

e dei fianchi di giovani maschi;

morto, che lo inondi anche il diluvio

e sia pure cibo per i vermi.4

Ora il corpo di Ishaq è davvero cibo per i vermi e per gli insetti. Il desiderio di vita che ardeva in lui si è spento per sempre.

Alessandro torna a casa. Pensa che non vorrebbe più uscire, non vorrebbe più svegliarsi.

Passano alcuni giorni. Ruwayd cerca di scuoterlo, gli detta alcune lettere, gli affida qualche piccolo incarico, forse più consono a un fattorino che a un segretario, ma l’importante è riuscire a farlo uscire dall’apatia in cui sprofonda. Alessandro esegue i compiti che gli vengono assegnati, ma tutto sembra essergli indifferente. Ci sono giorni in cui Ruwayd deve mandare un servitore a chiamarlo perché si alzi dal letto.

Ruwayd moltiplica gli incarichi, spesso forza Alessandro a uscire di casa per portare una lettera o acquistare qualche cosa. A volte l’inerzia di Alessandro lo irrita, ma sa che Ishaq lo amava e per affetto nei confronti dell’amico morto cerca di aiutare il giovane in tutti i modi.

Molto lentamente Alessandro si riprende. Rimane ancora lunghe ore inattivo, seduto su una panca in giardino o su un tappeto in casa, a guardare nel vuoto, ma questi momenti diventano progressivamente meno lunghi e meno frequenti.

Anche il suo corpo si risveglia e come sempre Alessandro non riesce a sottrarsi al desiderio. E allora, nella solitudine della sua camera, il pensiero ritorna a Ishaq, ma anche all’ufficiale. Si immagina chinato in avanti di fronte a Ishaq, le mani sul suo culo, la bocca intorno al suo cazzo. Dietro di lui Abdul-Qaadir lo sta inculando con forza, spingendo il grosso cazzo fino in fondo, fino a che i coglioni sbattono contro il culo di Alessandro.

Il desiderio cresce e si moltiplica, le mani scorrono sul corpo, in carezze, poi scendono a stringere il cazzo e i coglioni, in una morsa che è dolorosa, ma moltiplica il desiderio invece di spegnerlo. Poi la destra stringe il cazzo e si muove fino a che il piacere deborda.

 

Man mano che Alessandro si riprende, il desiderio riafferma il suo potere. Alessandro non è abituato all’astinenza. Il suo corpo brucia. Non gli bastano le seghe. Ha bisogno di stringere un altro corpo.

Alessandro riprende ad uscire di casa. Guarda famelico gli uomini che incrocia, ma il pensiero del supplizio di Ishaq lo rende più prudente.

Un giorno, due settimane dopo l’esecuzione, Alessandro beve il suo tè nel cortiletto di un piccolo locale appartato. Un uomo alla destra di Alessandro dice:

- Boran e i suoi figli.

Alessandro guarda i quattro uomini che stanno entrando. Uno è nettamente più anziano degli altri: è quello che hanno chiamato Boran. Gli altri devono essere sui trent’anni, forse meno. In effetti c’è un’aria di famiglia, perché i quattro si assomigliano tutti: sono alti, più della media, massicci e forti; hanno visi larghi, incorniciati da una fitta barba, nera per i figli e grigia per Boran. Gli occhi sono scuri e i lineamenti marcati: non sono belli, ma trasudano forza.

Vengono a sedersi proprio vicino ad Alessandro, che distoglie lo sguardo, perché non si accorgano che li sta osservando, ma poi riprende a guardarli, incapace di trattenersi.  

I quattro parlano tra di loro. Non sono arabi. Parlano curdo, una lingua che Alessandro non capisce, ma sa riconoscere.

Alessandro distoglie lo sguardo quando qualcuno dei quattro guarda nella sua direzione. Ben presto si rende conto che l’uomo che siede alla destra del padre lo sta fissando: si è accorto dell’interesse di Alessandro. L’uomo si china verso il padre e gli dice sottovoce qualche cosa. Boran si volta verso Alessandro, poi sorride e si gira verso il figlio, rispondendogli.

Alessandro ha abbassato gli occhi. Rimane a fissare il bicchiere ormai vuoto. Gli sembra di sentire su di sé lo sguardo dei quattro, che ora parlottano sotto voce. Non solleva lo sguardo, ma dopo un po’ non riesce a resistere. Alza nuovamente gli occhi. L’uomo che si è accorto di lui lo sta fissando. Sorride, si alza e si avvicina ad Alessandro.

- Io sono Ishan. Vuoi venire con me e con i miei fratelli in una stanza qui sopra?

La proposta è molto diretta. Alessandro sa che non è prudente, ma non è in grado di comandare al suo corpo. Annuisce. Ishan sorride e chiede al proprietario una stanzetta. Su ordine del padrone, un inserviente guida il curdo al primo piano. Poco dopo Ishan si affaccia dalla scala e fa un cenno con la testa ai fratelli. Questi si alzano e sorridono ad Alessandro. Gli si rivolgono in arabo.

- Vieni.

Alessandro obbedisce. Forse è una follia, ma il desiderio già si tende in lui, troppo violento per essere soffocato.

La cameretta al primo piano è spoglia. C’è un ampio tappeto a terra e parecchi cuscini. Uno dei fratelli chiude la porta. Poi tutti e tre si spogliano con pochi gesti. Alessandro li contempla. Si assomigliano non solo nel viso, ma anche nella corporatura: tre giganti muscolosi e ben nutriti, il corpo coperto da una peluria più rada sul petto, rigogliosa sul ventre; tutti e tre dotati di cazzi vigorosi che già si drizzano e di coglioni voluminosi.

Alessandro si spoglia rapidamente. Ishan nota che non è circonciso e gli chiede:

- Sei cristiano?

- Sì.

Non dicono altro: in questo momento conta solo il desiderio che li guida.

Non conoscono la tenerezza, Ishan e i suoi fratelli. Non sono violenti, ma nei loro gesti c’è una brutalità che ad Alessandro non dispiace. Non gli chiedono che cosa desidera. Lo guidano a mettersi a quattro zampe. Ishan si mette dietro di lui, gli sputa sul buco del culo, sparge la saliva e poi avvicina la cappella. Spinge, forzando l’apertura. Alessandro geme di piacere. Ishan si ferma un attimo, per lasciare ad Alessandro il tempo di abituarsi, e poi riprende a spingere, affondandogli il cazzo in culo. Alessandro geme di nuovo. Uno degli altri due si inginocchia davanti a lui su due cuscini. Ora spinge il suo cazzo svettante contro le labbra di Alessandro, che apre la bocca e prima passa la lingua lungo l’asta, scendendo dalla cappella ai coglioni e risalendo, poi lo accoglie e incomincia a succhiare. Il terzo, il più giovane, è impaziente, e struscia il cazzo contro i fianchi di Alessandro. Ishan gli dice qualche cosa. Il giovane ride.

Alessandro è preda di sensazioni violentissime. La prolungata astinenza attizza il suo desiderio e questi corpi robusti sono esattamente ciò di cui ha bisogno. Lavora con la bocca avidamente, leccando e succhiando il cazzo di quest’uomo che ha davanti. Ne assapora il gusto e l’odore, di maschio pulito. E intanto il cazzo di Ishan gli riempie il culo e gli trasmette un piacere intensissimo, ben più forte delle fitte che a tratti prova.

Alessandro sente il fiotto riempirgli la bocca. Beve avidamente lo sborro dell’uomo, poi pulisce con cura la cappella.

Il più giovane dice al fratello qualche cosa, di certo di spostarsi, lo chiama Yilmaz. L’uomo ride e risponde in arabo, mentre si toglie:

- A te, Sarajil.

Sarajil è impaziente. Infila il cazzo già teso in bocca ad Alessandro e incomincia a muovere il culo, spingendo il cazzo fino in fondo e poi ritraendolo. Nella sua irruenza non si rende conto che a tratti blocca il respiro ad Alessandro, che quando Sarajil si ritrae respira rumorosamente. Sarajil viene in fretta, riempiendo la bocca di Alessandro di altro sperma.

Ishan sta ancora fottendo il culo di Alessandro: è davvero un ottimo stallone e Alessandro geme più volte, preda di un piacere crescente. Va avanti a lungo, mentre i fratelli lo incoraggiano. Infine le spinte diventano più rapide e Ishan viene. Poi afferra con forza il cazzo di Alessandro e con pochi movimenti lo guida al piacere.

Ishan si stacca. Ad Alessandro spiace sentire il suo cazzo uscirgli dal culo. Ishan e i fratelli si lavano, poi scendono. Alessandro si distende. Scivola nel sonno.

Quando si desta è già sera. Accanto a lui un vassoio con il tè e alcuni pasticcini al miele. Alessandro beve e morde un dolce. Sorride. Gli sembra di aver sognato. È stato bello, molto.

 

Tornando a casa, Alessandro si dice che è ora di lasciare Damasco: nulla più lo trattiene in questa città. Conta di dirigersi a Rougegarde. Ishaq gli ha dato abbastanza denaro da vivere per diversi mesi. Nel Regno di Gerusalemme Alessandro conta di cercare lavoro, magari come segretario: la perfetta conoscenza dell’arabo potrebbe aiutarlo a trovare un impiego. Altrimenti cercherà di farsi assumere in qualche locanda. Se è necessario, può benissimo svolgere lavori umili, come ha fatto quando era schiavo di Abdul-Qaadir.

Alessandro informa Ruwayd della sua decisione, poi raccoglie informazioni sulle carovane dirette verso i domini dei franchi: preferisce non viaggiare da solo, per motivi di sicurezza, perché ci sono banditi che talvolta assalgono i viaggiatori. Anche le carovane sono bersaglio di attacchi da parte di bande, ma chi viaggia da solo corre più rischi: alcuni briganti uccidono le loro vittime, mentre le bande se non incontrano resistenza si limitano a depredare.

Alessandro prepara il suo bagaglio. Nasconde i manoscritti di Ishaq nella fodera del suo mantello.

Si unisce a una carovana che da Damasco viaggia verso San Giacomo d’Afrin, una tappa obbligata sulla strada di Rougegarde. I viaggiatori sono per lo più mercanti che viaggiano con le loro merci, ma ve ne sono alcuni che si muovono per altri motivi: c’è chi torna da un matrimonio a cui ha assistito, chi va a visitare parenti, chi viaggia per il suo piacere. Si tratta in maggioranza di musulmani, ma vi sono anche due mercanti e altri tre viaggiatori cristiani.

La carovana si muove lentamente, al passo degli appiedati. Alessandro fa amicizia con alcuni dei viaggiatori, ma non sembra cogliere in nessuno una disponibilità ad andare oltre e preferisce essere prudente. Attraversano la Ghuta, il paradiso di orti e giardini intorno a Damasco, una terra benedetta da Dio. Ma dopo averla lasciata il paesaggio cambia rapidamente: l’area fertile e densamente abitata che hanno attraversato lascia il posto a un territorio collinoso e brullo, dove le tracce di presenza umana diventano sempre più rare. Il terzo giorno nel pomeriggio la carovana si inerpica sul fianco di una montagna, in un territorio arido e desolato. Alessandro nota che tra i mercanti c’è un certo nervosismo. Mentre passa, sente un uomo dire:

- Speriamo di non incontrarli.

Alessandro chiede:

- Chi non dovremmo incontrare?

- Non lo sai? Ci sono dei briganti in quest’area. Pare che…

L’uomo abbassa la voce e prosegue:

- ... dicono che li guidi il fratello del barone di Afrin, quel cane. Spesso assalgono le carovane e le depredano. Non uccidono chi non oppone resistenza, ma prendono denaro, oro, gioielli, talvolta anche le merci.

La notizia preoccupa Alessandro. Non ha merci con sé, ma una certa quantità di denaro: se gli venisse sottratto, rimarrebbe senza nulla. Non possiede niente nel Regno di Gerusalemme (né nei territori saraceni), non ha un lavoro, non ha parenti o amici: come potrebbe sopravvivere? Alessandro divide le monete d’oro, mettendole in due sacchetti. Ne tiene uno alla cintura e nasconde l’altro nel suo bagaglio.

Come altri, Alessandro si trova spesso a scrutare i crinali delle montagne tra cui stanno passando, temendo di veder spuntare uomini armati. Ma la giornata passa senza che ci siano stati incontri spiacevoli. La sera, intorno ai fuochi, gli uomini discutono, ma non c’è l’animazione delle sere precedenti: sembrano quasi aver paura che qualcuno li possa sentire. Sanno di non essere ancora al sicuro.

Alessandro dorme ancora quando si sentono voci concitate. Si alza, preoccupato. Non gli ci vuole molto a comprendere il motivo dell’agitazione: nella notte il campo è stato circondato dai briganti. Sono parecchi e sono ben armati.

I nuovi arrivati comunicano che tutti i membri della carovana dovranno mostrare i loro beni e che non devono cercare di nascondere alcunché. Il controllo avviene lungo la pista, dove i viaggiatori devono passare uno per volta, con tutte le loro proprietà.

Uno dopo l’altro i viaggiatori si avviano e si presentano al controllo. I banditi cercano soprattutto denaro e oro: non sembrano interessati alle merci. Però quando le somme che trovano sembrano loro insufficienti, frugano con molta attenzione nei bagagli. Ogni tanto prendono una tunica, un paio di pantaloni, una pezza di stoffa che attirano la loro attenzione. Le perquisizioni non risparmiano le poche donne che viaggiano con la carovana e suscitano il malumore di molti, ma nessuno osa protestare.

Un mercante ha nascosto una borsa di monete tra le stoffe. I briganti la trovano. L’uomo che dirige i controlli colpisce il mercante con uno schiaffo di tale forza che questi cade a terra. Non soddisfatto, il brigante lo colpisce ancora più volte con i piedi. Poi lo forza ad alzarsi, due uomini gli strappano gli abiti fino a lasciarlo nudo, tremante di paura. Lo fanno mettere da un lato, con tutte le sue merci. Gli altri guardano intimoriti. Nessuno sa quale sarà la sorte del temerario, che ora li guarda sgomento: sarà ucciso?

Alessandro non ha merci. Nel suo scarso bagaglio la seconda borsa sarebbe trovata subito. L’idea di rinunciare a tutto ciò che ha è terribile. Alessandro fa scivolare la borsa nei pantaloni, dietro la schiena, legandola alla vita in modo che non cada.

Quando arriva il suo turno, il controllo sembra svolgersi senza problemi: la prima borsa, che Alessandro porta alla cintura, viene presa. Poi il piccolo bagaglio viene setacciato e non emerge nulla. Una rapida perquisizione non permette ai banditi di scoprire la seconda borsa. L’uomo che lo sta controllando si stacca e gli fa cenno di andare, ma qualche cosa alle spalle di Alessandro attira la sua attenzione. Alessandro volta la testa e fa in tempo a vedere uno dei mercanti che con un cenno della mano si indica dietro la schiena, per far capire al brigante dove Alessandro ha nascosto le monete.

Il ceffone arriva mentre Alessandro sta guardando indietro. È tanto forte da intontirlo e da farlo barcollare, ma non lo manda a terra.

- Volevi fregarci, stronzo!?

Il bandito afferra i pantaloni di Alessandro e li strappa. Con il coltello recide la corda che regge la borsa, poi gli appoggia il coltello sotto i coglioni, sollevandoli.

- Meriteresti che te li tagliassimo, stronzo!

Lo afferra e lo spinge a fianco dell’altro. Un altro dei banditi gli strappa la tunica, lasciandolo nudo.

Alessandro guarda gli altri passare. Fissa l’uomo che lo ha tradito e che ora guarda da un’altra parte. Perché lo ha fatto? Per odio religioso, perché lui è cristiano? Perché sperava di ingraziarsi i briganti? Perché non voleva che qualcun altro riuscisse a conservare un po’ di denaro? Non saprebbe dire. Gli sembra un atto meschino e assurdo.

Intanto due briganti hanno preso la sacca di Alessandro e guardano tra le sue cose. Nulla di ciò che Alessandro ha con sé ha qualche valore, per cui non prendono niente, ma con il coltello tagliano tutto, rendendolo inservibile. Anche il mantello viene lacerato. I fogli del manoscritto appaiono, ma i briganti non se ne occupano: probabilmente non sanno nemmeno leggere.

Quando anche l’ultimo dei mercanti è stato controllato, i briganti ordinano di ripartire. Uno dei viaggiatori si rivolge al capo, chiedendo pietà per il mercante che hanno trattenuto. Non dice nulla di Alessandro, di cui non gli importa.

Il bandito risponde duramente:

- Vattene o farai la stessa fine. E non è una fine piacevole.

L’uomo ride e il mercante china il capo e si allontana.

I briganti si dispongono intorno ai due prigionieri. Ridono, beffardi. Il mercante trema. Alessandro tiene la testa alta. Non ha senso umiliarsi: se hanno deciso di ucciderlo non lo risparmieranno.

Il capo dei briganti si rivolge ad Alessandro, nella lingua dei franchi.

- Da dove vieni?

- Da Damasco.

- Tu non sei un saraceno.

- No, ma sono stato loro schiavo. Ho ottenuto la libertà dopo quasi trent’anni.

- Trent’anni? Ma non li hai, trent’anni!

- Ne ho ventotto. Ero appena nato quando i saraceni conquistarono Edessa e fummo tutti catturati.

L’uomo annuisce. Poi si volge ai suoi uomini, indicando il mercante arabo.

- Sistemate questo.

Due briganti prendono una corda, legano i piedi del mercante e poi fissano la corda alla sella di un cavallo.

- No, no, vi prego! Mi posso riscattare. I miei parenti pagheranno per me. Possono pagare parecchio. No, no!

Il capo fa un gesto. Il mercante grida ancora:

- No, no! Vi prego!

Uno dei briganti salta sul cavallo e lo sprona. Quando l’animale scatta, il mercante cade a terra e viene trascinato sul suolo sassoso. Urla disperato, ma le sue grida si spengono presto.

Alessandro si chiede se questa è la fine che lo attende. Rabbrividisce.

Il capo dei briganti dà ordine ai suoi uomini di prepararsi. Tutti salgono a cavallo. L’uomo li congeda, poi, quando si sono allontanati, si rivolge ad Alessandro.

- Ti lascio libero perché non sei un infedele. E perché sei un bel ragazzo. Ma c’è un prezzo da pagare. In ginocchio.

Alessandro obbedisce. Mentre i briganti scompaiono oltre una curva della strada, l’uomo si cala i pantaloni.

- Datti da fare.

Alessandro avvicina il viso al cazzo dell’uomo. Ne sente l’odore, molto intenso, di piscio e sborro. Non si stupisce: ha già avuto modo di notare che i franchi si lavano molto di meno degli arabi. Questo odore non gli dispiace. Apre la bocca e avvolge la cappella. È la prima volta che gusta un cazzo non circonciso: gli è capitato alcune volte in un hammam o in qualche taverna di avere rapporti con cristiani, ma di solito preferivano metterglielo in culo o farsi fare una sega. Incomincia a succhiare e leccare. Man mano che il cazzo si gonfia e la pelle si ritira, lasciando scoperta la cappella, il gusto diventa sempre più forte: il brigante di certo si lava ben di rado. Alessandro non cerca di sottrarsi: non potrebbe e forse non lo vorrebbe neanche.

L’uomo dice, con una risata in cui traspare la tensione:

- Ci sai fare!

Alessandro appoggia le mani sui fianchi dell’uomo e lavora a lungo, finché la scarica non gli riempie la bocca.

Quando ha bevuto, l’uomo gli mette una mano sulla fronte e spinge, allontanandolo. Si tira su i pantaloni e sale a cavallo.

- Questa volta te la cavi con poco, ma ti sconsiglio di riprovarci. Potresti non essere altrettanto fortunato.

Alessandro rimane solo nella valle. Del passaggio della carovana e dell’attacco rimangono poche tracce: i suoi abiti e quelli del mercante strappati, qualche oggetto caduto a terra o dimenticato. Tutt’intorno, vuoto e silenzio.

Alessandro è nudo, non ha più nulla, neanche di che vestirsi. Si chiede che cosa fare. Ha ancora senso proseguire per San Giacomo d’Afrin? A Damasco almeno c’è Ruwayd che gli darebbe una mano. Ma Alessandro non ha voglia di tornare a vivere tra i saraceni. E ormai non deve mancare molto a San Giacomo d’Afrin: tre giorni di marcia, dicevano. Da solo potrebbe procedere anche più in fretta, se conoscesse la strada.

Raccoglie le vesti lacerate, le sue e quelle del mercante. Ne ricava qualche striscia di panno che lega insieme e si mette intorno alla vita, in modo da coprire almeno i genitali e il culo. Sopra si mette anche la tunica strappata, poi raccoglie i fogli del manoscritto e intesse una specie di borsa con qualche striscia di tessuto. Quando ha concluso, si avvia.

Segue le tracce del passaggio della carovana. C’è anche una striscia di sangue e qua e là brandelli di pelle e di carne. Alessandro rabbrividisce. Poco oltre vede, accanto al sentiero, il cadavere del mercante: un ammasso informe e sanguinolento. Vorrebbe seppellirlo, ma non ha nulla con cui scavare.

Sul terreno roccioso diventa sempre più difficile scorgere le tracce. Alessandro percorre un sentiero, ma non sa se è quello che conduce a San Giacomo. Cammina tutto il giorno, sempre più incerto e scoraggiato. Intorno a lui i fianchi brulli delle montagne, senza traccia di presenza umana, di rado qualche animale: sono terre inospitali, queste. In tarda mattinata beve a un torrente, ma non ha nulla da mangiare. Si sente molto debole. Si chiede se arriverà mai a San Giacomo d’Afrin. No, senza cibo e senza acqua non può farcela. Oltre tutto non conosce la strada e in queste montagne non c’è nessuno a cui chiedere. Si sta muovendo nella direzione in cui procedeva la carovana, ma non sa se segue il sentiero giusto.

Forse è destinato a morire tra questi monti.

Quando arriva la sera, Alessandro si ferma per riposare. Non ha nulla per accendere un fuoco. Le notti non sono fredde, ma su questi monti si muovono branchi di lupi. E Alessandro non ha armi, nulla. La marcia e la mancanza di cibo lo hanno indebolito. Come potrà difendersi, se verrà assalito? Si guarda intorno, mentre la notte scende rapidamente. Si alza per raccogliere qualche sasso, da poter lanciare o usare come arma, ma sa che è una precauzione inutile.

In quel momento vede il cavaliere, ormai vicino. Non si è accorto del suo arrivo. La salvezza o la morte?

L’uomo gli si accosta e scende da cavallo. Deve avere più o meno la sua stessa età, è robusto e ha un bel viso largo, con una fitta barba scura. Un tipo d’uomo che ad Alessandro piace.

- Tu sei il cristiano che viaggiava con la carovana. Ti hanno risparmiato.

Non sono domande. L’uomo deve aver incontrato gli altri, che gli hanno raccontato quello che è successo.

- Sì. Hanno ucciso il mercante maomettano. Gli hanno legato i piedi e lo hanno fatto trascinare da un cavallo.

L’uomo annuisce. Non appare stupito: sospettava che il mercante sarebbe stato ucciso.

- Hai mangiato? Hai bevuto?

- No, non mi hanno lasciato niente.

- Ho io qualche cosa, ma prima dobbiamo trovare un posto per la notte. Qui è meglio non accendere fuochi che rivelino la presenza di viandanti.

Solomon individua un angolo riparato tra alcune grandi rocce. C’è posto per il cavallo e per loro due.

- Se arrivano i lupi, il mio cavallo li sentirà e ci avviserà.

L’uomo fruga nella sacca appesa al fianco del cavallo. Ne tira fuori una tunica.

- Mettiti questa. Ah, non ti ho nemmeno detto il mio nome: io sono Chlomo, ma di solito mi chiamano Solomon.

- Sei ebreo?

- Sì.

- Io mi chiamo Alessandro, sono cristiano, anche se...

Alessandro si interrompe: che senso ha raccontare a questo sconosciuto che di fatto non è credente?

- Sediamoci e mangiamo qualche cosa.

Solomon tira fuori dalla sacca una borraccia e una piccola bisaccia con del cibo: pane, carne secca, formaggio. Lo divide con Alessandro.

- Grazie.

Dopo che hanno mangiato, Solomon dice:

- Direi che è meglio metterci a dormire. Domani abbiamo tutti e due una lunga strada, in direzioni diverse.

Alessandro pensa che dovrà chiedere a Solomon come arrivare. Ora che ha mangiato e bevuto, la situazione gli appare meno drammatica e la lunghezza del cammino non lo spaventa più.

Il mattino seguente, quando Alessandro si sveglia, Solomon non è accanto a lui. Alessandro si mette a sedere. Solomon sta arrivando.

- Buon mattino, dormiglione!

Alessandro guarda il cielo. Il sole è ancora basso all’orizzonte.

- Ma non è tardi.

Solomon ride. Ha una bella risata e il suo viso diventa ancora più bello quando sorride. Alessandro si è svegliato con il cazzo duro e i quattro stracci con cui si è coperto non sono sufficienti a nasconderlo. Si vergogna, ma non gli spiacerebbe se Solomon cogliesse l’occasione per farsi avanti. È un gran bell’uomo, forte, maschio.

Ma Solomon non sembra essersi accorto dell’erezione di Alessandro. Risponde:

- Dipende dai punti di vista. Per me è tardissimo, ma tanto il mio programma di viaggio è già andato a farsi fottere ieri. Non ha importanza.

Alessandro ha un sospetto. Chiede:

- Sei venuto qui per cercare me, ieri, vero?

- Sì, non percorro questa strada, di solito, è troppo pericolosa. Conosco altri passaggi, più sicuri e adatti a un uomo solo. Ma la carovana mi ha parlato dell’attacco e dei due uomini rimasti prigionieri e ho deciso di venire e vedere.

- Rischiando di incontrare i banditi.

- Qualche rischio c’è sempre.

Intanto Solomon ha tirato fuori dalla sacca un po’ di cibo e la fiasca dell’acqua. Quando hanno finito la loro colazione, gli porge la piccola sacca.

- Tienila tu. Ti servirà per arrivare ad Afrin, San Giacomo d’Afrin, dovrei dire.

- E tu?

- Non ti preoccupare. Io sono a cavallo, conosco la zona, so dove trovare l’acqua o qualche villaggio dove rifornirmi. E comunque questa sera sarò vicino a Damasco, magari già in città. Tu conosci la strada per San Giacomo d’Afrin?

- No.

- Non vivi lì, vero? Non ti ho mai visto.

- No, ero schiavo dei saraceni a Damasco. Sono stato liberato e adesso vado a San Giacomo.

- Conosci qualcuno?

- No.

- Non è un bel posto, ma… va bene, sono scelte tue.

