Tana libera tutti

 

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A questo borgo nascosto tra i boschi sono arrivato per caso. Cercavo un posto fuori mano, lontano dalla città, che sempre più mi sembrava invasa da gente stressata, violenta, fulminata e intollerante e che a volte non riuscivo più a sopportare. Era una domenica di ottobre. Gli alberi erano tutti in colore, infuocati. Il rosso, l'arancio e il ruggine mi balzavano agli occhi, mentre il vento faceva volare le foglie sul lucido acciottolato grigio chiaro, terra di siena e antracite, facendole poi rotolare con il fruscio della risacca. Il borgo era nel bel mezzo della sua consueta attività domenicale, del tutto indifferente alla mia presenza. Così arrivai a ficcare il naso un po' dappertutto, finché non entrai nell'antro misterioso di un candelaio. Aristide, si chiamava l'arzillo vecchietto. Un tipetto tutt'ossa, con un'energia da vendere, pieno di entusiasmo, davvero da invidiare, per la sua età. E poi il suo sguardo grigio a calamita quasi m'ipnotizzò, mentre mi spiegava come riusciva a creare quelle magnifiche candele, alcune delle quali erano accese a illuminare di luce calda e misteriosa il locale, nello stretto vicolo dov'ero finito.

Aristide era simpatico. Senza che me ne rendessi conto, restammo a parlare per ore del suo lavoro, della sua vita, di quel borgo lontano da tutto, che lui amava svisceratamente, considerandolo il suo mondo, un po' perché c'era nato e vissuto, e un po' perché vi serbava tutti i suoi più cari ricordi. Era l'ultimo sopravvissuto della sua famiglia. Moglie e figli se n'erano andati prima di lui. Il suo grande cruccio era di non avere nessuno che continuasse la sua attività, per quanto umile e poco redditizia, eppure più che sufficiente per lui, che aveva davvero poche pretese.

Tornai a trovarlo per molte domeniche di seguito. Decidemmo perfino di passare insieme il Natale e fu una festa piena di luci e di calore. Odore di legna dal caminetto acceso, lieve profumo delle candele sfavillanti sulle mensole, polenta fumante nei piatti. Il mio olfatto era soddisfatto da tutti quegli odori, come la vista lo era per i colori di quella grande cucina, illuminata a festa. Aristide era felice per la mia presenza che considerava un regalo insperato, abituato com'era a vivere in solitudine ormai da molto tempo. Mi raccontò che amici e conoscenti lo invitavano a festeggiare con loro, ma lui si rifiutava ogni volta, perché era convinto che il Natale si dovesse passare in famiglia. Mi domandai come mai avesse fatto un'eccezione per me.

 

In seguito, Aristide m'insegnò il mestiere e poi mi portò a conoscere il suo amico Fausto, l'apicultore che gli forniva la cera d'api, profumatissima, con cui creava le sue candele. Fu una scusa per fare una passeggiata in mezzo ai boschi, dove la neve si era sciolta anzitempo, a causa di un rialzo anomalo delle temperature. A fine gennaio non era consueto, da quelle parti.

Fausto non era molto contento. Diceva che la natura era impazzita, che le sue api si comportavano di conseguenza uscendo troppo presto dal letargo, cosicché si stressavano e morivano. Morivano di stanchezza. Una primavera troppo precoce e un'estate troppo lunga avevano ridotto notevolmente il loro periodo di riposo. Quello che per noi era solo un disagio, dunque, per loro era letale. Non ci avevo mai pensato. Non sapevo nemmeno che le api andassero in letargo. Ma in effetti, in città, dove tante cose non si vedono, non c'è ragione per pensarci.

 

Con Fausto feci amicizia facilmente. Sin da subito s'instaurò un clima di complicità e di grande comprensione. A volte ci voleva molto tempo perché io comprendessi il carattere delle persone, avevo bisogno di conoscerne la storia, la provenienza, gli ideali, i desideri o i progetti. Niente di tutto questo mi accadde trovandomi di fronte a Fausto. La nostra reciproca simpatia fu immediata, veicolata sicuramente, per quanto mi riguardava, da un'attrazione fisica irresistibile. Fausto era alto, ben piazzato, con una bella testa di capelli neri e ricciuti, illuminati da sporadiche pennellate d'argento sulle tempie; un sorriso genuino, cordiale, aperto, che mi elargiva con naturale generosità; era di quei rari individui capaci di esprimersi con gli occhi, che erano di un blu intenso. Incontrandolo provai quell'impressione fulminante, che si prova raramente, di essere giunti a una svolta del destino, di aver raggiunto un punto nodale della propria esistenza; uno di quei momenti in cui bisogna acuire l'attenzione, per non lasciarsi sfuggire colpevolmente un evento fondamentale, che influirà positivamente sul resto della nostra vita. Fu solo l'impressione di un istante, ma non mi passò inosservata e mi spinse ad andargli incontro con un'apertura per me inusuale.

Quando per me e Aristide fu il momento di tornare sui nostri passi, Fausto si oppose, invitandoci a pranzo. Nella sua cucina c'era il camino acceso. In una pentola appesa a un gancio sobbolliva un minestrone. Tirò fuori da una madia una gran pagnotta scura, che tagliò a fette tutte dello stesso spessore, mettendone alcune su una griglia vicino al fuoco. Poi aprì quella che sembrava una porta, e che era invece l'anta di un armadio che dava sull'esterno, il suo frigorifero invernale. Da una mensola di legno scuro prelevò un fiasco di vino. Apparecchiò senza tovaglia sul tavolo a cui già s'era accomodato Aristide, con un'abitudine che s'indovinava facilmente. Il piano di legno non trattato era lucido per l'uso e crepato in qualche punto. Fausto ci servì il minestrone in grandi scodelle bordate di giallo e arancione, e il vino in tazze bianche di ceramica senza manico. Poi passò un po' d'aglio sulle fette di pane che nel frattempo si erano abbrustolite e ne infilò una per ogni scodella, lasciando le altre sul tagliere, in mezzo al tavolo. Nel frattempo avevamo chiacchierato del più e del meno, ma io non mi ero lasciato distrarre e avevo seguito ogni sua mossa. Mi affascinava la sua maniera fluida di muoversi, resa naturale dall'abitudine dei gesti. Versò il vino nelle tazze e infine anche noi ci sedemmo. Quindi, innalzò la sua tazza per un brindisi.

– Alla salute! E al mio amico Aristide che oggi mi ha fatto un gran regalo, portandomi Gianluca.

Lo disse guardando prima Aristide, che gli sorrise con uno strano imbarazzo, e poi fissando negli occhi me, più a lungo, con quel genere di sguardo che riesce a toccarti dentro, a leggerti nell'anima. Colpito e affondato. Da quell'istante fui certo di essermi innamorato di lui. Era dunque questo che la gente intendeva per colpo di fulmine. Finalmente lo sapevo.

 

Da quel giorno, ogni volta che andavo da Aristide per il fine settimana, lo aiutavo a produrre candele e la domenica andavamo da Fausto, che ci aspettava per il pranzo. Io vivevo tutta la settimana in città, aspettando solo quel momento. Passavo i giorni facendo il conto alla rovescia. Fausto era il primo pensiero del mattino, quando mi svegliavo, e l'ultimo la sera, quando mi addormentavo. Avrei desiderato che potessimo incontrarci da soli, anche se non avrei saputo sicuramente confessargli quello che provavo. Mi sembrava un compito al di là delle mie possibilità. Come dirgli che quella nostra amicizia spontanea e affettuosa era per me molto di più?

Così il tempo passò, mentre io mi accontentavo di quello che veniva e di cui già mi sentivo molto grato. Aristide era diventato il padre che non avevo mai conosciuto e il tempo che trascorrevo al borgo la mia vera vita. Tutto il resto era un peso. Avevo un lavoro che mi permetteva di pagare un affitto, di mantenere un'auto per andarmene in giro, di vestirmi, di mangiare, di pagare le bollette e quasi nient'altro, anche se stavo molto attento. Ma ora confrontavo questa vita con quella di Aristide o di Fausto, e il confronto era sconfortante. Non era obbligatorio farsi schiavizzare in un ufficio, per trovare le finanze sufficienti a sopravvivere. C'erano altri modi, molto meno stressanti, per ottenerlo. Non aspiravo alla carriera o alla ricchezza, ma da sempre a una vita meno inutile, più vera. Sempre più spesso mi giungeva quindi il richiamo del borgo, un luogo a misura d'uomo, dove i pochi abitanti si chiamavano per nome, erano solidali gli uni con gli altri, dove ci si poteva sentire come dentro una grande famiglia, seppur con alti e bassi, odi e amori, invidie e attenzioni proprie di una famiglia composta da individui caratterialmente diversi.

Quando giunsero le mie ferie d'agosto, preparai le valigie con entusiasmo e soddisfazione. L'idea di poter rimanere tre intere settimane con Aristide e di poter frequentare più a lungo Fausto, mi rendeva felice. Il viaggio in auto mi sembrò stranamente più lungo del solito, tanta era la fretta di arrivare. Quando giunsi alla piazzola della strada dove di solito parcheggiavo l'auto, feci un gran sospiro di sollievo. Avevo temuto che qualcosa, un ostacolo qualsiasi, si potesse frapporre tra me e quell'agognato momento. Ma ero finalmente lì, a percorrere gli ultimi passi verso casa di Aristide, con un borsone a tracolla e un trolley che rumoreggiava sull'acciottolato. Come d'abitudine, la porta non era chiusa a chiave, ma Aristide non c'era. Lasciai i bagagli e mi diressi verso la sua bottega, sicuro che l'avrei trovato tra le sue amate candele. Con grande delusione non lo trovai neanche lì. Bussai alla porta di fianco, dove abitava Maria. Mi aprì la porta, affacciandosi senza il solito sorriso.

– Ah, Gianluca! Menomale che sei arrivato! Aristide si è sentito male, ma chiedeva di te. Ti vuole vedere. Adesso è all'ospedale. Vacci subito.