- Non è una scelta. Non potevo più vivere a Damasco. Tu ci vivi, vero? A San Giacomo d’Afrin, intendo.

- Sì. Ma ci sono nato. Comunque, se avessi bisogno di qualche cosa, puoi venire a cercarmi nel quartiere ebraico. Se chiedi di Solomon, ti sapranno indicare dove abito. Tra qualche giorno sarò di ritorno.

Solomon spiega ad Alessandro come arrivare e dove può trovare acqua lungo la strada. In ogni caso, seguendo la via che gli ha indicato, già nel pomeriggio Alessandro si troverà in una zona abitata, dove potrà trovare aiuto. Infine Solomon gli dona due monete.

- Buona fortuna, Alessandro.

È molto tempo che nessuno lo chiama Alessandro. Da quando è stato separato da sua madre: i suoi padroni lo hanno sempre chiamato Iskandar.

Alessandro guarda Solomon scomparire. Strana apparizione. Se la sua fede fosse più forte, penserebbe a un angelo inviato in suo soccorso. Sua madre gli raccontava le parabole dei Vangeli, tra cui la storia del buon samaritano. Solomon è di quella razza.

 

Ora Alessandro procede spedito. Sa in che direzione deve muoversi, ha alcuni punti di riferimento e può nutrirsi. Ha perso tutto quello che aveva, ma ha salvato la vita. Non è poco.

Come gli ha annunciato Solomon, nel pomeriggio vede i primi segni di presenza umana: qualche capanno per gli attrezzi, capre o pecore che brucano, un terreno recintato, un piccolo appezzamento coltivato. Più tardi scorge i primi villaggi. La notte ottiene ospitalità presso una famiglia di contadini e la sera del giorno successivo raggiunge San Giacomo d’Afrin.

Alessandro si ferma a guardarne le mura. Sa che non è certo il posto migliore per uno come lui: già Ishaq gli aveva raccontato che il vescovo Bohémond aveva fatto bruciare vivi due sodomiti. È bene che rimanga a San Giacomo d’Afrin il meno possibile e che eviti di avere rapporti. Cercherà di dirigersi al più presto verso Rougegarde, dove il duca limita il potere del vescovo, o a Cesarea, ma prima ha bisogno di guadagnare un po’ di denaro: gli è rimasta solo una delle monete che gli ha dato Solomon.

Alessandro cerca qualcuno che gli affitti una camera: preferisce evitare le locande, più costose. Chiede in giro e gli danno l’indirizzo di Berthe, una vedova che ospita i pellegrini diretti a Gerusalemme.

La casa di Berthe è in un vicolo non lontano dalla chiesa di San Lazzaro. È un piccolo edificio a due piani, dalle pareti bianche.

Ad aprirgli la porta è una serva, che lo fa entrare e chiama la padrona. Berthe conserva ancora nel viso e nel corpo le tracce di una grande bellezza che sta svanendo. Alessandro non è insensibile al fascino femminile, anche se il suo desiderio lo guida verso gli uomini: ha avuto rapporti con donne in alcune occasioni.

Berthe guarda il bel giovane che chiede una camera. Alessandro si premura di spiegare che non ha quasi nulla, perché la carovana con cui viaggiava è stata assalita dai briganti, ma che intende cercare un lavoro. Berthe ha sentito parlare dell’attacco e del fatto che i briganti hanno trattenuto due uomini: quando i mercanti sono arrivati a San Giacomo hanno diffuso la voce. Forse, se Alessandro non fosse attraente, Berthe esiterebbe prima di affittare la camera a uno che confessa di non avere di che pagarla: non si mangiano le promesse di pagamento. Ma la bellezza dell’uomo che ha di fronte le suggerisce una proposta: in attesa di trovare un lavoro, Alessandro può fare da uomo di fatica per lei. Ci sono parecchie cose da fare e la presenza di un uomo è utile. Non riceverà un salario, ma avrà vitto e alloggio. La proposta è allettante e l’accordo è concluso.

Alessandro svolge con cura i lavori che gli vengono richiesti: la fatica non lo spaventa. Il mattino, quando si alza, e la sera, dopo aver concluso la giornata, Alessandro si lava al pozzo del piccolo cortile: negli anni trascorsi presso gli arabi e soprattutto negli ultimi, vissuti con Ishaq, ha preso l’abitudine alla pulizia giornaliera. Dalla finestra Berthe osserva il giovane. Un corpo snello ed elegante, un bel viso. Berthe è soddisfatta del suo uomo di fatica. È proprio un bel maschio. Berthe si dice che a fare solo i lavori pesanti, Alessandro è davvero sprecato.

Così, poco tempo dopo il suo arrivo, il giovane incomincia a trascorrere le notti nel letto della padrona. Di giorno ritorna ad essere l’uomo di fatica.

Scopare con Berthe gli piace, ma il suo corpo ha bisogno anche d’altro, per cui un giorno Alessandro chiede:

- Vorrei lavarmi un po’ meglio. Qui a San Giacomo c’è un hammam?

Alessandro ha avuto spesso rapporti negli hammam. Sa che a San Giacomo deve fare attenzione, ma vorrebbe almeno esplorare le possibilità.

Berthe ride:

- Un bagno? No, li hanno chiusi tutti. Il vescovo dice che sono luoghi di perdizione, che vi succedono cose abominevoli. Secondo lui è meglio che i franchi puzzino.

Berthe sorride. Apprezza la pulizia di Alessandro, il buon odore che emana dal suo corpo quando la stringe. Alessandro annuisce.

- Va bene, continuerò a lavarmi al pozzo.

 

Dieci giorni dopo il suo arrivo, Alessandro decide di andare a trovare Solomon. Vuole restituirgli la borsa e soprattutto vuole ringraziarlo per averlo salvato. Non è solo questo, Alessandro lo sa bene. I rapporti con Berthe soddisfano il bisogno di un corpo abituato a godere spesso, ma non possono saziarlo. Alessandro vorrebbe stringere tra le braccia un corpo maschile, cedere alla forza di un maschio che lo prenda. Dietro la sua visita di cortesia a Solomon c’è anche questo.

Alessandro sa dove si trova il quartiere ebraico. Vi si reca e chiede di Solomon.

- Solomon, il gioielliere?

Alessandro allarga le braccia.

- Non so che lavoro faccia. Mi ha detto che se chiedevo qui di Solomon mi avrebbero mandato da lui.

- Allora è il gioielliere.

L’uomo si mette sulla porta della bottega e indica ad Alessandro la strada da seguire.

Alessandro raggiunge la casa che gli ha indicato il mercante. Non è una bottega, è un’abitazione. Alessandro bussa e gli apre un giovane servitore.

- Buongiorno, vorrei parlare con il signor Solomon, se c’è.

- Sì. Chi lo desidera?

- Digli che lo cerca Alessandro, l’uomo che ha salvato.

Il servitore scompare, ma torna poco dopo e fa salire Alessandro.

Solomon è vestito con una tunica da lavoro, che gli lascia scoperte le braccia muscolose, coperte da una peluria leggera.

- Alessandro, sono contento di vederti e di sapere che sei riuscito ad arrivare ad Afrin sano e salvo.

- Grazie a te, Solomon.

- Passiamo di là.

La stanza in cui Solomon conduce Alessandro è un piccolo salotto, con un tappeto, diversi cuscini, un tavolo e tre sgabelli: uno spazio adatto per far accomodare i clienti e mostrare loro i gioielli. C’è una finestra, schermata da un tenda bianca su cui la luce del sole proietta le ombre dei rami di un albero. La stanza affaccia su un cortile interno ed è molto silenziosa.

- Non voglio farti perdere tempo, se sei occupato. Volevo restituirti la borsa e ringraziarti.

Mentre lo dice, Alessandro porge la borsa a Solomon.

- Ho tutto il tempo che vuoi. Nessun problema.

Solomon si siede a terra e Alessandro lo imita: trova tappeti e cuscini più comodi degli sgabelli. Solomon gli chiede:

- Ti sei fermato qui ad Afrin. Conti di rimanerci?

- No, ma per il momento non posseggo nulla. Non ho trovato un vero lavoro. Faccio un po’ di tutto per la donna che mi ospita, ma mi paga dandomi un tetto e da mangiare, nient’altro.

- Che cosa sai fare?

- Per il mio padrone facevo da segretario, scrivendo in arabo e nella lingua dei franchi, ma qui non so chi potrebbe aver bisogno di un segretario che conosca anche l’arabo.

Solomon scuote la testa.

- Temo nessuno. I musulmani sono stati in gran parte scacciati o costretti a convertirsi e prima o poi succederà lo stesso anche a noi ebrei. Tenere contatti con i saraceni è pericoloso. Uno che conosce bene l’arabo e la lingua dei franchi potrebbe servire al vescovo o al barone, ma bisognerebbe ottenere la loro fiducia. E di qualcuno che viene da Damasco diffiderebbero.

Alessandro annuisce. Si rende conto che Solomon ha ragione.

Ora che ha restituito la borsa, potrebbe andarsene, ma sta bene in questa stanza fresca, immersa nella penombra. Sta bene accanto a quest’uomo forte, dalla voce profonda. Gli piace poterlo guardare.

- Sì, posso capirlo. Sono stato schiavo dei saraceni e in ogni caso nessuno può garantire della mia onestà e competenza. Potrei essere una spia. Il mio ultimo padrone è morto, ma in ogni caso le referenze fornite da un saraceno non avrebbero nessun valore qui, anzi...

Alessandro non sa perché sta raccontando queste cose. Di Solomon si fida e gli fa piacere stare accanto a lui, proseguire il dialogo.

- Dici che il tuo ultimo padrone è morto. Nelle sue volontà ha deciso anche la tua liberazione?

Alessandro esita un momento, poi dice:

- No, in realtà… mi ha venduto prima di essere arrestato perché sapeva che lo avrebbero condannato a morte. Ma mi ha dato il denaro per potermi riscattare dall’amico a cui mi ha venduto.

- È stato giustiziato? Ma… come si chiamava.? Non era mica Ishaq ibn Shafi?

Alessandro è sorpreso.

- Sì, è lui. Come… Lo conoscevi?

Solomon annuisce.

- Sì, lo conoscevo, abbiamo avuto modo di vederci due volte. Apprezzavo molto le sue idee. E le sue poesie, anche alcune che non…

Solomon si interrompe di colpo.

- Alessandro? Iskandar! È a te che erano dedicati certi suoi componimenti. E lo vidi il bel corpo, che pareva/ modellato da Amore con la sua perizia…

Alessandro è sbalordito.

- Non credevo che lo conoscessi. Quelle poesie, poi… non le faceva leggere a nessuno.

- A nessuno no, diciamo a pochi, di cui sapeva di potersi fidare. Poesie come…

Solomon sorride e recita:

- Bevi ora, e ama, Iskandar. Non sempre berrai… È meglio che mi fermi qui. Non è una poesia che puoi far leggere a tutti, ma solo a qualcuno di cui davvero ti fidi.

Alessandro annuisce.

- Le ho con me.

Solomon corruga la fronte.

- Qui?

- Nella casa dove vivo.

- Fa’ attenzione, Alessandro. Imparale a memoria e poi distruggile. È pericolosissimo avere quelle poesie. Basta il possesso di quei testi e la dedica a te per finire sul rogo, qui a San Giacomo d’Afrin.

Alessandro si rende conto di aver sottovalutato il rischio. Pensava che una volta in territorio franco possedere quei testi in arabo non costituisse più un problema. Ma se qualcuno per un qualsiasi motivo frugasse tra le sue cose e trovasse quei fogli scritti in arabo, di certo si insospettirebbe e se le autorità ne venissero in possesso… sì, a questo non aveva pensato. Deve pensare al da farsi, quando torna da Berthe. Adesso però vorrebbe rimanere ancora un po’ con Solomon.

Riprende il discorso:

- Non ricordo di averti mai visto a Damasco.

- No, ogni tanto ci vado, per il mio lavoro. Con Ishaq ci siamo visti solo due volte, nella casa che possedeva nella Ghuta. Mi ha portato da lui un amico comune, per cui ci siamo parlati molto apertamente. Mi ha raccontato anche di te. Ti amava, profondamente. Eri la luce della sua vita. Era felice di averti incontrato.

Alessandro china il capo.

- Ha fatto una morte orrenda.

- Lo so.

Alessandro alza il capo.

- Non voglio distruggere le cose che ha scritto.

- Non puoi tenerle qui. In ogni caso ti conviene lasciare la città. A Rougegarde non correresti rischi, ma qui…

- Sì, cercherò di andarmene.

Alessandro rimane un momento in silenzio, poi dice:

- Posso chiederti una cosa, Solomon? È molto personale, ma vorrei…

- Dimmi. Puoi chiedermi quello che vuoi.

Solomon sorride e aggiunge:

- Al massimo non ti risponderò.

- Hai fatto all’amore con lui, con Ishaq?

Solomon non appare irritato dalla domanda. Nuovamente sorride.

- No. C’era una profonda comunione tra i nostri spiriti, ma non abbiamo unito i nostri corpi. Ishaq per me era come un fratello, anche se lo avevo visto solo due volte in tutta la mia vita.

Alessandro annuisce. Guarda le braccia nude di Solomon. Il desiderio brucia.

- Perdona la mia domanda, ma pensavo… Per Ishaq il gioco dei corpi era anche un modo per sentirsi più vicini.

- Sì, certo. Ma davvero io l’ho conosciuto troppo poco.

- Se te lo avesse chiesto, gli avresti detto di no?

Solomon scuote la testa.

- Non me lo ha chiesto, Alessandro. E allora, che senso ha?

Alessandro tace. Dalla finestra entra un soffio d’aria che muove la tenda. Per un attimo Alessandro vede i rami di un limone carico di frutti. Questa stanza gli sembra un’oasi di pace e frescura. Vorrebbe fermarsi qui per sempre.

Dopo un momento di silenzio, Solomon parla:

- Alessandro, scusa se insisto. Fai scomparire quei testi. Se qualcuno li scoprisse… un cristiano che ha con sé testi scritti in arabo… sarebbe di certo sospettato di essere un traditore, una spia. Li consegnerebbero alle autorità. E sarebbe la morte.

- Non voglio distruggerli. Vorrei salvare almeno questo di Ishaq.

- Allora devi trovare un posto assolutamente sicuro dove nasconderli. Non nella stanza dove dormi.

Alessandro annuisce. Sa che ora dovrebbe alzarsi e andarsene, ma desidera rimanere ancora nella pace di questa stanza.

- Ti sto facendo perdere tempo.

- Non ti preoccupare, Alessandro. Non ho nulla di urgente da fare. Possiamo rimanercene qui tranquillamente.

Alessandro guarda Solomon. Le parole gli salgono alle labbra senza che ci sia una decisione cosciente. Mormora:

- Vorrei che tu mi prendessi, Solomon.

Solomon non appare stupito. Annuisce. Si alza e passa nell’altra stanza. Alessandro lo sente chiudere la porta, facendo scorrere il chiavistello.

Poi Solomon torna. Rimane in piedi. Alessandro si alza. Solomon  gli prende il viso tra le mani e lo bacia sulla bocca, poi spinge la sua lingua tra le labbra. Alessandro l’accoglie. Le mani di Solomon scendono, scorrendo sugli abiti e attraverso la stoffa Alessandro sente le carezze, che smuovono qualche cosa di profondo dentro di lui.

Solomon non ha fretta. Le sue mani scorrono lievi, non stringono: sfiorano appena. E questo tocco lieve trasmette ad Alessandro sensazioni fortissime. Vorrebbe che Solomon lo stringesse con forza, lo spogliasse, lo prendesse. È impaziente. Ma allo stesso tempo vorrebbe rimanere per sempre così com’è ora, le bocche unite in un bacio ardente, i corpi che appena si sfiorano.

Alessandro alza le mani e le appoggia sul corpo di Solomon. Vorrebbe accarezzarlo con delicatezza, ma il desiderio lo tradisce: le sue mani stringono la carne forte di Solomon, scorrono avide e impazienti, si infilano sotto la tunica, fanno scivolare a terra i pantaloni, afferrano il culo robusto e poi cercano la preda più ambita.

Il cazzo di Solomon è già teso, caldo, vigoroso e Alessandro ha l’impressione che la terra gli manchi sotto i piedi: come sempre il desiderio è troppo forte e gli strappa un gemito, forte, poi un altro. Solomon lo stringe con forza, ora, e tra queste braccia Alessandro è in paradiso. Le mani di Solomon lo spogliano e Alessandro è costretto a lasciare la presa, per permettere a Solomon di togliergli tutti i vestiti. Alessandro gli sfila la tunica, poi fa un passo indietro e lo contempla. Un corpo forte, maschio, come quelli che destano il suo desiderio.

Alessandro scivola in ginocchio, mette le mani sulle cosce di Solomon e avvicina il viso al cazzo del gioielliere. Ne aspira l’odore. Solomon è pulito e gli aromi maschili si sentono appena. Alessandro apre la bocca e accoglie la cappella. Incomincia a lavorare con la lingua e con le labbra. Solomon gli accarezza i capelli, poi si china su di lui, le sue mani scivolano lungo la schiena di Alessandro, fino al culo.

Alessandro sente il cazzo di Solomon crescere ancora di grandezza, diventare più rigido. Chiude gli occhi. Nelle carezze di Solomon c’è una tenerezza che lo fa sentire amato, accudito, protetto, come quando era con Ishaq. Non c’è stata certo tenerezza nel rapporto con Abdul-Qaadir, non poteva essercene in quello con i tre fratelli curdi, né certo in quello con il brigante. E Alessandro ha bisogno di questa tenerezza, che ora sembra avvolgerlo in una rete protettiva.

Alessandro si stacca, solleva il capo e guarda Solomon. È bello Solomon, bello il viso maschio, bello il corpo robusto, bello il cazzo testo verso l’alto, belli i coglioni coperti da una fitta peluria castana.

- Stenditi sulla schiena, Solomon.

Solomon sorride e si stende sui cuscini. Alessandro si china su di lui e le sue mani accarezzano il torace e poi il ventre, stringono il cazzo, scivolano sulle gambe, risalgono ripercorrendo la stessa strada, fino al viso. Poi Alessandro, rimanendo in ginocchio, si mette a cavalcioni sul corpo di Solomon. Si sputa sulla mano due volte e lubrifica il buco del culo. Si sposta in modo che l’apertura sia sopra il cazzo e lentamente si abbassa. Sorride a Solomon, mentre lentamente l’arma affonda nella sua carne, regalandogli un piacere che ha in sé anche un po’ di dolore. È bello impalarsi su questo cazzo ardente, guardare il sorriso di Solomon, passare le mani sul suo petto. Alessandro si abbassa fino a che il cazzo di Solomon è completamente dentro di lui. Chiude gli occhi. Sente su di sé le mani di Solomon, che lo accarezzano, percorrono il suo corpo, stuzzicano il cazzo. Alessandro solleva un po’ il culo e lo riabbassa. Geme, percorso da un brivido di piacere. La sensazione è splendida, intensissima. Le mani di Solomon sono tizzoni ardenti e alimentano il fuoco che lo divora.

Il movimento di Alessandro prosegue a lungo e Solomon lo asseconda con spinte che strappano nuovi gemiti al giovane.

Solomon gli afferra il cazzo e la sua mano lo stringe con forza, muovendosi verso l’alto e verso il basso. Alessandro emette un grido e il suo sborro schizza verso l’alto, ripiombando sul petto di Solomon, il cui seme si riversa nelle sue viscere.

Dopo un momento Solomon lo guida a stendersi su di lui. Si baciano e si abbracciano, poi Alessandro scivola di fianco, appagato. Solomon gli stringe la mano.

Ora sono distesi uno accanto all’altro sul tappeto.

Rimangono a lungo così. Poi Solomon parla:

- Alessandro, scusa se insisto: sbarazzati dei testi di Ishaq. Non tenerli con te.

Alessandro sa che Solomon ha ragione, ma ciò che l’amico gli chiede gli pesa. Cerca una soluzione, senza trovarla. D’improvviso ha un’idea.

- Tu sapresti come nasconderli?

Solomon lo guarda un momento senza dire niente, poi annuisce.

- Sì, potrei farlo.

- Lasciami riflettere qualche giorno. Poi tornerò.

- Va bene. Io sono spesso via, ma di solito solo per pochi giorni. Se non mi trovassi, il servitore sa dirti quando torno.

- D’accordo.

Alessandro si solleva e bacia Solomon sulle labbra. Un bacio leggero. Poi si rivestono. Solomon lo accompagna alla porta e Alessandro se ne va. È appagato, come non gli capitava da quando stava con Ishaq. Tornerà da Solomon.

 

Alessandro va a cercare Solomon la settimana seguente, portando con sé le poesie e il trattato di Ishaq, ma il gioielliere non c’è. Alessandro torna a casa deluso. Voleva rivedere Solomon. E ha bisogno di un uomo, di un corpo maschile che lo stringa, lo prenda.

La sera, mentre sono entrambi stesi sul letto, dopo che hanno scopato, Berthe gli dice:

- Domani impiccano l’assassino del tintore Charles.

Alessandro non ne sa nulla. Berthe gli spiega che si tratta di un uomo che ha ucciso un artigiano per derubarlo.

Alessandro decide che andrà ad assistere. Non è tanto lo spettacolo ad attirarlo, quanto la possibilità di incontri: là dove si riunisce una grande folla, più facilmente si presenta l’occasione di trovare qualcuno che cerca.

 

L’indomani c’è un grande affollamento per le vie di San Giacomo d’Afrin: l’impiccagione di un uomo attira molta gente. La piazza è già piena, anche se manca ancora parecchio all’esecuzione. Alessandro si mette verso il fondo, vicino al muro di una casa: una posizione che per il momento gli lascia un minimo di libertà di movimento; più tardi, se arriverà molta altra gente, diventerà impossibile spostarsi.

Si guarda intorno, ma gli uomini che attirano il suo sguardo sembrano concentrati solo sul palco dove avverrà lo spettacolo. Uno si sta spostando per mettersi dietro a una donna. Alessandro sorride: ha capito benissimo che cosa interessa al tipo. Altra gente arriva e la folla si compatta, ma dove si trova Alessandro non c’è nessuno che sembri cercare altro.

A un certo punto però di fianco a lui si mette un uomo alto, più di Alessandro, che di certo non è basso. Ha spalle larghe, un torace possente e grandi mani forti: un tipo d’uomo che ad Alessandro piace molto. Lo sconosciuto si accorge che Alessandro lo sta fissando e volta la testa verso di lui. Per un momento i loro sguardi si incrociano, poi tutti e due volgono il capo verso lo spiazzo dove stanno trascinando il condannato.

L’uomo si sposta, provocando proteste da parte di alcuni, perché la folla è ormai molto compressa, ma l’uomo non se ne preoccupa. Scivola dietro Alessandro, nel ristretto spazio che lo separa dal muro. Ora i loro due corpi aderiscono. Alessandro si appoggia completamente contro l’uomo e ne sente il calore. Premendo con il culo, può sentire la consistenza del cazzo dell’uomo, teso e rigido.

L’uomo gli solleva un po’ la tunica. Alessandro si chiede se vuole davvero incularlo lì, nella piazza, tra la gente: sarebbe una follia. Tutti stanno guardando il condannato che il boia costringe a salire sulla scala, ma se qualcuno distogliesse lo sguardo un momento, per entrambi sarebbe la morte. Eppure Alessandro non si sottrae: come sempre il suo corpo reagisce con un’intensità che cancella ogni volontà.

L’uomo però non intende prenderlo nella piazza. Si limita a far scivolare una mano sotto le brache di Alessandro e a far scorrere un dito lungo il solco, fino al buco del culo. Il dito si infila dentro, senza tante cerimonie. Alessandro chiude gli occhi, scosso dalla violenza del piacere: come sempre la sua reazione è fortissima.

L’uomo gli dice in un sussurro:

- Dopo andiamo alla locanda al fiume, quella di Norbert?

Alessandro annuisce.

- Adesso godiamoci lo spettacolo.

Alessandro torna a guardare il condannato, che è in alto sulla scala, la corda al collo. Il boia gli assesta un calcio e l’uomo cade. Il salto deve avergli spezzato l’osso del collo, perché c’è un rapidissimo movimento convulso e poi il corpo rimane inerte, dondolando. Dalla folla si è levato un urlo.

Anche Alessandro non riesce a trattenere un gemito, perché l’uomo lavora con il dito, muovendolo nel suo culo. Alessandro si accorge di sudare, il cazzo gli si è teso e gli sembra di non riuscire a stare in piedi.

L’uomo gli dice, piano:

- Sei proprio una troia.

Poi toglie il dito. Alessandro geme di nuovo. Una donna si volta a guardare Alessandro. La gente incomincia lentamente a defluire. L’uomo dice:

- Andiamo.

Si fa largo tra la folla e infila un vicolo. Alessandro lo segue. Guarda le spalla larghe dell’uomo, alquanto massiccio. Nessuno dei due nota un contadino che era vicino a loro e che ora sta parlando con uno dei soldati.

Raggiungono la locanda di Norbert e chiedono una camera, come se fossero due forestieri di passaggio.

Norbert si fa pagare e gli dà la chiave. In realtà conosce l’uomo, che ogni tanto viene alla locanda, ogni volta accompagnato da un maschio diverso, di solito più giovane di lui. Ha capito benissimo che si tratta di un sodomita, ma non gli importa. Il tizio paga regolarmente e non tocca a Norbert indagare su cosa fanno quelli che frequentano la sua locanda.

Nella stanza l’uomo si spoglia in fretta. Anche Alessandro incomincia a spogliarsi, ma quando l’uomo rimane a torso nudo, Alessandro si ferma. Guarda in silenzio la fitta foresta di peli sul petto dell’uomo, le braccia robuste, il ventre sporgente. Non è bello, ma c’è in lui una forza che lo soggioga: Alessandro si è sempre sentito fortemente attratto da maschi più vecchi di lui, forti e virili.

Quando l’uomo si cala i pantaloni, mettendo in mostra un cazzo vigoroso, già teso, che gli batte contro il ventre, Alessandro si sente la gola secca. Scivola in ginocchio. L’uomo ride e si avvicina. Ora il suo cazzo è davanti alla faccia di Alessandro, che ne sente l’odore intenso, di piscio, sudore e sborro. Alessandro apre la bocca e lo accoglie. Incomincia a succhiarlo avidamente, mentre le sue mani stringono il culo dell’uomo, gli accarezzano i coglioni, salgono sul ventre a perdersi nel pelame rigoglioso.

L’uomo però lo ferma:

- Ora basta. Voglio mettertelo in culo.

Alessandro lascia a malincuore il boccone di carne che stava gustando. Annuisce. Si spoglia in fretta. L’uomo lo spinge contro una parete. Dice, con la voce resa roca dal desiderio:

- Mi piace fottere in piedi.