E m'indicò come arrivarci, raccomandandomi di passare da lei, al ritorno, perché voleva sue notizie.

La preoccupazione assurda che qualcosa potesse ostacolare il mio desiderio di trascorrere un periodo di pace e serenità al borgo aveva dunque trovato una sua ragione di esistere. Avevo avuto un presentimento, ma, come tutti i presentimenti, era stato solo un vago senso di preallarme, che avevo scacciato come assurdo. Adesso in quell'assurdità dovevo immergermi. Speravo soltanto che per Aristide si trattasse di un malessere passeggero. Gli volevo bene. Volevo che guarisse in fretta.

All'ospedale non mi permisero di vederlo. Inoltre, non essendo un parente, fecero un sacco di storie. Forse, ma solo forse, sarebbe passato un medico a parlarmi, se mi fossi accomodato nella sala d'attesa e avessi avuto pazienza. Molto preoccupato, leggermente adirato, ma infine rassegnato, entrai nella stanza che l'infermiera mi aveva indicato. E lì trovai Fausto, con un'espressione chiusa e preoccupata che non gli avevo mai visto. Si rischiarò quando si accorse di me. Si alzò e mi abbracciò, guardandomi poi molto seriamente, senza dire niente.

– È così grave?

– Sì. Non è mai stato malato in vita sua. Quelli come lui, quando cedono non si rialzano più.

– Ma che cos'ha?

– Qualcosa al cuore. I medici si sono stupiti che sia arrivato qui ancora vivo. Ma mi hanno detto subito di non sperare in un miracolo. Probabilmente non passerà la notte.

Crollai a sedere. Non ci potevo credere.

– E dire che sembrava così forte, così pieno di energie – mormorai, dispiaciuto.

– E lo era. Lo è sempre stato. Nella vita non si è mai risparmiato. Anzi, in questi giorni, al pensiero che saresti venuto a stare da lui per un lungo periodo, era più attivo ed entusiasta del solito. Era felice. E anch'io, ti confesso. Non doveva succedere proprio adesso.

Fausto sospirò, poi continuò:

– Sembra quasi una condanna. Ogni volta che vivi un momento felice, lo devi pagare con un nuovo dolore o una nuova angoscia. La vita è davvero ingiusta.

– Sembra che sia il suo modo di mantenere un equilibrio.

– Un equilibrio del cazzo, lasciatelo dire.

– Hai ragione. Sto cercando di trovare una spiegazione che non c'è.

– No, infatti, non c'è. La vita è quello che è, e ci dobbiamo arrendere davanti a lei. Dove vuole portarci ci porta, con o senza il nostro consenso.

Non l'avevo mai sentito parlare così. M'impressionò la rabbia con cui esprimeva parole di rassegnazione, una contraddizione che non mancai di fargli notare.

Lui sorrise.

– Lo so, ma io sono così, mi piego ma non mi spezzo. Sono abituato a lottare fino in fondo. Un conto è la teoria generale, un altro il mio caso personale.

Insomma, era pronto ad accettare di dire addio ad Aristide, ma per quanto riguardava lui, non avrebbe mai smesso di combattere, sia che si trattasse di salvare le sue api, sia che si trattasse d'impedire lo stravolgimento del borgo o dei suoi boschi, come già in passato era accaduto.

Aristide morì sul far della sera, agli ultimi bagliori rossi dell'orizzonte, mentre già alcune stelle prendevano possesso del cielo. Venne ad annunciarcelo la stessa infermiera che ci aveva chiesto di aspettare in quella sala.

Dopo aver organizzato le esequie insieme con Fausto, io decisi che dovevo andarmene. Avevo dormito a casa di Aristide, ma mi ero sentito a disagio, non avendo alcun diritto di restare là. Ma del resto, non avevo trovato il coraggio di chiedere ospitalità a Fausto, né lui mi aveva invitato e quindi non avrei saputo dove altro andare. Inoltre non volevo essere presente al funerale. L'idea di veder calare nella terra la bara che conteneva le spoglie di Aristide, era più di quanto potessi sopportare. Il dolore per la sua scomparsa era già abbastanza forte senza dovermi sottoporre a quella inutile tortura. Guardandomi intorno in quella casa, rivedevo Aristide; tutto mi parlava di lui e della sua semplicità. Mi sembrava impossibile che non ci fosse più. Era sparito troppo in fretta, senza un preavviso, senza lasciarmi il tempo di prepararmi. Passai una notte quasi insonne, sentendo Aristide ancora presente in quella casa. Alle prime luci dell'alba mi eclissai, lasciando la porta aperta, come l'avevo trovata.  

Rinunciai al resto delle mie ferie, un po' perché non ero dell'umore giusto, un po' perché non sapevo dove andare. In quel momento mi sentivo troppo addolorato ed ero certo che dovunque fossi andato, avrei portato con me quel dolore. Il lavoro mi avrebbe distratto, lasciandomi in pace per una parte della giornata. All'inizio non pensai a Fausto. Era come oscurato da quello che era successo. Ma poi tornò ad abitare le mie serate libere. Sarei tornato a trovarlo, anche senza Aristide? Perché no? La nostra amicizia poteva bypassare la sua presenza. Ma a che sarebbe servito? Mi sentivo rattrappito, tutto chiuso in me stesso, l'anima raggomitolata in posizione fetale. Amavo Fausto così tanto che una semplice amicizia non poteva bastarmi, anzi, mi avrebbe fatto soffrire. Come avrei potuto stargli accanto resistendo alla tentazione di abbracciarlo, di saltargli addosso, di rubargli un bacio? Sarebbe stato troppo per me. Finché c'era stato Aristide, la sua presenza tra di noi aveva fatto da cuscinetto, frenandomi, imponendomi un comportamento corretto. Avevo potuto tenermi a distanza da lui, solo perché Aristide c'era. Ma ora che non c'era più? Mi lambiccai il cervello per giorni e giorni. Sentivo che dovevo farmi vivo. Spasimavo dalla voglia di sapere come stava, che faceva? Avrei voluto leggergli nel pensiero, sapere se gli mancavo, se mi pensava. Ma ogni giorno decidevo che l'avrei cercato il giorno dopo. E così il tempo passò e mi sentii sempre più in colpa. E più tempo passava, meno avevo il coraggio di infrangere il silenzio che era calato tra di noi.

Era di nuovo ottobre, quando Fausto mi cercò. Non sapevo come avesse trovato il mio numero. Forse era andato a cercarlo tra le cose di Aristide, a cui l'avevo dato poco dopo averlo conosciuto, anche se lui non l'aveva mai usato, perché odiava il telefono. Sentirlo mi sorprese e mi rallegrò. Ma lo stupore più grande mi venne dal motivo per cui mi cercava. Dovevo presenziare all'apertura del testamento di Aristide. Che c'entravo io con quel testamento?

– Il notaio ha detto che devi essere presente. Il motivo te lo spiegherà lui, di sicuro.

Mi accorsi che la sua voce era fredda. Mi stava trattando con distacco, come fossi un perfetto sconosciuto. Mi salutò in fretta, senza lasciarmi il tempo di chiedergli come stava. Mi chiuse quasi il telefono in faccia.

Dunque la nostra amicizia era solo un riflesso di quella che nutriva per Aristide. Avevo fatto bene a non sbilanciarmi troppo. Mi ero risparmiato di essere preso a calci. Sì, era evidente che avevo preso un abbaglio. Fausto incarnava probabilmente il mio ideale, per questo era stato così facile illudermi che da parte sua ci fosse un vago interesse per me. Ma per fortuna non ci avevo creduto fino in fondo, per fortuna non ero stato tanto sciocco da spingermi oltre un'apparenza cordiale e amichevole. Ogni volta che mi ero tuffato nel suo sguardo così penetrante, mi ero ritratto in tempo per non annegarci dentro. Avevo finto che fosse tutto normale, che il cuore non mi fosse balzato in gola, che il mio gesto di mettere le mani tasca non fosse per nasconderne il tremore.

L'idea di rivederlo, ora, mi divideva tra un timore assurdo e un piacere inconfessabile, ma la sua freddezza mi aveva colpito più di quanto mi facesse piacere raccontarmi. Mi diedi tre giorni per darmi una calmata. Mi aveva detto che il giovedì seguente mi avrebbe aspettato alla piazzola, per indicarmi la strada. In ogni caso, era una gentilezza che avrebbe potuto risparmiarsi, quindi apprezzai la sua generosità disinteressata. Il giovedì arrivò in fretta. E io non ero pronto.

Parcheggiai al solito posto, ma lui non c'era. Mi sentii a disagio. Scesi dalla macchina e percorsi i pochi metri che separavano la piazzola dalla casa di Aristide. Osservai per qualche istante quella porta dall'aria solida, il legno pitturato di verde brillante. Al di là di quella porta Aristide non c'era più. Non sapevo cosa fare. Stavo per tornare indietro, quando la porta si aprì, spaventandomi. Non me l'aspettavo. Mi trovai faccia a faccia con Fausto, che mi salutò offrendomi un freddo abbraccio. Lo sapevo che mi avrebbe trattato con distacco, tuttavia mi rattristai e tutti i miei dubbi ne furono rinforzati. Nonostante questo, la mia curiosità prese il sopravvento.

– Come stai?

– Sto bene, grazie. E tu come mai sei sparito così?

– Non sopportavo di restare per il funerale. Ma come hai fatto a trovare il mio numero?

– Era nella rubrica di Aristide. Volevo fartelo vedere. Sono qui per questo.

Entrammo in casa. Sul tavolo c'era la rubrica, già aperta. Mi avvicinai. In quella pagina c'era solo il mio nome, circondato di disegni colorati di foglie, fiori, ghirigori e stelle. Ricordavo qualche candela decorata con quegli stessi soggetti. Erano candele natalizie.

– Era Natale, quando gli ho dato il mio numero – ricordai.

– Te lo devo dire. Era felice quando venivi a trovarlo. Una volta mi ha detto che conoscerti è stato come trovare un altro figlio.

– E per me è stato come trovare un padre. Non mi aspettavo di perderlo così presto.

– Adesso andiamo. Si fa tardi. Il notaio mi ha raccomandato la puntualità.

Accennai un assenso col capo, perché un groppo in gola m'impediva di parlare.

In macchina mi indicò di volta in volta dove svoltare, fino a quando raggiungemmo il paese, quasi mezz'ora dopo. Ero sicuro che senza di lui mi sarei perso. Raggiunto lo studio, citofonò. Ma quando il portone si aprì, mi disse che mi avrebbe aspettato in macchina.

– Come? Tu non sali?

– Sei tu che devi presentarti.

– Solo io? Ma che c'entro io con Aristide?

– Io non ne ho idea. Vai a sentire, così poi lo spieghi pure a me.

Salii le scale come in trance, continuando a chiedermi che cosa volesse il notaio da me e aspettandomi di essere osservato dai suoi parenti con ostilità. In fondo ero un intruso.

Invece il notaio mi fece sedere di fronte a lui e cominciò a farmi un lungo discorso e a leggere poi il documento che aveva davanti, che riassumendo voleva dire che Aristide non aveva parenti e che aveva lasciato un testamento con il quale ereditavo tutti i suoi beni, cioè la sua casa e la sua bottega, con tutto quello che c'era dentro. E come non bastasse, anche un piccolo gruzzoletto, come lui stesso l'aveva descritto, che aveva consegnato direttamente al notaio, chiuso in una busta gialla che ora giaceva sulla scrivania tra me e il notaio.

Poi, completamente frastornato, firmai diverse carte, raccolsi le copie che mi tendeva insieme con la busta gialla e mi congedò.

Mentre ridiscendevo le scale, mi sembrava di avere la testa vuota e avvolta nell'ovatta. Ancora non riuscivo a rendermi conto di quanto era accaduto. Inebetito, arrivai alla macchina. Fausto mi aprì lo sportello del passeggero e mi invitò a salire. Io nemmeno ci feci caso. Era come se non fossi lì.

– Al ritorno guido io – annunciò.

Non sapevo nemmeno che avesse la patente, ma non riuscii a stupirmi di niente. Avevo già fatto il pieno di sorprese, per quel giorno.

Arrivammo al borgo in cinque minuti. Di quello mi resi conto. Stavo smaltendo in fretta lo stordimento dovuto alla sorpresa.

– Perché mi hai fatto fare il giro panoramico della zona, se il notaio era qua dietro?

– Ah, ti sei svegliato! Bentornato su questo pianeta.

– Ma che vuol dire?

– Volevo passare un po' di tempo con te. La mia intenzione era quella di prepararti, ma poi ho cambiato idea. Era giusto che fosse Aristide stesso a parlarti, attraverso il notaio.

– Tu lo sapevi!

– Certo che lo sapevo. Ce l'ho portato io dal notaio, quando mi ha detto quali erano le sue decisioni. Solo che Aristide non si aspettava che il momento arrivasse tanto presto. E nemmeno io.

– Vorrei andare a vedere la sua tomba.

Fausto riavviò il motore senza dire niente.

 

Quella sera dovetti tornare in città, nonostante le tiepide insistenze di Fausto che m'invitava a rimanere. Mi ero preso solo un giorno di ferie e non me la sentivo di discutere con il mio capo, che si opponeva per principio a ogni contrattempo. Per lui gli imprevisti non dovevano esistere, bisognava avere l'intelligenza di prevederli con almeno due giorni d'anticipo. E con due giorni d'anticipo gli comunicai che mi prendevo le tre settimane di ferie cui avevo rinunciato in agosto. Non ne fu molto contento, ma non poté opporsi.

Il sabato ero di nuovo al borgo e questa volta entrare in casa di Aristide fu molto diverso. Avrei continuato a chiamarla la casa di Aristide, ma ci avrei vissuto io, saltuariamente. Avrei rivisto Fausto volentieri, ormai che il ghiaccio era rotto, anche se ero ben consapevole che le cose tra noi erano molto cambiate e anche lui era cambiato. Aveva uno sguardo diverso, difficile da descrivere, ma sicuramente triste. Lasciai i bagagli in camera da letto, mi resi conto che avrei dovuto fare un po' di pulizie, riaprire la casa, accendere il frigo e fare provviste, ma rimandai tutto. Per prima cosa volevo andare da Fausto, fargli sapere che ero tornato e che sarei rimasto per tre settimane.

Dopo la solita scarpinata, arrivai alla sua casetta e bussai, ma lui non c'era. C'era invece un grosso cane nero che si aggirava a pochi metri di distanza, e che sembrava molto nervoso. Quando mi aveva visto avvicinare alla porta e bussare, mi aveva abbaiato contro, nonostante la distanza. Ero rimasto lì, a guardarlo, in attesa che Fausto mi aprisse. Ma dopo qualche secondo, forse stufo che i suoi avvertimenti non avessero sortito l'effetto voluto, cominciò a galoppare verso di me. Io, preso dal panico, girai la maniglia, pregando che la porta fosse aperta, come usava da quelle parti. Quando cedette, feci appena in tempo a entrare e chiudermi la porta alle spalle, con un sospiro di sollievo. Sentii distintamente la sua mole che si abbatteva contro il legno e il terrorizzante raschiare delle sue unghie. Poi un altro rumore si sovrappose a quello, una specie di stridio morbido, che ben presto si trasformò nella risata tipica di Fausto. Mi resi conto che era seduto di fianco al camino e mi guardava con le lacrime agli occhi. Poi si batté una mano sulla coscia.

– Oddio, dovresti vedere la tua faccia!

E intanto che continuava a ridere, si alzò, mi raggiunse, aprì la porta e fece entrare la belva. Io mi sentii agghiacciare.

Fausto accarezzò il cane, dicendogli – Bravo! Bravo il mio Orso. E adesso potete fare amicizia. Non è cattivo, sai. È solo che è abituato alle comodità della città e ai cani al guinzaglio. Insegnagli che cos'è un cane vero. Dai, Orso. Fate amicizia.

E così dicendo, smise di accarezzarlo e mi additò a lui, come a indicare dove poteva mordere.

La belva, e in questo il nome era davvero azzeccato, mi si parò di fronte, e poi mi guardò fisso negli occhi. Aveva lo sguardo buono e intelligente, forse persino un po' ironico. Con movimenti studiatamente lenti, avvicinò la grossa testa alla mia mano e mi diede una bella raspata di lingua. Poi si strofinò sulla mia coscia come un invito a carezzarlo.

– Bravo, Orso. Mi fa piacere essere tuo amico – gli dissi, poco convinto, mentre gli passavo la mano dietro le orecchie.

– Ma da quando hai un cane?

– Non ce l'ho un cane, è lui che ha me. È arrivato un paio di mesi fa. Abbiamo subito fatto un patto. Lui resta quanto vuole, io gli do da mangiare, ma se passa qualcuno con brutte intenzioni, mentre io sono assente, lui è libero di farci quel che vuole.

– Quindi poteva anche farci uno spuntino, con me.

– Se io non fossi stato qui, visto che non ti ha mai visto, forse sì, ne avrebbe approfittato.

– Ma tu lasci sempre la porta aperta, vero?

– Non più. C'è strana gente che si aggira da queste parti, ultimamente. Non abbiamo ancora capito chi sono, né cosa vogliono. Stiamo aspettando che ce lo facciano sapere. Fino ad allora, Orso ha la licenza di azzannare, se vuole.

– Menomale che eri in casa. Ma allora perché non mi hai risposto? Perché non mi hai aperto?

– Per perdermi il momento del vostro primo incontro? Ah, no. È stato impagabile.

Fu quella la prima volta che pensai che Fausto, oltre la sua facciata di persona per bene, ricca di buone qualità, nascondesse anche un suo lato oscuro, un sottile gusto di perfidia, una latente patina di cattiveria, all'occorrenza pronta a saltare fuori.

– Dunque ti sei deciso a riprendere la vecchia abitudine dei fine settimana al borgo?

– Questa volta mi tratterrò più a lungo, tre intere settimane.

– Bene. Mi fa piacere.

Ma lo disse senza il solito entusiasmo, senza guardarmi negli occhi, continuando a massaggiare la schiena del cane. Per un attimo sentii distintamente che per lui Orso era ben più importante di me.

 

Oltre a pulire la casa di Aristide, mi ritrovai quindi a rincorrere Fausto. Un giorno andava a funghi, un altro a legna, un giorno lo trovavo a zappare l'orto, un altro a raccogliere radici di rafano, o bacche di ginepro, oppure a seminare il suo orto. Insomma, non stava mai fermo, e non aveva mai molto tempo per me. Ma veniva buio presto, e allora ci si rintanava in casa, seguiti da Orso che non voleva più restare fuori al freddo.

Aristide mi aveva insegnato a fare la polenta, non che ci volesse chissà cosa­. Così quando arrivavo troppo tardi per trovare Fausto, che se n'era andato per boschi,

o mi sentivo del tutto trascurato, andavo a casa sua e mi mettevo a fare la polenta, per fargliela trovare già pronta. Finiva, a volte, che avendo saltato il pranzo, la mangiavamo nel pomeriggio, riunendo in un unico pasto pranzo e cena. Lui andava a dormire presto, io, abituato agli orari di città, non ci riuscivo. Lo salutavo e me ne tornavo al borgo seguendo il sentiero, facendomi luce con una grossa torcia.