Alessandro si appoggia alle pareti con le mani. L’uomo sparge un po’ di saliva e poi infilza Alessandro con un movimento deciso che lo fa sussultare e gli strappa un gemito.

L’uomo spinge con forza, avanti e indietro. È un ottimo stallone, ha forza e resistenza. Alessandro geme più volte. Il culo gli fa male, ma il cazzo che si fa strada dentro di lui gli procura un piacere intensissimo. Alessandro geme più forte, incapace di controllarsi. E infine sente la scarica dentro il culo.

I soldati irrompono nella stanza proprio in quel momento.

L’uomo si stacca con un movimento fulmineo e raggiunge la finestra. Prima che i soldati riescano a fermarlo, scavalca il davanzale, lanciandosi nell’acqua del fiume che scorre sotto la locanda.

I soldati si precipitano anche loro alla finestra, ma è troppo tardi.

- Quello non lo raggiungiamo. Merda!

- Ma questo non ci scappa. Ci dirà chi è l’altro.

Alessandro non ha fatto in tempo a muoversi: due soldati lo minacciano con le loro spade. Gli ordinano di rivestirsi e Alessandro obbedisce. Sa che è finita.

Mentre scende le scale, dal culo gli cola un po’ di seme.

 

Alessandro viene portato in una cella della prigione. Vi rimane due ore, in solitudine, poi gli legano le mani dietro la schiena e lo accompagnano nei sotterranei del corpo di guardia del palazzo vescovile, per l’interrogatorio.

Alessandro viene condotto in una grande stanza. Le guardie che lo accompagnano si fermano davanti a un tavolo, a cui siedono due monaci e un prete. Uno dei monaci ha una penna in mano e alcuni fogli davanti a sé: ha evidentemente il compito di registrare l’interrogatorio. A porre le domande è il sacerdote.

- Chi sei? Da dove vieni?

Alessandro non mente: non ha motivo per farlo.

- Mi chiamo Alessandro e sono nato da Salvatore di Messina. Vivevamo a Edessa, io ero appena nato quando la città venne conquistata dai saraceni e tutti noi fummo ridotti in schiavitù. Sono stato schiavo a Damasco fino a pochi mesi fa.

- Come hai potuto liberarti?

- Il mio padrone, sapendo che sarebbe stato arrestato e i suoi beni confiscati, ha deciso di vendermi a un altro, con l’impegno che mi liberasse dopo alcune settimane.

- Perché il tuo padrone è stato arrestato?

- Lo consideravano eretico. Cose della loro religione. Io non me ne sono mai occupato.

- Se sei vissuto fino a ora tra i maomettani, com’è che non ti sei convertito?

- Mia madre mi educò nella vera fede.

Alessandro usa l’espressione “vera fede” solo per dare un’impressione positiva all’uomo che lo sta interrogando. Poco gli importa della religione. Ma cerca di non peggiorare una situazione che sa essere disperata.

- Perché il tuo padrone ha deciso di liberarti?

- Era un uomo generoso e si era affezionato a me. Ero rimasto con lui dieci anni.

Alessandro fa molta attenzione nella scelta dei termini. Non devono sospettare che aveva rapporti anche con il suo padrone. Ma mentre lo pensa, si dice che tutto è inutile: lo hanno sorpreso durante il rapporto, la sua sorte è segnata. Non sa nulla che possa interessare coloro che lo interrogano: non può collaborare per cercare di sfuggire al rogo.

- Dici che foste ridotti in schiavitù. Diventaste tutti schiavi del padrone che ti ha liberato?

- No. Fummo venduti a un ricco mercante di Aleppo, ma mio padre cercò di fuggire.

- E allora?

- Fu venduto. Mia madre dice che venne inviato nelle miniere di sale e lei non ne seppe più nulla, ma era sicura che fosse morto. Io non ne ho nessun ricordo.

- E tua madre?

- Fui separato da lei quando avevo quattordici anni. Venni venduto al guerriero Abdul-Qaadir. Quando avevo vent’anni, Abdul-Qaadir mi vendette a Ishaq ibn Shafi e rimasi con lui fino a poco prima del suo arresto, quando mi cedette a un amico, con l’impegno che mi liberasse.

- Partisti subito?

- No, rimasi con il mio nuovo padrone un mese, poi decisi di raggiungere il Regno di Gerusalemme.

- Perché hai deciso di venire a San Giacomo d’Afrin?

- Perché volevo tornare tra la mia gente, dopo trent’anni di schiavitù.

- Quando sei giunto a San Giacomo d’Afrin?

- Due mesi fa.

- Dove alloggi?

- Ho preso una camera da Berthe Fantin, presso la chiesa di San Benedetto.

E mentre lo dice Alessandro pensa alle poesie e al trattato di Ishaq. Se li scoprono, è perduto. Ma è un pensiero assurdo: non ha comunque nessuna speranza.

Ci sono ancora alcune domande generiche, poi l’interrogatorio si concentra su quanto è avvenuto nella locanda di Norbert.

- Sei stato sorpreso in un rapporto contro natura.

Alessandro annuisce. Non può certo negare.

- Sì, è vero. Fu il mio padrone Abdul-Qaadir a prendermi a forza quando avevo quattordici anni. Mi tenne come schiavo di piacere fino a che si sbarazzò di me. Da allora non ebbi più rapporti.

Sul viso dell’uomo appare un’espressione di dubbio, ma per il momento non si occupa di approfondire l’argomento: ciò che Alessandro può aver fatto a Damasco ha ben poco interesse, perché non sarà possibile verificare, né tanto meno arrestare coloro con cui ha peccato.

- E com’è che oggi invece hai ceduto alla tentazione?

Alessandro percepisce una sfumatura ironica nel tono con cui l’uomo pone la domanda: evidentemente non crede che Alessandro si sia mantenuto casto per anni.

- Eravamo pigiati nella folla. Quell’uomo si è messo dietro di me. Io… non volevo, ma quando lui mi ha invitato a seguirlo alla locanda… mi è mancata la forza di dirgli di no.

Il sacerdote scuote la testa. Poi prosegue con le domande:

- Chi era l’uomo con cui avevi un rapporto?

Alessandro non è in grado di rispondere: non sa neppure il nome.

- Non lo so.

- Come si chiama?

- Non lo so, non me lo disse. Mi ordinò di seguirlo. Io lo feci. Pensai più volte di tornare indietro, gli dissi che non dovevamo farlo, ma lui mi rispose che alla locanda avremmo parlato.

Il sacerdote ha un risolino beffardo: le bugie di Alessandro non lo convincono.

- E tu ci hai creduto?

- Sì, pensavo di convincerlo, di dirgli che era peccato…

- Ma alla locanda siete saliti subito in camera. E non avete perso tempo.

- Non mi permise di dire nulla. Mi ordinò si spogliarmi e poi mi prese. Cercai di rifiutarmi, ma era più forte di me.

Il prete scuote la testa. Pone ancora molte domande sull’uomo, ma Alessandro non è in grado di dare risposte soddisfacenti: non sa nulla di lui. Il sacerdote non nasconde la sua irritazione.

- Bada, se non collabori aggravi la tua situazione.

- Non posso dire ciò che non so.

Al termine dell’interrogatorio, Alessandro viene condotto nella fortezza, in una cella sotterranea, completamente priva di aperture. L’aria è fetida e Alessandro si ferma sulla soglia, disgustato dal lezzo. Ma il carceriere, dopo avergli slegato le mani, lo spinge bruscamente dentro e chiude la porta. Il buio diventa quasi completo: solo dalla finestrella della porta filtra un po’ di luce.

Alessandro si siede a terra e si prende la testa tra le mani. Sa che la sua vita è finita. Trascorrerà qualche giorno, forse qualche settimana, in questa cella lurida e poi sarà bruciato sul rogo.

Più tardi il carceriere gli porta un po’ di pane e acqua. Li posa per terra e se ne va senza dire niente. Alessandro non ha fame, ma si sforza di mangiare.

 

Passano tre giorni. Alessandro si chiede se lo lasceranno morire in questa cella immonda, da cui non gli permettono di uscire neanche per i propri bisogni. Non può lavarsi, non può pulirsi.

Infine il mattino del quarto giorno la porta si apre e due guardie conducono nuovamente Alessandro nei sotterranei del corpo di guardia del palazzo vescovile. L’interrogatorio riprende e fin dalla prima domanda Alessandro capisce che tutto è perduto. Lo sapeva già, ma ora ha l’ultima conferma:

- Tra le tue cose abbiamo ritrovato testi arabi. Di che cosa si tratta?

Alessandro deglutisce

- Sono testi che scrisse il mio padrone. Poesie, credo. Mi chiese di salvarle. Forse c’è anche altro.

È inutile fingere di non sapere, Alessandro se ne rende conto.

L’uomo che lo interroga ha un sorriso ironico.

- Vuoi farci credere che non sai di che cosa trattano queste poesie? Iskandar è il tuo nome nella lingua degli infedeli. E a Iskandar sono dedicate le poesie in cui l’autore, questa incarnazione del demonio, esalta i piaceri dei rapporti contro natura.

Alessandro sa che non serve a nulla negare.

- Il mio padrone mi diede queste poesie. Era il mio padrone. Io ero il suo schiavo. Non potevo rifiutarmi.

Mentre cerca ancora giustificazioni che sa essere del tutto inutili, Alessandro  prova un profondo senso di vergogna: se Alessandro non avesse voluto, Ishaq avrebbe rispettato il suo rifiuto, non lo avrebbe preso con la forza. Sta insultando la memoria di un uomo che è morto sulla croce per difendere le sue idee. 

- Il tuo padrone ha scritto un trattato in cui considera i piaceri del corpo un dono divino. Sostiene che chi rifiuta il piacere respinge i doni che il Signore gli ha fatto. Scrive che ogni forma di amore è grata a Dio e altre terribili empietà. Tu non lo sapevi?

Alessandro è stanco. Sa benissimo che la sua sorte è segnata. Umiliarsi ancora non ha nessun senso. È ora di concludere. Alza gli occhi sull’uomo che lo interroga. Sorride e dice, con una voce che diviene più ferma man mano che procede:

- Sì, conosco ciò che ha scritto il mio padrone. Credo che avesse ragione. Credo che Iddio ci abbia dato un corpo perché ne godessimo secondo i nostri desideri e non per mortificarlo. Condivido le sue idee. Credo di essere libero di fare del mio corpo ciò che desidero e credo che nessuno abbia il diritto di scegliere per me.

Il prete lo fissa, allibito, muto, la bocca socchiusa in una smorfia di sbalordimento.

Alessandro ride. Sa di essere un uomo morto, ma lo sgomento dell’uomo gli strappa una risata.

 

 

Baldovino sta per essere incoronato re. Suo padre, Amalrico I di Gerusalemme, è morto da poco, lasciando come unico erede questo ragazzo che ha solo tredici anni ed è lebbroso. Per il momento il giovane principe non potrà governare direttamente il regno, per cui è stato nominato un consiglio di reggenza.

In occasione dell’incoronazione a Gerusalemme sono convenuti quasi tutti i nobili del regno: molti contano di approfittare della situazione per ottenere una maggiore influenza a corte; altri sanno che devono agire per difendere la loro posizione dagli attacchi di chi vuole farsi strada. Anche il patriarca Amalrico ha convocato una riunione di tutte le principali cariche religiose: per i vescovi e i rappresentanti dei diversi ordini è importante conquistarsi il favore del nuovo re.

Non sono solo gli equilibri all’interno del regno a essere messi in discussione, ma l’intero quadro politico della regione: la morte di Amalrico è avvenuta due mesi dopo quella del principale nemico dei cristiani d’Oltremare, Nur ad-Din, che i franchi chiamavano Norandino. Che cosa succederà ora, è difficile prevedere.

Gerusalemme, che la calura di luglio stringe in una morsa feroce, è animatissima. I nobili sono venuti con molti uomini al seguito, facendo grande sfoggio di ricchezza, e la folla osserva i gruppi di cavalieri che si muovono orgogliosi per le strade della città: un’esibizione di forza che rassicura la popolazione. Solo il duca di Rougegarde, Denis d’Aguilard, è giunto come sempre con pochi soldati fidati, ma è il più acclamato: il popolo vede in lui il baluardo del regno, in un momento in cui la situazione appare quanto mai precaria. 

 

Il giorno prima dell’incoronazione si intrecciano visite pubbliche e colloqui privati, in cui gli scambi di cortesie sono la premessa di richieste, offerte, minacce, a volte intrighi.

Tra coloro che si trovano a Gerusalemme per l’incoronazione vi è naturalmente anche Bohémond, vescovo di San Giacomo d’Afrin e di Rougegarde. Il suo obiettivo è quello di trovare appoggi per agire contro il duca Denis di Rougegarde: un’impresa alquanto difficile, poiché Denis, come Bohémond temeva, è nel consiglio di reggenza. Come ridurre l’influenza che il duca ha a corte e imporsi a Rougegarde? Fino a ora Bohémond ha sempre avuto le mani legate: re Amalrico nutriva una cieca fiducia in Denis di Rougegarde.

Per scalzarlo, sarebbe necessario screditarlo agli occhi del nuovo re, ma come riuscirci? Bisognerebbe accusarlo di qualche grave mancanza e inchiodarlo con prove schiaccianti. E quali prove si possono trovare, di quali colpe, a carico di quest’uomo che tutti considerano il più forte e il più leale dei signori franchi? Molti sono invidiosi del suo potere, tanto più che Denis de Rougegarde è anche reggente di Cesarea, ma nessuno è intenzionato a mettersi contro di lui: i rischi sono troppo forti.

Bohémond si chiede come fare. Gli uomini al servizio del duca gli sono fedeli: due tentativi di corruzione sono falliti miseramente. A Rougegarde Bohémond non si reca spesso, perché coglie l’ostilità che lo circonda in città. Preferisce soggiornare a San Giacomo d’Afrin, dove ha ottimi rapporti con il barone Renaud.

Prima della riunione dei dignitari del regno, Bohémond si apparta con Godefroi, il templare che è comandante civile a Santa Maria in Aqsa. Con lui Bohémond ha sempre mostrato di trovarsi in sintonia, come se davvero avesse a cuore l’affermazione della vera fede e la cacciata degli infedeli. In realtà l’inflessibilità di Bohémond è solo uno strumento per raggiungere i suoi obiettivi di potere, mentre Godefroi non ha secondi fini.

Bohémond enuncia il problema direttamente: sa che Godefroi condivide le sue preoccupazioni.

- A Rougegarde la situazione non è più sostenibile. Una città strappata agli infedeli con il sangue cristiano, in cui i credenti vivono a fianco di maomettani, ebrei, eretici. E i costumi… Non c’è vizio che non alberghi in quella città.

Godefroi fissa Bohémond.

- Sì, ho sentito anch’io parlare della depravazione che regna nella perla della Terrasanta. Ma è il duca a tollerare questa vergogna, come se non fosse responsabile davanti all’Onnipotente di questa città, che il Signore gli ha permesso di conquistare.

- Finché il duca sarà signore di Rougegarde, non ci sarà modo di estirpare il male che vi ha messo le radici.

Godefroi annuisce.

- Da San Giacomo d’Afrin e da Santa Maria in Aqsa i maomettani sono stati scacciati e non vi sono più moschee. Lode al barone Renaud, che vi ascolta. Il duca… Dio lo illumini.

Bohémond scuote la testa.

- Non ho molte speranze. La sua fede è debole e poi… basti pensare che il duca è molto amico del conte Ferdinando. Un uomo…

Godefroi guarda Bohémond. Freme, mentre dice:

- Sono dunque vere le voci che mi sono giunte?

- Sui suoi rapporti contro natura? Purtroppo lo sono. Non abbiamo prove, certo, ma quell’uomo… è un bestemmiatore, dedito al peccato di Sodoma, sfrenato nella ricerca dei piaceri. Una vera sentina di vizi. Come il conte Tancrède d’Espinel, un altro peccatore che ebbe il meritato castigo per il suo tradimento e per i suoi vizi immondi.

Godefroi tace un attimo, poi dice, con una voce in cui trema l’indignazione:

- A Santa Maria in Aqsa abbiamo bruciato due uomini che si erano macchiati del peccato di Sodoma, la più vergognosa delle colpe. Il vizio è stato estirpato.

Bohémond sorride.

- Anche a San Giacomo, come sapete, abbiamo avuto due roghi, uno in occasione della nascita dell’erede e uno più tardi. E un terzo ci sarà presto: abbiamo arrestato un eretico sodomita sorpreso in flagrante, una vera incarnazione del demonio, che non ha mostrato nessun segno di pentimento. Presto avrà la pena che merita. Dovendoci recare a Gerusalemme, il barone ed io abbiamo deciso di rinviare l’esecuzione, a cui bisogna dare il massimo risalto.

Godefroi annuisce.

- Il barone Renaud è un uomo pio, che si impegna per estirpare il male, non come il duca Denis e il conte Ferdinando.

Bohémond sorride, mentre Godefroi prosegue:

- Il conte Ferdinando meriterebbe davvero di essere arso vivo: sarebbe un monito per tutti quei nobili che si credono superiori alle leggi divine.

Bohémond concorda:

- Certo. Ma ha la protezione del duca. E in ogni caso, come trovare qualcuno che lo accusi? Finché il duca di Rougegarde governerà, credo che si potrà fare ben poco.

Godefroi annuisce. È pienamente d’accordo con Bohémond ed è ben cosciente di quanto sia difficile indebolire la posizione del duca.

- No. Tutto sembra congiurare a suo favore. Fu Denis d’Aguilard a conquistare la città: Dio gliela diede in mano senza che dovesse neppure combattere. E Dio gli permise di sconfiggere il Circasso. Ma invece di riscattare Rougegarde, il duca contribuisce alla sua perdizione. Il duca e il conte Ferdinando dovrebbero essere privati dei loro territori.

- Certo. Un uomo come il barone Renaud di San Giacomo d’Afrin sarebbe ben più adatto a governare Rougegarde. Ma come perdere il duca e riuscire così a salvare le anime dei cittadini di Rougegarde dalla dannazione eterna? Ho cercato di smascherare un eretico che gode della protezione del duca, ma questi mi ha impedito di dimostrare le colpe di quell’uomo.

- Dovete fare arrestare questo eretico. Sotto tortura certamente confesserà le sue colpe. Sarebbe un buon esempio per tutti i credenti e un ammonimento per il duca.

- Purtroppo a Rougegarde non ho il potere di far arrestare nessuno. Questa fu una decisione di re Amalrico e anche quando si tratta di eresia devo chiedere l’autorizzazione al duca. Un’autorizzazione che non posso ottenere senza prove schiaccianti. Ma come procurarmele, se non posso interrogare coloro che so essere eretici?

Bohémond allarga le braccia in un gesto di sconforto. Godefroi freme di rabbia.

- Pensare che un uomo del genere è nel consiglio di reggenza!

- Vorrei rivolgermi al giovane re, ma dubito di riuscire a portarlo dalla mia parte.

- No, temo anch’io che sia molto difficile. Il rispetto che porta al padre morto lo spingerà senz’altro a confermare le decisioni di re Amalrico. E d’altronde il duca di Rougegarde gode di grande popolarità. Lo stesso patriarca lo appoggia apertamente.

La conversazione è arrivata a un punto morto. Bohémond vede Denis di Rougegarde che passa, parlando con Guillaume di Hautlieu, che è il comandante militare a Santa Maria in Aqsa. Allora osserva:

- Mi hanno riferito che a Santa Maria sta per arrivare un nuovo comandante militare.

- Sì, Guillaume di Hautlieu è passato al castello San Michele. Speravo che Jorge da Toledo prendesse il suo posto. Guillaume è un ottimo soldato, ma non ha lo zelo necessario per mondare una città dai miscredenti e dai viziosi, è troppo indulgente. Come dice il popolo, il medico pietoso fa la piaga verminosa. E quando la piaga è nell’anima... non dico di più. Jorge da Toledo sa essere più severo nell’eseguire la giustizia divina. Su di lui si può davvero contare. Ma l’Ordine ha deciso altrimenti, non so perché.

Bohémond ha sentito parlare di Jorge da Toledo. Dubita che il templare sia animato da una forte fede, ma di certo è un uomo che conviene avere dalla propria parte.

Bohémond osserva alcuni prelati dirigersi verso la sala dove si terrà l’incontro.

- È meglio che ci avviamo.

- Sì. Dio forse ci ispirerà, suggerendoci un modo per sconfiggere i Suoi nemici.

Godefroi e Bohémond entrano separati e si siedono a distanza: non è mai saggio mostrare quali sono i propri alleati, a meno che essi non siano tanto potenti da intimorire gli avversari.

Bohémond è ambizioso. È diventato vescovo di Gerusalemme e San Giacomo d’Afrin molto giovane. Per lui la nomina è stata un passo importante in una strada destinata a portarlo molto in alto: Bohémond sperava di diventare patriarca, prendendo il posto di Amalrico alla sua morte. La sua carriera però non ha più fatto progressi significativi e il suo sogno appare sempre più difficile da realizzare.

Bohémond non ascolta il discorso del patriarca: parole vuote, che poco interesse hanno per lui. La mente ritorna alle parole di Godefroi. Bohémond si è spesso chiesto se non colpire il duca Denis attraverso il conte Ferdinando. Ma sarebbe molto difficile riuscire a far processare e condannare il conte Ferdinando. E se al conte venisse tolta la vallata dell’Arram, sarebbe con ogni probabilità proprio il duca a ottenerla.

Le parole di Godefroi portano Bohémond a riflettere ancora. Se il conte venisse condannato per il reato di Sodoma, se venisse mandato in esilio o meglio ancora giustiziato, il suo sangue sporcherebbe anche Denis: si sa che i due sono grandi amici. Non cambierebbe molto, ma sarebbe comunque una macchia… Non subito, ma con il tempo si potrebbe ricordare al giovane re che questo guerriero valoroso aveva rapporti stretti con un sodomita. Sì, sarebbe una buona cosa.

Ma far condannare Ferdinando non è facile. Bohémond guarda Jorge da Toledo, seduto non lontano. Un uomo senza scrupoli, in cui solo un fanatico come Godefroi può vedere un grande zelo religioso. Ma un uomo capace, su cui si può contare finché gli interessi sono comuni.

 

Dopo la riunione Bohémond si avvicina a Godefroi e Jorge di Toledo, che stanno parlando insieme. Dopo aver scambiato due parole, dice:

- Se riuscissimo a smascherare il conte, rivelando l’infamia dei suoi vizi, ci sarebbe un grande scandalo. Possiamo contare sul sostegno dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio?

- Certamente, fratello. Il peccato è il nostro nemico.

- Allora, ho un’idea che potrebbe portare a questo risultato.

- Ditemi.

- Vi ho parlato di quell’eretico sodomita, che sarà giustiziato al nostro ritorno.

- Sì, certo. Un monito per tutti i peccatori di questa Terra Santa.

- Forse possiamo servirci di lui per arrivare molto più in alto, per un monito ben più potente. Il Signore può servirsi anche di un eretico sodomita per sconfiggere le forze infernali e mondare la terra dal peccato.

Godefroi chiede:

- Pensate al conte? Qual è la vostra idea?

- Se quest’uomo evadesse dal carcere e cercasse rifugio nel territorio del conte Ferdinando… il conte lo accoglierebbe, non è prudente come il duca Denis. Essendo un sodomita, non dovrebbe essergli difficile entrare nelle grazie del conte.

Ciò che dice Bohémond è vero, ma Godefroi è dubbioso. Il vescovo prosegue:

- Se è coraggioso e deciso, può farsi strada e diventare uno degli uomini di fiducia di quell’empio.

- E allora? Non possiamo certo pensare che denunci il conte Ferdinando: accuserebbe anche se stesso e finirebbe anche lui sul rogo.

- No, la mia idea è un’altra. Si potrebbe indurre il conte a mandare qualcuno dei suoi uomini a Santa Maria in Aqsa e l’eretico potrebbe segnalarvi quando sorprenderli. Voi potreste farli arrestare con l’accusa di sodomia e sotto tortura di certo confesserebbero di avere avuto rapporti contro natura anche con il conte stesso.

Jorge interviene:

- Un signore del Regno può essere processato solo dai suoi pari, a Gerusalemme.

- Sì, certo, ma in presenza di prove schiaccianti… Ho pensato che se il barone fosse indotto a recarsi a Santa Maria per liberare i suoi uomini, sapendo solo che sono stati arrestati, ma ignorando l’accusa… probabilmente con l’aiuto dell’eretico si potrebbe sorprendere anche lui… A questo punto il re dovrebbe cedere.

Godefroi annuisce, il sorriso sulle labbra.

- Un rogo che cancellasse il lezzo immondo che sale al cielo da questa terra.

Bohémond sa benissimo che il re non accetterà un rogo. Ma se tutto si svolgerà come previsto, Ferdinando sarà sicuramente condannato e privato dei suoi possedimenti. Organizzando bene l’operazione, si potrebbe fare pressione sul re per una condanna a morte. Decapitazione e non rogo, ma comunque la fine del conte e una macchia sul duca di Rougegarde, che di certo si spenderà per salvare l’amico.

Jorge non ha detto nulla. Solo ora interviene:

- Perché un’operazione di questo genere riesca, non bisogna lasciare nulla al caso ed è opportuno coinvolgere il minor numero possibile di persone: nessuno deve saperne nulla, all’infuori di noi.

Bohémond annuisce.

- Sì, occorre mantenere il massimo riserbo su tutta l’operazione. Dobbiamo cercare di gestirla tutta noi.  

Vengono definiti alcuni dettagli. Bohémond si impegna a parlare con il barone Renaud, signore di San Giacomo d’Afrin: il prigioniero è nelle carceri della città.

Quando il vescovo gli riferisce il progetto, il barone ascolta con attenzione.

- Mi sembra un’ottima idea, tanto più che noi appariremmo del tutto estranei all’arresto e all’indagine.

- Esatto. Questo mi sembra importante.

Renaud riflette un momento, poi aggiunge:

- Sarà un passo avanti, piccolo, ma in futuro potrà rivelarsi importante.

- Così voglia Iddio.

Renaud guarda il vescovo allontanarsi. Sì, l’idea è buona e Renaud intende approfittarne per sbarazzarsi di Mathieu, il carceriere. Quel coglione si lascia corrompere per quattro soldi. Renaud pensava di licenziarlo, ma il piano messo a punto da Godefroi e Bohémond gli ha fatto balenare un’altra possibilità. Avrà la punizione che si merita e la fuga dell’eretico apparirà ancora più credibile. Spera che la manovra ottenga qualche risultato. Vedere Ferdinando bruciare sul rogo o anche solo la sua testa mozzata dall’ascia… sarebbe fantastico! Renaud non sopporta quel siciliano rozzo e ignorante che è diventato barone. Una testa di cazzo, che ha fatto strada per puro culo.