Due settimane passarono in fretta. Cominciavo a sentirmi a casa mia. Al pensiero di dover tornare al mio solito lavoro mi veniva la nausea. Partiva da dentro, proprio dallo stomaco, e mi risaliva come un colpo di acidità lungo l'esofago. Sudavo, poi sentivo freddo. Sensazioni di malessere generale accompagnavano quei momenti. Mi chiedevo anche cosa fare della bottega di candele. Per quanto Aristide ne vendesse poche, erano comunque ricercate. D'estate i turisti facevano man bassa. L'avevo visto con i miei occhi e qualche volta avevo dovuto aiutarlo a ripristinare le scorte in esaurimento. Fino a quel momento, alla bottega non ci ero nemmeno andato. Un po' di pulizie avrebbero fatto bene anche a quel locale.

Una volta aperta la porta e accese le luci, mi vennero a trovare in molti, per prima Maria. La voce che io avevo ereditato quel posto da Aristide non era circolata. Tutti reagivano con stupore, ma alla fin fine erano contenti, perché avevano imparato a conoscermi. Per un paio di giorni mi limitai a pulire e mettere in ordine, finché venne giù Fausto.

– Ah, ecco dove ti eri cacciato. Bel lavoro. E adesso che ci farai?

– Non lo so.

– Beh, le candele sai farle, una casa ce l'hai. Potresti trasferirti qui. Ci hai mai pensato?

– Un conto è sognare e un altro è progettare con i piedi per terra.

– Che sciocchezze. Io ho i piedi ben piantati per terra eppure vivo qui.

– Hai ragione. Ma per me sarebbe un salto nel buio.

– Non c'è niente di complicato. Puoi rilevare la licenza di Aristide e aggiungerne qualcuna per vendere anche altre sciocchezze, come souvenir per i turisti. Quelli, d'estate, si comprano qualsiasi cosa, purché abbia l'aspetto giusto e dia l'impressione di essere stata prodotta qui. Potresti metterti d'accordo con Sergio, che fa le ceramiche per hobby, o con Paolo, che passa l'inverno a intagliare il legno. Si potrebbe far diventare questo posto una specie di mostra dell'artigianato locale.

– Sei pieno d'idee, Fausto. E tu che cosa mi porteresti?

– Miele, funghi secchi, mazzetti di bacche, qualcosa mi verrà in mente.

– Non conosco le leggi che regolano questo genere di commercio. Sicuro che non finiremmo nei guai?

– Non lo so. Possiamo chiedere.

– Ma i turisti vengono per un paio di mesi l'anno. E per il resto di che cosa vivrei?

– Da mangiare qui si trova sempre, non preoccuparti.

– Beh, se permetti ci vorrei riflettere sopra. Vieni a pranzo da me?

Quella mattina mi ero procurato della toma locale. E Maria aveva fatto il pane, portandomi in dono due belle pagnotte scure. Il vino non mancava. Aristide non beveva molto, ma ne teneva sempre una bella scorta, che avevo ritrovato nella cantina, insieme ad alcuni salami appesi a una trave.

Fausto mangiò di gusto, affettando pane, salame e toma, alternativamente. Poi, si guardò intorno in cerca di qualcosa.

– Hai della frutta?

– No, mi dispiace. Le tue pere le ho finite ieri sera.

– Te ne porterò altre. Come ti trovi qui?

– Bene. Ho sempre l'impressione che Aristide possa sbucare fuori da un momento all'altro, ma ne sono quasi contento. Sento che lui lo sarebbe, di vedermi qui. E Orso dove l'hai lasciato?

– È davanti a casa. Fa la guardia.

– Si sono più visti gli stranieri?

– Non ne sono sicuro, ma c'è qualcuno che gira per il bosco intorno a casa mia. Ne vedo le tracce, ne sono quasi sicuro.

– Potrebbero essere semplicemente in cerca di funghi.

– No, li raccoglierebbero. E invece quelli che lascio di proposito, li ritrovo là.   

– Magari sono in cerca di erbe o di bacche. Questo è il periodo giusto per raccoglierne alcune, mi diceva Maria.

– Può darsi, spero che sia così. Adesso devo andare. Ho ancora alcune cose da sistemare, prima che faccia buio.

– Ti accompagno?

– Se non hai proprio nulla da fare.

– Ti ricordo che sono in vacanza.

– Giusto. In vacanza.

Ancora una volta mi sembrò che non fosse per nulla entusiasta della mia compagnia. Ero quasi tentato di trovare una scusa. Ma poi pensai che in fondo era stato lui a venirmi a cercare, quindi lasciai perdere. Presi lo zainetto, che tenevo sempre pronto, e me lo misi in spalla.

Una volta arrivati in vista della sua casa, Orso ci venne incontro al galoppo. Andò subito da Fausto, sollevandosi sulle zampe posteriori e gettandogli quelle anteriori sulle spalle, come volesse abbracciarlo. Dopo essersi fatto coccolare per qualche istante, lo lasciò per venire da me. Mi appoggiò le zampe sulle cosce e si lasciò grattare dietro le orecchie. Quindi ci precedette, un po' al galoppo, un po' tornando indietro, saltando contento e libero sulla radura.

– Avete proprio fatto amicizia – commentò Fausto.

– Meno male. Gli inizi non mi erano sembrati promettenti.

– Forse te lo saresti meritato, che quel giorno ti azzannasse un polpaccio.

– Che dici? Perché?

– Insomma, secondo te il tuo comportamento è stato giusto? Sparire nel nulla senza salutarmi, non essere presente al funerale di Aristide, non farti più sentire, secondo te è stato un modo corretto di comportarti, sia nei miei confronti che nei suoi?

Io mi fermai. Anche lui, dopo due passi si fermò, voltandosi verso di me, guardandomi dritto negli occhi.

– No, hai ragione. A mia discolpa posso solo dire che ho sofferto molto. Gli volevo bene. Non ho avuto la forza di restare. I funerali non fanno per me. Dopo quello di mia madre ho giurato che non ne avrei seguiti altri.

– E non hai pensato nemmeno per un attimo di avvertirmi? La nostra amicizia conta così poco per te?

– No, conta moltissimo.

– Per questo hai aspettato che ti rintracciassi io. Certo, adesso è tutto chiaro.

Mi voltò le spalle e ricominciò a dirigersi verso casa.

– Aspetta. Ti chiedo scusa.

– E queste scuse a che servono?

– Tu sei molto importante per me.

– Sì, me l'hai dimostrato. Non c'è bisogno che tu aggiunga altro.

Intanto eravamo arrivati alla porta. Fausto aprì con le chiavi, fece entrare Orso, poi entrò in casa. Io lo seguii. Mi sentivo morire. Avevo combinato un bel casino. Mi ero comportato come uno stronzo e non avevo scuse. Qualunque cosa avessi detto, mi sarei dato la zappa sui piedi ancora di più.

Fausto si chinò sul camino. Spazzolò un po' di cenere, ritrovò le braci e ci mise sopra dei bastoncini secchi. Alla fiammata, aggiunse un paio di piccoli ciocchi, con gesti veloci, precisi, che tradivano il suo nervosismo.

Mi resi conto che la nostra amicizia si era guastata per colpa mia. Che ormai della nostra bella complicità non restava più niente. L'avevo già perso. Tanto valeva dirgli la verità, farmi cacciare via a calci nel sedere. Non avevo più nulla da perdere.

– Fausto, ero confuso. Ero...

– Lascia perdere. Sono io che pretendo sempre troppo dagli altri. Tu sei un buon amico, non roviniamo tutto solo perché ho questo carattere di merda.

– No, sono io che mi sono comportato da perfetto imbecille e da stronzo. Continuavo a sentirmi in colpa, ma pensavo fosse meglio non rivederti più, perché starti vicino senza poterti...

Fausto finalmente smise di rovistare nel fuoco. Si alzò in piedi e si voltò verso di me guardandomi stupito.

– Senza...? – mi domandò, perché proseguissi.

Ecco, dovevo fare tutto io. Dovevo saltare lo steccato e sicuramente beccarmi un pugno in faccia. Ma il tempo per farmi passare i lividi l'avevo. Potevo farcela. Solo che le parole non mi venivano più. Così, affrontando il mio destino, lasciai da parte le parole e passai ai fatti.

– Senza...

Lo raggiunsi e lo baciai. Fausto rispose con una passione che non mi sarei mai aspettato. Per me fu quello il momento della rivelazione. Passione, sollievo, gioia, conforto. C'era questo e molto altro nei suoi baci e nell'abbraccio forte in cui m'imprigionò. Per interi minuti mi sembrò di essere in un sogno che non avevo osato sognare, troppo bello per essere vero.

– Gianluca, Gianluca, quanto mi hai fatto soffrire. Possibile che non l'avessi capito?

– No, temevo che se ti avessi confessato che mi ero innamorato di te dal primo momento che ti avevo visto, mi avresti preso a pugni.

– E invece io ti sentivo sempre così distante, come se fossi sempre sul punto di sparire, come poi hai fatto.

Ricominciò a baciarmi, come dovesse prendersi una rivincita sul tempo che avevamo sprecato. Cominciò a sbottonarmi la camicia di flanella, ma senza fretta. Aveva rallentato. Dal suo sguardo era svanita la tristezza che vi avevo letto sin dal mio ritorno. Quella tristezza dunque la doveva a me. Ero stato capace d'infliggergliela, senza rendermene conto. Eppure quella era l'ultima cosa che avrei voluto.

Orso iniziò ad abbaiare. Lo guardammo. Era dietro la porta e abbaiava verso l'esterno, come se fuori ci fosse qualcuno. Dopo un primo momento di indecisione, Fausto si ricompose, afferrò il giaccone che aveva appeso a un gancio e aprì la porta. Orso si slanciò fuori.

– Ehi, richiama il tuo cane!

La voce maschile e profonda arrivava dal buio, che era calato d'improvviso.

– Orso, stai buono.

Il cane smise di abbaiare, ma non tornò indietro.

– Chi siete?

Due sagome si avvicinarono alla casa, diventando distinguibili alla luminosità che emanava dalla porta aperta. Da quella stessa porta entrava adesso un gran freddo. Indossai anch'io il mio giaccone.

– Lavoriamo per Cinecittà. Stiamo cercando una location per un film. Questa zona ci sembra molto adatta. E anche questa casa. Ne possiamo parlare? È tua?

– Sì, è mia. Di che cosa volete parlare?

– Ci fai entrare? Fa piuttosto freddo qua fuori.

In effetti la temperatura era scesa più del solito, quel pomeriggio, e li capivo.

Fausto si voltò verso di me, quasi a chiedermi il consenso. Io gli risposi con un sorriso disarmato.

– Venite – disse Fausto, tornando a voltarsi verso di loro.

Orso entrò per primo, andandosi a sistemare vicino al camino, con un'espressione per nulla canina. Sembrava voler affermare che quel territorio era suo e che se quegli intrusi avevano freddo, dovevano accontentarsi del calore dell'ambiente. Peccato che con la porta aperta  si fosse disperso del tutto. Rimanemmo tutti con i giacconi addosso. Ma oltre al giaccone, io avevo addosso anche un'emozione che non voleva spegnersi tanto facilmente. Ci avevano interrotto proprio sul più bello. Fremevo. Non vedevo l'ora che si sbrigassero e se ne andassero.

– Che bel terranova! – disse la donna.

Poi i due strani ospiti si guardarono intorno con tutta calma, annuendo. E l'altro commentò:

– Sì, è perfetta. Certo dovremmo fare qualche piccola miglioria, ma niente di irreversibile, non ti preoccupare.

Fausto sfoggiò quel suo sorriso ironico che gli veniva così bene.

– Io non mi preoccupo affatto. Come dicevo, questa è casa mia, e prima che voi possiate anche solo immaginare di poterci mettere le mani, voglio sapere tutto per filo e per segno. Quindi, sentiamo. Vi ascolto.

Distratto da ben altri pensieri, ascoltavo da un orecchio, mentre mi gustavo ogni espressione, ogni gesto, ogni movimento di Fausto. Ma qualcosa, comunque, arrivò anche al mio cervello in disarmo. Le riprese sarebbero durate un mese, ma era essenziale che ci fosse la neve. Se non avesse nevicato, ci avrebbero pensato loro, innevando il set artificialmente. I mobili non erano abbastanza rustici per i loro gusti, quindi Fausto avrebbe dovuto trasferirli altrove, ma il trasloco sarebbe stato a carico loro. Il colore delle pareti non andava bene, l'avrebbero camuffato con una copertura di finte pareti in pietra. Insomma, alla fine non avrebbero lasciato nulla com'era. Allora perché avevano detto che era perfetta per il film? Sembrava quasi che l'unica soluzione fosse demolirla, per costruirne poi un'altra a immagine della location che gli serviva per le riprese. La lavorazione sarebbe iniziata in dicembre, un periodo morto per Fausto. Questo evidentemente avrebbe potuto invogliarlo ad accettare il congruo compenso. Anche se Fausto non aveva ancora risposto nulla, a quel punto gli consigliai sottovoce di farsi pagare in anticipo. Loro mi sentirono, benché avessi parlato a bassa voce, e accettarono. Dissero di avere carta bianca fino a un certo limite, ma quel limite non era stato superato. Gli sarebbe servito però altro spazio. Dovevano allargare la radura, abbattendo qualche fila di alberi.

Fu allora che Fausto li cacciò fuori di casa, consigliando a entrambi di non farsi più vedere da quelle parti. Orso li accompagnò alla porta, abbaiandogli dietro.

Una volta richiusa la porta, Fausto si tolse il giaccone, poi si avvicinò a me.

– Dove eravamo rimasti?

Eravamo rimasti che mi stava sbottonando la camicia, ma mi scocciava parecchio ricominciare da lì, quindi mi spogliai da solo, in tutta fretta e Fausto, evidentemente anche lui deciso a non perdere altro tempo, m'imitò. Solo dopo esserci spogliati completamente, senza badare al freddo, tornammo l'uno nelle braccia dell'altro. Da quel momento non pensai più a niente. Rimase attiva solo quella parte del cervello collegata con le sensazioni. Il suo calore, le mani ruvide che mi accarezzavano, le sue labbra umide, il vortice di piacere che partiva da ogni dove per andarsi a concentrare in un solo punto. Stavo per scoppiare. Fausto si staccò da me appena in tempo.

– A me piace stare comodo. Andiamo di là.

Come avrei potuto oppormi? Mi portò nella sua camera da letto, dove non ero mai entrato. Il letto era a una piazza. A ben vedere, c'era poco da stare comodi. Non che m'importasse granché. In quel momento mi sarebbe andato bene pure il pavimento. Ma in orizzontale devo ammettere che ci si poteva sbizzarrire di più.  O meglio, mi sarei sbizzarrito di più, se non fossi stato già al limite. Fausto non fece in tempo ad assaggiare il mio svettante invito, che quel traditore esplose come una bottiglia di spumante a capodanno.

– Sei di fretta? – mi chiese Fausto, un po' ridendo e un po' prendendomi in giro.

Lui se la prese comoda, ma io mi ripresi presto per un secondo giro e poi per un terzo, e quella notte non tornai a casa.

 

Da quel momento, le vacanze che mi sembravano tanto lunghe svanirono come in un sogno. Mi ritrovai in un attimo a dover salutare Fausto, con un misto di ansia, angoscia e irritazione. Lui non mi disse niente di speciale. Solo – Torna presto.

Ricominciai a passare tutti i fine settimana al borgo e a Natale mi presi un'altra settimana di ferie. Fu un Natale memorabile. Fummo seppelliti dalla neve il 23 di dicembre e rimanemmo isolati per quattro giorni, che passammo quasi per intero nudi, vicino al caminetto. Poi, con gran fatica, dovetti raggiungere il borgo, la mia macchina, spalare la neve e infine, mio malgrado, tornare in città.

Ma non potevo più stare lontano da Fausto. Lo chiamavo almeno due volte al giorno e se capitava che lui non mi rispondesse, andavo in depressione. Ben presto arrivai a desiderare una vita diversa, una vita accanto a lui. Fu quando decisi davvero che non avevo altra scelta, che mi presi un giorno di ferie, per andare a dirglielo di persona. Era il primo mercoledì di maggio. Mi alzai prima dell'alba, per poter passare tutta la giornata con lui. Arrivai prestissimo. A quell'ora immaginai che stesse ancora facendo colazione. Le sue colazioni erano ben diverse dalla mia. Lui mangiava di tutto, senza fretta, e se saltava il pranzo non era poi così importante. Quando entrai in casa, in silenzio, Orso mi venne incontro scodinzolando, ma non emise nemmeno un guaito. Fausto non era in cucina. Forse l'avevo mancato, se n'era già andato per boschi. Ma perché non si era portato dietro il cane, come faceva sempre? Poi mi venne il dubbio che Fausto fosse ancora a dormire. Possibile? Così andai ad aprire la porta della sua camera da letto, anche se non ero convinto di trovarlo lì. Purtroppo invece c'era, dormiva intrecciato gambe e braccia a un altro.

Una volta avevo letto da qualche parte la storia di un tizio che raccontava un'esperienza fuori dal corpo. Mi sentii un po' così. Ero lì, davanti a quello spettacolo assurdo, i miei occhi lo vedevano, il sangue mi ribolliva, il cervello mi andava in fiamme, ma era come se tutto ciò stesse accadendo a qualcun altro. Io non c'ero. Tornato sui miei passi, me ne andai da quella casa, senza neppure chiudere la porta. Orso mi seguì, tenendosi sempre accanto a me, ma io non gli badai per nulla. Ero tutto concentrato sul silenzio assoluto della mia mente, sulla strana impossibilità di ricollegare il cervello, sugli unici obiettivi che mi sembrava di avere: muovere le gambe, respirare, scendere il sentiero, sempre dritto fino alla macchina, senza fermarmi. Ricordo che Orso mi guardò scodinzolando mentre salivo in auto, come se volesse salutarmi. Io tornai a casa guidando come un automa. Sentivo le braccia e le gambe rigide, io stesso mi sentivo un pezzo di legno. E la prima cosa che mi venne in mente, appena entrato, fu di buttarmi sotto la doccia. Lasciandomi scorrere l'acqua addosso, tentai di rilassarmi; e quando finalmente ci riuscii, giunse il contraccolpo. Fui investito dalla disperazione, lanciai un urlo, battei i pugni contro le piastrelle, finché il dolore alle mani fu così forte da superare quello che mi era esploso dentro, all'improvviso. Scivolai a sedere, piangendo e lamentandomi come un bambino. Fausto, accidenti a te.

Non era la prima volta che qualcuno mi tradiva. Non dico che fosse proprio un'abitudine, ma quasi. Quella volta però ne rimasi sconvolto, perché ci credevo. Avevo creduto vera ogni parola che Fausto mi aveva detto, avevo davvero sentito il suo amore ogni volta che mi aveva detto di amarmi. Questa era la differenza. Per una volta che mi ero lasciato convincere, non trovavo giusto che si fosse risolto tutto nel solito squallido modo. Il grande amore, l'unico amore della sua vita, diceva. Che bugiardo! Mi dispiaceva anche non poterne parlare con nessuno. Avrei potuto farlo soltanto con Aristide, che però non c'era più. Aristide, lui sì, che mi aveva voluto bene davvero. Mi aveva lasciato la sua casa, la bottega, e quella busta che avevo messo nel cassetto, senza neanche aprire. Non so perché, ma sentivo di non meritare tanto e me l'ero lasciata da parte, per aprirla in un momento in cui lui avrebbe potuto sentirsi orgoglioso di me. Quello non era certo un simile momento, ma fu ugualmente in quel frangente che decisi di riprenderla in mano. Il suo gruzzoletto. Aristide l'aveva messo in una busta gialla, imbottita, sigillata con un nastro adesivo da pacchi. Dovetti aprirla con le forbici. Dentro c'erano un po' di soldi e una busta più piccola, bianca. Aprii anche quella. Era indirizzata a me.