 

A San Giacomo d’Afrin Alessandro è nella sua cella. La condanna pronunciata dal tribunale è stata rinvita per la partenza del vescovo e del barone, che hanno lasciato la città per recarsi a Gerusalemme. Alessandro trascorre gran parte delle sue giornate nello spazio buio e maleodorante in cui è rinchiuso. Dopo aver sfidato il sacerdote che lo interrogava, Alessandro ha alternato momenti di euforia ad altri di scoraggiamento. Si è ormai rassegnato a morire, ma ci sono momenti in cui l’angoscia lo divora.

Oggi il carceriere gli ha comunicato che il barone e il vescovo sono tornati ieri da Gerusalemme. Alessandro sa che la sua vita è giunta al termine: verrà bruciato sul rogo presto, potrebbe essere oggi stesso o, più probabilmente domani, per dare il tempo di preparare lo spettacolo. Alessandro rabbrividisce al pensiero. Non ha assistito ai roghi che ci sono stati in passato a San Giacomo d’Afrin e a Santa Maria d’Aqsa, ma gliene hanno parlato: l’atroce agonia del condannato lo spaventa. Molto meglio la rapida morte dell’impiccato, come quella che ha avuto modo di vedere nel suo ultimo giorno di uomo libero. Chissà se l’uomo con cui ha scopato andrà ad assistere? Probabilmente no, sarebbe un’imprudenza.  

È stata una follia venire in questa fottuta città dove il vescovo ha tanto potere ed è così inflessibile. È stata una follia accettare il rapporto con quello sconosciuto. Sapeva che avrebbe dovuto essere più attento. Ma ormai è troppo tardi.

Alessandro sente il rumore della chiave che gira nella serratura, del chiavistello che viene aperto. Sussulta, in preda all’angoscia. Gli hanno già portato da mangiare. Perché qualcuno viene a quest’ora? Sarà giunto il momento? Sarà il prete che gli chiederà di confessarsi prima dell’esecuzione?

L’uomo che entra è alto e massiccio. La luce della torcia illumina il viso, dai tratti duri. È privo di capelli, ma dev’essere ancora giovane. Il colorito scuro lo potrebbe far credere arabo: ce ne sono diversi schiavi a San Giacomo. Ma il portamento non è quello di uno schiavo: è un uomo abituato a comandare, questo. E a essere obbedito.

Alessandro si alza in piedi. Cerca di nascondere l’angoscia che lo invade. Non vuole mostrarsi vile.

L’uomo infila la torcia in un anello al muro, poi fissa il prigioniero. C’è qualche cosa di inquietante nel suo viso, illuminato da una parte dalla luce della torcia, in ombra dall’altra.

L’uomo dice, con durezza:

- Domani sarai giustiziato.

Alessandro apre la bocca, ma non dice nulla. Che cosa potrebbe dire? Implorare pietà sarebbe del tutto inutile.

L’uomo sorride, un sorriso quasi feroce, e aggiunge:

- Ma hai una possibilità di guadagnarti la libertà.

Alessandro corruga la fronte. C’è davvero una speranza? O vogliono illuderlo, per crudeltà, per spezzarlo?

L’uomo prosegue:

- Potresti fuggire, questa notte. Qualcuno potrebbe tagliare in parte le corde che ti legano le mani e fornirti un pugnale. Quando il carceriere passerà, dopo che il padre confessore avrà cercato di indurti a chiedere perdono per i tuoi peccati, potresti uccidere il carceriere e fuggire. Uscire dalla prigione nel cuore della notte non è difficile, perché rimane solo il carceriere e una volta che lui è morto…

L’uomo prosegue. Spiega come uscire dalla città, dove trovare un cavallo, dove dirigersi: tutto è molto chiaro, preciso e dettagliato; le informazioni essenziali vengono ripetute. Alessandro ascolta, senza dire nulla. L’uomo sta parlando sul serio? Gli sta davvero offrendo un’ancora di salvezza? Perché?

- Che ne dici?

Alessandro ha deciso di stare al gioco. Non vuole illudersi, ma non vuole nemmeno rinunciare all’ancora di salvezza che forse gli viene offerta. Risponde:

- Mi piacerebbe ritrovarmi fuori di qui.

- Certo. Nessuno ha voglia di finire arrosto. Ma ti stai chiedendo perché mai qualcuno, di cui non saprai mai il nome, potrebbe aiutarti a scappare.

- Sì, è così.

- Naturalmente c’è un prezzo da pagare. Un altro rogo al posto del tuo. Un grande rogo, che attirerà molta più gente di quella che già questa sera affluirà in piazza per assistere alla tua fine domani.

Alessandro non capisce. Non conosce nessuno nel Regno di Gerusalemme. Chi potrebbe perdere? Che cosa ha in mente quest’uomo?

- Ditemi.

L’uomo illustra dettagliatamente il piano. Poi conclude dicendo, con un tono minaccioso:

- Bada, se accetti, non hai più nessuna possibilità di tirarti indietro. In un modo o nell’altro ti raggiungeremmo, non ci sfuggiresti neppure se scappassi a Bagdad: abbiamo i nostri uomini anche là. Che cosa decidi di fare?

Alessandro ha sentito parlare del conte Ferdinando. Di lui si dice che è un guerriero coraggioso e leale, ma anche un grande peccatore. Pare che sia un Ercole e che abbia il cazzo più grosso della Terrasanta. La vita del conte per la propria. Perché no? Una partita mortale, che potrà concludersi con la salvezza per Alessandro o con la sua morte. In ogni caso, rifiutare non avrebbe senso. Meglio uscire da questa fetida cella, per morire c’è sempre tempo.

- Accetto.

L’uomo annuisce.

- È tutto chiaro quello che ti ho spiegato? Non c’è spazio per errori.

- Sì, è tutto chiaro.

L’uomo ghigna e dice.

- Tra poco ti taglierò le corde e ti darò il pugnale. Ma prima… con il conte dovrai saperti dare da fare. Voglio vedere come te la cavi.

Il senso delle parole viene chiarito dal gesto con cui l’uomo si toglie la tunica e si cala i pantaloni, mettendo in mostra un cazzo formidabile.

- Mettiti al lavoro.

Alessandro non si aspettava la richiesta. Scopare non gli dispiace: pensava che non avrebbe mai più avuto occasione di farlo. Si inginocchia e guarda l’arma tesa a una spanna davanti alla sua bocca. L’effetto di questo magnifico arnese è dirompente: Alessandro sente il sangue affluire al cazzo. Avvicina la bocca e prende tra le labbra il boccone che gli si offre.

Alessandro succhia e lecca, mentre il suo cazzo si tende. L’arma è davvero eccezionale per lunghezza e soprattutto per volume.

Dopo pochi minuti, l’uomo dice:

- Bene, adesso il culo.

Alessandro guarda il cazzo, teso verso l’alto, duro come una pietra. Non sarà facile accoglierlo. Ishaq era ben dotato, ma quest’uomo lo batte.

Alessandro si alza. L’uomo gli abbassa i pantaloni e lo forza a piegarsi in avanti. Sputa sul buco del culo, sparge la saliva e poi infilza Alessandro.

Il dolore è violento. Ad Alessandro sfugge un:

- Merda!

- Non ti lamentare. Dicono che il conte abbia il cazzo più grosso della Terrasanta. E il tuo culo lo gusterà un po’ di volte, se tutto va come deve.

L’uomo ride. Cavalca con foga e Alessandro sente fitte acute, ma il piacere diventa più intenso. Quando l’uomo accelera il ritmo e le spinte diventano più intense, Alessandro geme, forte, mentre il piacere deborda e il seme dell’uomo gli si sparge nelle viscere.

L’uomo si ritrae. Gli tira su i pantaloni, poi estrae un coltello, con cui incide le corde, senza tagliarle completamente.

- Basta tirare con forza e cederanno. Il coltello lo metto qui, sotto la paglia.

L’uomo prende la torcia e se ne va. La cella ripiomba nel buio. Alessandro cerca con le mani il pugnale. Ne sente la lama, fredda, dura. Vorrebbe liberare le mani ora, ma se lo facesse, qualcuno se ne accorgerebbe.

 

Jorge da Toledo è soddisfatto. L’eretico è la persona giusta per realizzare il piano. A Jorge poco interessano i giochi di potere del barone e del vescovo e non gli importa nulla di Ferdinando di Siracusa, ma sa che è utile farsi degli alleati. Potrebbe avvertire Ferdinando e guadagnarsi la sua riconoscenza, ma il conte non è un alleato utile: è troppo grezzo, poco capace di muoversi tra gli intrighi di palazzo. Il duca di Rougegarde è molto più abile, ma Jorge sa che con lui non ha molte possibilità di intesa: sono troppo diversi. E allora è meglio perdere il conte e cercare di compromettere la posizione del duca.

 

Più tardi Alessandro riceve la visita del confessore. Mantiene lo stesso atteggiamento che ha avuto nelle settimane precedenti, rifiutando di accondiscendere alle sue richieste. C’è una certa baldanza nel suo atteggiamento, ora. Questa notte fuggirà. Forse il piano non funzionerà e troverà la morte, ma meglio morire ucciso da un colpo di spada mentre cerca di fuggire che bruciato vivo sul rogo.

Il confessore se ne va, scuro in volto. Non ha ottenuto nulla. Questo eretico sodomita non si è pentito. Il carceriere Mathieu accompagna alla porta della prigione il sacerdote, si inchina umilmente e poi lo guarda allontanarsi e scomparire.

Finalmente si è tolto dai coglioni! Mathieu disprezza il confessore e tutta la genia di sacerdoti e cavalieri della fede, siano essi templari o ospedalieri. Ma deve mostrarsi ossequioso, perché sono loro a comandare in città. Sono culo e camicia con il barone Renaud.

Mathieu deve fare attenzione: in questo periodo il barone ce l’ha con lui e ha minacciato di licenziarlo, perché di recente un prigioniero è riuscito a evadere dalla prigione. Mathieu ha affermato la sua totale estraneità alla fuga, sostenendo che il prigioniero deve essere stato aiutato da qualche complice all’esterno.

In realtà Mathieu si è lasciato corrompere per farlo scappare e il barone lo sospetta. E poi ci sono vecchie storie. Mathieu sa benissimo di non essere sempre stato scrupoloso nel suo lavoro, ma qualche soldo in più non guasta e quando serve Mathieu è disposto a chiudere un occhio o anche due. Ma il barone non è uomo da accettare che un suo servitore si faccia i propri interessi. Mathieu non può mettersi contro anche gli uomini di Chiesa e quel fottuto vescovo, che Iddio gli mandi tutte le malattie di questo mondo e anche qualcuna dell’altro, visto che può.

Mathieu è impaziente, da giorni aspetta questo momento. Ora il prigioniero è nelle sue mani. Domani mattina il boia lo prenderà direttamente in consegna e lo brucerà in piazza. Da adesso al momento in cui salirà al rogo, l’eretico non vedrà più nessuno.

Mathieu chiude la porta che dà sulla strada, prende una lanterna e scende lungo le scale che portano nei sotterranei, poi percorre il corridoio in cui si trovano le celle. Apre la seconda, quella in cui quel sodomita impenitente ha trascorso l’ultimo mese della sua vita, tra interrogatori ed umiliazioni. Ha confessato, ma non si è pentito: si direbbe quasi che sia orgoglioso delle sue colpe.

La cella è buia e il tanfo di sudore, piscio e merda prende alla gola, ma Mathieu ci è abituato: le celle nei sotterranei sono così, non hanno finestre, non hanno ventilazione.

Mathieu guarda Alessandro, seduto sulla paglia lercia della cella. Guarda il cranio che gli inquisitori hanno rasato alla ricerca del segno del demonio, guarda il torace, forte e muscoloso, le braccia robuste. E la tensione sale dai suoi coglioni, il cazzo gli diventa una lama d’acciaio. È oltre un mese che lo desidera, da quando lo hanno portato nella prigione. Ma prima non era possibile fotterlo, questo figlio di puttana avrebbe potuto denunciarlo e trascinarlo con lui sul rogo. Ora non ci sono più rischi.

Alessandro lo guarda e la luce della lanterna si riflette nei suoi occhi. È davvero un seguace del diavolo, questo bastardo, ma neppure Satana in persona riuscirà a salvarlo. Il carceriere si avvicina. Posa la lanterna sul tavolo.

- Alzati.

Alessandro obbedisce. Non ha mai opposto resistenza, sembra che non gli importi di nulla.

- Voltati.

Alessandro si volta e il carceriere guarda il dorso dell’eretico. Il desiderio arde dentro di lui, feroce ed implacabile. Il prigioniero è docile. Forse sarà un po’ meno docile quando glielo metterà in culo, ma non potrà farci niente.

Mathieu afferra i pantaloni dell’uomo, l’unico suo indumento, e li abbassa. Guarda il culo, muscoloso e stretto, che gli si offre. Gli sembra di essere sul punto di venire. Spinge violentemente Alessandro sulla paglia, gli allarga le gambe. Con le forti mani gli stringe il culo, lo apre. Fissa l’apertura che tra poco forzerà e di nuovo il desiderio preme, gli toglie il fiato.

Si alza, si sfila la tunica ed i pantaloni. Sorride. Si guarda il grande cazzo teso, perfettamente verticale, che batte contro il ventre nero di peli. Con un dito sfiora appena la cappella rosso fuoco, su cui brilla una goccia di sborro. Si accarezza i coglioni, voluminosi e coperti da una peluria scura. Ride della propria forza. Tra poco questo sodomita sentirà che cos’è il cazzo di un vero maschio.

Mathieu ha poche occasioni di scopare: il suo viso deturpato ispira orrore. Tempo fa un giovane che si prostituiva ha rifiutato quello che Mathieu gli offriva, assai più di quanto abitualmente richiedeva. Ma i prigionieri condannati a morte non hanno scelta.

Mathieu si inginocchia tra le gambe divaricate di Alessandro, nuovamente le sue mani afferrano il culo e lo stringono con forza. Poi Mathieu fa cadere un po’ di saliva sul buco del culo, accosta la cappella e, con un movimento ininterrotto, entra e spinge fino in fondo, fino a che i suoi coglioni battono contro il culo del prigioniero. Sente la tensione del corpo sotto il suo, il guizzo con cui l’uomo vorrebbe sfuggire e nuovamente ride della propria forza.

Aspetta un momento, perché vuole gustare il piacere intenso che sta provando, il calore di questo culo caldo che avvolge il suo cazzo come una guaina, il corpo forte steso sotto il suo, un corpo che lui sta violando e possedendo. Ma il desiderio preme ed il carceriere arretra il culo, fino a che il suo cazzo non esce completamente, poi lo infilza nuovamente, perché vuole sentire vibrare di dolore la carne che trapassa. Prende a spingere, con violenza, avanti e indietro, più volte. Il ritmo delle spinte accelera, ondate di piacere crescono, fino a riempire tutto il corpo, poi s’infrangono, una dopo l’altra, con un fragore immenso, che lo stordisce. Lo sborro riempie il culo del prigioniero e le mani di Mathieu stringono il culo di Alessandro con tanta forza da lasciare lividi bluastri.

Mathieu si abbandona sul corpo che ha posseduto, ansimante. Il piacere lo ha stordito. Gli sembra di non aver mai goduto tanto. Aspetta che il respiro diventi meno affannoso.

Ha soddisfatto il suo bisogno, ma non è sazio. Dentro il culo del prigioniero il suo cazzo riprende volume e consistenza. Mathieu si ritrae, si alza.

- Voltati, finocchio.

Alessandro si gira sulla schiena e lo fissa. Ha il cazzo duro, ma il suo viso è impassibile.

- Ti è piaciuto, eh, finocchio? 

Alessandro tace, ma Mathieu non aspetta una risposta. Vuole fottere di nuovo, vuole fottere questo bel culo e vuole vedere la faccia del prigioniero mentre gli viene dentro.

Si mette in ginocchio, prende le gambe di Alessandro. Sono gambe muscolose, coperte da una peluria leggera. Mathieu se le mette sulle spalle, costringendo Alessandro a sollevare il culo.

- Adesso ti gusti di nuovo questo grosso cazzo che ti piace tanto.

Alessandro ha ancora il cazzo duro e Mathieu lo guarda, ghignando. Anche il suo cazzo è di nuovo rigido e il desiderio incalza.

Avvicina la cappella al buco, da cui cola un po’ di sborro. Di nuovo entra con un colpo secco e legge la tensione sulla faccia del prigioniero. Abbassa la testa e fissa con attenzione gli occhi impassibili, che ricambiano lo sguardo, senza mostrare paura. Poi incomincia a spingere.

Questa volta il piacere è una brezza, che soffia leggera, e solo lentamente diventa un vento forte, uno scirocco che investe tutto il suo corpo, lo tende allo spasimo e poi lo trascina via, in un vortice tanto violento da fargli dimenticare dove si trova. La vista gli si annebbia e dai coglioni di nuovo il piacere sale, spietato. Mathieu chiude gli occhi, il cuore corre veloce, il fiato gli manca.

Il dolore violento alla schiena lo riscuote. Spalanca gli occhi e gli ci vuole un attimo prima di capire. Alessandro ha le braccia libere. Questo bastardo è riuscito a slegarsi. Lo ha colpito alla schiena. Un pugnale, sicuramente. Mathieu sente che le forze gli mancano.

Ora Alessandro gli stringe il collo con forza. Le mani di Mathieu si poggiano sulle braccia del suo assassino, cercano di allontanarle, di spezzare la morsa che gli chiude la gola e gli toglie il respiro, gli incendia il petto e gli offusca la vista.

Tira disperatamente, ma ormai non ha più forze, vede ancora balenare il sorriso di Alessandro, sì, ora questo figlio di puttana sorride. Il viso del prigioniero scompare, il fuoco che divampa nei polmoni gli arde in gola. Mathieu perde il controllo degli sfinteri, il suo corpo si affloscia e solo le mani di Alessandro ancora lo sostengono.

 

Alessandro stringe ancora con le dita. Sa che ormai regge un cadavere, ma non può mollare la presa, perché ora è il suo corpo ad essere percorso da un’onda di piacere intensissimo, che sale dal culo e dai coglioni e poi sgorga dal suo cazzo, violenta ed indomabile.

Di colpo esausto, Alessandro lascia cadere le braccia e il corpo pesante del carceriere si affloscia sul suo. Chiude gli occhi. È stato un piacere nuovo, sconvolgente. Uccidere l’uomo che lo stava fottendo e godere.

Alessandro rimane a lungo immobile, poi si riscuote. Fa scivolare di lato il cadavere. Si alza. Fissa il corpo del carceriere. Poi si infila i pantaloni, prende la tunica del morto e la indossa. È troppo larga, ma non può girare per la città a torso nudo, anche se ormai è buio. Recupera il coltello che ha piantato nella schiena di Mathieu.

Nella camera del carceriere prende una bisaccia con un po’ di cibo e di acqua. È tutto quello che gli può servire. Poi apre con cautela la porta e scivola in strada. È notte. Sa come uscire dalla città senza farsi sorprendere, anche se le porte sono chiuse: gli hanno spiegato come fare.

Raggiunge le mura, in un tratto vicino al palazzo del barone. Ci sono due sentinelle alla base della scala che porta sugli spalti, ma un ufficiale scende e si mette a parlare con loro mentre si dirige verso una delle porte della città. I due uomini sono costretti a seguirlo, allontanandosi un po’. Tutto si sta svolgendo come previsto. Alessandro sale fino al cammino di ronda. Qui trova la corda che l’ufficiale ha messo. La lega e si cala lungo le mura. È quasi alla fine della corda quando infine i suoi piedi toccano terra. Alessandro si volta e, alla luce fioca delle stelle, si muove verso la borgata dove, al luogo convenuto, lo aspetta un cavallo. Alessandro slega la briglia e sale. Domani mattina, quando verranno a prenderlo per bruciarlo vivo, sarà già lontano.

Ora che la fuga è riuscita, ora che è davvero libero, Alessandro si ferma a riflettere un momento.

Potrebbe dirigersi verso i territori saraceni: nonostante le minacce ricevute, non correrebbe molti rischi. I franchi hanno una rete di spie, ma spingendosi più verso oriente Alessandro potrebbe sfuggire loro. Oppure potrebbe cercare di nascondersi in qualche città del regno e poi imbarcarsi e tornare in Italia. Ma il compito che gli è stato affidato non gli dispiace e riuscire a eseguirlo gli darebbe i mezzi per vivere per parecchio tempo, invece di ricominciare a vagare sperando di trovare un lavoro e di sfuggire a chi lo cerca.

Come convenuto, si dirige verso la valle dell’Arram, che è territorio del conte Ferdinando. Percorrerà gran parte della strada a cavallo, poi lascerà l’animale e proseguirà a piedi, in modo da non dover giustificare il possesso di un cavallo.

L’indomani mattina i soldati che sono venuti a prendere il prigioniero per accompagnarlo al rogo trovano la porta del carcere accostata, ma non chiusa a chiave. Entrano, ma nessuno risponde quando chiamano il carceriere. Scendono nei sotterranei. La porta della cella dell’eretico è aperta. Il locale è immerso nell’oscurità, ma sul pavimento si scorge un corpo immobile. Un soldato va a prendere una lanterna e l’accende: il cadavere è quello del carceriere Mathieu, nudo, il cazzo ancora gonfio di sangue e sporco di merda e sborro.

- Lo ha ammazzato mentre scopavano.

L’ufficiale si china sul morto e osserva il collo.

- Lo ha strangolato, ma c’è parecchio sangue.

Volta il corpo. Sulla schiena appare la ferita.

- Si dev’essere procurato un’arma. Lo ha pugnalato. Il barone sarà furibondo. E il vescovo pure. Siamo nella merda.

- Non è mica colpa nostra, se questo coglione ha deciso di fotterlo ed è stato fottuto.

Il soldato che ha fatto la battuta ride. L’ufficiale gli lancia un’occhiataccia, ma poi sorride anche lui: tutto sommato il soldato ha ragione; non era compito loro sorvegliare il prigioniero.

- Speriamo solo che non fottano anche noi.

Il barone viene avvisato subito. Appare furibondo. Minaccia punizioni per tutti. Scende a vedere il cadavere. Guarda il corpo di Mathieu e per un attimo sembra quasi che un vago sorriso compaia sul suo volto. Il carceriere ha avuto quello che si meritava. Dà ordini perché gli uomini si mettano alla ricerca dell’assassino, che non può aver lasciato la città nella notte. Se è uscito quando hanno aperto le porte, non ha di certo fatto molta strada. Bisogna trovarlo.

La folla che attende l’esecuzione è delusa quando scopre che il condannato è scappato: niente spettacolo, oggi. Quelli che per avere un buon posto sono andati in piazza quando era ancora buio sono furenti. Mugugnando, tutti tornano alle loro occupazioni.

 

È l’alba ed il conte Ferdinando cavalca con due servitori. I cani seguono le tracce di un cervo e la caccia si preannuncia fruttuosa.

Ora latrano furiosi, ma quando il conte arriva alla radura dove la muta si è fermata, non c’è traccia della preda. Ai piedi di un albero è seduto un uomo, immobile. Il conte guarda i capelli rasati del giovane e immediatamente capisce di chi si tratta: da alcuni giorni gli hanno segnalato che nella sua contea si aggira un eretico, fuggito dal carcere il giorno prima dell’esecuzione. Alcuni lo hanno avvistato, da lontano; pare che si sia avvicinato ad una casa isolata per comprare un po’ di cibo. Probabilmente si è rifugiato nella contea perché sa che nelle terre di Ferdinando gli sbirri del vescovo non sono i benvenuti. Ma questo non significa nulla: il conte può riconsegnarlo alle autorità religiose, se vuole; non ha motivi per proteggerlo.

Ferdinando ferma il cavallo e guarda il giovane. È un bell’uomo, ha un corpo elegante e vigoroso.

Il conte lo fissa, senza dire nulla, poi si rivolge ai suoi due servitori:

- Portate via i cani e proseguite, io vi raggiungo dopo.

I due ubbidiscono e la muta si allontana, riprendendo a cercare le tracce del cervo.

Alessandro si alza, senza dire nulla. Guarda Ferdinando. Il conte è un uomo robusto e massiccio, possente, con barba e capelli neri con pochi fili bianchi. Ora lo fissa con gli occhi scuri. Alessandro è turbato. Non è paura, no, non è questo che prova, anche se sa che è entrato in un gioco fatale, che può concludersi solo con la morte, sua o del conte o forse di entrambi. È un’altra sensazione, molto forte, che sale dal ventre.

Ferdinando scende da cavallo e lo fissa negli occhi.

- Tu sei quello che cercano, l’assassino del carceriere di San Giacomo d’Afrin.

Alessandro non dice nulla. I capelli rasati renderebbero inutile cercare di negare e in ogni caso non ha motivo per mentire: è opportuno che Ferdinando sappia chi è, in modo che non diffidi di lui. 

- Assassino, eretico, sodomita e pure un gran bel maschio. Porcoddio! Che cosa pretendere di più?

Il conte scoppia a ridere. Alessandro non ha distolto gli occhi da lui.

- Fammi vedere le tue mani.

Alessandro tende le braccia. Il conte le prende tra le proprie mani. Ha mani forti, grandi, il dorso coperto da un pelame scuro.

- Sì, c’è forza in queste mani. Hai fatto bene a strangolarlo, ragazzo. È quello che bisognerebbe fare a tutti quei bastardi, dal vescovo all’ultimo dei suoi servi.

Ferdinando ride di nuovo, ma non gli lascia le braccia. Lo fissa negli occhi. Alessandro è turbato, ma non abbassa lo sguardo, non ne è capace, quel viso che lo scruta lo attira a sé.

- È vero che l’hai strozzato mentre scopavate?

Alessandro ritrova la voce.

- Sì.

Ferdinando ride ancora, poi ritorna serio. Annuisce: è soddisfatto della risposta. Gli piace pensare che quest’uomo ha ucciso il carceriere con le proprie mani.

- Ti è piaciuto farlo?

Alessandro guarda il conte. Ripensa alla notte in cui ha ucciso il carceriere, alle sensazioni violente che ha provato.

- Sì.

Ferdinando sorride.

- Anche a me piace uccidere. È bello. Mi piace uccidere con il coltello, sentire il suono della lama che entra nella carne. Porcoddio! Me lo fa venire duro. Ma anche uccidere con le mani è bello.

Ferdinando ride. Alessandro è sempre più turbato. Gli sembra di non essere in grado di ragionare, di rispondere. I pensieri e le parole gli si aggrovigliano.