Mio caro Gianluca, voglio che tu sappia quanto sei importante per me. Sei entrato nella mia vita di vecchio malato di solitudine, nel momento in cui mi sembrava di non valere più niente per nessuno. E questo è stato un miracolo. Sento che i miei giorni sono contati, anche se sembro in buona salute. Queste cose si sentono, quando si arriva alla mia età. Perciò ho predisposto tutto perché tu possa ereditare ciò che ho. Sei libero di farne tutto quello che vuoi.

C'è poi un'altra cosa che vorrei dirti, ma non so se lo farò, quindi te la scrivo qui, anche se magari quando leggerai queste righe, te l'avrò già detto faccia a faccia, nonostante l'imbarazzo che mi crea. Abbi pazienza con questo vecchio matto. Ecco di che cosa si tratta. Spero che tu non mi fraintenda. Ho notato che tra te e Fausto è nata una bella amicizia. Da come vi guardate credo però che si tratti di qualcosa di più. Non sono affari miei. Io non ho niente contro queste cose. Penso che tutti gli amori abbiano un loro perché. Ma su Fausto, per favore, non ci contare troppo. Lui è un buon amico, ma la sua vita affettiva lascia molto a desiderare. Come potrei definirlo? Incostante. Sì, è la parola giusta. Dal suo letto sono passati in tanti e ti sto parlando solo di quelli che ho conosciuto. Se vuoi passarci anche tu, naturalmente sei libero di farlo, ma sii consapevole che sarà una breve storia. Tu, ne sono sicuro, meriti di meglio. E adesso, posso andarmene in pace.

Ti voglio bene. Aristide.

L'avessi letta prima! Perché non l'avevo fatto? Quando le cose si devono mettere in un certo modo, non c'è verso di sfuggirle. Ormai era andata com'era andata. Avevo dovuto scoprire l'incostanza di Fausto andandoci a sbattere il muso e non ci potevo fare niente. Come m'era già capitato nelle altre occasioni, me ne sarei fatto una ragione, avrei raccolto i miei pezzi e li avrei rimessi insieme. Mi ci voleva un po' di convalescenza, ma sarei guarito. Guarivo sempre. In fondo non era molto diverso dalle volte precedenti, se non per il fatto che per lui stavo quasi per mandare a gambe all'aria la mia vita e per fortuna non l'avevo fatto, ma c'era mancato poco.

Nei giorni seguenti, non chiamai Fausto e lui non mi chiamò. Nel fine settimana che seguì, non andai al borgo. Fausto mantenne il suo silenzio come io il mio, ma del resto, mi resi conto, ero stato sempre io a chiamarlo, in tutti quei mesi.

Solo il mercoledì arrivò una sua telefonata. Ero preparato. Senza preamboli, mi domandò:

– Perché non vieni più al borgo?

– Ho visto che hai trovato un sostituto. Cosa vengo a fare?

– Ah, eri tu... – breve silenzio – Potevi almeno chiudere la porta. Orso è scappato.

– Ritrova sempre la strada di casa, non ti preoccupare.

– Invece no. Non si è più visto.

– Vai in un canile e prenditi il primo che ti piace. Un cane vale l'altro, no? Come un uomo vale l'altro. Che differenza fa?

– Orso è un cane speciale. E tu sei un uomo speciale, Gianluca. Con quello mi ci sono trovato per caso, è stato solo per ingannare l'attesa. Ma è te che voglio.

– Quello che vuoi tu ha smesso d'interessarmi qualche giorno fa. Ti saluto.

Riattaccai senza aspettare la sua risposta. Ero riuscito a mantenere un certo contegno, ero riuscito a parlare con calma, ma dentro mi sentivo come uno straccio centrifugato in una lavatrice a mille giri.

Il giorno seguente trovai Orso a guardia della mia macchina. Non ci potevo credere. Come aveva fatto a trovarmi? Che razza di fiuto aveva, quel cane? Aveva ragione Fausto, dopo tutto. Orso era davvero un cane speciale. Come mi vide, mi fece mille feste e io lo coccolai con entusiasmo. Ma perché mi aveva seguito? Tra Fausto e me, aveva scelto me? Pensando che questa potesse essere la ragione della sua presenza, ero incredibilmente orgoglioso e felice.

Ma dopo il primo entusiasmo, dovetti fare i conti con la realtà. Orso era un cane enorme, abituato agli spazi aperti, mangiava due volte al giorno, e anche parecchio, beveva come un cammello e sbavava ovunque. Era un cane perfetto per Fausto, ma non altrettanto per me. Non potevo tenerlo rinchiuso tutto il giorno dentro il mio miniappartamento. Inoltre io restavo fuori casa per dodici ore al giorno. La nostra convivenza sarebbe stata impossibile.

Fu con immenso dispiacere che glielo dissi. Orso, credo, comprese perfettamente di che cosa gli stessi parlando. Il suo sguardo dolce divenne triste, ma guardandosi intorno nel ristretto spazio del mio monolocale, probabilmente si rese conto da solo che non era un posto per lui. Era molto intelligente.

Bene o male, ci adattammo a quella convivenza fino al venerdì pomeriggio, quando, prendendomi un permesso, uscii dall'ufficio un paio d'ore in anticipo, lo ficcai in macchina, con non poca difficoltà, e lo riportai al borgo.

Devo dire che Orso mi ringraziò, lavandomi la faccia un paio di volte, mentre attraversavamo la radura. Quando abbaiò, forse per annunciarsi a Fausto, questi si precipitò fuori dalla sua casetta per corrergli incontro. Si abbracciarono a metà strada come due amanti che si erano persi.

– Grazie, Gianluca! Ma dove l'hai trovato?

– Sotto casa mia.

– Ma che dici? Ti è venuto a trovare in città?

– Esatto. E guarda, te l'ho riportato solo perché io non posso proprio tenerlo, altrimenti non lo rivedevi più.

– Mi siete mancati tanto, tutti e due. Vieni dentro, mangiamo qualcosa.

– No, io torno a casa.

– Non fare il sostenuto. Lo so che non hai niente da fare in città, fino a lunedì. Perciò, resta qui.

Io non volevo, ma alla fine, più che Fausto, mi convinse lo sguardo dolce di Orso, che era quasi una preghiera. A quel cane mancava davvero solo la parola. E a me dispiaceva sinceramente separarmene.

Restai al borgo per il fine settimana. Con Fausto fui antipatico e strafottente. Fossi stato al posto suo, mi sarei preso a pugni. Ma lui sopportò tutto senza fare una piega. Ogni tanto mi beccavo un'occhiata adorante, che mi dava la nausea. Come poteva guardarmi in quel modo e poi scopare col primo che passava? Mi spiegò che di quelle frequentazioni senza impegno ne aveva diverse. Gente che arrivava da lui senza avvisare, come se non avesse altro da fare nella vita. Ma, a quanto pare, lui non ci trovava niente di strano e sicuramente non gli dispiaceva. Dopo, non si fermavano mai. Era raro che qualcuno dormisse lì, come era accaduto il giorno che l'avevo beccato. Io dovevo capire che erano rapporti senza alcuna conseguenza. Dovevo capire che per lui non contavano niente. Infine, dovevo capire che il suo unico amore ero io.

E io lo compresi perfettamente, e in fondo perché non continuare a vederlo? Certo non ci avrei più messo il cuore, e non per una scelta cosciente, ma perché quello se n'era andato non so dove. Quando stavo vicino a Fausto, non mi batteva più all'impazzata come prima. Se ne stava buono buono, rincantucciato al suo posto. E quando Fausto diceva d'amarmi non me ne fregava niente. Ma Fausto mi era piaciuto dal primo momento che l'avevo visto, e non aveva smesso di piacermi, anzi, ne ero attratto come non mai. Quindi, perché fare tante storie?  In fondo, non era cambiato niente, tranne il modo di vedere la situazione. Avevo solo cambiato il mio punto di vista. Tutto qua.

La domenica pomeriggio lo salutai per tornarmene a casa. Salutai anche Orso, ma lui non apprezzò molto la cosa. Mentre Fausto restava sulla soglia, per vedermi imboccare il sentiero oltre la radura, Orso si mise a fare come un pazzo, correndo un po' da me, un po' da lui. Più mi allontanavo verso il sentiero, più Orso si agitava in preda a una sorta di frenesia disperata. A un certo punto arrivò ad afferrarmi la giacca con i denti robusti e a trascinarmi indietro. Fausto lo richiamò. Orso mollò la presa, a malincuore, tornando da lui, ma mentre ero a metà del sentiero mi raggiunse ancora. Io lo cacciai e lui mi guardò con un chiaro rimprovero stampato nello sguardo.

– Orso, ti prego, lo sai che non posso tenerti rinchiuso in quella scatola da scarpe che è il mio appartamento. Resta qui con Fausto, ti prego. Hai i prati dove correre, le farfalle da inseguire, le buche da scavare. Non lo puoi fare con me. Io ti verrò a trovare. Te lo prometto.

Non sono sicuro se mi capì, però mi slinguò una mano e poi si allontanò rassegnato, senza fretta, voltandosi a guardarmi solo una volta.

 

Quella scena patetica si ripeté ogni fine settimana che passavo al borgo. Ogni volta che arrivavo, il suo slancio affettuoso rischiava di farmi volare a gambe all'aria; e ogni volta che partivo, impazziva, letteralmente. Non voleva che me andassi. Un giorno Fausto mi disse che Orso era diventato geloso del nostro rapporto.

– In che senso?

Era un momento di totale relax, ai primi di luglio. Me ne stavo sdraiato sul prato a prendere il sole, senza un solo pensiero in testa.

– È soddisfatto solo quando siamo insieme, ma se vede qualcun altro entrare in casa, gli abbaia come un forsennato. Mette in fuga tutti.

Mi venne da ridere. Pensai di avere un buon alleato in Orso. Ero d'accordo con lui. Faceva bene, avrebbe dovuto azzannarli tutti.

– Legalo di fuori.

– Non lo farei mai.

Lo sapevo benissimo.

– Allora compragli una museruola.

– Odio quella roba.

Non facevo fatica a immaginarlo.

– Allora trovatela tu una soluzione – gli dissi, insofferente.

Io non avevo più toccato l'argomento dei suoi altri uomini e se lo faceva Fausto, mi mettevo a giocare col cane, smettendo di ascoltarlo. Erano affari suoi. Non m'interessava. Orso non era il mio cane, come Fausto non era il mio uomo. Con entrambi avevo un ottimo rapporto, che però non era esclusivo. Fausto era uno con cui stavo bene quando ci stavo, ma finiva tutto lì. Qualche volta era capitato che restassi in città per il fine settimana, ma mi guardavo bene dall'avvertirlo. Mi ritenevo libero, come e più di lui. E mi sembrava che il messaggio fosse arrivato forte e chiaro.

– Perché non ti trasferisci qui?

Di nuovo? Basta con questa solfa!

– Tu non ti arrendi mai, vero? Questo borgo è magnifico per i fine settimana, forse perfino per le vacanze, ma viverci, no grazie.

– Almeno fermati a dormire qui.

Quella era una cosa che non facevo più. Da quando l'avevo beccato con quel tizio, me ne andavo a dormire a casa di Aristide, come la chiamavo ancora.

– No, Fausto. Ho le mie abitudini. E tu, del resto, hai le tue.

– Non sarà mai più come prima, vero?

– Non ti piace così?

– No, Gianluca. Così non mi piace. Mi fa stare male.

– Non posso farci niente. Non sono io che l'ho voluto. È successo, pace e amen. Però ti devo proprio ringraziare. Mi hai fornito un grande insegnamento di libertà, mi hai aperto nuovi orizzonti, mi hai sfrondato la mente da tante stupide illusioni. Hai fatto tana libera tutti.

– Ma io non stavo giocando a nascondino.

– Ne sei proprio sicuro?

– Pensavo che sapessi tutto di me. Ero convinto che Aristide ti avesse raccontato ogni cosa.

– Se vuoi proprio saperlo, Aristide mi ha accennato qualcosa per iscritto, ma io quella lettera l'ho letta troppo tardi. E comunque non fa nessuna differenza. Tu sei come sei e io sono come sono. Ti ho mai chiesto di cambiare? Di essere diverso da quello che sei? Vuoi chiederlo tu a me? Che cosa vuoi, esattamente?

– Voglio che tu stia con me.

– E non sono qui? Non mi vedi?

– C'è qui solo una parte di te. Vorrei che ci fosse anche il resto.

– C'è tutto quello che c'è. Non ti basta?

– Gianluca, non so come dirtelo, sei diventato come tutti gli altri.

– Sono diventato come mi hai reso tu.

Fausto non replicò. Io chiusi gli occhi. Mi beai del calore del sole sulla pelle. Mi dimenticai della sua presenza. Non mi resi conto che se n'era andato. Mi addormentai. Poi venne Orso a lavarmi la faccia e schizzai a sedere, mezzo intontito. Rientrai in casa e vidi che Fausto non c'era. Così me ne tornai al borgo, chiedendomi se per caso non stessi esagerando. Forse stavo tirando troppo la corda. Fausto mi piaceva da morire. Dovevo ammetterlo. Ma che cosa voleva da me? Non lo capivo più. Voleva me e voleva tutti gli altri che andavano a trovarlo. Mi stava bene. Ma non poteva pretendere che tornasse tutto come prima. Come diceva quel proverbio? Voleva la botte piena e la moglie ubriaca. Pessimo esempio, da adattare a Fausto. Bisognava modificarlo un poco. Voleva la botte piena e i suoi uomini ubriachi.

 

Dopo qualche giorno mi giunse una nuova telefonata di Fausto.

– Orso è lì da te?

– No. È scappato di nuovo?

– Non lo vedo da domenica sera. Forse ti ha seguito un'altra volta.

– In tal caso rimanderò la partenza.

– Stavi per tornare qui?

– No, stavo per andare in Portogallo. Oceano, motoscafi d'altura, pesca grossa, baccalà cucinato in mille modi diversi. Ferie, insomma.

– Mi dispiace. Se vuoi vengo là io ad aspettarlo. Magari posso anche cercarlo lungo la strada.

– Non sarebbe una cattiva idea. Ti aspetto, allora?

– Va bene. Dimmi dove stai.

Che Fausto potesse venire in città era un'idea che non mi aveva mai sfiorato. Per me, lui era identificato con il territorio. Sradicandolo da quel borgo, sarebbe stato come un leone della savana dietro le sbarre di uno zoo di città. Avrebbe perduto tutto il suo fascino. Così la pensavo allora. Ma quando si presentò, con una polo rossa sopra un paio di jeans consumati ad arte, mi resi conto che poteva adattarsi benissimo a qualunque luogo. Ero io che ero bacato nella testa.

– Capisco che tu non possa ospitarlo in casa tua – commentò, guardandosi intorno nel monolocale che sembrava ancora più piccolo grazie alla sua semplice presenza.

– Sarebbe come tenerlo in gabbia.

– Allora, quando hai deciso di partire?

– Domani mattina. Ho il volo alle nove. Ti lascio le doppie chiavi. Puoi restare quanto vuoi. Il frigo è pieno, puoi sopravvivere per una settimana senza fare la spesa. Io ritorno a fine mese.

– Spero che Orso si faccia vivo prima di allora. Ho chiesto a Sergio di stare a casa mia e di avvertirmi se il cane ritorna lì.

– Hai pensato che magari potrebbe essere tornato dal suo padrone precedente?

– Sì, potrebbe. Ma perché allora avrebbe fatto la fatica di scappare da lui? Se ci si fosse trovato bene, ci sarebbe rimasto, no?

– Hai ragione.

– Ti va di fare un giro?

– Sei già stufo di restare chiuso qui dentro, eh?

– Non so come fai a vivere qui. Mi manca l'aria.

– Ti capisco. Usciamo.

Ce ne andammo a zonzo per le strade ancora affollate, nonostante il caldo appiccicoso. Fausto gettava un'occhiata distratta alle vetrine, mostrava interesse per gli edifici più vecchi, osservava le fontane, i ponti, ogni tanto sollevava lo sguardo verso i quadretti di cielo che le cime dei palazzi lasciavano intravedere.

– C'è puzza di asfalto sciolto e di scappamenti delle auto – commentò a un certo punto.

– E l'aria sembra solida, lo so. Stai pensando come faccia a preferire di vivere qui, invece che trasferirmi al borgo.

– No, non me lo chiedo. Basta guardarsi intorno e fare un semplice paragone. Al borgo non c'è niente di tutto questo. Solo alberi, quattro case arroccate, poche decine di persone poco interessanti. Solo chi è nato al borgo può preferire il borgo, perché non conosce tutto questo.

Non riuscivo a capire se dicesse sul serio o la sua fosse tutta ironia. Io non commentai. In ogni caso, non ero d'accordo. Al borgo si viveva senz'altro meglio. E d'altra parte, il momento della scelta io l'avevo vissuto. Ero deciso a trasferirmi, solo che Fausto non lo sapeva, perché quando ero andato da lui per dirglielo, l'avevo trovato in compagnia. E senza di lui, che ragioni avrei avuto per viverci?

Cercai un buon ristorante, che non mi facesse fare brutta figura, come se dalla mia decisione dipendesse il buon nome della città. Dovevo difenderla davanti ai suoi occhi. Ma il cibo non poteva essere buono come quello cui era abituato. Inevitabilmente ne rimase deluso. Potevo leggerglielo in faccia, anche se lui non fiatò. Sembrava deciso a trovare qualcosa di positivo in ogni esperienza fatta con me, in quell'ambiente estraneo. Ma io vedevo i limiti di quello che poteva offrirgli la città e capivo che non poteva essere all'altezza.

Più tardi, tornati in casa, preparai il mio divano-letto, che era a due piazze. Ci saremmo stati comodi.

– Adesso capisco perché ti rifiuti di dormire da me – disse Fausto.

– Dovresti attrezzare il tuo letto con le cinture di sicurezza. Si rischia ogni momento di cadere sul pavimento.

– È una proposta interessante. Le cinture potrebbero servire anche ad altri scopi.

– Sei sempre pieno d'idee, Fausto.

Ci mettemmo a ridere. Ma quella notte, all'interno dei nostri giochi, s'inserirono afrodisiache fantasie che non avevo mai avuto. Prima di addormentarci Fausto mi disse, come faceva sempre, di amarmi veramente.

 

Ci ripensai durante il volo. Fausto non aveva mai smesso di dirmelo e io d'ignorarlo. Una parte di me si rifiutava categoricamente di crederci, mentre un'altra aspirava disperatamente a farlo. Mi sarei mai liberato di quella contraddizione? E anche se non l'avessi fatto, che cosa m'impediva di andare a vivere al borgo? Ecco, inorridivo a quell'idea. Il mio assillo era quello di poter incontrare, per caso, quegli altri; quelli che lui accoglieva sporadicamente tra le sue braccia, nel suo letto, quelli con cui lo dividevo. Eppure avrebbe potuto accadere in qualunque momento, nei fine settimana che passavo al borgo. Certo, fino ad allora, non era mai successo. Ma era solo un caso. Come avrei reagito trovandomene uno di fronte? Probabilmente gli avrei aizzato contro Orso. Già, Orso, che fine aveva fatto? Dov'era sparito? Perché se n'era andato? E io che ci facevo su quell'aereo, invece di essere in giro a cercarlo? Ma che diritti avevo su di lui? Orso era libero. Bene, anche Fausto era libero. E anch'io.