Le due mani del conte si uniscono per avvolgere la destra di Alessandro, la accarezzano. Poi Ferdinando tende un braccio e di colpo con la sinistra stringe la gola di Alessandro. Non gli blocca il respiro, lo rende solo un po’ più difficile.

- Si può fare anche con una mano sola.

Alessandro rimane immobile. Si lascerebbe strangolare senza difendersi. Non riesce a reagire. Forse vorrebbe che il conte stringesse, fino alla fine. Che cosa gli sta succedendo? Deve scuotersi.

Ferdinando toglie la mano, gli si avvicina, prende Alessandro e lo fa girare su se stesso, preme il suo corpo contro quello di Alessandro, lo avvolge tra le sue braccia.

Finalmente Alessandro non ha più davanti a sé quel viso, ma la tensione che avvertiva non è diminuita: è invece cresciuta. Ora è prigioniero di due braccia vigorose, che lo stringono. Non pensa nulla, solo che è bello stare così, stretto contro quel corpo possente. Ne sente l’odore di sudore. Ne avverte la forza erculea.

- Hai voglia di scopare, ragazzo?

Alessandro ha la gola secca, non riesce a parlare. Si limita ad annuire. E gli sembra che le gambe cedano, che solo quelle braccia potenti gli impediscano di cadere.

Il conte gli sfila la tunica, gli cala i pantaloni. Guarda la sua preda. Il cervo può andare a farsi fottere. Lui ha solo voglia di fottere e questo bel culo che le sue mani pizzicano è esattamente quello che vuole.

Alessandro si sente perduto. Non è il timore per ciò che sta per accadere: lo desidera, non meno del conte. Non è il dubbio su ciò che accadrà dopo, quando l’uomo che gli stringe il culo si sarà preso il suo piacere: il gioco mortale che inizierà non lo spaventa. È una sensazione inattesa e molto più forte, più violenta perfino del desiderio che monta feroce, che gli tende il cazzo e lo fa vacillare. È la certezza di essere perduto, perché nelle mani del conte Alessandro non ha più una volontà propria.

Il conte si è inginocchiato dietro di lui. Alessandro non capisce, poi sente una carezza umida che scorre lungo la fenditura ed indugia sull’apertura.

Alessandro ha la gola secca, gli sembra che sulla radura sia calata una fitta nebbia, non sa più che cosa c’è intorno a lui, non vede più nulla, non sente i rumori della foresta, non avverte la frescura dell’aria del mattino. Esiste solo quella lingua che accarezza e che ora il conte spinge a fondo, violando l’apertura.

Ferdinando sente che il corpo di Alessandro vibra, teso allo spasimo. E allora le sue mani lo guidano a stendersi a terra, le gambe aperte, per offrire al signore la sua preda. Alessandro scivola al suolo, sorretto dalle braccia forti del conte, ma la sua sensazione è quella di precipitare in un baratro, una caduta senza fine in un pozzo oscuro come l’interno del suo corpo, come quella cavità che la lingua nuovamente sta invadendo. 

Ferdinando si stende sul giovane. Il desiderio scalpita, come un puledro impaziente, ma il momento è troppo intenso per lasciare che a condurre sia un cavaliere inesperto. Questo corpo sotto il suo gli trasmette mille sensazioni di piacere e ogni lembo di pelle cerca questo contatto inebriante. Ferdinando stringe il culo, accarezza i fianchi, afferra Alessandro sotto le ascelle, gli passa la mano ruvida sulla testa rasata, gli morde il collo, una spalla.

Il desiderio cresce, è una montagna che incombe su di lui e lo schiaccia, costringendolo a cercare rifugio all’interno di quel corpo che ora lo accoglie con un sussulto ed un gemito strozzato.

Ferdinando è entrato da trionfatore, senza pietà per l’uomo abbattuto, che non è in grado di opporre resistenza, che null’altro desidera che questa presenza massiccia e implacabile, che avverte sempre più a fondo.

Il conte si ritrae e poi avanza di nuovo, in un movimento lento, ma inesorabile, che strappa ad Alessandro gemiti di piacere. Dalle sue viscere sale un dolore violento, la sofferenza della carne forzata, che fatica ad adattarsi ad un padrone tanto forte e possente. Ma il tormento accresce il piacere che sale impetuoso e si diffonde in tutto il corpo, riempiendo il cazzo teso e il culo dilaniato.

A lungo il conte avanza ed arretra e a ogni incursione il nemico si sbanda, incapace di difendersi, e ogni volta la strage è più grande e terribile. Ferdinando sente di aver raramente goduto come ora ed Alessandro dice la stessa cosa con i suoi gemiti, sempre più forti.

La violenza del piacere sale ancora, come l’acqua che cresce e preme contro la diga, crea una falla e infine sfonda la muraglia. Una cascata si rovescia impetuosa oltre le macerie, travolgendo tutto ciò che incontra.

E allora Alessandro urla, un grido che prorompe dalle sue viscere, gli riempie i polmoni e la gola e si proietta fuori, incontenibile, come incontenibile è il seme che sgorga dal suo cazzo e si sparge al suolo. Un urlo selvaggio, di piacere, che avvolge il dolore, di trionfo e di sottomissione totale. E al grido di Alessandro fa eco un suono sordo, quasi un grugnito, del conte, che gli riempie il culo del suo seme. 

Ferdinando si abbandona sul corpo di Alessandro, ancora preda della vertigine di piacere che lo trascina verso il fondo. Null’altro vuole al mondo Alessandro che questo corpo che preme sul suo, questo cazzo ancora turgido dentro il suo culo, queste mani che lo stringono con tanta forza da fargli male. Null’altro avrà, nelle ore che seguono, perché entrambi non sono sazi.

 

Solo quando il sole è ormai alto in cielo, il conte e Alessandro sciolgono il loro abbraccio. Ferdinando fa salire il giovane sul suo cavallo davanti a sé ed insieme si dirigono al castello.

Alessandro è turbato, confuso. Aveva sentito parlare del conte, del suo vigore, dei suoi desideri sfrenati, della sua virilità. Ma non si aspettava l’intensità della propria reazione. Il dolore al culo è violento, cavalcare gli provoca fitte, ma Alessandro si sente appagato.

Mentre cavalcano verso il palazzo del conte, Alessandro si pone domande. Potrebbe raccontare a Ferdinando il vero motivo per cui si è diretto nelle sue terre, il patto con il diavolo che ha stretto: il conte lo aiuterebbe ad allontanarsi dalla Terrasanta e raggiungere l’Italia.

Ma l’uomo che gli ha dato il pugnale ha parlato di una grossa ricompensa, che gli garantirebbe una sicurezza per il futuro. E Alessandro sa bene che non può rimanere presso Ferdinando senza rispettare l’impegno preso: gliela farebbero pagare. Alessandro è stato condannato a morte per sodomia ed eresia e per di più ha commesso un omicidio per evadere dal carcere. Il re costringerebbe il conte a consegnarlo ai suoi carnefici.

C’è tempo per pensarci: un mese, prima che la trappola scatti.

Alessandro sente il corpo di Ferdinando dietro il suo. Un braccio del conte gli passa intorno alla vita, lo attira a sé. Contro il culo Alessandro sente il formidabile cazzo di Ferdinando, nuovamente rigido. Attraverso la stoffa la mano del conte afferra brutale il cazzo e i coglioni di Alessandro. Ferdinando ride, la sua risata aspra, e dice:

- A portare due persone, il cavallo si stanca. Ci fermiamo un momento.

Non chiede: Ferdinando non è abituato a chiedere. Ride di nuovo. Ferma il cavallo. Scendono. Ferdinando lascia il cavallo libero di brucare. Spinge Alessandro contro un albero, gli solleva la tunica e gli abbassa i pantaloni. L’ingresso è brutale, il dolore è violento, anche se l’apertura è stata ampiamente lubrificata nel corso della mattinata ed è ancora dilatata. Alessandro chiude gli occhi e geme. Ferdinando lo fotte nuovamente con energia: è la quarta volta.

Ferdinando ci dà dentro e quando infine viene, si abbandona contro il corpo di Alessandro.

- Porcoddio, ragazzo! Il tuo culo è una meraviglia.

Ferdinando ride di nuovo. Risalgono a cavallo. Alessandro ha male al culo, parecchio.

 

Il palazzo di Ferdinando era la residenza estiva dello sceicco di al-Hamra, che Denis ha conquistato, dandole il nome di Rougegarde. Alessandro guarda ammirato la lussuosa abitazione: non ha mai avuto modo di entrare in un palazzo signorile. Per quanto Ishaq fosse benestante e avesse una bella casa a Damasco e un’altra nella Ghuta, non c’è confronto con il sontuoso palazzo del conte. La ricchezza dei materiali usati nella costruzione, le decorazioni eleganti, l’arredamento sontuoso, il tripudio di piccoli giardini interni con fontane e giochi d’acqua: tutto crea un ambiente raffinato, che contrasta con la rozza brutalità del suo attuale proprietario.

 

Ferdinando lo conduce al bagno. Alessandro è contento di potersi lavare, dopo giorni in cui si è potuto bagnare solo nei torrenti e ha portato sempre gli stessi indumenti. Mentre si lava, contempla il conte che si sta immergendo nell’acqua. Alto, massiccio, un vero Ercole, un cazzo come Alessandro non ha mai visto, due coglioni che sono piccole mele, una peluria abbondante che copre buona parte del corpo, le numerose cicatrici lasciate dalle battaglie e dalle partire di caccia. Non è bello, tutt’altro, ma è il maschio più virile che Alessandro abbia mai visto.

Ferdinando si siede nell’acqua calda.

- Porcoddio, che bello! Ci passerei la giornata.

Alessandro annuisce. Anche lui si immerge nella vasca. La sensazione di tepore è piacevolissima.

Ferdinando prende alcuni dolci di miele e mandorle che un servitore ha posato accanto alla vasca. Li mangia, poi si lecca le dita. Svuota d’un fiato una coppa di vino. Rutta e si abbandona soddisfatto al piacere del bagno.

Anche Alessandro prende dal piatto due dolci e poi beve un sorso di vino. Guarda il conte e il pensiero va al suo padrone. C’è un abisso tra Ishaq e Ferdinando. Ishaq era un uomo istruito, un filosofo e un poeta, che amava i piaceri della carne e non si negava nulla, ma aveva anche nei giochi dell’amore una naturale eleganza. Ferdinando è un animale, dotato di grande forza e di un’energia inesauribile, ma rozzo. Uno di quegli uomini che si lasciano guidare completamente dal desiderio. Alessandro si rende conto che in qualche modo disprezza il conte, ma l’attrazione che prova per lui a livello fisico è fortissima. Amava Ishaq, ma come maschio Ferdinando lo attrae più di tutti gli altri uomini che ha incontrato.

 

Dopo il bagno, Ferdinando e Alessandro passano nella camera vicina, dove si trovano due tavolacci. Un servitore è seduto a terra e si alza all’ingresso del conte.

- Questo è Ghassan, che fa i mass. Sai che cos’è un mass?

Alessandro sorride.

- Certo. Sono stato a lungo schiavo dei saraceni e il mio padrone si faceva fare i mass.

Ferdinando sorride.

- Me li ha fatti scoprire un amico. Porcoddio, che meraviglia!

Ferdinando si stende a pancia in giù su uno dei due tavoli. Ghassan si versa sulle mani un po’ di olio e incomincia a massaggiarlo.

Alessandro guarda il corpo del conte. Di nuovo ritorna il pensiero di un animale, ma di un magnifico animale. Ghassan procede a lungo. Alessandro nota che insiste molto sul culo di Ferdinando, passando le dita anche lungo il solco e stuzzicando l’apertura. Il conte se lo farà mettere in culo? Da una parte ad Alessandro appare troppo maschio per farlo, dall’altra gli sembra che un uomo così non arretri davanti a nulla.

Quando Ghassan fa voltare Ferdinando, Alessandro vede che ha il cazzo duro. Non è possibile! Il conte è venuto quattro volte ed è nuovamente eccitato.

Ghassan prosegue con il massaggio: prima le braccia, poi il collo, il torace, il ventre. Le mani accarezzano il cazzo e i coglioni, poi scendono lungo le gambe e quando risalgono nuovamente toccano il sesso teso. Ora Ghassan lavora sul torace e sul ventre, indugiando ogni volta più a lungo sul cazzo, finché Ferdinando spalanca la bocca e dal cazzo un po’ di sborro scende sul ventre. Ferdinando chiude gli occhi, soddisfatto.

Ghassan pulisce con uno straccio umido il conte, poi fa cenno ad Alessandro di stendersi. Risentire le mani di un massaggiatore esperto è bellissimo.

Ad Alessandro non viene duro: in mattinata è venuto tre volte e ora è sazio, ma le carezze sono piacevoli.

La sera, all’ora di coricarsi, Ferdinando invita Alessandro nel suo letto. Il giovane può così ammirare la camera: sulle pareti ci sono diversi affreschi, che ritraggono il conte nudo, insieme ad altri maschi. Ferdinando appare in tutta la sua forza. Se qualcuno entrasse nella camera senza conoscere il conte, penserebbe certo che il pittore abbia esagerato per adulare il committente, ma in questo caso la virilità esibita nel ritratto è solo una fedele riproduzione della realtà.

Ferdinando si stende e si addormenta immediatamente. Alessandro può sentire il suo respiro pesante, che diventa un russare.

Alessandro è stanco, ma non si addormenta subito. Pensa alla giornata trascorsa, a quello che lo aspetta. La prima parte del piano ha funzionato benissimo. Ha conosciuto Ferdinando ed è entrato nel suo letto. Adesso, dopo aver destato il suo desiderio, dovrà conquistare la sua fiducia. Ma le sensazioni che ha provato sono state fortissime. Quest’uomo che dorme accanto a lui, il cui russare pesante riempie la stanza, lo attrae moltissimo e a questo non era preparato.

 

Il mattino Ferdinando si sveglia accanto ad Alessandro, che dorme ancora. Lo scuote.

- Hai sete?

Alessandro è ancora intontito dal sonno e non capisce.

- Sete? Ma… che cosa vuoi dire?

Ferdinando ride.

- Devo pisciare. Vuoi bere?

- Perché no?

Ferdinando si mette a sedere sul letto. Alessandro passa dalla sua parte e si inginocchia davanti a lui. Il cazzo del conte non è del tutto a riposo. Alessandro lo prende in bocca e Ferdinando incomincia a pisciare. Il liquido caldo gli scende in gola. Alessandro beve. A un certo punto un po’ di piscio gli va di traverso e lo fa tossire. Ferdinando si ferma un momento, poi riprende.

Quando il conte ha finito, Alessandro incomincia a succhiare la cappella. A Ferdinando viene duro in fretta. Alessandro lavora a lungo con la bocca, finché non sente in gola la scarica: il conte non la ha avvisato che stava per venire. Alessandro inghiotte, poi lavora ancora un po’, finché Ferdinando non lo forza ad allontanare la testa.

 

Mentre fanno colazione, Ferdinando pone un po’ di domande ad Alessandro, che racconta la sua vita. Non mente e non nasconde nulla, se non per quanto riguarda l’ultimo giorno in prigione. Dice di essere riuscito a rompere le corde e a prendere il coltello al carceriere. Così ha potuto pugnalarlo e poi lo ha finito strangolandolo. Ferdinando non gli chiede dettagli su come ha fatto a uscire dalla città nella notte.

- Ti va di rimanere qui al palazzo, Alessandro?

- Certo.

- Se manderanno qualcuno a cercarti, dirò che non sei qui. Ti nasconderò o ti aiuterò a scappare.

Ora. Ora Alessandro potrebbe raccontare la verità e chiedere davvero un aiuto per allontanarsi. Ma gli sembra che ormai sia tardi: avrebbe dovuto farlo prima, quando Ferdinando gli ha chiesto come ha fatto a scappare. Si limita a dire:

- Grazie.

- Tu sai l’arabo. Lo scrivi anche?

- Sì, certo.

- Perfetto. Io so qualche parola, ma solo il necessario per farmi capire. Il mio segretario lo parla bene, ma non sa scriverlo. Direi che qualcuno in grado di leggere e scrivere nella lingua dei saraceni può essere utile.

Ferdinando ride e aggiunge:

- Porcoddio! Sei appena arrivato e ti ho già trovato un lavoro.

Poi ghigna e aggiunge:

- Per il giorno. Per la notte ti chiedo altro. Ma mica solo per la notte.

Ferdinando ride di nuovo. Alessandro annuisce.

 

Nel palazzo Alessandro ha piena libertà. Nei primi giorni rimane molto con Ferdinando, che si serve di lui per fargli scrivere qualche lettera in arabo e come traduttore.

Il secondo giorno, un sabato, Alessandro assiste quando il conte si occupa dell’amministrazione della giustizia, come avviene una volta la settimana: a lui si rivolgono gli abitanti della contea per controversie di diverso tipo, legate soprattutto alla terra. In quanto signore dell’Arram tocca a Ferdinando decidere, ma in realtà il conte si limita ad assistere alle udienze e di solito avvalla le proposte di Francesco, il suo segretario, che conosce meglio le norme e le usanze locali.

Il giorno seguente, la domenica, Ferdinando torna a caccia: è il suo passatempo preferito, quando non è impegnato in guerra. Alessandro non è mai andato a caccia, ma vede volentieri il conte all’opera. Inseguono un cinghiale, che viene infine raggiunto dai cani.

Ferdinando scende da cavallo, la lancia e il coltello in mano. Ad Alessandro sembra un gesto temerario: i cinghiali sono pericolosi e non è raro che uccidano chi li caccia. L’animale, accerchiato dai cani, si fionda sul conte. Ferdinando lo attende senza arretrare e quando l’animale lo ha quasi raggiunto lo colpisce con la lancia, che penetra a fondo nel corpo. Il cinghiale lancia un grugnito di dolore e si abbatte al suolo, ma è ancora vivo e si dimena, cercando di rialzarsi. Ferdinando gli si avvicina con il coltello. Alessandro si dice nuovamente che il conte è pazzo: le zanne del cinghiale possono uccidere. Ma Ferdinando non sembra aver paura. Si getta sul cinghiale, stringendolo in un abbraccio mortale, e gli immerge il coltello in pancia, più volte. Il cinghiale emette un suono acuto, muove ancora la testa e poi si affloscia inerte. Ferdinando si alza. La tunica è tutta sporca di sangue, il sudore gli scorre sul viso. Il rigonfio dei pantaloni rivela una formidabile erezione. Uccidere lo ha eccitato. Quest’uomo è un animale, come il cinghiale. Ma che animale!

Ferdinando fischia e al suo segnale i cani si lanciano sulla preda, azzannandola. Il conte guarda Alessandro.

- Vieni con me.

Alessandro scende da cavallo. I servitori prendono le due cavalcature. Ferdinando mette una mano sulla spalla di Alessandro e lo porta un po’ più in là. Lo spinge contro un albero dal tronco inclinato. Gli abbassa i pantaloni e gli solleva un po’ la tunica. Sparge un po’ di saliva e con lentezza gli spinge il cazzo in culo. Il dolore si rinnova e il piacere lo avvolge. L’uno e l’altro crescono man mano che Ferdinando procede, imprimendo al movimento un ritmo più rapido e spingendo più a fondo il suo cazzo formidabile. Ferdinando passa una mano davanti, tra la corteccia e il corpo di Alessandro, gli afferra il cazzo e muovendo la mano lo porta a godere subito prima di venirgli in culo.

Ferdinando si ritrae. Alessandro si volta, stordito come sempre dal piacere che ha provato. Il cazzo di Ferdinando è un po’ sporco, ma il conte non se ne preoccupa: si limita a pulirsi sommariamente. Poi piscia contro un albero e si rassetta.

 

La sera c’è un banchetto con alcuni degli uomini della sua guardia personale e due guardacaccia. Si beve e si mangia in abbondanza, poi Ferdinando invita tutti al bagno. Sul bordo della vasca gli uomini si spogliano. Alessandro guarda affascinato questi corpi forti, che spesso hanno le cicatrici di ferite. Non sono belli, questi maschi guerrieri, e come il loro padrone sono spesso rozzi. Ma i loro gesti brutali, il loro linguaggio sboccato, la loro virilità esibita senza pudore destano in Alessandro un’eco profonda, più forte del disgusto che a volte prova di fronte a certi loro comportamenti.

Diversi degli uomini hanno già il cazzo mezzo duro. Lo sguardo di Alessandro è attratto da Berto, un guardacaccia con un corpo erculeo ed un cazzo taurino, già perfettamente teso. Una fitta peluria nera gli ricopre tutto il corpo. È anche lui un animale, più ancora di Ferdinando.

Ferdinando ha notato l’interesse di Alessandro. Ride e dice:

- Ti piace Berto, eh?!

Alessandro sorride, incerto su come rispondere. Ferdinando non sembra geloso all’idea che lui sia attratto da Berto.

Ferdinando si rivolge a Berto:

- Prendilo, se ti va. Ma fa’ attenzione a non spaccargli il culo: me lo voglio gustare ancora parecchie volte.

- Se ha retto la vostra mazza, signor conte, reggerà anche la mia.

Berto si volta verso Alessandro e gli fa un cenno con il capo. Sembra una domanda. Alessandro annuisce.

Berto gli mette le mani sulle spalle e lo fa inginocchiare.

- Inumidiscilo bene, così entra più facilmente.

Ride.

L’odore è intenso e la pulizia è dubbia: di certo Berto non si lava spesso. Ma Alessandro ama i gusti forti. Apre la bocca e avvolge la cappella, incominciando a succhiare. Berto beve del vino, poi dice:

- Staccati un momento.

Alessandro esegue. Berto si riempie di nuovo la coppa, la abbassa e vi immerge il cazzo e i coglioni. Alessandro ride e lecca il vino che gocciola dalla cappella, poi passa la lingua sui coglioni e infine riprende in bocca il cazzo, che sta ancora crescendo di volume. Berto si versa ancora un po’ di vino sul ventre. Alessandro lecca.

Intorno a loro anche gli altri uomini si danno da fare.

Due soldati scherzano in acqua, lottando e stringendosi: sono due maschi forti, completamente diversi l’uno dall’altro. Uno è alto, capelli di un biondo rossiccio, occhi azzurri, spalle larghe e mani robuste; l’altro è nettamente più basso, capelli e barba neri come la pece, occhi scuri. La lotta diventa via via più serrata: ora davvero ognuno dei due vuole avere il sopravvento. Gli altri li incoraggiano. I due si insultano e si minacciano, ma senza acrimonia:

- Ti spacco il culo, pezzo di merda!

- Te lo faccio ingoiare tutto, Bastiano!

Infine Sebastiano, il biondo, riesce a bloccare l’altro e gli tiene la testa sott’acqua per un buon momento, finché questi non rinuncia a resistere. Allora lo lascia riemergere.

Antonio tossisce e sputa, poi dice:

- Merda! Volevi farmi affogare?

Sebastiano ride e risponde:

- Appoggiati al bordo della vasca e non farmi perdere tempo, Antonio.

Antonio obbedisce, sputando ancora acqua.

Sebastiano si mette dietro di lui e lo infilza senza tanti complimenti.

- Merda, Bastiano!

Sebastiano fotte con gusto e vederlo al lavoro è un bello spettacolo. Antonio sembra apprezzare e geme più volte. Sebastiano accelera in movimento ed emette una specie di grugnito. La sua mano passa davanti e afferra il cazzo di Antonio. La stretta dev’essere alquanto decisa, perché Antonio ha una smorfia di dolore, ma poco dopo è il piacere a fargli aprire la bocca ed emettere un gemito. 

Intanto Ferdinando sta pisciando in un calice e lo porge a Rinaldo, che ride, lo porta alle labbra e beve. Poi si inginocchia davanti al conte e incomincia a succhiargli il cazzo. Rinaldo si mette anche lui in ginocchio e incomincia a mordere e leccare il culo di Ferdinando, facendo scorrere la lingua lungo il solco.

Alessandro prosegue con il suo lavoro, finché Berto non gli dice di interrompere e lo fa stendere sui cuscini. Alessandro allarga bene le gambe e Berto lo infilza lentamente. È un po’ doloroso, ma piacevole. Berto fotte a lungo, mentre beve e scherza con gli altri.

Il divertimento va avanti a lungo, finché non sono tutti sazi. Alessandro è stanco: ormai è molto tardi. Ma guarda volentieri questi corpi stesi sul bordo della vasca, le tracce di seme sulla barba o sul ventre, i cazzi ancora gonfi di sangue, anche se non più rigidi. Ascolta le loro parole, i rumori che producono i loro corpi, affascinato e disgustato nello stesso tempo. Non appartiene a questo mondo, troppo grezzo e brutale, ma ne apprezza la libertà assoluta.

Alessandro sa che deve andarsene o diventare carnefice. Cercare di fuggire presenta troppi rischi. Ma non è contento di dover tradire.

 

 

I giorni passano. Alessandro scopa ogni giorno con Ferdinando, di solito più volte, e lo accompagna nelle partite di caccia. La notte dorme sempre con lui ed è l’unico tra i suoi uomini a dargli del tu: il conte non nasconde la predilezione che ha per il giovane.

Ogni tanto c’è qualche banchetto che poi si trasforma in un’orgia.

Alessandro studia la situazione e cerca di fare amicizia con gli uomini al servizio del conte. Molti non sembrano avere rapporti con lui: quelli con cui Ferdinando scopa regolarmente costituiscono un piccolo gruppo, che partecipa ai banchetti. Tra questi solo Sebastiano e Antonio formano una coppia: anche se prendono parte alle orge serali, scopando con gli altri, tra di loro esiste un rapporto molto stretto. Si provocano in continuazione e, se le circostanze lo permettono, si affrontano in una lotta che si conclude inevitabilmente con una scopata, in cui il vincitore fotte lo sconfitto. È di solito Sebastiano ad avere la meglio e Alessandro si chiede se lo scontro verbale e la lotta che segue non siano solo una specie di rituale.

Alessandro pensa che se Sebastiano e Antonio andassero insieme a Santa Maria, di sicuro avrebbero rapporti anche là: scopano ogni giorno. Sarebbero le persone giuste.

Alessandro decide di stringere amicizia con i due.

- Da dove venite? Siete anche voi siciliani?

- Sì, io sono di un paese vicino a Catania, Antonio invece è di Siracusa, come il conte. E tu, da dove vieni?

- Mio padre era siciliano anche lui, di Messina. Viveva a Edessa, ma la città fu riconquistata dai saraceni e i miei genitori divennero schiavi. Io ero appena nato.

Alessandro racconta brevemente la propria vita, accennando anche ai suoi padroni a Damasco. Poi, dopo aver soddisfatto la loro curiosità, pone a sua volta domande, per conoscerli meglio.