 

Mi lasciai assorbire dall'immensità dell'oceano, dai lunghi pontili in tavole di legno che si slanciavano alla conquista delle onde lungo le infinite distese di sabbia. Mi lasciai conquistare dai pentolini di coccio in cui mi servivano il baccalà affogato in gustosi sughi casalinghi, accompagnati da fette di pane bianco. Mi innamorai delle case di legno, colorate e squillanti, affacciante su strade dritte lungo le quali passeggiavano i gabbiani, ondeggiando goffamente. Il vento sapeva di salsedine. Il tramonto era un breve guizzo di rosso fiammeggiante, che sbatteva sulle nuvole bianche, gonfie e panciute che attraversavano il cielo. Poi, con il buio, calava anche il freddo.

Capitai in una specie di B&B fronte mare. Appena quattro stanze lungo un corridoio bianco, con il parquet consumato. Le altre camere erano occupate da un gruppetto di amici, che si chiamavano solo per soprannome: Veleno, Arpione, Ginger e Gato Nero. Anche a me ne appiopparono uno, Junior, forse perché ero il più giovane e anche inesperto di pesca. Come mi fosse venuto in mente di andare lì per pescare, senza saperne niente, senza averci nemmeno mai provato, resterà un mistero. Le camere del Rei Marinho erano al primo piano; al pianterreno c'era la saletta ristorante. Già dalla prima sera, mi sistemarono al tavolo dei miei vicini, che accolsero la novità con pazienza e comprensione. Era un posto alla buona, dove ci si poteva aspettare di tutto. Durante la cena, mi raccontarono delle loro avventurose battute di pesca, che gli avevano fruttato, nel corso del tempo, prede sorprendenti come un marlin blu di 3 metri e sessantacinque, o una ricciola di quarantacinque chili, oppure una lampuga di diciotto, e poi martello, tigre, wahoo. Pesci di cui non conoscevo nemmeno l'esistenza. Più se ne ricordavano, più ne discutevano trionfanti, tra grandi risate. Di solito andavano a traina con un Rodman 1250, ma adesso erano lì per la pesca da terra. Attrezzatissimi, mi invitarono ad andare con loro, dopo cena. Dicevano che anche così era divertente e c'era il rischio di prendere qualcosa di grosso, da quelle parti.

Arpione mi affidò una lanterna, che avrebbe potuto fare concorrenza a un faro, e un contenitore frigo che avevano stipato di birre gelate. Gli altri trasportavano le canne dentro grossi tubi di metallo che sembravano quelli di ponteggi edili e zaini dal contenuto misterioso. In mezzo a loro sembravo un fuscello. Erano quattro marcantoni con cui non avrei voluto avere niente a che fare durante una rissa. Il rude Ginger aveva una notevole chioma di capelli rossi, leonini, la barba lunga e una galassia di efelidi sparpagliate tra le guance e la fronte bassa. Gato Nero era il più tarchiato dei quattro, nero di nome e di capelli, con una vasta peluria che gli copriva l'intero corpo. Nella mia immaginazione lo collocai come anello di congiunzione tra l'uomo e la scimmia. Era quello che appariva più pericoloso, e invece, come scoprii, era buono come il pane. Non per nulla il suo secondo soprannome era Il Prete. La moglie l'aveva abbandonato un paio d'anni prima, mollandolo con due figli già grandi, dei quali da allora si era completamente disinteressata. Arpione era il più giovane, sui quarant'anni, un bel fisico, pieno di muscoli, ma di quelli che ci si faceva lavorando, non certo frequentando le palestre e imbottendosi di anabolizzanti. Da come compresi quasi subito, lui e Veleno erano compagni, nella vita e nel lavoro. Veleno era quello che mi piaceva di più. Forse perché assomigliava a Fausto. Aveva gli occhi chiari come lui e si muoveva con la stessa scioltezza, con gesti precisi – come dicevo io – a risparmio energetico.

Percorremmo con passi pesanti il chilometrico pontile, parlando poco. Il cielo era di un nero profondo, puntinato dagli acuminati guizzi di luce bianca delle stelle. Dell'oceano si avvertiva la presenza viva, misteriosa, ma non si vedeva. Se mi guardavo alle spalle, vedevo le luci tremolanti dell'illuminazione notturna sul lungomare deserto, le facciate delle case con i colori smarriti, le porte chiuse, le finestre sbarrate, persino le cartacce che volavano in aria a ogni folata di vento.

Quando arrivammo in cima al pontile, ci fu una febbrile attività per qualche minuto, mentre sfilavano le canne dai loro astucci e li armavano con la pratica di una lunga esperienza. Veleno montò le seggiole da regista che aveva tirato fuori dal suo grosso zaino. Per me capovolsero un secchio di plastica, che usai come sgabello. Parlavano sottovoce, ma una volta effettuati i lanci, tutti tacquero, rimanendo in attesa. Ginger si accese una pipa. Arpione si calò un cappello di lana in testa. Io sollevai il cappuccio del giaccone impermeabile. Era estate, ma le regole dell'oceano erano decisamente diverse da quelle del Mediterraneo.

Mi divertii parecchio a vederli all'opera, e una volta fecero provare un lancio anche a me. Ma quella notte non ci furono grosse prede, solo qualche dentice, di piccola taglia. Veleno l'aveva profetizzato. Con quel vento, il mare gonfio e il freddo improvviso, non si poteva pretendere di più. Ma il bello della pesca non è solo la preda, è tutto il contorno. Verso l'una, quando anche l'ultima bottiglia di birra era stata svuotata, tornammo al Rei Marinho. Davanti allo spettacolo notturno del paesino adagiato lungo l'immensità della spiaggia, pensai che a Fausto sarebbe piaciuto. Peccato non fosse venuto con me. Certo, mi ero ben guardato dal chiederglielo. Ma insomma, che cosa volevo? Quella era la domanda fondamentale che non mi ero mai posto, eppure era la più importante. 

Quando Ginger, Gato Nero, Arpione e Veleno mi salutarono, due giorni dopo, rimasi solo al Rei Marinho. Dimenticai la pesca e passai un'intera giornata a passeggiare sulla spiaggia, per chilometri, lo sguardo vagante sulle evoluzioni  delle barche a vela e dei windsurf, continuando a rimuginare nella mente quella domanda, finché non mi resi conto che quello che volevo da Fausto era Fausto. Che altro? Presi il primo aereo di ritorno con una settimana d'anticipo.

 

Fausto era ancora a casa mia, Orso non era riapparso, il frigo era vuoto e Fausto era depresso, forse per la prima volta in vita sua.

– Torniamo al borgo ­– decisi per tutti e due.

– E se Orso viene a cercare te?

– Sarebbe già qui. Non verrà.

Non mi domandò come mai fossi tornato con tanto anticipo. Non mi chiese com'era andata la mia vacanza. Mi disse solo che gli ero mancato. Poi me lo dimostrò. Com'era bello sentire il calore delle sue braccia, com'era eccitante la sua pelle nuda a contatto con la mia.

– Sai di mare – mi disse.

– Di vento e di mare, d'immensità e di nostalgia – completai – Anche tu mi sei mancato. Avrei voluto che fossi con me.

– Davvero?

– Sì, davvero.

– Ne sono felice.

Il giorno dopo tornammo al borgo, ciascuno a bordo della propria auto. Riuscimmo a mantenere la stessa andatura e a tenerci in contatto visivo fino all'arrivo. Anche lì l'aria era molto calda. Sapevo che nella vecchia casa di Aristide si stava freschi, grazie alle mura molto spesse che tenevano fuori il freddo d'inverno e il caldo d'estate.

– Perché non vieni a stare da me? C'è un letto più grande.

– Se vuoi ci vengo a dormire, però adesso andiamo a casa mia. Ho un sacco di cose di cui occuparmi.

Quando arrivammo, Sergio se ne stava beatamente allungato su una sdraio. Non mi ricordavo di lui, ma mi salutò come se fossimo vecchi amici.

– Il cane non si è visto, mi dispiace, Fausto.

– Pazienza. Spero che stia meglio dove si trova adesso.

– Non ci pensare più. Se vuoi un cane, ce ne sono tanti abbandonati nei canili.

Era la stessa cosa che gli avevo detto io, qualche tempo prima, eppure mi urtò. Orso non era un cane come gli altri.

– Tu non puoi capire – gli rispose Fausto.

E io gli diedi manforte.

Poco dopo, Sergio ci salutò, dicendo che aveva da fare. Io e Fausto ci mettemmo comodi e andammo a cogliere verdure nell'orto. Fausto controllò il piccolo canale che inumidiva quel pezzetto di terreno, e salì più in alto a ispezionare le sue api. Mentre ero chinato a osservare una bella melanzana matura, mi arrivò una spinta che mi fece ruzzolare su un fianco e mi ritrovai faccia a faccia con la belva nera.

– Orso! – urlai.

Fausto si precipitò da noi. Per alcuni minuti ci trasformammo in un groviglio di gambe, zampe, braccia e pelo, mentre la nostra gioia di abbracciarci e coccolarci esplodeva. Poi fu la volta dei rimproveri. Orso non parve prendersela più di tanto. E in fondo, dal suo punto di vista, forse aveva ragione.

Fu una bella settimana. Noi eravamo di nuovo affiatati e la presenza di Orso completava degnamente quel quadretto di vita semplice in mezzo alla natura.

Era quello che volevo. Non avevo più dubbi. Avrei mollato la città e mi sarei trasferito al borgo. Lo annunciai a Fausto, una notte, mentre ci rotolavamo nel letto di Aristide. Lui si bloccò, guardandomi dritto negli occhi, con quella capacità di vedermi oltre, di toccarmi nel profondo, che di solito non gli permettevo, distogliendo subito lo sguardo. Mi lasciai invadere fino in fondo, fino a che non mi toccò il cuore, che riprese a battere all'impazzata. Lui sorrise, felice.

– Bentornato, Gianluca.

– Hai vinto tu. Mi hai tanato.

E ricominciammo da dove ci eravamo interrotti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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