- Io facevo il contadino nel mio paese, quando ho saputo che Ferdinando era diventato conte oltremare e cercava uomini. Me l’hanno detto i suoi parenti. Non ci credevano neanche loro. Era partito per Gerusalemme con le pezze al culo. Ed era diventato conte, signore di una terra fertile. Mi sono detto: Antonio, è la tua occasione.

- Io invece l’ho saputo da un conoscente. L’Etna aveva distrutto i campi della mia famiglia e non sapevo come sbarcare il lunario. Sapevo che qui rischiavo la pelle, ma là c’era solo miseria.

- Così siamo entrati al servizio del conte. Pensavamo di fare i contadini, ma servivano soldati, le condizioni erano buone, ci siamo parlati e abbiamo deciso di provare.

Alessandro chiede:

- Vi conoscevate già, in Sicilia? Siete arrivati insieme?

- Non ci conoscevamo. Ci siamo incontrati a Siracusa, quando questo fetente è salito a bordo. Abbiamo fatto amicizia in fretta.

Antonio ride di nuovo:

- Di’ pure che mi hai inculato già la prima sera.

- E anche la seconda e la terza, poi è incominciato l’inferno: un viaggio di merda, il mare in tempesta, tutto il tempo a vomitare. Non credevo di uscirne vivo. Ero sicuro di crepare.

- E siete diventati soldati.

- Sì. Meglio che fare il contadino. Rischi la pelle in guerra, è vero, ma non è male come vita.

- Soprattutto qui a palazzo.

- Puoi dirlo. Ci si diverte. Ma questo lo sai, no? Di certo il tuo culo se lo ricorda benissimo.

Alessandro ride.

- Difficile dimenticare il cazzo del conte.

Antonio ride:

- Perché lui sì che ha un cazzo, non un moncherino come Bastiano!

Sebastiano non sembra gradire la battuta, perché dice subito:

- Brutto stronzo! Adesso ti faccio vedere.

- Vediamo, dai.

Antonio si spoglia e Sebastiano lo imita. Tutti e due hanno il cazzo già mezzo in tiro.

La lotta è breve. Sebastiano riesce a bloccare Antonio, che è costretto ad arrendersi.

- Adesso ti faccio assaggiare il moncherino, stronzo!

Il cazzo di Sebastiano è ormai pronto. Il catanese allenta un po’ la presa per mettersi nella posizione giusta e forza Antonio a sistemarsi a quattro zampe, poi lo infilza senza tante cerimonie.

- Merda! Sei un figlio di puttana, Bastiano.

Sebastiano ride e si ritrae. Lascia ad Antonio il tempo di riprendere fiato, poi lo infilza nuovamente, con un po’ più di riguardo.

Antonio guarda Alessandro e ghigna:

- Non vuoi partecipare? Ho la bocca libera.

Sebastiano osserva:

- Sì, riempigli la bocca, così almeno la smette di sparare cazzate.

Alessandro si spoglia e si mette davanti ad Antonio, che gli prende il bocca il cazzo e incomincia a succhiare.

Quando Alessandro sente che sta per venire, avvisa Antonio, che però non molla la presa e beve con gusto. Poco dopo viene anche Sebastiano con una serie di spinte violente che quasi fanno cadere Antonio. Allora afferra il cazzo di Antonio e fa venire anche lui.

Rimangono distesi a terra, soddisfatti.

Alessandro osserva:

- Non ho mai visto un maschio come il conte.

- Non ce ne sono. Ha un cazzo da cavallo e un’energia…, cazzo!, quando ti scopa ti sembra di avere un palo in culo. Ma non devo raccontarlo a te: hai modo di provarlo tutti i giorni.

Alessandro annuisce:

- Lo hai provato anche tu?

- Sì, parecchie volte. E anche Sebastiano, vero?

- Sì, l’ho provato anch’io.

- È sempre lui a metterlo in culo, vero?

- Qualche volta se l’è preso in culo anche lui. Da parte di Berto. Ma è raro che capiti.

Alessandro scopa più volte con Antonio e Sebastiano, ma la notte dorme sempre con il conte.

Ormai Alessandro sa quello che deve fare e ne conosce le conseguenze: la morte di Antonio, di Sebastiano e del conte. I due soldati sono uomini rozzi, per cui la vita è solo mangiare, bere, scopare e combattere. Il conte non è diverso da loro. Sono tre animali, nient’altro. Ma ad Alessandro pesa l’idea di provocarne la morte, anche se è il prezzo per la propria vita.

 

Dopo tre settimane Alessandro manda una lettera a Santa Maria in Aqsa, servendosi di un mercante di passaggio. È indirizzata a un tintore, ma il messaggio è destinato ad altri.

Passano dieci giorni e arriva una lettera per Sebastiano. Il soldato non sa leggere e Alessandro si offre di farlo per lui: ormai sono amici. Il messaggio proviene da Santa Maria in Aqsa. Un banchiere informa Sebastiano che un mercante di Catania ha depositato presso di lui una somma di denaro, che gli verrà versata quando si presenterà a Santa Maria. Il mercante siciliano ha anche lasciato al banchiere due lettere: una destinata a Sebastiano e un’altra, in arabo, che Sebastiano dovrà consegnare a un mercante saraceno di Rougegarde.

Sebastiano è stupito.

- Denaro, per me? Da un mercante di Catania?

Alessandro finge di condividere lo stupore dell’amico. Dice:

- Qualche parente ricco di Catania sarà morto e quella sarà l’eredità.

- E ti sembra che se avevo parenti ricchi a Catania venivo qua? Stavo in Sicilia e me li tenevo cari. Non so proprio chi può essere. E questo mercante saraceno? Non conosco nessun mercante saraceno.

- I mercanti girano per tutto il Mediterraneo. Quello di Catania farà affari con qualcuno qui in Terrasanta.

Sebastiano non sembra convinto:

- Non ci capisco una beata minchia. Io che c’entro?

Alessandro ride:

- L’unico modo per scoprirlo è andare a Santa Maria.

- Se c’è da guadagnare qualche cosa, perché no?

- In effetti, qualche moneta non guasta.

Sebastiano chiede di parlare al conte. Alessandro lo accompagna.

Ferdinando non ha nessun motivo per impedire a Sebastiano di partire e ad Antonio di accompagnarlo. Alessandro gli chiede:

- Posso andare anch’io? Se c’è una lettera in arabo posso leggerla. E non mi spiacerebbe vedere un po’ del regno.

Ferdinando appare perplesso.

- Sei sicuro, Alessandro? Sei stato condannato a morte. Potrebbero riconoscerti.

Alessandro ride:

- E chi mai? Mi hanno visto solo le guardie che mi hanno arrestato e quelli che mi hanno interrogato, a San Giacomo. Pochi altri là si ricorderanno di me. E non credo proprio che qualcuno mi possa riconoscere a Santa Maria.

Il ragionamento è sensato. A Ferdinando spiace separarsi da Alessandro, ma non gli sembra il caso di opporsi alla richiesta. Alessandro gli piace molto, ma ci sono altri maschi e per una settimana Ferdinando può fare a meno di lui.

Il giorno dopo Alessandro, Sebastiano e Antonio partono per Santa Maria in Aqsa. La cittadina non è lontana: a cavallo ci si arriva in tre giorni, seguendo la strada più diretta, che passa per Cesarea. Di lì in due giorni si può raggiungere il mare: Santa Maria in Aqsa è il porto più vicino.

La sera si fermano in una locanda oltre Cesarea. In camera si dedicano a lungo alla loro attività preferita.

Quando infine si stendono a dormire, Alessandro non riesce a prendere sonno. Pensa che tra due giorni dovrà tradire Sebastiano e Antonio. L’idea gli pesa, ma ormai non c’è modo di tornare indietro. Se non facesse quando deve, sarebbe lui a essere arrestato e a finire sul rogo.

 

La strada per Santa Maria raggiunge un passo della catena costiera: è il primo punto da cui si può scorgere il Mediterraneo. Alessandro non ha mai avuto occasione di vedere il mare e lo spettacolo lo affascina: la giornata è serena e la grande distesa di acqua è di un azzurro a tratti intenso, quasi blu, a tratti più chiaro. Santa Maria in Aqsa è visibile in lontananza, una macchia bianca sulla costa.

Scendendo Alessandro non riesce a distogliere gli occhi dalla superficie del mare, increspata dalla schiuma biancastra delle onde.

- Che meraviglia!

Sebastiano scuote la testa.

- Per te che ci arrivi a cavallo, forse. Per noi che l’abbiamo attraversato per arrivare qui… Merda! Abbiamo avuto tempesta per tre giorni e credevo di crepare e finire in gola ai pesci. Ho vomitato anche l’anima. Vomitavamo tutti, non potevamo neanche cagare, perché i cessi erano allagati. Cagavamo dove capitava. Altro che meraviglia!

Antonio ride.

- Mi hai pure vomitato addosso.

- Non ero mica in grado di alzarmi. E di salire sul ponte, non se ne parlava proprio.

Chiacchierano ancora del viaggio. Alessandro sa che dovrà affrontare anche lui il mare, per andarsene dal Regno di Gerusalemme. Ma questo sarà possibile soltanto dopo che avrà svolto il suo compito.

L’ultimo tratto della strada passa lungo la costa, scendendo progressivamente verso il mare. Il sole è alto in cielo e il caldo soffocante, ma là dove la vegetazione è più fitta e soffia un leggero vento, si sta meglio. Si fermano a mangiare all’ombra di un cedro, poi raggiungono la città nel primo pomeriggio.

Alessandro fa notare una locanda poco oltre la porta da cui sono entrati: è quella che gli è stata indicata nell’ultimo messaggio che ha ricevuto. Antonio e Sebastiano non hanno motivo per non accettare il suggerimento di Alessandro, per cui decidono di fermarsi lì. Lasciano i cavalli e vanno subito in cerca del mercante: Sebastiano è impaziente di intascare il denaro e capire come mai gli è stato lasciato. La bottega però è chiusa. Informandosi da un vicino, risulta che il mercante è assente e tornerà solo in tarda serata.

Alessandro osserva:

- Lo cercheremo domani mattina.

Sebastiano annuisce.

- Mi terrò la curiosità fino a domani. Torniamo alla locanda. Sappiamo come passare il tempo, vero?

Sebastiano e Antonio ridono. Alessandro sorride e annuisce.

- Passiamo dal porto, così diamo un’occhiata alla città. E io voglio vedere il mare da vicino.

- Guardarlo sarà anche bello, ma te l’ho detto: starci sopra su una nave per settimane… merda! Non te lo consiglio!

Fanno un giro al porto, prima di tornare alla locanda. Santa Maria in Aqsa è una bella cittadina, una cascata di case bianche che scendono verso il mare, in cui si specchiano.

Quando rientrano c’è un ufficiale fuori dalla porta che sembra immerso nei suoi pensieri e dentro, a un tavolo, alcuni soldati che bevono e non degnano di un’occhiata i tre forestieri. Anche Alessandro, Sebastiano e Antonio prendono un bicchiere di vino prima di salire nella loro camera.

Una volta che sono dentro Sebastiano si spoglia in fretta e si stringe il cazzo con la destra, mentre sorride ai due compagni. Antonio si toglie gli abiti e li getta sulla sbarra alla parete. Vedendo che Alessandro rimane vestito, gli chiede:

- Non vuoi divertirti un po’, Alessandro?

Alessandro sorride.

- Certo! Però incominciate voi, io vado a farmi dare un altro po’ di vino: ho ancora tutta la sete del viaggio. Ne porto su anche per voi. Non bloccate la porta.

Alessandro esce. Aspetta un momento fuori, poi socchiude l’uscio. Sebastiano e Antonio non hanno perso tempo. Salvatore è in piedi e Antonio gli ha preso in bocca il cazzo. Non pensano che qualcuno possa spiarli.

Alessandro scende ed esce dalla locanda. Vicino alla porta c’è l’ufficiale. Alessandro fa appena un cenno d’intesa, poi recupera il cavallo dalla scuderia e si allontana. L’ufficiale entra nella taverna. Non dice nulla, non fa nessun gesto, ma i sei soldati che bevono seduti a un tavolo si alzano e lo seguono sulle scale. L’oste li guarda, stupito, ma non chiede loro dove vanno: in città c’è un clima di paura e nessuno ha voglia di cercare guai.

Quando i soldati entrano nella camera, Antonio è contro il muro e Sebastiano lo sta inculando. Voltano entrambi la testa.

Antonio dice:

- Alessandro…

Non prosegue: ha visto che non è entrato Alessandro, ma la morte.

Sebastiano mormora:

- Merda!

L’ufficiale dà ordine di rivestirsi, poi gli fa legare i polsi dietro la schiena e i soldati li accompagnano alla fortezza.

Intanto Alessandro ha raggiunto un’altra locanda, dove prende una camera per la notte. Sa che nessuno verrà a cercarlo.

Il giorno seguente lascia Santa Maria in Aqsa molto presto e si dirige verso la valle dell’Arram.

 

Jorge da Toledo guarda i due prigionieri, cercando di valutare la loro capacità di resistenza. Sono entrambi uomini forti, ma quello che si chiama Sebastiano appare più deciso e probabilmente sarà difficile farlo confessare. Antonio non dev’essere altrettanto coriaceo.

Jorge decide la linea da seguire: con Sebastiano è opportuno essere fin dal principio molto brutali, in modo che Antonio veda ciò che lo aspetta se non collabora. È invece meglio che Antonio non presenti segni di tortura troppo evidenti, perché non si possa dire che la confessione è stata estorta: se il conte Ferdinando sarà processato, ci sarà chi lo difenderà e non bisogna prestare il fianco a critiche. Può darsi che Sebastiano alla fine ceda, altrimenti ci sarà solo la testimonianza di Antonio. Il conte è un sodomita, ma è un signore del regno.

 

Come ha deciso Jorge, il primo a essere interrogato, la sera stessa dell’arresto, è Sebastiano. Viene spogliato e gli lasciano addosso solo i pantaloni. Il carceriere gli lega saldamente i polsi dietro la schiena, poi lo conduce in una cella, con un tavolo e due sedie. Rimangono entrambi in piedi in silenzio, fino a che un uomo, con il corpo coperto da un mantello e un cappuccio che gli copre parte del viso, entra e si siede al tavolo. Un altro uomo, un monaco, si siede accanto a lui. Ha l’occorrente per scrivere.

L’uomo con il viso coperto parla. L’altro registra le domande e le risposte.

- Il tuo nome.

- Sebastiano di Gaetano.

- Il tuo stato.

- Non ho famiglia.

- Il tuo lavoro.

- Sono soldato, al servizio del conte Ferdinando d’Arram.

C’è un momento di silenzio.

- Sei stato sorpreso dai soldati mentre avevi un rapporto contro natura. Per questo è prevista la pena di morte mediante il rogo.

Sebastiano si morde il labbro, senza dire nulla.

- Puoi sperare nella nostra indulgenza, se risponderai senza mentire alle nostre domande.

Sebastiano tace ancora.

- Con chi altri hai avuto rapporti contro natura?

- Con nessuno, sono appena arrivato.

- Questo lo sappiamo. Non parlo di qui. Prima di arrivare a Santa Maria in Aqsa.

Sebastiano alza le spalle.

- No, no, era la prima volta.

La voce dell’uomo che interroga è dura

- Non mentire.

Sebastiano insiste:

- No, non l’avevo mai fatto.

Scuote la testa.

- Vedo che è necessario aiutarti a ricordare.

L’uomo fa un cenno al carceriere, che strattona Sebastiano e lo spinge fuori dalla stanza.

- Andiamo.

Il carceriere guida Sebastiano fino a un ampio locale dove vi è una carrucola. Sebastiano capisce immediatamente quello che lo aspetta e rabbrividisce. Dalla carrucola pende una corda, che il carceriere lega a quella che stringe i polsi di Sebastiano.

Dietro di loro, Sebastiano sente la voce dell’inquisitore.

- Sei disponibile a parlare o preferisci provare la corda?

Sebastiano alza le spalle, nascondendo il suo sgomento.

Il carceriere si sposta alla carrucola e la mette in azione, issando il corpo di Sebastiano, con le braccia legate dietro la schiena che sostengono tutto il peso. Il dolore alle spalle cresce fino a diventare intollerabile.

- Per la salvezza della tua anima, rispondi sinceramente. Con chi altri hai avuto rapporti contro natura prima di venire qui?

Sebastiano digrigna i denti. Ha uno scatto d’ira:

- Vaffanculo… prete… fottuto.

L’inquisitore non dice nulla. Si limita a fare un cenno al carceriere, che allenta la corda di colpo, facendo cadere Sebastiano, e poi, con un movimento altrettanto rapido, la blocca. Il dolore è un lampo abbagliante. Sebastiano lancia un urlo.

- Sei disposto a rispondere alle mie domande?

Sebastiano parla a fatica:

- Spero… che il diavolo… ti fotta… bastardo…

Il prete fa di nuovo un cenno. Il carceriere muove la carrucola, sollevando nuovamente il corpo. Poi lo lascia cadere e blocca la caduta. Il dolore è una mazzata che stordisce Sebastiano. Per un momento il prigioniero perde i sensi, poi lentamente riemerge.

- Allora, ti è tornata la memoria?

Con uno sforzo Sebastiano riesce a mettere a fuoco l’uomo davanti a lui. Non risponde più: non riesce a parlare. Dagli occhi gli colano le lacrime. Scuote la testa.

Il prete si rivolge al carceriere.

- Riportalo in cella. Proseguiremo domani.

Sebastiano viene trascinato in cella, dove Antonio dorme: è ormai molto tardi. Il rumore della porta che si apre desta Antonio, che alla luce delle torce vede subito la posizione innaturale delle braccia e legge sul viso stravolto di Sebastiano la sofferenza. Quando le guardie sono uscite, chiede, angosciato:

- Bastiano! Che ti hanno fatto?

Sebastiano chiude gli occhi.

- La corda, quei bastardi… ma non ho confessato.

Antonio rabbrividisce. Non si aspettava che incominciassero subito a torturarli.

Poco dopo lo vengono a chiamare. L’interrogatorio segue la stessa procedura: l’uomo con il viso coperto pone le domande, che uno scrivano registra, aggiungendo le risposte.

- Il tuo nome.

- Antonio.

- Chi fu tuo padre?

- Non lo so. Mia madre non era sposata.

- Figlio del peccato, dunque. Qual è il tuo stato?

- Non sono sposato.

- Il tuo lavoro?

- Sono al servizio del conte Ferdinando.

L’inquisitore annuisce.

- Sei stato sorpreso dai soldati mentre avevi un rapporto contro natura con il tuo compagno. Sai che per questo crimine orrendo è prevista la morte sul rogo.

- Fu un momento di smarrimento.

- Puoi sperare nella nostra indulgenza, se risponderai senza mentire alle nostre domande.

- Lo farò.

- Con chi altri hai avuto rapporti contro natura prima di arrivare a Santa Maria in Aqsa?

Antonio esita.

- Con Sebastiano. Qualche volta mi è capitato con altri, durante le spedizioni, ma… ci limitavamo a toccarci. Gente di cui non ricordo neppure il nome.

- Devi dire la verità.

- È così.

L’inquisitore annuisce.

- Vedo che anche tu hai bisogno di un aiuto a ricordare.

L’uomo fa un cenno al carceriere, che afferra Antonio per un braccio.

- Andiamo.

Antonio cerca di resistere, anche se sa che è perfettamente inutile e che rischia solo di peggiorare la sua situazione.

Antonio non viene portato nella sala della corda, ma in un’altra. Gli tolgono la camicia, poi viene legato a un tavolo. Il carnefice prende un frusta. A un cenno dell’inquisitore il carnefice alza la frusta e colpisce Antonio sulla schiena. Non è un colpo particolarmente violento: Jorge da Toledo ha dato istruzioni precise.

Antonio sussulta e stringe i denti.

- Ho detto quello che sapevo.

Un nuovo cenno dell’inquisitore provoca una seconda frustata, che prende Antonio sul culo.

La voce risuona alta:

- Con chi hai avuto rapporti carnali contro natura?

Antonio dice alcuni nomi. Soldati con cui ha davvero avuto rapporti, anni fa, ma che non saprebbe nemmeno rintracciare. L’inquisitore chiede dettagli, ma Antonio non sa fornirne. Teme di essere nuovamente frustato, ma l’inquisitore si limita a porre un’altra domanda.

- Con chi hai abitualmente rapporti tra gli altri soldati del conte?

- Con nessuno. Solo con Sebastiano, qualche volta.

La frustata arriva decisa, sulla schiena.

Dopo aver ricevuto dieci frustate, le corde di Antonio vengono sciolte e il prigioniero ricondotto in cella.

Jorge si toglie il cappuccio e raggiunge Godefroi, che lo attende, impaziente.

- Allora?

- Sono ostinati, ma cederanno. Uno dei due, quello che si chiama Antonio, cederà senz’altro. L’altro non so. Ma ci serviremo di lui per indurre l’altro a confessare. E probabilmente, dopo che questo Antonio avrà ceduto, anche Sebastiano si renderà conto che non ha senso resistere.

 

Il mattino seguente i due prigionieri sono seduti nella cella, silenziosi. È Sebastiano a parlare:

- Che ne sarà di Alessandro?

- Speriamo che non lo abbiano arrestato. Se riesce ad allontanarsi e a raggiungere il conte, forse abbiamo qualche speranza.

- Non ne abbiamo nessuna, Antonio. Ci hanno preso mentre scopavamo. Ma mi chiedo…

- Che cosa?

- Come hanno fatto a venire a colpo sicuro? Alessandro era appena uscito…

- Non capisco. Che cosa vuoi dire? Pensi che…

Antonio non completa la frase. È Sebastiano a riprendere:

- È uscito, ha detto di non chiudere la porta. Ha fatto appena in tempo a scendere e sono arrivati i soldati. Come facevano a sapere che stavamo scopando? Eravamo arrivati da poche ore, nessuno poteva sospettare che scopassimo tra di noi.

- Forse… sul conte circolano voci, lo sanno tutti.

Sebastiano scuote il capo.

- Non credo che sia questo. Come potevano sapere i soldati che eravamo al servizio del conte? E poi… sono venuti a colpo sicuro.

Rimangono entrambi in silenzio, poi Antonio formula la domanda che gli preme in gola:

- Pensi davvero che Alessandro ci abbia tradito?

- Tutto lo fa pensare.

- Se è così… spero che paghi. Ma perché?

- Questo non te lo so dire. Mi chiedo dove vogliano arrivare…

Poco più tardi Sebastiano viene nuovamente ricondotto nella sala delle torture. Continua a negare di aver avuto rapporti con altri uomini e a sostenere che la scopata con Antonio è stata un evento occasionale, un momento di smarrimento.

Viene allora legato su un tavolo e gli stringono la caviglia destra tra due assi di legno, bloccate da una morsa. Poi la morsa viene stretta. Il dolore diviene presto lancinante. Sebastiano urla.

- Rispondi: con chi altri hai avuto rapporti contro natura?

- Con nessuno! Con nessuno!

La morsa viene ulteriormente stretta. Sebastiano vede il mondo oscillare intorno a lui. Chiude gli occhi. Gira la testa di lato e vomita.

Anche la caviglia sinistra viene stretta tra due assi e la morsa azionata in modo da stringerla.

Sebastiano urla nuovamente, poi vomita ancora. Quando infine lo liberano, Sebastiano non riesce più a stare in piedi.

Jorge ha assistito, con il capo coperto da un cappuccio. Dice al carceriere:

- Mettilo di nuovo nella cella  con l’altro, in modo che lo veda.

Sebastiano non può più camminare. Viene trascinato da due guardie, ma lo strusciare per terra dei piedi gli strappa urla di dolore.

Lo lasciano cadere sul pavimento della cella.

Antonio lo guarda, sconvolto. Non ha il tempo di porre domande, perché viene subito prelevato per essere interrogato. Non viene portato nella stanza con il tavolo, ma direttamente nella sala delle torture.

L’uomo che pone le domande gli chiede:

- Sei disposto a rispondere?

- Sì.

- Confessi di aver avuto rapporti contro natura con Sebastiano di Gaetano, soldato al servizio del conte di Arram?

È una domanda assurda: li hanno sorpresi mentre scopavano, i soldati e l’ufficiale lo possono testimoniare. Ma Antonio sa che è solo il primo gradino di una scala che scende e che percorrerà per intero. La sua capacità di resistere si è esaurita.

- Sì.

- Hai avuto rapporti contro natura con altri uomini qui a Santa Maria in Aqsa?

- No.

- Hai avuto rapporti contro natura altrove?

- Qualche volta, l’ho già detto.

- Con chi?

Antonio esita. Il sacerdote fa un segno al carceriere, che si avvicina, ma quando afferra i polsi di Antonio per legarli alla corda della carrucola, questi cede:

- Sì, sì.

- Con chi?

- Con alcuni soldati.

- Soldati del conte?

- Sì, altri soldati.

- Dicci i nomi.

Antonio inventa alcuni nomi.

L’inquisitore chiede:

- Hai avuto rapporti con il conte Ferdinando?

Antonio tace. Ora ha capito dove vuole arrivare quest’uomo

L’inquisitore fa di nuovo un cenno. Antonio trema, ma non apre bocca. Quando però il carceriere, dopo avergli passato una corda ai polsi, manovra la carrucola e Antonio sente le braccia sollevarsi dietro la schiena, grida:

- No, no, dirò tutto.

L’inquisitore fa un cenno al carceriere, che abbassa la corda, ma non completamente. La tensione ora è tollerabile, ma ancora dolorosa.

- Hai avuto rapporti con il conte Ferdinando?

- Sì.

- Quante volte?

- Molte volte.

- Il conte ha spesso rapporti contro natura?

Antonio esita un attimo, ma non appena l’inquisitore fa un cenno al carceriere, grida:

- Sì.

L’inquisitore fa ancora molte domande. Antonio racconta.

Al termine dell’interrogatorio, Antonio viene spostato in una cella individuale: è meglio che non parli con l’altro prigioniero fino a che non avrà reso una confessione piena e dettagliata.

 

Dopo due giorni di interrogatori, Antonio viene condotto davanti a sei monaci templari. Tra questi vi sono i comandanti, civile e militare. Antonio ha il sospetto che uno degli altri, quello che chiamano fratello Jorge, sia l’uomo che ha condotto i primi interrogatori, ma non può esserne sicuro.

Il templare che pone le domande non è lo stesso che ha interrogato Antonio nei giorni scorsi e lo ha preparato a questo momento.

- Antonio da Messina, tu sei stato sorpreso in un atto contro natura con il tuo compagno Sebastiano di Giacomo. Sei stato interrogato e hai confessato gravi colpe. Ora sei libero di confermare la tua confessione, senza essere sottoposto a tortura.

Antonio annuisce.

- So di aver peccato contro Dio e per sgravare la mia coscienza, confesso di aver più volte peccato di sodomia. Fu il conte Ferdinando dell’Arram a indurmi a peccare per la prima volta. Nel suo palazzo egli organizza spesso  immondi banchetti, in cui gli uomini si accoppiano senza rispetto per le leggi di Dio.

Antonio si ferma, ma sa che deve continuare. Riprende:

- La prima volta egli mi prese con la forza, come ha fatto con molti. Io cercai di sottrarmi, ma il conte è un uomo molto forte e non ascoltò le mie suppliche. Dopo quella prima volta mi prese molte altre. Spesso ciò avveniva alla presenza di altri soldati, che si accoppiavano contro natura. Il conte porta alla dannazione molti uomini.

Così formulata, la confessione appare spontanea e completa, dettata solo dalla coscienza del peccato commesso e dal desiderio di espiare.

Antonio prosegue, racconta dettagli che non deve nemmeno inventare. Sa che ormai tutto è perduto.

 

Quando la confessione è conclusa, Jorge ordina:

- Mettete il prigioniero insieme all’altro.

Poi, mentre portano via Antonio, si rivolge a Godefroi:

- Quando saprà che Antonio ha confessato, anche l’altro sodomita cederà.

Godefroi annuisce. Assapora il trionfo, il momento in cui Ferdinando verrà a Santa Maria per liberare i suoi uomini e verrà sorpreso mentre scopa. Il conte arrestato, portato per le vie della città come un malfattore. E poi il grande rogo a Gerusalemme, dopo un processo esemplare. Che monito per tutti i peccatori!

 

Antonio viene portato nella cella di Sebastiano. Entra a testa bassa. Non ha il coraggio di guardare in faccia l’amico.

A Sebastiano basta un’occhiata per capire: Antonio cammina sulle sue gambe, muove le braccia senza problemi. Non è stato torturato, perché ha ceduto. Il capo chino è una conferma non necessaria. Dalla sua voce trasuda disprezzo, mentre dice:

- Hai confessato, vero?

Per Antonio è uno schiaffo.

- Sì. Ho accusato il conte di… di tutto quello che volevano. È perduto.

- Lo sei anche tu, stronzo. Credi che ti risparmieranno il rogo? Sarai bruciato vivo. Lo saremo tutti e due.

Antonio china il capo. Lo sa. Non è riuscito a reggere al dolore, non se l’è sentita di finire come Sebastiano, storpio, incapace di usare le braccia e di camminare.

Sebastiano digrigna i denti e dice:

- Ti strozzerei, se potessi ancora usare le braccia. Almeno non potresti confermare la tua testimonianza.

Antonio guarda Sebastiano. Annuisce.

- Vorrei che tu potessi farlo. Desidero soltanto morire.

Sebastiano lo fissa.

- È vero?

- Sì, lo è.

- È la cosa migliore. Una volta morto, la tua testimonianza non varrà più molto.

Antonio fissa Sebastiano. Si sente la gola secca. Non sa come l’amico intenda farlo, nelle condizioni in cui si trova, ma è davvero la soluzione migliore.

- Per me va bene, Bastiano. Fallo.

Sebastiano si avvicina a fatica, strusciando il culo a terra. Antonio lo guarda. Poi si avvicina a lui, gli cala i pantaloni e guarda il cazzo dell’amico.

- Un’ultima volta, Bastiano.

Sebastiano guarda Antonio e scuote la testa.

- Troia!

Ma quando Antonio si china e la sua bocca gli avvolge il cazzo, Sebastiano sussulta e annuisce.

Antonio succhia avidamente. Non c’è la gioia che accompagnava i loro rapporti, non c’è la complicità. C’è un muro tra di loro e nessuna scopata può abbatterlo.

- Voglio sentirlo ancora una volta in culo, Bastiano.

Sebastiano non dice nulla. Si limita nuovamente ad annuire. La loro ultima scopata.

Sebastiano si stende a terra, mordendosi le labbra per non urlare. Antonio si siede sul suo ventre, poi solleva il culo e afferra il cazzo di Bastiano con la mano. Lentamente si abbassa e sente il cazzo di Bastiano entrargli in culo. Geme.

Antonio si muove lentamente, alzandosi e abbassandosi. Tieni chiusi gli occhi. Non vuole guardare Bastiano in faccia. La sua mano stringe il cazzo e lo accarezza, salendo fino alla cappella e poi scendendo fino ai coglioni.

Infine Antonio sente in culo la scarica. Allora accelera il movimento della mano, finché il seme schizza in alto e gli si riversa sul petto. Antonio chiude gli occhi. Per un momento il piacere è stato più forte di tutto e ha cancellato la realtà. Ma ora è il tempo di morire. Antonio non sa come voglia farlo Bastiano. Spera che non lo faccia soffrire troppo. In ogni caso sarà meglio del rogo.

Antonio si solleva. Il cazzo di Sebastiano gli esce dal culo. Antonio si volta e guarda l’amico.

- Come devo mettermi, Bastiano?

- Aiutami a sollevarmi sulle ginocchia.

Quando Antonio gli mette le mani sotto le ascelle e lo aiuta a sollevarsi, Sebastiano reprime a fatica un urlo.

Ora è in ginocchio. Guarda Antonio.

- Stenditi e metti il collo sulla mia gamba, subito sotto il ginocchio.

Antonio capisce. Ha un brivido. Esita un attimo, poi si stende a terra e appoggia il collo sul polpaccio di Sebastiano, subito sotto il ginocchio. La sua testa rimane tra le due gambe del compagno. Antonio guarda il culo di Sebastiano. L’ultima cosa che vedrà. Va bene.

Sebastiano abbassa il culo e il collo di Antonio rimane stretto nella morsa tra la gamba e la coscia. La pressione è forte e blocca rapidamente il respiro.

Antonio non riesce più a respirare. Per un momento mantiene il controllo e le sue mani rimangono quasi ferme, agitate appena da un tremito. Poi muove le braccia cercando di liberarsi dalla stretta, ma non è possibile. Il mondo scompare rapidamente.

Sebastiano rimane a lungo nella posizione: vuole essere sicuro che Antonio sia morto.

Quando infine è certo di aver ottenuto ciò che voleva si solleva e si sposta. Ogni movimento gli provoca uno spasimo. Guarda il corpo senza vita di Antonio. Scuote la testa.

- Era meglio se lo facevo prima.

Con grande fatica Sebastiano ritorna a sedersi contro il muro. Mormora ancora:

- Potessi ammazzarmi anch’io…

Guarda ancora il corpo senza vita di Antonio. Soffoca un singhiozzo.

 

Godefroi guarda il verbale. Un uomo del conte, sorpreso in flagranza di reato di sodomia, confessa di avere avuto con lui rapporti contro natura e lo accusa di aver indotto molti altri uomini a macchiarsi del peccato di sodomia. Di per sé non è molto, Godefroi lo sa benissimo: diranno che la confessione è stata estorta con la tortura. Ma Antonio testimonierà ancora e anche Sebastiano cederà. E quando Ferdinando verrà a Santa Maria in Aqsa e verrà a sua volta sorpreso…

Godefroi sorride.

La guardia che entra è agitata.

- Il carceriere… ha trovato uno dei prigionieri morto.

- Cosa?

- Deve averlo ammazzato l’altro.

Per un momento Godefroi spera che sia stato Antonio ad uccidere Sebastiano, che di certo non può più usare le braccia. Manda subito a chiamare Jorge.

- Uno dei prigionieri ha ucciso l’altro.

Jorge soffoca il “Merda!” che gli è venuto alle labbra. Sa benissimo che cosa è successo, non si fa illusioni. E sa che questo fallimento rischia di compromettere tutto. Dice subito:

- Che nessuno lo sappia. Non bisogna parlarne a nessuno.

Poi aggiunge, rivolto alla guardia:

- Accompagnami dal carceriere.

Nel corridoio sotterraneo il carceriere sta parlando con altre tre guardie.

Questa volta Jorge non si trattiene: Godefroi è rimasto di sopra e non può sentirlo.

- Merda! Che fate qui, invece di essere ai vostri posti? Così svolgete i vostri compiti?

Il carceriere cerca di giustificarsi.

- Uno dei prigionieri è morto. Ho mandato a chiamare il comandante.

- Lo so. Lui ha mandato me. Ma devi metterti a raccontarlo a tutti?

Poi si rivolge alle tre guardie:

- Ascoltatemi bene: che nessuno sappia quello che è successo. Questa morte deve essere tenuta segreta. Guai a voi se vi lasciate sfuggire una parola, anche solo una parola! Chiaro?

Le guardie annuiscono, assicurano che taceranno e si allontanano per sottrarsi alla furia del templare. Ma Jorge sa benissimo che qualcuno prima o poi parlerà. Basta poco a sciogliere una lingua: un bicchiere di vino di troppo; la voglia di chiacchierare e di raccontare la novità, magari a qualche puttana che frequentano di nascosto. Merda! Il carceriere, la guardia che ha dato l’annuncio, questi altri tre… troppi coglioni per mantenere a lungo un segreto.

Jorge si fa accompagnare nella cella. Come aveva intuito, il morto è Antonio da Messina. Sebastiano fissa Jorge e pare avere un sorriso beffardo.

- La pagherai, bastardo. La pagherai.

Ma Jorge sa bene che anche queste sono parole vane. Non possono fare a Sebastiano più di quello che in ogni caso gli avrebbero fatto.

Ora Sebastiano sorride davvero.  

Jorge fa due passi verso di lui, furente. Gli molla un calcio in faccia. Il sangue cola dal labbro spaccato, dal naso. Negli occhi di Sebastiano c’è un lampo di odio.

Jorge dà le istruzioni. Fa ancora chiamare le guardie che sono al corrente della morte del prigioniero, le ammonisce, ingiunge loro di tacere. Ma magari hanno già parlato. Il carceriere stesso può aver parlato.

 

*

 

Alessandro arriva nell’Arram a sera. Si dirige subito al palazzo e raggiunge Ferdinando. Il conte è contento di vederlo. Non si aspettava che tornasse così presto.

- Alessandro! Siete già di ritorno?

Alessandro scuote la testa.

- Solo io, Ferdinando. Sebastiano e Antonio sono stati arrestati il giorno stesso del nostro arrivo.

- Arrestati?! Porcoddio! Perché mai? Che cazzo è successo?

- Non lo so, Ferdinando. Io sono rimasto alla locanda, mentre loro andavano a cercare il mercante. Ero stanco e preferivo non farmi vedere troppo in giro per la città. Non si sa mai. Quando, non vedendoli arrivare, sono sceso, l’oste mi ha detto che era appena passato un soldato, perché avevano arrestato due uomini che soggiornavano nella locanda e voleva sapere se con loro c’era qualcun altro. Dalla descrizione fornita dal soldato, lui era sicuro che si trattasse di Antonio e Sebastiano.

- Merda! Ma com’è possibile?!

- Non sono riuscito a scoprirlo. Ho cercato un’altra locanda, per sicurezza, poi ho provato a chiedere in giro. Si sapeva dell’arresto, ma nessuno ne conosceva i motivi. Non potevo certo andare dalle guardie e anche fare troppe domande era pericoloso, nella mia situazione.

Ferdinando annuisce. Chiaramente un uomo condannato a morte e che nella fuga dalla prigione ha anche ucciso il carceriere deve fare attenzione. Alessandro prosegue:

- Il mattino dopo ho ancora provato a chiedere, poi ho deciso che era più saggio andarmene.

- Hai fatto bene. Adesso però bisogna capire che cazzo è successo.

- Scrivi al comandante civile di Santa Maria in Aqsa.

Ferdinando scuote la testa.

- Quel figlio di puttana di Godefroi! Un fanatico di merda! E dire che fino a pochi giorni fa il comandante militare era Guillaume. Mi sarei potuto rivolgere a lui. Ma adesso è stato trasferito. Porcoddio! Devo proprio scrivere a Godefroi. Chiamami Francesco.

Alessandro potrebbe proporsi di scrivere lui la lettera, ma non ha motivi per farlo.

Ferdinando riferisce a Francesco l’accaduto e il segretario prepara una lettera in cui chiede i motivi dell’arresto. La legge a Ferdinando, la firma per lui e vi appone il sigillo.

Quando Francesco se ne va, Ferdinando dice ad Alessandro:

- Sei arrivato in tempo per la caccia di domani.

Alessandro nota che parlando della caccia Ferdinando appare particolarmente allegro: ci dev’essere un motivo.

- I guardacaccia hanno avvistato qualche bell’animale? O è una caccia ordinaria?

- In effetti è un bell’animale, davvero. Un maschio forte. Uno dei soldati, forse lo conosci, Mazzeo.

A San Giacomo d’Afrin Alessandro ha sentito parlare di queste cacce all’uomo: una o due volte l’anno, quando un uomo vigoroso viene condannato a morte, il conte gli fa dare un coltello e lo lascia libero, con qualche ora di vantaggio, poi parte per una battuta di caccia che si conclude con la morte della preda. Quando se ne parlava, qualcuno insinuava che il conte fottesse la vittima, ma queste cose venivano sempre dette sottovoce.

L’idea di cacciare un uomo turba Alessandro. Si chiede che cosa si prova a essere inseguito come un animale selvatico. Sa che cosa si prova a essere condannato a morte. Ma qui è diverso. Esiste una speranza di salvezza, un coltello per difendersi. Alessandro sa chi è Mazzeo, ma non ha mai avuto a che fare con lui. Chiede:

- Che cosa ha fatto Mazzeo?

- Quel bastardo ha sgozzato la famiglia di Bartolomeo, l’orefice, nel sonno, per impossessarsi di alcuni gioielli e monete. Ha anche stuprato la ragazza, la figlia di Bartolomeo, prima di ucciderla.

Mazzeo merita la morte, non c’è dubbio. Ma braccarlo come un animale…

- Io adesso ho da fare. Quando vuoi, vai a coricarti e non mi aspettare: io non so quando arrivo.

Alessandro vorrebbe scopare, ma se il conte è occupato, ne farà a meno: non intende mettersi adesso alla ricerca di qualcuno degli uomini che partecipano alle orge serali. È stanco e si corica volentieri. Magari, quando Ferdinando verrà a stendersi, ci sarà l’occasione di divertirsi un po’.

Alessandro va a letto presto. Ferdinando invece rientra molto tardi e quando si corica si addormenta subito. Alessandro è un po’ stupito che il conte non abbia voglia di scopare. Sicuramente deve aver fottuto qualcun altro, più volte. La faccenda gli dà un po’ fastidio: non è certo geloso, ma sono alcuni giorni che non ha rapporti e non è più abituato all’astinenza.

 

Il mattino dopo si alzano molto presto, per la grande caccia. Mazzeo, il condannato, è un uomo sui quaranta, robusto, braccia lunghe, ventre prominente. Quando lo spogliano completamente, Alessandro nota che è molto villoso ed è colpito dalle dimensioni del cazzo, alquanto voluminoso. Ferdinando guarda la preda e ride. Gli piace cacciare un vero maschio. Gli piace uccidere, ma gli piace anche il rischio. La preda ha già ucciso: sa maneggiare un coltello. Ferdinando sa che quella lama potrebbe affondare nella sua carne, farne strazio. Fa parte del gioco. A volte Ferdinando pensa che non gli spiacerebbe morire così, in una di queste cacce selvagge, sbudellato da un maschio che prima di finirlo lo fotte. Ma ha appena trentaquattro anni e non ha nessuna intenzione di morire.

Alessandro coglie la tensione del conte. Di nuovo prova emozioni contraddittorie. Attrazione e repulsione.

Il condannato viene liberato e armato. L’uomo non ha paura. Mostra il coltello al conte e gli dice:

- Ti castrerò, bastardo.

Poi si allontana rapidamente.

Ferdinando ride di nuovo.

- E dire che credevo che gli fosse piaciuto, ieri sera.

- Lo hai stuprato?

- Lo faccio sempre con i condannati. Se ne vale la pena. Mazzeo era vergine. Almeno: il suo culo lo era. Adesso non lo è più, te lo garantisco: l’ho gustato tre volte.

Ferdinando ride di nuovo. Prosegue:

- Gli ho fatto un favore e vuole tagliarmi il cazzo. Ma dimmi tu!

Alessandro annuisce. Il rigonfio dei pantaloni di Ferdinando tradisce la sua eccitazione.

Quando infine è ora di partire, si avviano. I cani seguono le tracce senza difficoltà. Alessandro pensa che Mazzeo ha ben poche possibilità di salvarsi.

Lo raggiungono nel bosco. Lo vedono correre in lontananza, poi fermarsi, ormai circondato dai cani, che gli impediscono di allontanarsi. Brandisce il coltello e se ne serve per impedire che i cani gli si avvicinino troppo.

Ferdinando ferma il cavallo e smonta. Alessandro pensa che ora il conte scaglierà la lancia oppure si avvicinerà per colpire Mazzeo senza rischiare, ma Ferdinando lascia cadere a terra la lancia e avanza con il coltello in mano.

Sul viso di Mazzeo appare un ghigno. Ferdinando si toglie la tunica, poi avanza ancora. Ora è di fronte a Mazzeo. Alessandro può vedere il grosso cazzo del conte premere contro i pantaloni e una macchia scura allargarsi sulla cappella. Pensa che il cazzo è un magnifico bersaglio. Si rende conto che assistere al duello mortale di questi due uomini forti lo eccita.

Mazzeo aspetta che Ferdinando si avvicini per scattare, mirando al ventre, ma il conte si scansa e a sua volta cerca di colpire l’avversario, senza riuscirci. Mazzeo risponde rapidamente e Alessandro vede dalla spalla del conte il sangue schizzare. Non è una ferita grave. Il conte reagisce scattando in avanti. Mazzeo è costretto ad arretrare, ma inciampa in una radice e perde l’equilibrio. Riesce a non cadere, ma non a evitare la coltellata che gli squarcia il ventre. Emette un grido di animale ferito a morte. Ferdinando gli blocca la mano armata con la sinistra e con la destra lo colpisce ancora, poco sotto. Mazzeo geme e barcolla. Il pugnale gli scivola dalle mani. Ferdinando lo attira a sé, lo volta, si cala i pantaloni, si abbassa leggermente e lo incula con un movimento brusco.

Mazzeo mormora:

- Bastardo!

Il conte ride, felice di aver vinto, di poter gustare di nuovo questo culo accogliente. Fotte con energia, indifferente agli insulti di Mazzeo.

Alessandro guarda il conte. Ha la gola secca e il cazzo duro. Vorrebbe essere al posto di Ferdinando. O forse a quello di Mazzeo.

La cavalcata dura a lungo: Ferdinando è un grande stallone. Infine il conte emette un gemito e viene. La sinistra afferra il cazzo e i coglioni di Mazzeo e la destra recide con un movimento deciso. L’urlo di Mazzeo è quello di una bestia macellata. Poi Ferdinando taglia la gola all’uomo e lascia cadere a terra il corpo, gettandogli in faccia il suo trofeo.

- Volevi farmi il servizio, ma te l’ho fatto io.

Ferdinando ride. Fischia e i cani si avventano sul cadavere, sbranandolo. Alessandro guarda Ferdinando, il corpo possente, il cazzo ancora gonfio di sangue, la piccola ferita alla spalla, il sudore che scorre. Poi osserva i cani che dilaniano il morto. Ha voglia di vomitare, ma il cazzo è duro come una pietra.

Ferdinando se ne accorge e ride.

- Lo spettacolo ti è piaciuto, eh, Alessandro?

Il conte si avvicina e gli tende un braccio. Alessandro guarda la mano coperta di sangue e gli sembra di non riuscire a stare sulla sella. Lascia che Ferdinando gli prenda il braccio e lo faccia scendere, lo spogli con le mani lorde e lo prenda come un animale, mentre vicino a loro i cani sbranano il corpo di Mazzeo.

 

Quando tornano al palazzo, Ferdinando si dirige in bagno. Si toglie i pantaloni e la tunica inzuppati di sudore e sangue e li porge a un servitore, piscia sorridendo mentre guarda Alessandro, poi entra nell’acqua tiepida, che si arrossa.

Anche Alessandro entra in acqua. Si sente sporco. Ferdinando si lava energicamente, mangia i dolci che il servitore come al solito ha posato accanto alla vasca, ride soddisfatto, incurante della ferita da cui cola un po’ di sangue, beve una coppa di vino, rutta rumorosamente e si avvicina ad Alessandro. È nuovamente eccitato. Alessandro lascia che il conte lo prenda nell’acqua tiepida. Vorrebbe essere lontano, vorrebbe aver raccontato la verità ed essere fuggito, vorrebbe… man mano che il conte lo fotte, i pensieri svaniscono e gli sembra di galleggiare nel vuoto.

 

Ferdinando è appena venuto e sta stringendo il cazzo di Alessandro, quando un servitore bussa e una volta entrato comunica che è arrivata una lettera da Santa Maria in Aqsa. Il conte non esce dal bagno, ma si limita a far chiamare il suo segretario, che legge la missiva, mentre Ferdinando si gratta tranquillamente i grossi coglioni.

Nel messaggio il comandante civile di Santa Maria non fa riferimento alla lettera di Ferdinando, che ovviamente non può avere ancora ricevuto, ma fornisce comunque una risposta alla domanda posta dal conte: comunica infatti che ha arrestato due suoi soldati, accusati di aver ucciso un uomo in una rissa. Godefroi chiede al conte se può recarsi a Santa Maria in Aqsa perché, per rispetto nei suoi confronti, vorrebbe discutere con lui le misure da prendere. Preferirebbe parlare della faccenda, alquanto delicata, con il conte in persona e non con un suo inviato.

Ferdinando si rivolge ad Alessandro, che è all’altra estremità della vasca, voltato in modo da nascondere la propria erezione.

- Una rissa con un morto! Com’è che non ne sapevi niente, Alessandro?

Alessandro volta la testa verso Ferdinando.

- È stato tenuto nascosto, non so perché. Forse perché erano due forestieri. Ho chiesto in giro, ma, come ti ho detto, nessuno sapeva perché erano stati arrestati.

Ferdinando non è diffidente per natura e non ha motivo per dubitare delle parole di Alessandro. Il servitore esce. Ferdinando nuota fino ad Alessandro, lo stringe di nuovo tra le braccia, gli afferra il cazzo e lo fa venire con pochi movimenti energici.

Dopo essere rimasto un buon momento ad assaporare il piacere del bagno, Ferdinando chiama il servitore, che lo lava accuratamente. Poi il conte si stende sul tavolato e fa chiamare Ghassan.

Ferdinando chiude gli occhi e si abbandona al massaggio di Ghassan, le cui mani unte di olio scorrono sulle spalle, sulla schiena, scendono al culo e infine alle gambe, per poi passare alle braccia. Le dita ora accarezzano la pelle, ora premono. Ghassan lavora a lungo, su tutto il corpo del conte, dal collo ai piedi. Quando Ferdinando si volta, ha il cazzo duro. Ghassan massaggia le braccia, poi il petto e il ventre, sfiorando appena il cazzo teso. Poi le sue mani scendono lungo le gambe e ritornando indietro, accarezzano i coglioni. Ghassan è abile. Ferdinando chiude gli occhi e pensa a Mazzeo, al momento in cui lo ha inculato e poi castrato.

Ghassan coglie che il conte è sul punto di venire. Allora la sua mano indugia sul cazzo, scivolando dalla cappella ai coglioni, finché il seme sgorga.

In quel momento il servitore bussa nuovamente e poi entra.

- C’è un messaggero del duca di Rougegarde.

Ferdinando fa una smorfia.

- Giornata di comunicazioni. Digli che arrivo subito. No, anzi, fallo passare. Lasciami solo due minuti.

Ghassan pulisce con cura Ferdinando, che si infila un paio di pantaloni e una tunica puliti.

Il messaggero è Pierre, uno degli uomini di fiducia del duca.

Pierre fa un mezzo inchino e dice:

- Il duca mi ha incaricato di consegnarvi un messaggio, ma ha richiesto che non fosse presente nessuno.

Ferdinando corruga la fronte. Deve trattarsi di qualche cosa di molto importante se Denis ha mandato Pierre e ha preso tutte queste precauzioni.

Ferdinando congeda Ghassan. Si siede sul tavolato.

- Dimmi, Pierre.

- Il messaggio è questo: Conte, se intendete recarvi a Santa Maria in Aqsa, passate prima da Rougegarde. In ogni caso avrei piacere di parlarvi. Non fate conoscere a nessuno questo messaggio. So con certezza che vi è un traditore presso di voi.

Pierre aggiunge:

- Il duca ha insistito sul fatto che non ne parliate a nessuno.

Ferdinando annuisce. C’è un traditore, su questo Ferdinando non ha dubbi. Se Denis glielo ha mandato a dire, è vero. Chi è? E qual è il tradimento di cui si parla? Ha a che fare con quanto successo a Santa Maria in Aqsa? Chissà come fa Denis a sapere che intende andarci: Ferdinando non ha avuto modo di parlargliene, la lettera del comandante civile è appena arrivata. Ma Denis ha i suoi informatori, di questo Ferdinando ha avuto modo di accorgersi. Se il problema riguarda il suo viaggio a Santa Maria… Il pensiero va ad Alessandro. Che sia lui il traditore a cui fa riferimento Denis? Era lui a Santa Maria con Sebastiano e Antonio, arrestati per una misteriosa rissa. Il pensiero è doloroso. Ciò che prova per Alessandro va oltre la pura attrazione fisica. Non è amore, ma non è neppure solo desiderio.

- Va bene, Pierre. Riferisci al duca che verrò da lui, probabilmente già domani. Sicuramente domani.

- Benissimo.

Pierre fa ancora un piccolo inchino e scompare.

Ferdinando annuncia ad Alessandro e a un gruppo di soldati:

- Partiamo domani per Santa Maria in Aqsa. Ma ci fermiamo a Rougegarde un giorno. Voglio vedere il duca.

Rougegarde non è sulla strada più breve che dall’Arram conduce a Santa Maria, ma la deviazione comporta solo una giornata di viaggio in più.

Ferdinando fa preparare i bagagli per il viaggio. È di cattivo umore e non lo nasconde. Alessandro pensa che il conte non sia contento di partire e che sia preoccupato per Antonio e Sebastiano. Non gli passa per la testa che possa subodorare qualche cosa e men che mai che sospetti di lui. Gli sembra troppo grezzo per avere dubbi.

 

Il percorso dal palazzo di Ferdinando a Rougegarde è breve: a cavallo richiede meno di mezza giornata. Mentre cavalcano, Ferdinando è assorto nei suoi pensieri. Ha con sé dieci uomini, tutti fidati: solo su Alessandro ora ha dubbi. Ha deciso di raggiungere Santa Maria in Aqsa con un gruppo di soldati forti e decisi. In qualche modo intende liberare i suoi uomini, anche ricorrendo alla forza. Sa che attaccare la prigione dei templari sarebbe pura follia e che verrebbe messo sotto processo a Gerusalemme, ma spera di riuscire a trovare un espediente per ottenere ciò che vuole.

In tarda mattinata arrivano in vista di Rougegarde. Ferdinando sorride: per quanto non sia un esteta, la bellezza della città lo affascina sempre.

Il conte sprona il cavallo. Raggiungono una porta delle porte. I soldati di guardia riconoscono Ferdinando e lo salutano. Il drappello si dirige al palazzo ducale.

Ferdinando e i suoi uomini sono introdotti immediatamente alla presenza di Denis, che li accoglie calorosamente.

- Ferdinando! Sono contento di vederti. Sei venuto a trovarmi o sei solo di passaggio?

Denis finge di non sapere dove sia diretto Ferdinando. Il conte sta al gioco.

- Vado a Santa Maria in Aqsa. Due miei uomini sono stati arrestati per una rissa e quel rompicoglioni di Godefroi mi chiama. Porcoddio, sai se lo rivedo volentieri, quel…

Ferdinando non prosegue: ha già dato del rompicoglioni a Godefroi e non è il caso di aggiungere altro, anche se da aggiungere Ferdinando ne avrebbe, non poco.

- Allora oggi ti fermerai qui. Sei mio ospite e non puoi rifiutare.

- E perché mai dovrei rifiutare? Mi fermo ben volentieri.

Al banchetto partecipano diverse altre persone e si parla di tanti argomenti, senza mai sfiorare quello che sta cuore a Ferdinando. Ma dopo pranzo Ferdinando e Denis si appartano in una stanza dove nessuno può sentirli. Come sempre, Denis è estremamente prudente: i suoi uomini, per quanto gli siano fedeli, conoscono solo quello che il duca decide di far sapere loro.

Ferdinando non perde tempo. La faccenda lo disturba e sente l’esigenza di fare chiarezza.

- Denis, dimmi perché mi hai fatto venire.

Denis risponde con una domanda:

- Ferdinando, che cosa sai dell’arresto dei tuoi due uomini a Santa Maria in Aqsa?

- Nella lettera quel figlio di puttana di Godefroi parla di una rissa in cui avrebbero ucciso un uomo, ma io non so nulla di preciso, Alessandro non mi ha saputo dire niente. Non era presente quando li hanno catturati.

- Non mi stupisce che Godefroi non ti abbia detto la verità. No, non è stata una rissa. Sono stati arrestati perché sorpresi mentre scopavano. Sono stati interrogati a lungo. Uno ha confessato di aver avuto rapporti anche con te, che sei stato tu il primo a indurlo a peccare.

Ferdinando è furibondo

- Porcoddio!

- Adesso ti aspettano a Santa Maria in Aqsa per sorprenderti mentre scopi con qualcuno dei tuoi uomini e arrestarti.

Ferdinando è allibito.

- Cosa?!

- Contano di farti processare a Gerusalemme, come esempio per tutti i peccatori. Sorpreso in flagrante, niente potrebbe salvarti dalla condanna.

- Porcoddio! Questa poi! Dovrò fare attenzione a non scopare a Santa Maria. E anche i miei uomini dovranno fare lo stesso. Porcoddio!

Denis scuote energicamente la testa.

- No, Ferdinando. A Santa Maria non devi andare. Tu non corri rischi subito, perché non ti arresterebbero solo sulla base di un’accusa, sei uno dei signori del regno. Ma di sicuro il tuo uomo che ha confessato ha fatto i nomi di alcuni degli altri. Loro sì che verrebbero arrestati, torturati, forzati a confessare. E a quel punto, di fronte a numerose testimonianze, potrebbero arrestare anche te o almeno chiedere il tuo arresto al re.

- Merda! Devo lasciare che ammazzino i miei due uomini?

- Uno dei due, Antonio, è già morto. Ucciso dall’altro dopo aver confessato. L’altro è stato torturato e storpiato. Non ne uscirà vivo, in nessun caso.

- Porcoddio!

- È meglio che tu torni indietro. O che ti fermi qui per un po’, come preferisci.

Ferdinando annuisce. È rimasto senza parole. Antonio morto, Sebastiano destinato a morire. E non poter fare niente!

Denis aggiunge:

- Non parlarne a nessuno di quello che ti ho detto, soprattutto non a questo Alessandro.

Le parole di Denis sono un conferma dei sospetti di Ferdinando, ma il conte si stupisce di quanto male gli facciano. Chiede:

- Pensi che possa essere lui il traditore?

- Senza dubbio. Era in carcere a San Giacomo d’Afrin ed è misteriosamente riuscito a fuggire, pugnalando il carceriere. Come si è procurato quel pugnale? Si è diretto verso i tuoi possedimenti e questo non è strano, visto che sanno tutti che hai pessimi rapporti con vescovi e preti. Come è nata l’idea di mandare tre uomini a Santa Maria?

- Arrivò una lettera, una faccenda di eredità o che cazzo ne so… del denaro da ritirare da un mercante e una lettera scritta in arabo… insomma, Sebastiano doveva recarsi a Santa Maria in Aqsa e dato che c’era questa lettera scritta in arabo, Alessandro ha chiesto di andare anche lui.

Denis annuisce.

- Sì. Tutto torna. Una storia costruita per mandare Alessandro e gli altri due a Santa Maria. Ferdinando, i soldati sono entrati nella camera dove i tuoi due uomini stavano scopando: sono andati a colpo sicuro, sapendo di sorprenderli. E Alessandro non era in camera, anche se era andato a Santa Maria in Aqsa con loro due.

Ferdinando ha l’impressione di avere un peso sulle spalle, qualche cosa che lo schiaccia.

- Come fai a sapere tutte queste cose, Denis? So che hai spie tra i saraceni, ma anche nel regno…?

Denis ha un sorriso amaro.

- Certe volte penso che i saraceni non siano i miei nemici peggiori. Ce ne sono altri più subdoli e più temibili.

Ferdinando annuisce. Alessandro colpevole. Un traditore. Uno che ha deliberatamente mandato a morte Antonio e Sebastiano. Merda!

- Ma perché? Perché l’avrebbe fatto?

- Per salvarsi la pelle, probabilmente. La sua vita in cambio della tua. Ricordati che era stato condannato al rogo.

Ferdinando annuisce. Non riesce a nascondere il suo turbamento.

- Tu sei sicuro della colpevolezza di Alessandro, Denis. Io vorrei ancora una conferma.

- Quando scoprirà che non intendi andare a Santa Maria, informerà coloro che lo hanno mandato. Fallo sorvegliare e intercetta la lettera che manderà.

Ferdinando china il capo. In effetti, è un buon mezzo per sincerarsi del tradimento di Alessandro. O della sua innocenza. Ferdinando preferirebbe scoprire che Alessandro non è colpevole, ma sa che difficilmente Denis si sbaglia.

Denis coglie lo smarrimento del suo amico. Ormai gli ha detto quanto doveva, per cui cambia argomento, facendo alcune considerazioni sulla situazione del Regno di Gerusalemme: la minaccia costituita da una possibile alleanza tra alcune tribù curde e il giovane al-Malik al-Salih Ismail, figlio ed erede di Nur ad-Din; i vani tentativi fatti da re Amalrico prima di morire per ottenere un appoggio contro Nur ad-Din e il suo potente vassallo, il Saladino, divenuto sultano d’Egitto. È soprattutto quest’ultimo a preoccupare Denis.

Più tardi Denis accompagna Ferdinando nei sotterranei di Rougegarde. Dell’esistenza di una rete di canali e passaggi segreti Ferdinando era già al corrente. Denis ha fatto condurre un lavoro di esplorazione sistematica, e poi ha messo alcuni sbarramenti, in modo da poter controllare completamente i passaggi.

Ci sono cisterne dell’acqua, alcune sale segrete, corridoi a volte tanto stretti che Ferdinando passa a fatica e si lascia scappare qualche bestemmia, a volte tanto larghi e alti da potersi muovere a cavallo.

- Porcoddio! Ci starebbe un’intera città qui sotto. E sai una cosa, Denis?

- Dimmi.

- C’è un fresco delizioso. Si sta d’incanto. Se avessi un simile paradiso a disposizione, ci vivrei da maggio a settembre.

Denis ride.

- Se vuoi possiamo bagnarci.

- Bellissima idea.

Raggiungono una grande vasca, posta sotto il palazzo. Denis dice ai soldati che li accompagnano di rimanere all’ingresso. Ferdinando guarda stupito la grande cisterna, la cui volta è sorretta da pilastri.

- È immensa.

Denis annuisce. Mettono le torce negli anelli di ferro predisposti alle pareti, poi si spogliano. Ferdinando guarda il corpo dell’amico. Sorride a pensieri che non saprebbe definire. Denis è il suo migliore amico, l’unico su cui sa di poter sempre contare. Non hanno mai scopato, ma adesso, a vederlo nudo… Ferdinando, scuote la testa, ride e si immerge nell’acqua.

- Porcoddio, che meraviglia!

Nuotano a lungo. Quando si allontanano dalle torce, il buio diventa sempre più fitto e le grandi colonne si vedono appena. A Ferdinando piace rimanere immerso nell’acqua fresca, nell’oscurità che avvolge gran parte della cisterna.

Rimangono in acqua a lungo. Poi escono e quando i loro corpi sono asciutti, si rivestono e raggiungono i soldati sulla porta.

Più tardi Ferdinando passa nella camera che gli è stata assegnata. Alessandro e gli altri sono andati a fare un giro in città: Rougegarde è un centro importante e offre di tutto: botteghe con ogni tipo di merce, bagni, bordelli di ogni genere.

Rientrano alla spicciolata, perché in città si sono divisi in base ai loro interessi.

Ferdinando ha chiesto di essere avvisato quando Alessandro fosse rientrato, ma quando il giovane arriva, si è fatto tardi: è ormai ora di cenare e Ferdinando preferisce rimandare il discorso.

Soltanto dopo cena, in camera, Ferdinando si ritrova da solo con Alessandro. Sarebbe il momento di parlare, ma il conte si accorge di non averne voglia. Preferisce rimandare il momento in cui comunicherà che non intende andare a Santa Maria, perché teme che la reazione di Alessandro sia una conferma dei sospetti di Denis, che ormai sono anche i suoi.

Ma è proprio Alessandro a introdurre il discorso.

- Quando pensi di partire, domani? Mi dicono che di qui ci vogliono tre giorni.

Ferdinando fissa Alessandro. Per un momento tace, poi dice:

- Non so. Denis mi sconsiglia di andare a Santa Maria.

Alessandro è stupito, non capisce.

- Ma Antonio e Sebastiano sono in pericolo. Non andare significa abbandonarli al loro destino.

Per Ferdinando, l’insistenza di Alessandro è un’ulteriore conferma del tradimento.

- Tu pensi che dovrei andare?

- Certamente. La tua autorità ti permetterà di liberarli o almeno di ottenere che scontino la pena nell’Arram. Non puoi lasciarli nelle mani dei Templari.

Ferdinando annuisce, non alle parole di Alessandro, ma a un pensiero che gli rode dentro.

Poi dice, con voce decisa:

- No, non partirò. Il duca di Rougegarde me lo sconsiglia.

Alessandro è chiaramente disorientato. Insiste ancora, ma il conte appare irremovibile. Alessandro non sa che cosa fare. Da una parte il pensiero che Ferdinando non venga arrestato e condannato è un sollievo, dall’altra lo spaventa, perché sa che in questo caso è la sua vita a essere in pericolo.

Ferdinando taglia corto:

- Basta, non ne parliamo più. Spogliati, Alessandro, che ho voglia di fottere.

Alessandro annuisce. Proverà a riparlarne domani.

Ferdinando si sta spogliando con gesti bruschi. Oggi appare nervoso. Lo era già in mattinata. La faccenda dell’arresto di Antonio e Sebastiano e il viaggio lo hanno irritato. Anche nel fottere Alessandro non usa le cautele che di solito prende. Lo infilza deciso. Alessandro lancia un grido: il dolore è stato troppo violento.

- Cazzo! Esci, per favore.

Ferdinando esita un attimo, poi si ritrae.

- Mi hai fatto un male bestiale. Vacci piano.

Ferdinando annuisce.

Poco dopo avvicina nuovamente la cappella all’apertura e la infila dentro lentamente.  Le sue mani scorrono lungo la schiena di Alessandro, indugiano sul collo. Se ha tradito…

 

*

 

A Santa Maria, Godefroi e Jorge discutono.

- La confessione di Antonio è una prova debole, perché non può più confermarla.

Godefroi concorda.

- Sì. Dobbiamo far confessare anche Sebastiano.

Jorge dubita che sia possibile costringere a cedere quest’uomo forte, che le torture non hanno piegato. Ma Godefroi insiste. C’è uno strumento che di rado viene usato, ma che per un sodomita può essere adatto.

 

Sebastiano viene portato nella stanza degli interrogatori. Il boia gli mostra uno strumento metallico. Sorride e dice:

- Questa è una pera.

Sebastiano guarda lo strumento nelle mani del boia. Ha in effetti la forma di una pera con un manico al posto del picciolo e una punta alla base. Il boia fa girare la chiave posta alla punta del manico. La pera si apre in tre spicchi. Al suo interno non c’è nulla.

Sebastiano non capisce. Il ghigno del boia gli dice che il marchingegno è destinato a lui.

Mettono Sebastiano su un cavalletto e gli legano le caviglie e i polsi. Il dolore alle articolazioni è terribile, ma Sebastiano riesce a non urlare.

Solo quando sente la pressione della pera contro l’apertura tra le cosce, Sebastiano intuisce. Gli occhi gli si dilatano in uno sguardo di terrore. Il carnefice spinge la pera dentro di lui. La pressione contro le pareti è dolorosa. Il carnefice aziona il meccanismo e gli spicchi si aprono. Il dolore diventa lancinante. Sebastiano non è in grado di reggere. Grida, più volte, finché non sviene.

Fanno molta fatica a risvegliarlo. Gli pongono domande, ma Sebastiano risponde solo:

- Bastardi!

Il carnefice dilata ancora la pera. Sebastiano urla e perde di nuovo i sensi. Non riescono più a farlo rinvenire.

Il carnefice richiude il meccanismo e lo estrae. Sangue e pezzi di interiora escono insieme alla pera.

Il giorno dopo Sebastiano riprende i sensi, ma non mangia. Dal culo continua a perdere sangue e gli sale la febbre. 

 

Jorge e Godefroi discutono ancora. Jorge è preoccupato. L’ultimo interrogatorio di Sebastiano è stato un errore.

- A questo punto è assolutamente necessario che il conte venga a Santa Maria e sia sorpreso mentre ha un rapporto contro natura con qualcuno dei suoi uomini. Altrimenti tutto ciò che abbiamo fatto non servirà a nulla. La testimonianza di un morto… no, non potrà mai esserci un processo a un nobile del regno sulla base della testimonianza di un morto, tanto più che l’altro arrestato non ha confessato neanche sotto tortura ed è ridotto in condizioni tali... Quando lo vedranno, diranno che Antonio ha confessato solo perché è stato torturato come Sebastiano e che questa confessione non ha nessun valore. Non nei confronti di un conte.

Godefroi freme, ma sa che Jorge ha ragione.

 

La lettera del conte arriva il giorno dopo e fuga ogni speranza.

Dopo le formule di rito, il conte comunica:

Non posso recarmi a Santa Maria in Aqsa perché trattenuto qui da alcuni problemi . Ho piena fiducia nella giustizia dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio e mi rimetto alle sue decisioni.

 

*

 

Alessandro ha capito che è inutile insistere: all’ennesimo tentativo di convincerlo a partire, il conte gli ha chiesto perché ci tiene tanto che lui vada a Santa Maria in Aqsa.

Non gli rimane che scrivere una lettera. Gli hanno dato il nome di un uomo a Rougegarde, a cui trasmettere eventuali messaggi. Ci penserà lui a far arrivare la comunicazione a Santa Maria in Aqsa.

Il conte aveva deciso di partire, ma il duca di Rougegarde lo ha convinto a rinunciarvi. Ho cercato invano di convincerlo, ma non ho ottenuto nessun risultato. Ditemi che cosa devo fare.

A.

Alessandro consegna la lettera a un mercante che in giornata si recherà a Rougegarde. Non pensa che qualcuno sospetti di lui e non si accorge che è sorvegliato.

 

In serata Ferdinando chiama Alessandro. Il conte è seduto su una sedia e lo fissa. Alessandro si sente a disagio. C’è qualche cosa di minaccioso nello sguardo di Ferdinando.

- Alessandro, devi spiegarmi una cosa.

- Che cosa, Ferdinando?

Ferdinando tira fuori un foglio.

- Questa lettera.

Alessandro guarda il foglio. È la lettera che ha scritto in mattinata.

 

*

 

Sebastiano è stato caricato su una carretta, perché non è in grado di camminare. La morte che lo attende non lo spaventa: da tempo la sua vita è un inferno e le fiamme che divoreranno il suo corpo lo libereranno dai dolori atroci che prova. L’esecuzione è stata organizzata in fretta, perché è chiaro che Sebastiano non potrebbe sopravvivere a lungo.

Quando lo scaricano dalla carretta lo devono portare di peso sul rogo. La folla guarda, muta. I pantaloni di Sebastiano grondano sangue.

Il boia passa una corda intorno al collo di Sebastiano. Se il sodomita si pentirà e confesserà le sue colpe, verrà strangolato e la sua morte sarà rapida.

- Allora, confessi le tue colpe?

Sebastiano sputa in faccia al monaco.

Questi si pulisce lo sputo e scende. Il boia incendia le fascine.

Sebastiano, che solo le corde tengono in piedi, grida:

- Mi uccidono perché non sono riusciti a farmi accusare un innocente. Volevano servirsi di me per i loro intrighi. Volevano che accusassi chi non aveva colpe.

Jorge e Godefroi si guardano smarriti. Non si aspettavano che Sebastiano avesse ancora la forza di gridare e le sue parole sono un ulteriore macigno sul piano escogitato.

Jorge fa un rapido cenno al boia. Questi esita un attimo, perché le fiamme si stanno alzando, poi salta sul rogo e tira con forza la corda, soffocando le parole che Sebastiano ancora grida. Poi il boia salta a terra. Il cadavere del sodomita brucia, mentre un fumo nero si leva in alto.

Godefroi sa benissimo che questo rogo servirà a ben poco. Non è il grande rogo che pregustava. Il lezzo di carne bruciata, il fumo nero che sale verso il cielo, il cadavere del condannato avvolto dalle fiamme, tutto corrisponde a ciò che aveva immaginato Godefroi, ma il corpo che il fuoco divora non è quello possente del conte, è solo quello di un soldato qualunque, quanto di più lontano dal sogno accarezzato dal templare.

 

*

 

Il sole brilla in cielo e il calore è soffocante, ma nel bosco c’è ancora un po’ della frescura mattutina. Alessandro è nudo: ha dovuto lasciare ogni indumento. Cammina rapido, ma non corre, sa che è inutile, non sfuggirebbe ai cani. Ed anche se lo potesse, non lo vorrebbe. Non vuole fuggire, vuole solo raggiungere la radura.

Il movimento lo fa sudare.

Eccola. Qui tutto è incominciato. Qui tutto finirà.

Alessandro guarda il coltello che gli è stato dato. Scuote la testa e lo getta via. Non intende servirsene.

Si ferma. Rimane in silenzio. Si dice che non ha paura. Tra poco i cani lo raggiungeranno e dopo di loro, i cavalieri.

Alessandro recita, pianissimo:

Bevi ora, e ama, Iskandar.

Non sempre berrai e non sempre andrai con gli uomini.

Ci saranno sempre coppe di vino,

ma non saranno più le tue labbra a berle.

Ci saranno sempre membri vigorosi,

ma non saranno più i tuoi fianchi ad accoglierli.

I latrati dei cani interrompono i versi. Stanno arrivando.  Alessandro chiude gli occhi, il suo cuore batte all’impazzata, tutto il suo corpo è teso.

La muta arriva, in un attimo lo circonda. Alessandro rimane immobile. Guarda le fauci dei cani. Un brivido gli corre lungo la schiena. Annuisce, anche se nessuno può vederlo.

Il conte arriva al galoppo, con otto uomini. Alessandro lo guarda avvicinarsi. Ora Ferdinando ferma il cavallo, davanti a lui. Il suo viso sembra impassibile. Fissa Alessandro, che ricambia lo sguardo, senza abbassare gli occhi, neppure un secondo. Non sente più i cani, non vede più nulla. Solo gli occhi scuri di Ferdinando, che lo inchiodano in questa radura dove morirà.

Ferdinando ordina ai suoi uomini di smontare e di tenere i cani. E mentre i servi eseguono e il conte scende da cavallo, Alessandro guarda gli uomini che si affaccendano a legare gli animali. Il conte li ha scelti con cura. Alessandro li conosce, almeno di vista, tutti. Otto uomini robusti, muscolosi, con le spalle larghe e braccia forti. Otto animali che l’odore del sangue eccita.

- Spogliatevi.

L’ordine del conte viene eseguito senza esitare. Gli uomini sanno già quello che devono fare. Alessandro li guarda mentre si tolgono la camicia e le braghe. Guarda i loro cazzi e di nuovo un brivido gli percorre la schiena. Tre di loro ce l’hanno già duro. Ora sono tutti e otto intorno a lui. Ghignano, mentre si avvicinano. Alessandro vede i loro sguardi carichi di un desiderio feroce. Berto si mette davanti a lui. Alessandro guarda il corpo possente, il cazzo taurino, già perfettamente teso. Una fitta peluria nera gli ricopre tutto il corpo. È una bestia che sta per ghermire la preda.

- Ora.

All’ordine del conte, Berto chiude il pugno e colpisce Alessandro al ventre, con tutta la sua forza. Il mondo vacilla e sembra svanire. Alessandro cade a terra. Gli allargano le gambe.

Berto passa dietro di lui. Gli sputa sul buco del culo. Poi entra, con un colpo secco, ed Alessandro urla. Il dolore è tanto forte da annebbiargli la vista.

Alessandro è solo più un animale, da prendere per il proprio piacere, da scannare, da dare in pasto ai cani.

Berto spinge con violenza e ogni spinta è una lacerazione. Presto ha concluso. Ora che si è preso il suo piacere, c’è posto per un altro. Maso si mette su Alessandro. Anche lui entra senza riguardo, godendo del suo trionfo.

Alessandro ha le lacrime agli occhi. Alza la testa e guarda il conte, che lo sta fissando. Ferdinando non si è tolto gli abiti, ma è evidente che anche lui è eccitato.

Uno dopo l’altro, tutti e otto lo prendono. Ognuno rinnova e moltiplica il dolore. Ognuno si sazia in fretta. Bestie che soddisfano il loro bisogno.

Poi lo forzano a mettersi in ginocchio. Dal culo gli colano sborro e sangue. Il dolore lo acceca. Berto è davanti a lui.

- Puliscimi, troia.

Alessandro apre la bocca e pulisce. Sente che il cazzo di Berto sta crescendo di volume. Continua a leccarlo e succhiarlo.

Berto viene una seconda volta, nella sua bocca. Dopo di lui, anche gli altri si fanno pulire e due di loro lo forzano a succhiargli il cazzo fino a che gli vengono in bocca.

Berto si avvicina di nuovo.

- Apri la bocca.

Alessandro ubbidisce. Berto avvicina il cazzo ed incomincia a pisciare. Alessandro beve, poi, quando non ce la fa più, chiude la bocca ed il piscio gli cola sul mento e sul torace.

La voce del conte risuona, imperiosa:

- Ora andate.

Gli uomini si rivestono. Prendono i cavalli e se ne vanno. Liberano i cani.

Alessandro è ancora in ginocchio. Ferdinando si mette davanti a lui.

Il conte si spoglia, senza distogliere gli occhi da quelli di Alessandro.

Ora è nudo. Alessandro guarda per l’ultima volta il corpo del suo assassino. Guarda il cazzo superbo che ha accolto tante volte. Il dolore lancinante che gli sale dal culo non ha più importanza, anche se sta per rinnovarsi, anche se sarà proprio quella picca voluminosa ad accenderlo un’altra volta, in un rogo inestinguibile, che solo la morte spegnerà.

- A quattro zampe.

Alessandro esegue. È una bestia da scannare e quella è la sua posizione.

Ferdinando posa il coltello di fianco ad Alessandro, ad un palmo dalla sua mano. Alessandro potrebbe prenderlo e cercare di uccidere il suo assassino, ma sa che non lo farà, anche se forse entrambi lo vorrebbero.

Il conte gli afferra il culo con le mani, tanto forte da farlo gemere. Poi avvicina il cazzo al buco, guarda l’apertura da cui colano sangue e sborro. Ride, una risata violenta che Alessandro sente come un graffio sulla pelle.

Il conte entra, da trionfatore. Di nuovo il dolore, violento, ma anche il piacere. Alessandro non saprebbe dire quale sensazione è più forte.

A lungo, molto a lungo, Ferdinando rimane dentro di lui, senza muoversi, ed il dolore sfuma, il piacere cresce e si dilata, impetuoso. È sempre più forte e ora che il conte prende a muoversi dentro di lui, sovrasta la sofferenza, la costringe a tacere. La tensione cresce, gli sale dai coglioni e infine il precipizio si spalanca davanti a lui.

Ora, nell’attimo in cui il piacere sta per esplodere, Ferdinando prende il coltello. Alessandro sente la tensione deflagrare e, mentre il seme sgorga, la punta della lama preme contro il basso ventre.

Ferdinando immerge la lama. Alessandro urla il dolore atroce che sale dal suo corpo straziato, il piacere travolgente che si spegne nella sofferenza. Ferdinando muove la lama, aprendo il ventre di Alessandro dai coglioni fino all’ombelico. Il giovane emette un suono strozzato e cade a terra. Ferdinando cade con lui e rimane sopra quel corpo, dentro quel corpo, ancora un buon momento. Poi si alza. Ferdinando volta il corpo con il piede. Guarda il cazzo teso, di fianco a cui la lama ha aperto uno squarcio. Guarda Alessandro, che agonizza, ma ancora è cosciente e lo fissa. Ferdinando chiama i cani e dà il segnale. La muta si lancia sulla preda, l’azzanna, incomincia a divorarla. Alessandro sente i morsi nella carne, il dolore della lacerazione. Urla, mentre ancora guarda il conte. Poi il mondo scompare per sempre. Il conte rimane immobile a guardare i cani che si cibano del corpo di Alessandro. Poi si riveste, senza pulirsi, sale a cavallo e si allontana.

 

 

Note

1 Poesia di Kavafis

2 Poesia di Kavafis

3 Rielaborazione di una poesia di Albisola

4 Rielaborazione di una poesia di Stratone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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